Articoli sul NYT

Articoli sul New York Times dal 1 gennaio 2009 al 14 giugno 2009)

 

Bigger Than Bush By PAUL KRUGMANPublished: January 1, 2009

As the new Democratic majority prepares to take power, Republicans have become, as Phil Gramm might put it, a party of whiners.

 

Some of the whining almost defies belief. Did Alberto Gonzales, the former attorney general, really say, “I consider myself a casualty, one of the many casualties of the war on terror”? Did Rush Limbaugh really suggest that the financial crisis was the result of a conspiracy, masterminded by that evil genius Chuck Schumer?

 

But most of the whining takes the form of claims that the Bush administration’s failure was simply a matter of bad luck — either the bad luck of President Bush himself, who just happened to have disasters happen on his watch, or the bad luck of the G.O.P., which just happened to send the wrong man to the White House.

 

 

The fault, however, lies not in Republicans’ stars but in themselves. Forty years ago the G.O.P. decided, in effect, to make itself the party of racial backlash. And everything that has happened in recent years, from the choice of Mr. Bush as the party’s champion, to the Bush administration’s pervasive incompetence, to the party’s shrinking base, is a consequence of that decision.

 

If the Bush administration became a byword for policy bungles, for government by the unqualified, well, it was just following the advice of leading conservative think tanks: after the 2000 election the Heritage Foundation specifically urged the new team to “make appointments based on loyalty first and expertise second.”

 

 

Contempt for expertise, in turn, rested on contempt for government in general. “Government is not the solution to our problem,” declared Ronald Reagan. “Government is the problem.” So why worry about governing well?

Where did this hostility to government come from? In 1981 Lee Atwater, the famed Republican political consultant, explained the evolution of the G.O.P.’s “Southern strategy,” which originally focused on opposition to the Voting Rights Act but eventually took a more coded form: “You’re getting so abstract now you’re talking about cutting taxes, and all these things you’re talking about are totally economic things and a byproduct of them is blacks get hurt worse than whites.” In other words, government is the problem because it takes your money and gives it to Those People.

 

 

 

Oh, and the racial element isn’t all that abstract, even now: Chip Saltsman, currently a candidate for the chairmanship of the Republican National Committee, sent committee members a CD including a song titled “Barack the Magic Negro” — and according to some reports, the controversy over his action has actually helped his chances.

 

So the reign of George W. Bush, the first true Southern Republican president since Reconstruction, was the culmination of a long process. And despite the claims of some on the right that Mr. Bush betrayed conservatism, the truth is that he faithfully carried out both his party’s divisive tactics — long before Sarah Palin, Mr. Bush declared that he visited his ranch to “stay in touch with real Americans” — and its governing philosophy.

 

 

That’s why the soon-to-be-gone administration’s failure is bigger than Mr. Bush himself: it represents the end of the line for a political strategy that dominated the scene for more than a generation.

 

The reality of this strategy’s collapse has not, I believe, fully sunk in with some observers. Thus, some commentators warning President-elect Barack Obama against bold action have held up Bill Clinton’s political failures in his first two years as a cautionary tale.

But America in 1993 was a very different country — not just a country that had yet to see what happens when conservatives control all three branches of government, but also a country in which Democratic control of Congress depended on the votes of Southern conservatives. Today, Republicans have taken away almost all those Southern votes — and lost the rest of the country. It was a grand ride for a while, but in the end the Southern strategy led the G.O.P. into a cul-de-sac.

Mr. Obama therefore has room to be bold. If Republicans try a 1993-style strategy of attacking him for promoting big government, they’ll learn two things: not only has the financial crisis discredited their economic theories, the racial subtext of anti-government rhetoric doesn’t play the way it used to.

 

 

Will the Republicans eventually stage a comeback? Yes, of course. But barring some huge missteps by Mr. Obama, that will not happen until they stop whining and look at what really went wrong. And when they do, they will discover that they need to get in touch with the real “real America,” a country that is more diverse, more tolerant, and more demanding of effective government than is dreamt of in their political philosophy.

 

Più importante di Bush, di Paul Krugman

New York Times 1 gennaio 2009

 

Mentre la nuova maggioranza democratica si prepara a prendere il potere, i Repubblicani sono diventati, come avrebbe potuto dire  Phil Gramm, un partito di piagnoni.

Qualcuno tra i piagnoni appare quasi incredibile. Ma ha detto effettivamente Alberto Gonzales, il precedente Procuratore Generale, “Io mi considero una vittima, una delle tante vittime della guerra del terrore”? Ed ha realmente ipotizzato Rush Limbaugh che la crisi finanziaria sia stata il risultato di una cospirazione, progettata dal genio diabolico di Chuck Schumer?

Una gran parte del pianto greco si manifesta in affermazioni secondo le quali il fallimento della amministrazione Bush è stata semplicemente una questione di cattiva sorte – vuoi la sfortuna del Presidente Bush medesimo, il quale si sarebbe trovato per caso ad avere i disastri che sono successi sotto la sua sorveglianza, vuoi la sfortuna del Partito Repubblicano, il quale si sarebbe trovato per caso a inviare la persona sbagliata alla Casa Bianca.

Lo sbaglio, tuttavia, non sta negli uomini di punta repubblicani, ma in quel partito stesso. Quaranta anni fa i repubblicani decisero, in effetti, di ridursi ad essere il partito di una sorta di rivincita razziale[1]. Ed ogni cosa che è successa nel periodo più recente, dalla scelta di Bush come il campione del partito, alla pervasiva incompetenza della sua amministrazione, al restringersi della base repubblicana, sono conseguenze di quella decisione.

Se la Amministrazione Bush è diventata uno zimbello di pasticci politici, per effetto del governo di persone non qualificate, ebbene, ciò è avