Trouble With Trade
By PAUL KRUGMAN Published: December 28, 2007 While the United States has long imported oil and other raw materials from the third world, we used to import manufactured goods mainly from other rich countries like Canada, European nations and Japan.
But recently we crossed an important watershed: we now import more manufactured goods from the third world than from other advanced economies. That is, a majority of our industrial trade is now with countries that are much poorer than we are and that pay their workers much lower wages. For the world economy as a whole — and especially for poorer nations — growing trade between high-wage and low-wage countries is a very good thing. Above all, it offers backward economies their best hope of moving up the income ladder.
But for American workers the story is much less positive. In fact, it’s hard to avoid the conclusion that growing U.S. trade with third world countries reduces the real wages of many and perhaps most workers in this country. And that reality makes the politics of trade very difficult.
Let’s talk for a moment about the economics.
Trade between high-wage countries tends to be a modest win for all, or almost all, concerned. When a free-trade pact made it possible to integrate the U.S. and Canadian auto industries in the 1960s, each country’s industry concentrated on producing a narrower range of products at larger scale. The result was an all-round, broadly shared rise in productivity and wages.
By contrast, trade between countries at very different levels of economic development tends to create large classes of losers as well as winners.
Although the outsourcing of some high-tech jobs to India has made headlines, on balance, highly educated workers in the United States benefit from higher wages and expanded job opportunities because of trade. For example, ThinkPad notebook computers are now made by a Chinese company, Lenovo, but a lot of Lenovo’s research and development is conducted in North Carolina.
But workers with less formal education either see their jobs shipped overseas or find their wages driven down by the ripple effect as other workers with similar qualifications crowd into their industries and look for employment to replace the jobs they lost to foreign competition. And lower prices at Wal-Mart aren’t sufficient compensation.
All this is textbook international economics: contrary to what people sometimes assert, economic theory says that free trade normally makes a country richer, but it doesn’t say that it’s normally good for everyone. Still, when the effects of third-world exports on U.S. wages first became an issue in the 1990s, a number of economists — myself included — looked at the data and concluded that any negative effects on U.S. wages were modest.
The trouble now is that these effects may no longer be as modest as they were, because imports of manufactured goods from the third world have grown dramatically — from just 2.5 percent of G.D.P. in 1990 to 6 percent in 2006. And the biggest growth in imports has come from countries with very low wages. The original “newly industrializing economies” exporting manufactured goods — South Korea, Taiwan, Hong Kong and Singapore — paid wages that were about 25 percent of U.S. levels in 1990. Since then, however, the sources of our imports have shifted to Mexico, where wages are only 11 percent of the U.S. level, and China, where they’re only about 3 percent or 4 percent.
There are some qualifying aspects to this story. For example, many of those made-in-China goods contain components made in Japan and other high-wage economies. Still, there’s little doubt that the pressure of globalization on American wages has increased. So am I arguing for protectionism? No. Those who think that globalization is always and everywhere a bad thing are wrong. On the contrary, keeping world markets relatively open is crucial to the hopes of billions of people.
But I am arguing for an end to the finger-wagging, the accusation either of not understanding economics or of kowtowing to special interests that tends to be the editorial response to politicians who express skepticism about the benefits of free-trade agreements.
It’s often claimed that limits on trade benefit only a small number of Americans, while hurting the vast majority. That’s still true of things like the import quota on sugar. But when it comes to manufactured goods, it’s at least arguable that the reverse is true. The highly educated workers who clearly benefit from growing trade with third-world economies are a minority, greatly outnumbered by those who probably lose.
As I said, I’m not a protectionist. For the sake of the world as a whole, I hope that we respond to the trouble with trade not by shutting trade down, but by doing things like strengthening the social safety net. But those who are worried about trade have a point, and deserve some respect.
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“Guai con il commercio” di Paul Krugman
New York Times 28 dicembre 2007
Mentre gli Stati Uniti da molto tempo importano petrolio e materie prime dai paesi del terzo mondo, eravamo abituati ad importare i beni manifatturieri principalmene da paesi ricchi come il Canada, le nazioni europeee ed il Giappone. Ma di recente abbiamo superato un importante spartiacque: oggi importiamo più beni manifatturieri dal terzo mondo che dalle altre economie avanzate. Il che significa che la maggioranza del nostro commercio industriale è oggi con paesi che sono molto più poveri di noi e che pagano ai loro lavoratori salari molto più bassi. Per il mondo economico nella sua interezza, e in particolare per le nazioni più povere, la crescita del commercio tra paesi con alti salari e paesi con bassi salari è una cosa molto buona. Soprattutto, essa offre alle economie arretrate la migliore opportunità per spostare in alto la scala dei redditi. Ma per i lavoratori americani la storia è molto meno positiva. In sostanza, è difficile non arrivare alla conclusione che la crescita del commercio statunitense con il terzo mondo porti alla riduzione dei salari reali di molti lavoratori di questo paese, se non della loro grande maggioranza. E questo stato di fatto rende la politica commerciale assai difficile. Vorrei esaminare dapprima e brevemente l’aspetto economico. Il commercio tra paesi con alti livelli salariali tende a provocare una modesta vittoria per tutti, o quasi tutti i soggetti coinvolti. Quando negli anni 90 un accordo di libero commercio rese possibile l’integrazione delle industrie dell’automobile statunitensi e canadesi, l’industria di ognuno dei paesi si concentrò nella produzione di una più ristretta gamma di prodotti, su una scala più larga. Il risultato fu una crescita della produttività e dei salari generale e lergamente condivisa. All’opposto, il commercio tra paesi con livelli molto diversi di sviluppo economico tende a creare un vasto gruppo di soggetti che ci rimettono, così come di soggetti che ci guadagnano. Sebbene la delocalizzazione di alcune attività ad alta tecnologia verso l’India abbia fatto scalpore[1], essa è stata riequilibrata dal fatto che lavoratori americani con elevata formazione hanno beneficiato, a causa dello sviluppo commerciale, di salari più alti e di una espansione delle possibilità di lavoro. Per esempio, i computers portatili ThinkPad sono ora costruiti da una impresa cinese, la Lenovo, ma una buona parte delle attività di ricerca e sviluppo della Lenovo sono effettuate nel Nord Carolina. Invece, lavoratori con una formazione meno sofisticata[2] vedono i loro posti di lavoro andarsene[3] oltreoceano, oppure scoprono che i loro salari si abbassano per un effetto d’onda[4], mentre altri lavoratori con qualifica simile alla loro si affollano presso le imprese e cercano un lavoro che rimpiazzi quello che hanno perso per la competizione straniera. E i prezzi più bassi da Wal-Mart, non sono una compensazione sufficiente. Tutto questo è normalmente contenuto nei manuali di economia: contrariamente a quello che certuni talora asseriscono, la teoria economica afferma che il libero commercio rende i paesi più ricchi, ma essa non dice che esso sia di norma positivo per tutti. Ciononostante, quando gli effetti delle esportazioni del terzo mondo sui salari americani, per la prima volta negli anni 90, divennero un problema, un certo numero di economisti – incluso il sottoscritto – guardarono le statistiche ed arrivarono alla conclusione che l’effetto negativo sui salari degli americani fosse modesto. Il guaio è che questi effetti oggi non possono più essere modesti come lo furono in passato, perché l’importazione di beni manifatturieri dal terzo mondo è cresciuta in modo drammatico, passando dal 2,5 per cento del PIL nel 1990 al 6 per cento dell’anno 2006. E la crescita più grande delle importazioni è venuta da paesi con salari molto bassi. Nel 1990, le importazioni di beni manifatturieri dalle originarie “economie di recente industrializzazione”, come la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore, pagavano salari che erano circa il 25 per cento dei livelli americani. Da allora, tuttavia, le fonti delle nostre importazioni si sono spostate in Messico, dove i livelli salariali sono appena l’11 per cento di quelli americani, e in Cina, dove arrivano addirittura al 3 o al 4 per cento. Ci sono alcuni aspetti che limitano la portata di questa storia[5]. Ad esempio, molti dei beni made-in-China utilizzano componenti fabbricati in Giappone ed in altre economie con alti livelli salariali. Comunque, ci sono pochi dubbi che la pressione della globalizzazione sui salari degli americani sia cresciuta. Mi sto dunque esprimendo a favore del protezionismo? No. Coloro che pensano che la globalizzazione sia sempre e dappertutto una cosa negativa, sbagliano. Al contrario, mantenere i mercati del mondo relativamente aperti è fondamentale per le speranze di miliardi di persone. Sostengo però che si dovrebbe farla finita con i toni di riprovazione[6], ed anche con l’accusa di ignoranza nelle cose dell’economia o di dipendenza[7] da interessi particolari, che è più o meno il modo in cui nei commenti dei giornali si reagisce a quegli uomini politici che esprimono scetticismo sui benefici degli accordi per la liberalizzazione dei commerci. Si è spesso sostenuto che i limiti al libero commercio siano nell’interesse di un piccolo numero di americani, mentre scontenterebbero la grande maggioranza. Questo può essere ancora vero per cose quali le quote di importazione di zucchero. Ma quando si passa ai generi manifatturieri, si può per lo meno ipotizzare che sia vero il contrario. I lavoratori con elevata formazione che ottengono chiari benefici dalla crescita del commercio con le economie del terzo mondo sono una minoranza, mentre quelli che probabilmente ci rimettono sono di gran lunga più numerosi[8]. Come ho detto, non sono un protezionista. Per il bene del mondo nella sua globalità, io spero che si risponda ai guai del commercio non con atti di chiusura, semmai assumendo iniziative quali il consolidamento delle reti di sicurezza sociale. Ma coloro che sono preoccupati per le conseguenze del commercio mondiale sostengono una tesi che ha un senso, e meritano un qualche rispetto.
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The Comeback Continent
By PAUL KRUGMAN Published: January 11, 2008 Today I’d like to talk about a much-derided contender making a surprising comeback, a comeback that calls into question much of the conventional wisdom of American politics. No, I’m not talking about a politician. I’m talking about an economy — specifically, the European economy, which many Americans assume is tired and spent but has lately been showing surprising vitality. Why should Americans care about Europe’s economy? Well, for one thing, it’s big. The G.D.P. of the European Union is roughly comparable to that of the United States; the euro is almost as important a global currency as the dollar; and the governance of the world financial system is, for practical purposes, equally shared by the European Central Bank and the Federal Reserve.
But there’s another thing: it’s important to get the facts about Europe’s economy right because the alleged woes of that economy play an important role in American political discourse, usually as an excuse for the insecurities and injustices of our own society. For example, does Hillary Clinton have a plan to cover the millions of Americans who lack health insurance? “She takes her inspiration from European bureaucracies,” sneers Mitt Romney. Or are top U.S. executives grossly overpaid? According to a Times report, Michael Jensen, a professor emeritus at Harvard’s Graduate School of Business whose theories helped pave the way for gigantic paychecks, considers executive excess “an acceptable price to pay for an American economy that he believes has outstripped Japan and Europe in growth and prosperity.”
In fact, however, tales of a moribund Europe are greatly exaggerated. It’s true that Europe has had a lot of economic troubles over the past generation. In the mid-1970s the Continent entered a prolonged era of sluggish job creation, which contrasted with vigorous employment growth in the United States.
And in the 1990s, Europe lagged behind America in the adoption of new technology. For example, in 1997 fewer than 15 percent of French homes contained personal computers and fewer than 1 percent were connected to the Internet. But that was then. Since 2000, employment has actually grown a bit faster in Europe than in the United States — and since Europe has a lower rate of population growth, this has translated into a substantial rise in the percentage of working-age Europeans with jobs, even as America’s employment-population ratio has declined.
In particular, in the prime working years, from 25 to 54, the big gap between European and U.S. employment rates that existed a decade ago has been largely eliminated. If you think Europe is a place where lots of able-bodied adults just sit at home collecting welfare checks, think again.
Meanwhile, Europe’s Internet lag is a thing of the past. The dial-up Internet of the 1990s was dominated by the United States. But as dial-up has given way to broadband, Europe has more than kept up. The number of broadband connections per 100 people in the 15 countries that were members of the European Union before it was enlarged in 2004, is slightly higher than in the U.S. — and Europe’s connections are both substantially faster and substantially cheaper than ours. I don’t want to exaggerate the good news. Europe continues to have many economic problems. But who doesn’t? The fact is that Europe’s economy looks a lot better now — both in absolute terms and compared with our economy — than it did a decade ago.
What’s behind Europe’s comeback? It’s a complicated story, probably involving a combination of deregulation (which has expanded job opportunities) and smart regulation. One of the keys to Europe’s broadband success is that unlike U.S. regulators, many European governments have promoted competition, preventing phone and cable companies from monopolizing broadband access.
What European countries definitely haven’t done is dismantle their strong social safety nets. Universal health care is a given. So are a variety of programs that support families in trouble, helping protect Europeans from the extreme poverty all too common in this country. All of this costs money — even though European countries spend far less on health care than we do — and European taxes are very high by U.S. standards.
In short, Europe continues to be a big-government sort of place. And that’s why it’s important to get the real story of the European economy out there. According to the anti-government ideology that dominates much U.S. political discussion, low taxes and a weak social safety net are essential to prosperity. Try to make the lives of Americans even slightly more secure, we’re told, and the economy will shrivel up — the same way it supposedly has in Europe.
But the next time a politician tries to scare you with the European bogeyman, bear this in mind: Europe’s economy is actually doing O.K. these days, despite a level of taxing and spending beyond the wildest ambitions of American progressives.
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“Il ritorno del vecchio continente” di Paul Krugman New York Times 11 gennaio 2008 Oggi vorrei parlarvi del sorprendente ritorno di un concorrente molto deriso, un ritorno che pone interrogativi a gran parte delle tradizionali sicurezze[9] della politica americana. Non sto parlando di un uomo politico. Sto parlando di un’economia, nel caso in questione dell’economia europea, che molti americani considerano stanca e spenta, ma che sta mostrando di recente una sorprendente vitalità. Perché gli americani dovrebbero occuparsi dell’economia europea? Ebbene, intanto per le sue dimensioni. Il PIL dell’Unione Europea è grosso modo paragonabile a quello degli Stati Uniti; l’euro è una valuta globale quasi altrettanto importante del dollaro; e la governance del sistema finanziario mondiale, dal punto di vista pratico, è egualmente ripartita tra la Banca Centrale Europea e la Federal Reserve. Ma c’è un altro aspetto: è importante comprendere i risultati[10] dell’economia europea proprio perché le pretese difficoltà di quella economia giocano un ruolo importante nella cultura politica americana[11], il più delle volte come un alibi per tutto ciò di insicuro e di ingiusto c’è nella nostra società. Per esempio, Hillary Clinton propone un programma per dare l’assistenza sanitaria a milioni di americani che ne sono privi? “Prende ispirazione dalle burocrazie europee”, sogghigna[12] Mitt Romney. Oppure: i dirigenti americani sono smisuratamente superpagati? Secondo un’inchiesta del Times, Michael Jensen, professore emerito presso la Harvard Graduate School of Business, le cui teorie hanno contribuito ad aprire la strada[13] a gratifiche gigantesche, considera quegli eccessi dei dirigenti come “un prezzo accettabile per un’economia americana che egli ritiene si sia messa alle spalle il Giappone e l’Europa quanto a ritmi di sviluppo e prosperità”. In realtà, tuttavia, le storie su un’Europa moribonda sono alquanto esagerate. E’ vero che le economie europeee hanno avuto un sacco di guai, nel corso della passata generazione. Verso la metà degli anni 70, il vecchio continente entrò in una fase prolungata di lenta crescita nella creazione di posti di lavoro, che contrastava con il vigoroso sviluppo dell’occupazione negli Stati Uniti. E negli anni 90, l’Europa restò indietro[14] rispetto all’America nella adozione di nuove tecnologie. Per esempio, nel 1997 in meno del 15 per cento della case francesi erano installati personal computers e meno dell’1 per cento era connesso con Internet. Ma questo avveniva allora. A cominciare dagli anni 2000, l’occupazione è effettivamente cresciuta un po’ più velocemente in Europa che non in America, e siccome l’Europa ha un tasso di crescita della popolazione più basso, questo si è tradotto in una sostenziale crescita della percentuale di Europei in età di lavoro che hanno occupazione, nel mentre la percentuale di popolazione occupata in America ha conosciuto un declino. In particolare, nella principale fascia della attività lavorativa, dai 25 ai 54 anni, la grande distanza tra i tassi di occupazione europei e statunitensi che esisteva un decennio fa, è stata in gran parte eliminata. Se pensate che l’Europa sia un posto nel quale gli adulti in buone condizioni di salute[15] se ne stanno in casa mantenuti dagli assegni dell’assistenza, informatevi meglio[16]. Intanto, il ritardo dell’Europa in Internet è una cosa del passato. Negli anni 90 la connessione[17] a Internet era dominata dagli Stati Uniti. Ma, nel momento in cui la connessione ha aperto la strada alla banda larga, l’Europa ha fatto di più che stare al passo[18]. Il numero dei contatti per ogni cento abitanti tramite banda larga nei paesi che erano membri dell’Unione Europea prima che essa si allargasse nel 2004, è leggermente superiore a quello degli Stati Uniti, e in sostanza si tratta di connessioni più veloci e più economiche delle nostre. Non voglio esagerare con le buone notizie. L’Europa continua ad avere molti problemi economici. Ma chi non ne ha? Il fatto è che l’economia europea appare a questo punto assai più solida di quanto non fosse un decennio fa, sia in termini assoluti che nel confronto con la nostra economia. Che cosa c’è dietro questo ritorno dell’Europa? E’ una storia complicata, che probabilmente riguarda una combinazione di deregolazione (che ha ampliato le possibilità di lavoro) e di regole accorte. Una delle chiavi del successo europeo nella banda larga è che, diversamente dagli organi di vigilanza americani, molti governi europei hanno promosso la competizione, impedendo in anticipo che le imprese telefoniche e di cablaggio monopolizzassero gli accessi alla banda larga. Quello che sicuramente i paesi europei non hanno fatto è stato smantellare le loro robuste reti di sicurezza sociale. In questo modo, una molteplicità di programmi di sostegno alle famiglie in crisi, ha contribuito a proteggere gli europei da quella povertà estrema che è anche troppo comune nel nostro paese. Tutto questo costa – anche se gli europei spendono meno in assistenza sanitaria di quanto facciamo noi – e le tasse europee sono assai elevate secondo gli standards americani. In poche parole, l’Europa continua ad essere una sorta di patria del “grande governo”[19]. E questa è la ragione per la quale è importante comprendere la storia effettiva dell’economia europea in quel contesto[20]. Secondo l’ideologia anti-governativa che domina ampiamente il dibattito politico americano, tasse basse ed una rete di sicurezza sociale debole sono essenziali per la prosperità. Cercate di rendere la vita degli americani anche solo un po’ più sicura, ci è stato raccontato, e l’economia avvizzirà, supponendo che proprio questo sia accaduto in Europa. Ma la prossima volta che un politico proverà a impressionarvi con questo spauracchio europeo[21], tenete questo a mente: l’economia europea di questi tempi sta andando bene, nonostante livelli di tassazione e di spesa pubblica che superano le più avventate ambizioni[22] dei progressisti americani.
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Don’t Cry for Me, America
By PAUL KRUGMAN Published: January 18, 2008 Mexico. Brazil. Argentina. Mexico, again. Thailand. Indonesia. Argentina, again. And now, the United States. The story has played itself out time and time again over the past 30 years. Global investors, disappointed with the returns they’re getting, search for alternatives. They think they’ve found what they’re looking for in some country or other, and money rushes in. But eventually it becomes clear that the investment opportunity wasn’t all it seemed to be, and the money rushes out again, with nasty consequences for the former financial favorite. That’s the story of multiple financial crises in Latin America and Asia. And it’s also the story of the U.S. combined housing and credit bubble. These days, we’re playing the role usually assigned to third-world economies.
For reasons I’ll explain later, it’s unlikely that America will experience a recession as severe as that in, say, Argentina. But the origins of our problem are pretty much the same. And understanding those origins also helps us understand where U.S. economic policy went wrong.
The global origins of our current mess were actually laid out by none other than Ben Bernanke, in an influential speech he gave early in 2005, before he was named chairman of the Federal Reserve. Mr. Bernanke asked a good question: “Why is the United States, with the world’s largest economy, borrowing heavily on international capital markets — rather than lending, as would seem more natural?”
His answer was that the main explanation lay not here in America, but abroad. In particular, third world economies, which had been investor favorites for much of the 1990s, were shaken by a series of financial crises beginning in 1997. As a result, they abruptly switched from being destinations for capital to sources of capital, as their governments began accumulating huge precautionary hoards of overseas assets.
The result, said Mr. Bernanke, was a “global saving glut”: lots of money, all dressed up with nowhere to go.
In the end, most of that money went to the United States. Why? Because, said Mr. Bernanke, of the “depth and sophistication of the country’s financial markets.” All of this was right, except for one thing: U.S. financial markets, it turns out, were characterized less by sophistication than by sophistry, which my dictionary defines as “a deliberately invalid argument displaying ingenuity in reasoning in the hope of deceiving someone.” E.g., “Repackaging dubious loans into collateralized debt obligations creates a lot of perfectly safe, AAA assets that will never go bad.”
In other words, the United States was not, in fact, uniquely well-suited to make use of the world’s surplus funds. It was, instead, a place where large sums could be and were invested very badly. Directly or indirectly, capital flowing into America from global investors ended up financing a housing-and-credit bubble that has now burst, with painful consequences.
As I said, these consequences probably won’t be as bad as the devastating recessions that racked third-world victims of the same syndrome. The saving grace of America’s situation is that our foreign debts are in our own currency. This means that we won’t have the kind of financial death spiral Argentina experienced, in which a falling peso caused the country’s debts, which were in dollars, to balloon in value relative to domestic assets.
But even without those currency effects, the next year or two could be quite unpleasant.
What should have been done differently? Some critics say that the Fed helped inflate the housing bubble with low interest rates. But those rates were low for a good reason: although the last recession officially ended in November 2001, it was another two years before the U.S. economy began delivering convincing job growth, and the Fed was rightly concerned about the possibility of Japanese-style prolonged economic stagnation.
The real sin, both of the Fed and of the Bush administration, was the failure to exercise adult supervision over markets running wild. It wasn’t just Alan Greenspan’s unwillingness to admit that there was anything more than a bit of “froth” in housing markets, or his refusal to do anything about subprime abuses. The fact is that as America’s financial system has grown ever more complex, it has also outgrown the framework of banking regulations that used to protect us — yet instead of an attempt to update that framework, all we got were paeans to the wonders of free markets.
Right now, Mr. Bernanke is in crisis-management mode, trying to deal with the mess his predecessor left behind. I don’t have any problems with his testimony yesterday, although I suspect that it’s already too late to prevent a recession.
But let’s hope that when the dust settles a bit, Mr. Bernanke takes the lead in talking about what needs to be done to fix a financial system gone very, very wrong.
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“Non piangere per me, America[23]” di Paul Krugman New York Times 18 gennaio 2008 Messico, Brasile, Argentina, ancora Messico. Tailandia, Indonesia, ancora Argentina. E adesso gli Stati Uniti. La storia si è ripetuta tante volte[24] nel corso degli ultimi trent’anni. Gli investitori sul mercato globale, delusi dai margini di guadagno che realizzano, sono alla ricerca di alternative. Pensano di aver trovato cosa stavano cercando in un paese o nell’altro, e ci gettano il loro denaro[25]. Ma, alla fine, diventa chiaro che i vantaggi dell’investimento non erano quelli che sembravano, e il denaro si precipita di nuovo altrove[26], ed è in questo modo che si determinano sgradevoli conseguenze per l’originaria soluzione prescelta. Questa è la storia delle molteplici crisi in America Latina e in Asia, ed è anche la storia della congiunta bolla statunitense del settore immobiliare e del credito. In questi giorni, noi stiamo recitando la parte che normalmente era assegnata alle economie del terzo mondo. Per ragioni che spiegherò successivamente, è improbabile che l’America farà le spese di una recessione così dura come quella, ad esempio, dell’Argentina. Ma le origini del problema sono grosso modo le stesse. E comprendere queste ragioni ci aiuta anche a capire in cosa è stata sbagliata la politica economica statunitense. Le origini del nostro attuale disordine sono state effettivamente messe in chiaro[27] proprio da Ben Bernanke[28], in un persuasivo discorso che egli ha pronunziato agli inizi del 2005, prima che fosse nominato Presidente della Federal Reserve. Ben Bernanke pose una buona domanda: “Perché gli Stati Uniti, con la più forte economia del mondo, si stanno pesantemente indebitando sui mercati internazionali dei capitali, anziché essere loro a far credito, come sembrerebbe più logico?” La sua risposta fu che la principale spiegazione non andava cercata in America, ma all’estero. In particolare, le economie del terzo mondo, che erano state prescelte dagli investitori per gran parte degli anni 90, furono scosse da una serie di crisi finanziarie, a cominciare dal 1997. Il risultato fu che esse passarono bruscamente da una posizione di destinatarie ad una posizione di fonti di capitali, e i loro governi cominciarono ad accumulare vaste provviste precauzionali di assets esteri. In conclusione, come disse Bernanke, si determinò un “eccesso di risparmio globale”: grandi quantità di denaro, tutte sul piede di partenza[29] senza saper dove andare. Alla fine, gran parte di questo denaro arrivò negli Stati Uniti. Perché? A causa, disse Bernanke, dello “spessore e del grado di sofistificazione dei mercati finanziari del paese”. Tutto questo era giusto, ad eccezione di un aspetto: i mercati finanziari americani, è risultato, erano caratterizzati, piuttosto che da sofistificazione, da sofismi[30], che il mio dizionario definisce come “argomenti deliberatamente non validi, che si caratterizzano per ingenuità di ragionamento nella speranza di ingannare qualcuno”. Ad esempio: “Rimpacchettare mutui dubbi in obbligazioni garantite dal debito[31] dà vita ad una quantità di assets perfettamente sicuri e destinati a non guastarsi, caratterizzati dal riconoscimento AAA dalle agenzie di rating[32]”. In altre parole, gli Stati Uniti non erano l’unico paese particolarmente adatto[33] a far uso dei fondi del surplus mondiale. Piuttosto, essi erano il paese nel quale grandi somme potevano essere investite, ed erano di fatto investite, assai malamente. Direttamente o indirettamente, i grandi flussi di capitali provenienti dagli investitori globali hanno finito col finanziare la bolla immobiliare e creditizia che adesso è scoppiata, con dolorose conseguenze. Come ho detto, queste conseguenze probabilmente non saranno così disastrose come le devastanti recessioni che stanno tormentando le vittime del terzo mondo colpite dalla stessa sindrome. La grazia salvifica, nella situazione americana, consiste nel fatto che i nostri debiti esteri sono nella nostra stessa valuta. Questo significa che noi non avremo quella specie di spirale finanziaria fatale che sperimentò l’Argentina, dove la caduta del peso spinse i debiti di quel paese, che erano espressi in dollari, a rigonfiarsi, in valore relativo ai beni nazionali[34]. Ma, anche senza questi effetti valutari, il prossimo anno o due potranno risultare spiacevoli. Che cosa si sarebbe dovuto fare di diverso? Alcuni critici sostengono che la Fed abbia contribuito alla bolla immobiliare con bassi tassi di interesse. Ma questi tassi erano bassi per una buona ragione: sebbene l’ultima recessione fosse ufficialmente terminata col novembre del 2001, ci vollero altri due anni prima che l’economia americana cominciasse a dar vita ad una convincente crescita dell’occupazione, e la Fed era giustamente preoccupata dalla possibilità di una prolungata stagnazione economica del genere di quella del Giappone. Il vero peccato, da parte della Fed e della amministrazione Bush, è consistito nella incapacità di esercitare una seria vigilanza su mercati senza freni[35]. Non è stata soltanto l’indisponibilità a riconoscere, da parte di Alan Greenspan, che c’era qualcosa di più che un po’ di “schiuma” nei mercati immobiliari, o il suo rifiuto di fare alcunché nei confronti degli abusi dei subprimes. Il fatto è che mentre il sistema finanziario americano diventava anche troppo complesso, al tempo stesso esso diveniva troppo ingombrante per l’impalcatura di regole bancarie che erano state pensate per proteggerci. Tuttavia, piuttosto che riformare tale sistema, tutto quello che ricevemmo furono lodi sperticate sulle meraviglie del libero mercato[36]. Venendo all’oggi, Bernanke si trova nella sua attuale funzione di gestore della crisi, e sta cercando di misurarsi con il disastro che il suo precedessore lasciò alle sue spalle. Io non ho alcuna obiezione alla sua testimonianza di ieri, sebbene abbia il sospetto che sia ormai troppo tardi per prevenire una recessione. Ma vogliamo sperare che quando la nebbia si sarà un po’ diradata[37], Bernanke prenderà l’iniziativa di dirci[38] che cosa ci sia bisogno di fare per riparare un sistema finanziario che è finito in tali condizioni.
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Running Out of Planet to Exploit
By PAUL KRUGMAN Published: April 21, 2008
Nine years ago The Economist ran a big story on oil, which was then selling for $10 a barrel. The magazine warned that this might not last. Instead, it suggested, oil might well fall to $5 a barrel. In any case, The Economist asserted, the world faced “the prospect of cheap, plentiful oil for the foreseeable future.”
Last week, oil hit $117.
It’s not just oil that has defied the complacency of a few years back. Food prices have also soared, as have the prices of basic metals. And the global surge in commodity prices is reviving a question we haven’t heard much since the 1970s: Will limited supplies of natural resources pose an obstacle to future world economic growth?
How you answer this question depends largely on what you believe is driving the rise in resource prices. Broadly speaking, there are three competing views.
The first is that it’s mainly speculation — that investors, looking for high returns at a time of low interest rates, have piled into commodity futures, driving up prices. On this view, someday soon the bubble will burst and high resource prices will go the way of Pets.com.
The second view is that soaring resource prices do, in fact, have a basis in fundamentals — especially rapidly growing demand from newly meat-eating, car-driving Chinese — but that given time we’ll drill more wells, plant more acres, and increased supply will push prices right back down again.
The third view is that the era of cheap resources is over for good — that we’re running out of oil, running out of land to expand food production and generally running out of planet to exploit.
I find myself somewhere between the second and third views. There are some very smart people — not least, George Soros — who believe that we’re in a commodities bubble (although Mr. Soros says that the bubble is still in its “growth phase”). My problem with this view, however, is this: Where are the inventories? Normally, speculation drives up commodity prices by promoting hoarding. Yet there’s no sign of resource hoarding in the data: inventories of food and metals are at or near historic lows, while oil inventories are only normal.
The best argument for the second view, that the resource crunch is real but temporary, is the strong resemblance between what we’re seeing now and the resource crisis of the 1970s.
What Americans mostly remember about the 1970s are soaring oil prices and lines at gas stations. But there was also a severe global food crisis, which caused a lot of pain at the supermarket checkout line — I remember 1974 as the year of Hamburger Helper — and, much more important, helped cause devastating famines in poorer countries.
In retrospect, the commodity boom of 1972-75 was probably the result of rapid world economic growth that outpaced supplies, combined with the effects of bad weather and Middle Eastern conflict. Eventually, the bad luck came to an end, new land was placed under cultivation, new sources of oil were found in the Gulf of Mexico and the North Sea, and resources got cheap again.
But this time may be different: concerns about what happens when an ever-growing world economy pushes up against the limits of a finite planet ring truer now than they did in the 1970s.
For one thing, I don’t expect growth in China to slow sharply anytime soon. That’s a big contrast with what happened in the 1970s, when growth in Japan and Europe, the emerging economies of the time, downshifted — and thereby took a lot of pressure off the world’s resources.
Meanwhile, resources are getting harder to find. Big oil discoveries, in particular, have become few and far between, and in the last few years oil production from new sources has been barely enough to offset declining production from established sources.
And the bad weather hitting agricultural production this time is starting to look more fundamental and permanent than El Niño and La Niña, which disrupted crops 35 years ago. Australia, in particular, is now in the 10th year of a drought that looks more and more like a long-term manifestation of climate change.
Suppose that we really are running up against global limits. What does it mean?
Even if it turns out that we’re really at or near peak world oil production, that doesn’t mean that one day we’ll say, “Oh my God! We just ran out of oil!” and watch civilization collapse into “Mad Max” anarchy. But rich countries will face steady pressure on their economies from rising resource prices, making it harder to raise their standard of living. And some poor countries will find themselves living dangerously close to the edge — or over it.
Don’t look now, but the good times may have just stopped rolling.
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“Smetterla con lo sfruttamento del pianeta” di Paul Krugman New York Times 21 aprile 2008
Nove anni fa The Economist pubblicò una grande inchiesta sul petrolio, che allora costava 9 dollari al barile. La rivista avvertiva che quel prezzo non sarebbe durato. Piuttosto, suggeriva, il petrolio avrebbe dovuto scendere a 5 dollari al barile. In ogni caso, asseriva The Economist, il mondo aveva dinanzi “la prospettiva per l’immediato futuro di un petrolio a buon prezzo e abbondante”. La scorsa settimana, il petrolio ha toccato 117 dollari. Non è solo il petrolio ad aver sfidato l’ottimismo di pochi anni fa. Anche i prezzi dei generi alimentari sono saliti alle stelle, così come quelli dei metalli di base. E la crescita globale dei prezzi delle materie prime ha riproposto una domanda che non si era molto sentita dagli anni 70: l’offerta limitata di risorse naturali sarà un ostacolo alla futura crescita economica del mondo? Il modo in cui si risponde a tale domanda dipende largamente dai fattori che si ritiene guidino l’innalzamento dei prezzi delle risorse naturali. In termini generali, ci sono tre ipotesi possibili. La prima è che si tratti soprattutto di speculazione, ovvero che gli investitori, aspettandosi elevati ritorni in un periodo di bassi tassi di interesse, abbiano accumulato capitali in futures di materie prime, facendo salire i prezzi. Secondo questo punto di vista, tra non molto la bolla scoppierà ed i prezzi elevati delle materie prime faranno la fine di Pet’s com.[39] La seconda ipotesi è che la forte crescita dei prezzi delle risorse abbia, in effetti, la sua spiegazione proprio nei ‘fondamentali’ – specialmente la rapida crescita della domanda da parte dei nuovi consumatori di carne ed i nuovi automobilisti della Cina – ma che in qualsiasi momento noi potremo perforere più pozzi e coltivere più ettari, con il che l’accresciuta offerta riabbasserà completamente quei prezzi. La terza ipotesi è che l’epoca delle risorse a basso costo sia finita per sempre, giacchè noi stiamo esaurendo il petrolio, stiamo esaurendo la terra per produrre alimenti e, più in generale, stiamo esaurendo la possibilità di sfruttare il pianeta. Mi ritrovo, in qualche modo, in una via di mezzo tra la seconda e la terza spiegazione. Ci sono alcune persone intelligenti – non ultimo, George Soros – che credono che siami finiti in una bolla delle materie prime (per quanto Soros affermi che la bolla sarebbe ancora nella “fase di crescita”). La mia obiezione a questa opinione, tuttavia, è la seguente: dove sono le scorte[40]? Normalmente, la speculazione provoca un innalzamento dei prezzi attraverso accaparramenti[41]. Tuttavia, in questo momento non c’è segno di alcun accaparramento di risorse; le scorte di generi alimentari e di metalli sono più o meno ai loro minimi storici, mentre le scorte di petrolio sono semplicemente nella norma. L’argomento più forte della seconda spiegazione, secondo la quale le difficoltà nelle risorse sono reali ma temporanee, consiste nella forte somiglianza tra quello a cui stiamo assistendo oggi e la crisi delle materie prime degli anni 70. Ciò che gli Americani soprattutto ricordano degli anni 70 sono i forti aumenti dei prezzi del petrolio e le code alle stazioni dei carburanti. Ma ci fu anche una grave crisi globale dei generi alimentari, che provocò qualche tormento alle casse dei supermercati – ricordo il 1974 come l’anno dei ‘commessi dell’hamburger’[42] – e, assai più importante, contribuì a provocare carestie devastanti nei paesi più poveri. Retrospettivamente, il boom delle materie prime degli anni 1972-1975 fu probabilmente il risultato di una rapida crescita economica mondiale che ebbe ritmi di incremento superiori all’offerta[43], anche per effetto di stagioni inclementi e del conflitto Medio Orientale. Alla fine, le sfortune ebbero termine, nuove terre furono messe a coltivazione, nuove risorse petrolifere furono trovate nel Golfo del Messico e nel Mare del Nord, e le materie prime tornarono ad essere a buon mercato. Ma questa volta potrebbe essere diverso: le preoccupazioni su cosa può accadere di fronte ad un’economia mondiale in perenne crescita che sovrasta i limiti insuperabili del pianeta[44], suonano più vere oggi che non negli anni 70. Da una parte, non mi aspetto che la crescita rallenti bruscamente in breve tempo. In questo c’è una grande differenza con quello che accadde negli anni 70, quando rallentò la crescita in Giappone ed in Europa, le economie emergenti di quel periodo, e di conseguenza si ridusse discretamente la pressione sulle risorse mondiali. Inoltre, sta diventando più difficile trovare nuove risorse. Le grandi scoperte di petrolio, sono sempre più rare[45] e negli anni più recenti la produzione di petrolio da nuove fonti è stata appena sufficiente a bilanciare la riduzione della produzione dalle fonti tradizionali. E il cattivo andamento climatico che colpisce la produzione agricola ai nostri giorni comincia a palesarsi più strutturale e permanente che all’epoca dei disastri di El Niño e de El Niña, che rovinarono i raccolti 35 anni fa. In particolare l’Australia, che si trova oggi al decimo anno di una siccità che appare sempre di più come una manifestazione di lungo periodo del cambiamento climatico. Facciamo l’ipotesi che si stiamo effettivamente scontrandoci[46] con tali limiti globali. Che cosa significherebbe? Anche se risultasse che siamo davvero al culmine delle produzione globale di petrolio, o almeno nei pressi, questo non comporterebbe che un giorno dovremo dire “Mio Dio! Abbiamo esaurito il petrolio” ed attendere il collasso della civiltà in una sorta di anarchia alla “Mad Max”[47]. Però, i paesi ricchi dovranno fronteggiare seriamente la pressione dei prezzi crescenti delle risorse naturali sulle loro economie, che rendono più difficile la crescita dei loro livelli di vita. E alcuni paesi poveri si troveranno a vivere pericolosamente vicini al baratro, se non oltre. Non guardiamo all’oggi, ma è proprio possibile che i bei tempi abbiano smesso di girare.[48]
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Stranded in Suburbia
By PAUL KRUGMAN Published: May 19, 2008 BERLIN Skip to next paragraphI have seen the future, and it works. O.K., I know that these days you’re supposed to see the future in China or India, not in the heart of “old Europe.” But we’re living in a world in which oil prices keep setting records, in which the idea that global oil production will soon peak is rapidly moving from fringe belief to mainstream assumption. And Europeans who have achieved a high standard of living in spite of very high energy prices — gas in Germany costs more than $8 a gallon — have a lot to teach us about how to deal with that world.
If Europe’s example is any guide, here are the two secrets of coping with expensive oil: own fuel-efficient cars, and don’t drive them too much. Notice that I said that cars should be fuel-efficient — not that people should do without cars altogether. In Germany, as in the United States, the vast majority of families own cars (although German households are less likely than their U.S. counterparts to be multiple-car owners). Ù But the average German car uses about a quarter less gas per mile than the average American car. By and large, the Germans don’t drive itsy-bitsy toy cars, but they do drive modest-sized passenger vehicles rather than S.U.V.’s and pickup trucks. In the near future I expect we’ll see Americans moving down the same path. We’ve already done it once: over the course of the 1970s and 1980s, the average mileage of U.S. passenger vehicles rose about 50 percent, as Americans switched to smaller, lighter cars. This improvement stalled with the rise of S.U.V.’s during the cheap-gas 1990s. But now that gas costs more than ever before, even after adjusting for inflation, we can expect to see mileage rise again.
Admittedly, the next few years will be rough for families who bought big vehicles when gas was cheap, and now find themselves the owners of white elephants with little trade-in value. But raising fuel efficiency is something we can and will do.
Can we also drive less? Yes — but getting there will be a lot harder.
There have been many news stories in recent weeks about Americans who are changing their behavior in response to expensive gasoline — they’re trying to shop locally, they’re canceling vacations that involve a lot of driving, and they’re switching to public transit. But none of it amounts to much. For example, some major public transit systems are excited about ridership gains of 5 or 10 percent. But fewer than 5 percent of Americans take public transit to work, so this surge of riders takes only a relative handful of drivers off the road.
Any serious reduction in American driving will require more than this — it will mean changing how and where many of us live.
To see what I’m talking about, consider where I am at the moment: in a pleasant, middle-class neighborhood consisting mainly of four- or five-story apartment buildings, with easy access to public transit and plenty of local shopping.
It’s the kind of neighborhood in which people don’t have to drive a lot, but it’s also a kind of neighborhood that barely exists in America, even in big metropolitan areas. Greater Atlanta has roughly the same population as Greater Berlin — but Berlin is a city of trains, buses and bikes, while Atlanta is a city of cars, cars and cars.
And in the face of rising oil prices, which have left many Americans stranded in suburbia — utterly dependent on their cars, yet having a hard time affording gas — it’s starting to look as if Berlin had the better idea.
Changing the geography of American metropolitan areas will be hard. For one thing, houses last a lot longer than cars. Long after today’s S.U.V.’s have become antique collectors’ items, millions of people will still be living in subdivisions built when gas was $1.50 or less a gallon.
Infrastructure is another problem. Public transit, in particular, faces a chicken-and-egg problem: it’s hard to justify transit systems unless there’s sufficient population density, yet it’s hard to persuade people to live in denser neighborhoods unless they come with the advantage of transit access.
And there are, as always in America, the issues of race and class. Despite the gentrification that has taken place in some inner cities, and the plunge in national crime rates to levels not seen in decades, it will be hard to shake the longstanding American association of higher-density living with poverty and personal danger.
Still, if we’re heading for a prolonged era of scarce, expensive oil, Americans will face increasingly strong incentives to start living like Europeans — maybe not today, and maybe not tomorrow, but soon, and for the rest of our lives.
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“Bloccati nelle periferie” di Paul Krugman New York Times 19 maggio 2008
Berlino. Ho visto il futuro e mi pare che funzioni. So bene che di questi tempi si suppone che il futuro sia in Cina o in India, e non nel cuore della ‘vecchia Europa’. Ma viviamo in un mondo nel quale i prezzi del petrolio continuano a collezionare record e nel quale l’idea che la produzione globale di petrolio sarà presto al culmine sta diventando, da opinione di un gruppo ristretto, a convinzione della maggioranza. E gli europei, che hanno conseguito un elevato standard di vita nonostante prezzi molto alti dell’energia – la benzina in Germania costa 8 dollari al gallone – hanno molto da insegnarci su come si possa venire a patti con questo mondo. Se l’esempio europeo ci può fare da guida, in esso ci sono i due segreti su come si possa farcela con il petrolio caro: possedere automibili energeticamente efficienti e non utilizzarle troppo. Notate che ho detto che le automobili dovrebbero essere energeticamente efficienti, non che la gente debba farne a meno del tutto. In Germania, come ngli Stati Uniti, la grande maggioranza delle famiglie possiede automobili (nonostante che sia meno probabile che le famiglie tedesche possiedano più autovetture come quelle americane). Ma in media una automobile tedesca consuma un quarto di benzina in meno di una automobile americana. In linea di massima[49] i tedeschi non usano minuscole macchine giocattolo[50], però guidano veicoli per passeggeri di modeste dimensioni invece che SUV[51] e camioncini con furgone[52]. Nel prossimo futuro io penso che gli americani imboccheranno la stessa strada. Avevamo già cominciato a farlo: nel corso degli anni 70 ed 80 il consumo medio[53] dei veicoli per passaggeri diminuì di circa il 50 per cento, nel mentre gli americani passarono ad autoveicoli più piccoli e più leggeri. Questo miglioramento cessò con l’avvento dei SUV durante il periodo della benzina a basso prezzo negli anni 90. Ma ora che il carburante costa più di quanto sia mai costato in precedenza, anche nel dato corretto per l’inflazione, possiamo aspettarci di vedere il consumo medio tornare a diminuire[54]. Bisogna riconoscere che il prossimo futuro sarà duro per quelle famiglie che hanno acquistato quei grandi veicoli quando il carburante era economico, e si ritrovano proprietari di quella specie di elefanti bianchi con un modesto valore di permuta. Ma innalzare l’efficienza energetica è qualcosa che possiamo fare e che faremo. Possiamo anche guidare di meno? Si, ma in questo caso sarà un bel po’ più difficile. Nelle recenti settimane si è molto parlato dei modi nei quali gli americani stanno cambiando le loro abitudini in risposta alla benzina più costosa: cercando di fare spese vicini a casa, cancellando vacanze che comportano lunghi spostamenti in macchina, passando al trasporto pubblico. Ma nessuna di queste soluzioni provoca un gran risparmio. Ad esempio: alcuni dei principali sistemi di trasporto pubblico hanno goduto di incrementi di utenti[55] nell’ordine del 5, 10 per cento. Ma meno del 5 per cento degli americani usano il trasporto pubblico per andare al lavoro, e dunque questo incremento di utenti allontana dalle strade solo una manciata di automobilisti. Per una seria riduzione dell’uso di automobili in America occorrerà assai più di questo; vale a dire un cambiamento dei luoghi e dei modi in cui viviamo per molti di noi. Per comprendere di cosa sto parlando, considerate dove mi trovo in questo momento: in un piacevole quartiere per ceti medi consistente principalmente in edifici per abitazioni di quattro, cinque piani, con facile accessibilità al trasporto pubblico e una quantità di negozi di quartiere. E’ il genere di quartiere nel quale la gente non ha bisogno di utilizzare gran che l’automobile, ma è anche il genere di quartiere che quasi non esiste in America, persino nelle aree metropolitane. La città metropolitana di Atlanta ha pressappoco la stessa popolazione della città metropolitana di Berlino[56], ma Berlino è una città di treni, di autobus e di biciclette, mentre Atlanta è una città di macchine, di macchine e di macchine. E di fronte all’aumento dei prezzi del petrolio, che ha lasciato molti americani bloccati in periferia, completamente alle dipendenze dei loro autoveicoli sebbene siano tempi duri per permettersi la benzina, comincia a farsi strada l’idea che Berlino abbia avuto l’idea più giusta. Cambiare la geografia delle aree metropolitane americane sarà un’impresa ardua. Per cominciare, le case durano ben più a lungo delle automobili. Molto dopo che gli attuali SUV saranno diventati oggetti di collezionismo, milioni di persone vivranno ancora nelle villette a schiera[57] che furono costruite quando la benzina costava 1,50 dollari al gallone. Le infrastrutture sono un altro problema. In particolare, il trasporto pubblico è alle prese con il problema dell’uovo e della gallina: è difficile giustificare sistemi di trasporto se non c’è sufficiente concentrazione di popolazione, tuttavia è difficile convincere la gente a vivere in quartieri più concentrati senza che abbiano il vantaggio dell’accessibilità al trasporto. Ed esistono, come sempre in America, i problemi della razza e delle classi sociali. Nonostante l’insediamento di ceti medio alti[58] che si è imposto in alcuni centri di città, e la caduta dei tassi nazionali di criminalità a livelli mai visti da decenni, sarà difficile mettere in crisi l’equazione che in America si è imposta da tempo tra modi di vivere ad elevata concentrazione, povertà e mancanza di sicurezza. Comunque, nella misura in cui ci stiamo indirizzando verso un’epoca duratura di petrolio scarso ed a caro prezzo, gli americani faranno i conti in modo crescente con forti incentivi a sperimentare modi di vita simili agli europei; può darsi che non sia per l’oggi o per il domani, ma sarà presto, e durerà per il resto della nostra vita.
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Fuels on the Hill
By PAUL KRUGMAN Published: June 27, 2008 Congress has always had a soft spot for “experts” who tell members what they want to hear, whether it’s supply-side economists declaring that tax cuts increase revenue or climate-change skeptics insisting that global warming is a myth.
Right now, the welcome mat is out for analysts who claim that out-of-control speculators are responsible for $4-a-gallon gas.
Back in May, Michael Masters, a hedge fund manager, made a big splash when he told a Senate committee that speculation is the main cause of rising prices for oil and other raw materials. He presented charts showing the growth of the oil futures market, in which investors buy and sell promises to deliver oil at a later date, and claimed that “the increase in demand from index speculators” — his term for institutional investors who buy commodity futures — “is almost equal to the increase in demand from China.”
Many economists scoffed: Mr. Masters was making the bizarre claim that betting on a higher price of oil — for that is what it means to buy a futures contract — is equivalent to actually burning the stuff.
But members of Congress liked what they heard, and since that testimony much of Capitol Hill has jumped on the blame-the-speculators bandwagon.
Somewhat surprisingly, Republicans have been at least as willing as Democrats to denounce evil speculators. But it turns out that conservative faith in free markets somehow evaporates when it comes to oil. For example, National Review has been publishing articles blaming speculators for high oil prices for years, ever since the price passed $50 a barrel.
And it was John McCain, not Barack Obama, who recently said this: “While a few reckless speculators are counting their paper profits, most Americans are coming up on the short end — using more and more of their hard-earned paychecks to buy gas.”
Why are politicians so eager to pin the blame for oil prices on speculators? Because it lets them believe that we don’t have to adapt to a world of expensive gas.
Indeed, this past Monday Mr. Masters assured a House subcommittee that a return to the days of cheap oil is more or less there for the asking. If Congress passed legislation restricting speculation, he said, gasoline prices would fall almost 50 percent in a matter of weeks.
O.K., let’s talk about the reality. Is speculation playing a role in high oil prices? It’s not out of the question. Economists were right to scoff at Mr. Masters — buying a futures contract doesn’t directly reduce the supply of oil to consumers — but under some circumstances, speculation in the oil futures market can indirectly raise prices, encouraging producers and other players to hoard oil rather than making it available for use.
Whether that’s happening now is a subject of highly technical dispute. (Readers who want to wonk themselves out can go to my blog, krugman.blogs.nytimes.com, and follow the links.) Suffice it to say that some economists, myself included, make much of the fact that the usual telltale signs of a speculative price boom are missing. But other economists argue, in effect, that absence of evidence isn’t solid evidence of absence.
What about those who argue that speculative excess is the only way to explain the speed with which oil prices have risen? Well, I have two words for them: iron ore.
You see, iron ore isn’t traded on a global exchange; its price is set in direct deals between producers and consumers. So there’s no easy way to speculate on ore prices. Yet the price of iron ore, like that of oil, has surged over the past year. In particular, the price Chinese steel makers pay to Australian mines has just jumped 96 percent. This suggests that growing demand from emerging economies, not speculation, is the real story behind rising prices of raw materials, oil included.
In any case, one thing is clear: the hyperventilation over oil-market speculation is distracting us from the real issues. Regulating futures markets more tightly isn’t a bad idea, but it won’t bring back the days of cheap oil. Nothing will. Oil prices will fluctuate in the coming years — I wouldn’t be surprised if they slip for a while as consumers drive less, switch to more fuel-efficient cars, and so on — but the long-term trend is surely up.
Most of the adjustment to higher oil prices will take place through private initiative, but the government can help the private sector in a variety of ways, such as helping develop alternative-energy technologies and new methods of conservation and expanding the availability of public transit.
But we won’t have even the beginnings of a rational energy policy if we listen to people who assure us that we can just wish high oil prices away.
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“Carburanti sul Colle[59]” di Paul Krugman New York Times 27 giugno 2008
Il Congresso ha sempre avuto un debole[60] per quegli “esperti” che dicono ai suoi componenti quello che essi vogliono sentirsi dire, sia che si tratti di economisti ‘dal lato della domanda[61]’ che dichiarano che i tagli fiscali incrementano il reddito, sia che si tratti degli scettici del cambiamento climatico che si ostinano a ritenere il cambiamento climatico una favola. In questi tempi, la preziosa matematica[62] è stata messa al bando da quegli analisti che sostengono che speculatori fuori controllo sono responsabili del costo della benzina a 4 dollari al gallone. Lo scorso maggio, Michael Masters fece un gran colpo affermando ad una Commissione del Senato che la speculazione era la causa principale dell’innalzamento del prezzo del petrolio e di altri materiali grezzi. Egli presentò grafici che mostravano la crescita del mercato dei futures del petrolio, nel quale gli investitori vendono ed acquistano promesse di consegne di petrolio in date successive, e lamentò che “la crescita della domanda da parte di coloro che speculano sull’indice – questo era il suo modo di definire gli investitori istituzionali che acquistano futures di materie prime – è quasi uguale alla crescita della domanda da parte della Cina”. Molti economisti lo schernirono: il signor Masters aveva la curiosa pretesa che scommettere su un prezzo più elevato del petrolio, giacchè di questo si tratta quando si acquistano contratti di futures, sarebbe stato equivalente a consumare effettivamente il combustibile[63]. Ma i membri del Congresso si appassionarono a quello che sentirono, e a partire da quella testimonianza, gran parte del Campidoglio ha intonato il ritornello della colpa degli speculatori[64]. In modo alquanto sorprendente, alla fine i Repubblicani si sono mostrati altrettanto vogliosi dei Democratici nella denunzia dei cattivi speculatori. Ma accade che la fede dei conservatori nel libero mercato, ogni tanto evapori quando si tratta di petrolio. Ad esempio, National Review ha pubblicato per anni articoli che incolpavano gli speculatori per gli alti prezzi del petrolio, sin dal momento in cui il prezzo ha superato i 50 dollari al barile. Ed è stato John McCain, non Barack Obama, ad affermare di recente: “Mentre pochi incoscienti speculatori fanno sulla carta i conti dei loro guadagni[65], molti americani si ritrovano svantaggiati[66], utilizzando una parte sempre maggiore dei loro sudati guadagni per pagare la benzina”. Perché gli uomini politici sono così zelanti nel mettere in capo agli speculatori la responsabilità per i prezzi del petrolio? Perché questo gli consente di credere che non sia necessario abituarsi ad un mondo nel quale la benzina costa cara. Difatti, lunedì scorso il signor Masters ha assicurato una sottocommissione della Camera che un ritorno ai tempi del petrolio a buon mercato sarebbe, più o meno, a portata di mano[67]. Se il Congresso approvasse una legislazione restrittiva nei confronti della speculazione, ha affermato, i prezzi della benzina cadrebbero di almeno il 50 per cento nel giro di qualche settimana. Bene, vediamo come le cose stanno in realtà. La speculazione sta giocando una parte negli alti prezzi del petrolio? Essa non è estranea al problema. Gli economisti hanno ragione di deridere il signor Masters – acquistare contratti di futures non riduce direttamente l’offerta di petrolio ai consumatori – ma in alcune circostanze, la speculazione sul mercato dei futures del petrolio può far salire i prezzi, incoraggiando i produttori ed altri attori ad accumulare petrolio più di quanto ne serva. Se questo è quanto sta accadendo adesso, è oggetto di una sofisticata disputa (i lettori che volessero farsi una cultura[68], possono andare sul mio blog e seguire la discussione sul tema). Sarà sufficiente dire che alcuni economisti, tra i quali il sottoscritto, danno molta importanza al fatto[69] che i normali segni rivelatori[70] di un boom di natura speculativa dei prezzi siano in questo caso invisibili. Ma altri economisti argomentano che, in effetti, l’assenza della prova non equivale alla prova della assenza. E che cosa dire di coloro che ipotizzano che l’eccesso di speculazione sia l’unico modo in cui si spiega la rapidità della crescita del prezzo del petrolio? Mi bastano due parole per questa tesi: minerale ferroso. Come voi sapete, il minerale ferroso non è commerciato sul mercato globale: il suo prezzo viene stabilito dagli accordi diretti tra produttori e consumatori. Non c’è una maniera semplice per speculare sul prezzo del grezzo. Tuttavia, il prezzo del minerale ferroso, come quello del petrolio, è cresciuto sensibilmente lo scorso anno. In particolare, il prezzo che i produttori cinesi dell’acciaio hanno pagato alle miniere australiane ha avuto un’impennata esattamente del 96 per cento. Questo ci suggerisce che è la domanda crescente da parte dei paesi emergenti, e non la speculazione, la causa che sta dietro all’aumento dei prezzi dei materiali grezzi, petrolio incluso. Una cosa è chiara, in ogni caso: il frastuono[71] a proposito della speculazione sul mercato del petrolio ci ha distratto dai problemi reali. Regolare in modo più stringente i mercati dei futures non è una cattiva idea, ma questo non ci riporterà ai tempi del petrolio a buon mercato. Non accadrà niente del genere. Negli anni avvenire i prezzi del petrolio saranno fluttuanti – non mi stupirei se essi calassero di un po’ una volta che i consumatori utilizzassero meno le automobili e passassero a combustibili più efficienti, e via dicendo – ma la tendenza a lungo termine è sicuramente al rialzo. Molte delle correzioni agli alti prezzi del petrolio conseguiranno ad iniziative private, ma il governo può aiutare il settore privato in una varietà di modi, quali promuovendo lo sviluppo di tecnologie alternative dal punto di vista energetico, nonché nuovi metodi di conservazione e di sviluppo della fruibilità del trasporto pubblico. Ma non avremo neppure l’inizio di una politica energetica razionale, se prestiamo ascolto a personaggi che ci assicurano che possiamo coltivare la speranza di metter da parte gli alti prezzi del petrolio.
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The Great Illusion
By PAUL KRUGMAN Published: August 14, 2008 So far, the international economic consequences of the war in the Caucasus have been fairly minor, despite Georgia’s role as a major corridor for oil shipments. But as I was reading the latest bad news, I found myself wondering whether this war is an omen — a sign that the second great age of globalization may share the fate of the first. If you’re wondering what I’m talking about, here’s what you need to know: our grandfathers lived in a world of largely self-sufficient, inward-looking national economies — but our great-great grandfathers lived, as we do, in a world of large-scale international trade and investment, a world destroyed by nationalism.
Writing in 1919, the great British economist John Maynard Keynes described the world economy as it was on the eve of World War I. “The inhabitant of London could order by telephone, sipping his morning tea in bed, the various products of the whole earth … he could at the same moment and by the same means adventure his wealth in the natural resources and new enterprises of any quarter of the world.”
And Keynes’s Londoner “regarded this state of affairs as normal, certain, and permanent, except in the direction of further improvement … The projects and politics of militarism and imperialism, of racial and cultural rivalries, of monopolies, restrictions, and exclusion … appeared to exercise almost no influence at all on the ordinary course of social and economic life, the internationalization of which was nearly complete in practice.”
But then came three decades of war, revolution, political instability, depression and more war. By the end of World War II, the world was fragmented economically as well as politically. And it took a couple of generations to put it back together.
So, can things fall apart again? Yes, they can.
Consider how things have played out in the current food crisis. For years we were told that self-sufficiency was an outmoded concept, and that it was safe to rely on world markets for food supplies. But when the prices of wheat, rice and corn soared, Keynes’s “projects and politics” of “restrictions and exclusion” made a comeback: many governments rushed to protect domestic consumers by banning or limiting exports, leaving food-importing countries in dire straits.
And now comes “militarism and imperialism.” By itself, as I said, the war in Georgia isn’t that big a deal economically. But it does mark the end of the Pax Americana — the era in which the United States more or less maintained a monopoly on the use of military force. And that raises some real questions about the future of globalization. Most obviously, Europe’s dependence on Russian energy, especially natural gas, now looks very dangerous — more dangerous, arguably, than its dependence on Middle Eastern oil. After all, Russia has already used gas as a weapon: in 2006, it cut off supplies to Ukraine amid a dispute over prices.
And if Russia is willing and able to use force to assert control over its self-declared sphere of influence, won’t others do the same? Just think about the global economic disruption that would follow if China — which is about to surpass the United States as the world’s largest manufacturing nation — were to forcibly assert its claim to Taiwan.
Some analysts tell us not to worry: global economic integration itself protects us against war, they argue, because successful trading economies won’t risk their prosperity by engaging in military adventurism. But this, too, raises unpleasant historical memories.
Shortly before World War I another British author, Norman Angell, published a famous book titled “The Great Illusion,” in which he argued that war had become obsolete, that in the modern industrial era even military victors lose far more than they gain. He was right — but wars kept happening anyway.
So are the foundations of the second global economy any more solid than those of the first? In some ways, yes. For example, war among the nations of Western Europe really does seem inconceivable now, not so much because of economic ties as because of shared democratic values.
Much of the world, however, including nations that play a key role in the global economy, doesn’t share those values. Most of us have proceeded on the belief that, at least as far as economics goes, this doesn’t matter — that we can count on world trade continuing to flow freely simply because it’s so profitable. But that’s not a safe assumption.
Angell was right to describe the belief that conquest pays as a great illusion. But the belief that economic rationality always prevents war is an equally great illusion. And today’s high degree of global economic interdependence, which can be sustained only if all major governments act sensibly, is more fragile than we imagine.
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“La grande illusione” di Paul Krugman New York Times 14 agosto 2008
Sinora le conseguenze economiche della guerra nel Caucaso sono state abbastanza contenute, nonostante che la Georgia rappresenti un principale corridoio nell’approvvigionamento di petrolio[72]. Ma, nel mentre stavo leggendo le ultime cattive notizie, mi sono chiesto se questa guerra non sia un presagio, un segno che la seconda grande epoca di globalizzazione finirà col condividere[73] lo stesso destino della prima. Se vi state chiedendo di cosa stia parlando, c’è qualcosa che dovete sapere: i nostri nonni vivevano in un mondo di economie nazionali largamente autosufficienti e proiettate all’interno[74]; ma i nonni dei nostri nonni vivevano, proprio come noi, in un mondo di commerci e di investimenti internazionali su vasta scala, un mondo che fu distrutto dal nazionalismo. Scrivendo nel 1919, il grande economista britannico John Maynard Keynes descrisse l’economia mondiale così come appariva all’epoca della Prima Guerra Mondiale: “L’abitante di Londra poteva fare ordinativi dei più vari prodotti dell’intero pianeta per telefono, nel mentre sorseggiava sul letto il suo tè del mattino … egli poteva contemporaneamente e con le stesse modalità investire le sue sostanze[75] nelle risorse naturali e in nuove imprese in ogni parte del mondo”. E il londinese di Keynes “considerava questa condizione degli affari come normale, certa e permanente, con l’eccezione della possibilità di ulteriori miglioramenti … Le prospettive e le politiche del militarismo e dell’imperialismo, le rivalità culturali e razziali, i monopoli, le restrizioni e le esclusioni … in ultima analisi pareva che non esercitassero quasi nessuna influenza sull’andamento ordinario della vita sociale ed economica, il grado di internazionalizzazione della quale era quasi interamente completo”. Ma poi vennero tre decenni di guerra, di rivoluzione, di instabilità politica, di depressione ed ancora di guerra. Alla fine della Seconda Guerra mondiale, il mondo era frammentato sia economicamente che politicamente. E ci volle l’impegno di due generazioni per riportarlo alle condizioni precedenti. Tutto potrebbe, dunque, finire nuovamente in pezzi? Si, è possibile. Consideriamo come i vari fattori hanno concorso alla attuale crisi alimentare. Per anni ci è stato detto che l’auto-sufficienza era un concetto sorpassato, e che si poteva con sicurezza far conto sui mercati mondiali per le riserve alimentari. Ma quando i prezzi del grano, del riso e del granturco sono saliti alle stelle, quelle “prospettive e politiche” di “restrizioni ed esclusioni” di cui parlava Keynes sono tornate sulla scena[76]: molti governi si sono precipitati a mettere al bando o a limitare le esportazioni per proteggere i loro consumi interni, lasciando i paesi importatori di generi alimentari in terribili ristrettezze. E ora arriva “il militarismo e l’imperialismo”. In sé, come ho detto, la guerra in Georgia non è così importante dal punto di vista economico. Ma essa segna la fine della Pax Americana, dell’epoca nella quale gli Stati Uniti avevano più o meno mantenuto il monopolio dell’uso della forza militare. Il che apre qualche domanda sostanziale sul futuro della globalizzazione. La più ovvia: la dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia, specialmente per il gas naturale, appare adesso assai pericolosa, più pericolosa, probabilmente, di quella dal petrolio del Medio Oriente. Dopo tutto, la Russia ha già utilizzato il gas come un’arma: nel 2006 tagliò i rifornimenti all’Ucraina nel mezzo di una disputa sui prezzi. E se la Russia intende ed è capace di usare la forza per far valere il suo controllo nei confronti della sua auto-dichiarata sfera di influenza, gli altri non vorrano fare lo stesso? Si pensi soltanto allo sconvolgimento economico globale che seguirebbe alla decisione della Cina di far valere con la forza le sue pretese su Taiwan, nel momento in cui la Cina sta sorpassando l’America come più grande nazione nella produzione manifatturiera. Alcuni analisti ci dicono che non è il caso di preoccuparsi: essi ritengono che la stessa integrazione economica globale ci proteggerà dalla guerra, perché economie caratterizzate da successi commerciali non rischieranno la loro prosperità impegnandosi in avventure militari. Ma anche questa circostanza, ci riporta[77] a spiacevoli ricordi storici. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, un altro autore inglese, Norman Angell, pubblicò un libro dal titolo “La grande illusione”, nel quale sosteneva che la guerra era diventata obsoleta e che nell’era industriale moderna persino le vittorie militari provocavano più perdite che guadagni[78]. Aveva ragione, ma le guerre ebbero luogo lo stesso. Ma i fondamenti della seconda economia globale non sono un po’ più solidi di quelli della prima? In qualche senso lo sono. Ad esempio, una guerra tra le nazioni dell’Europa Occidentale appare effettivamente inconcepibile ai nostri giorni, non tanto a causa dei legami economici, quanto dei valori democratici condivisi. Una gran parte del mondo, tuttavia, comprese nazioni che giocano un ruolo chiave nell’economia globale, non condividono quei valori. Molti di noi continuano a credere che, almeno sinchè le economie funzionano, questo non sia un problema: noi potremmo far conto sul fatto che il commercio mondiale continuerà a scorrere liberamente, semplicemente perché è conveniente. Ma non è un assunto sicuro. Angell aveva ragione quando descriveva la fede nella conquista dei paesi come una grande illusione. Ma la convinzione che la razionalità economica possa sempre prevenire la guerra è una illusione altrettanto grande. E l’elevato grado di interdipendenza economica globale dei nostri giorni, che è sostenibile solo se i principali governi agiscono con avvedutezza, è più fragile di quanto si immagini. |
[1] Has made headlines. Lett. “Abbia provocato titoli dei giornali”
[2] Less formal education.
[3] Shipping. Lett. “imbarcarsi”.
[4]Ripple effect.
[5] There are some qualifyng aspects to this story. “To qualify” ha anche il significato di “ridurre, limitare”.
[6] Finger-wagging. Significa “muovere il dito in segno di rimprovero” (e pare che il “finger-wagging” fosse una specialità della oratoria clintoniana).
[7] Kowtowing. “To kowtow” significa “piegarsi, essere proni, essere ossequiosi”.
[8] Greatly outnumbered by those who probably lose. Lett. “grandemente superati nel numero da coloro che probabilmente ci perdono”.
[9] Wisdom. Lett. “saggezza”, in questo caso nel senso di ‘presunta sapienza’.
[10] To get the facts.
[11] American political discourse.
[12] Sneers.
[13] Helped pave the way. “To pave the way”, lett. “pavimentare la strada”.
[14] Lagged behind.
[15] Able-bodied adults. Lett. “adulti robusti”.
[16] Think again. Lett. “pensate di nuovo”.
[17] Dial-up.
[18] Europe has more than kept-up.
[19] ‘Big government’, nella cultura economico politica americana, è una espressione che indica la demarcazione tra una politica principalmente affidata al mercato ed una politica di rilevanti programmi pubblici. In particolare nelle situazioni di recessione economica, il ‘big-government’ è il tratto distintivo della politica keynesiana.
[20] Out there. Lett. “là”.
[21] European bogeyman.
[22] The wildest ambitions. Lett. “le più selvagge ambizioni”.
[23] Il titolodell’articolo (“Don’t cry for me, America”) probabilmente deriva dal brano musicale composto nel 1975 da A. L. Webber ed inserito nel ‘musical Evita”: “Don’t cry forn me, Argentina”.
[24] The story has played itself out time and time again. Lett. “la storia ha svolto se stessa tante volte..”.
[25] And money rushes in. Lett. “e il denaro ci si precipita”.
[26] And the money rushes out again.
[27] Where actually laid out. Lett. “sono state effettivamente distese”.
[28] By none other than Ben Bernanke. Lett. “da nessun altro se non Ben Bernanke”.
[29] All dressed up. Lett. “to dress up” significa “indossare abiti speciali per apparire particolarmente attraenti”, oppure “indossare abiti particolari”, o “abiti in costume”, o anche “far apparire qualcosa superficialmente attraente”. In sostanza, in questo contesto, il senso è quello di avere ogni condizione per essere utilizzate in modo appropriato.
[30] Where characterized less by sophistication than by sophistry. Lett. “erano caretterizzate meno da sofistificazione che da sofisma”.
[31] Collateralized debt obligations (CDO). Una CDO (Collateralized debt obligation) è letteralmente una obbligazione che ha come garanzia (collaterale) un debito. Una CDO è formata unendo decine o centinaia di ABS, obbligazioni a loro volta garantite da centinaia di debiti individuali.L’enorme numero di debiti individuali sottostanti la singola obbligazione CDO rende di fatto impossibile valutare i rischi di ciascuna obbligazione. La conseguenza è che più facilmente gli acquirenti, non potendo valutare correttamente le potenziali perdite dovute all’insolvenza dei debitori, si libereranno delle CDO non appena comprendono che sta aumentando la quota di debitori insolventi. Ciò avviene nonostante secondo alcune teorie economiche affermino che strumenti come i CDO, realizzando un investimento particolarmente diversificato, riducano il rischio di perdite.Un’altra conseguenza è la difficoltà per le agenzie di rating di valutare correttamente tali obbligazioni.
[32] La classificazione AAA, secondo alcune principali agenzie di ‘rating’ (ad esempio, “Standards and Poor’s”), corrisponde alla massima sicurezza del capitale, ovvero ad elevata capacità di ripagare un debito.
[33] Uniquely well-suited. Lett. “Unicamente molto adatti”.
[34] To balloon in value relative to domestic assets.
[35] Running wild. Lett. “che corrono selvaggi”.
[36] All we got were paeans to the wonders of free markets.
[37] When the dust settles a bit. Lett. “quando la polvere si sarà un po’ depositata”.
[38] Takes the lead in talking.
[39] Will go the way of Pet’s com. Pet’s com. era un impresa dot.com, ovvero operava on line su Internet, nel settore di ogni genere di merce utile nella cura degli animali domestici. Ebbe notevole fama in America, anche per una campagna pubblicitaria assai efficace, ma entrò in una grave crisi economica e durò appena dal febbraio del 1999 al novembre del 2000.Si trattò di uno degli episodi più rilevanti della “bolla dei dot, com” dei primi anni 2000. (NdT)
[40] Where are the inventories? Lett. “Dove sono gli inventari?”. Ovvero, come si chiarisce successivamente, come stanno le scorte (che, in caso di speculazioni, dovrebbero aumentare per effetto di accaparramenti)?
[41] By promoting hoarding
[42] I remember 1974 as the year of Hamburger Helper. Traduco alla lettera, a meno che “Hamburger Helper” non sia anch’esso un riferimento a qualcosa di molto particolare (catena di ristorazione etc,).
[43] That outpaced supplies. Lett. “che oltrepassò le offerte”.
[44] Pushes up against the limits of a finite planet.
[45] Few and far between. Lett, “poche e lontane tra di loro”.
[46] We are really running up against. Lett. “stiamo crescendo rapidamente contro ..”.
[47] Mad Max è il nome di una serie di films di fantascienza.
[48] But the good times may have just stopped rolling.
[49] By and large.
[50] Itsy-bitsy toy cars. “Itsy-bitsy” è espressione familiare per molto piccolo, minuscolo.
[51] SUV è l’acronimo di “ Sport Utility Vehicle”. Traducibile con “fuoristrada”.
[52] Che sarebbe il modo in cui si può usare parole italiane per “pick-up trucks”.
[53] Average mileage. In alcuni dizionari il termine “mileage” (o “milage”), che significa “chilometraggio” (ma il riferimento, naturalmente, è al miglio e non al chilometro. Un miglio equivale a 1,6093 chilometri), viene indicato anche con “consumo”, sennonché esso indica le miglia che si fanno con una unità di misura di carburante (in America, gallone, pari a lt 3,78) e non i litri che si consumano a chilometro.Propriamente, dunque, andrebbe tradotto con “chilometraggio”, purchè nel contesto abbia un significato generico; altrimenti deve essere esplicito il riferimento al miglio. I termini del rapporto sono i medesimi, ma l’effetto è opposto. Se il “mileage” aumenta, non è il consumo che aumenta, ma i chilometri ad unità di misura di carburante, mentre il “consumo” – come è espresso da noi – in effetti diminuisce. In conclusione: se si vuole tradurre con “consumo” bisogna invertire il significato dei verbi connessi. Ovvero: nella frase in oggetto, letteralmente avrei dovuto tradurre: “il chilometraggio medio dei veicoli per passeggeri aumentò di circa il 50 per cento”.
[54] Vedi nota 5.
[55] Some major public transit systems are excited of ridership gains of 5 or 10 percent. “Ridership” significa “il numero dei passeggeri che usano un determinato sistema o mezzo di trasporto”. Lett. “alcuni principali sistemi di trasporto pubblici ‘si sono eccitati’ di guadagni del numero delle persone trasportate del 5 o 10 per cento”.
[56] Traduco con “città metropolitana di Atlanta e di Berlino” il termine Greater Atlanta e Greater Berlin.
[57] Subdivisions.
[58] Gentrification. Da “gentry”, “borghesia”, “ceti sociali elevati”.
[59] “Fuels on the Hill”. “Hill”, il Colle, è il colle del Campidoglio, sede del Congresso.
[60] Soft spot. Espressione idiomatica, “punto debole, indulgente”.
[61] Supply-side economists. La ‘supply-side economics’ è una teoria macroeconomica in voga nel periodo reaganiano, che enfatizza il suolo dell’offerta (supply-side) nello stimolare la crescita economica, in contrapposizione con le teorie keynesiane che si focalizzano sulla domanda aggregata di beni e servizi. Tra questi economisti: Robert Mundell, Arthur Laffer, Jude Wannisky e Martin Feldstein.
[62] Welcome mat. “Welcome” come aggettivo significa grato, gradito.
[63] Actually burning the stuff. Lett. “effettivamente bruciare il materiale”.
[64] Has jumped on the blame-the-speculators bandwagon. Lett. “è salita sul carro della colpa-agli-speculatori”.
[65] Paper profits
[66] Are coming up on the short end. “On the short end” è espressione idiomatica sintetica di “to get the short end of the stick” (“afferrare il bastone dalla parte più corta”, ovvero da quella più svantaggiata).
[67] Is more or less there for the asking. Lett. “è più o meno là a richiesta”.
[68] “Wonk”, su molti dizionari, compare solo come sostantivo con il significato di “sgobbone”. Ma non è infrequente che determinati ambienti e subculture – come, in questo caso, potrebbe essere per l’ambiente scolastico – da un sostantivo si inventi una funzione verbale. La traduzione tiene conto del riflessivo (“To wonk themselves”).
[69] Make much of the fact.
[70] Telltale signs.
[71] Hiperventilation.
[72] Oil shipments. Lett. “spedizioni di petrolio”.
[73] May share. Lett. “possa condividere”.
[74] Inward-looking. Lett. “che guardano all’interno”
[75] Adventure his wealth. Lett. “avvenuturare la sua ricchezza”.
[76] Made a comeback
[77] Raises. “Solleva”.
[78] Lose far more than they gain.
By mm
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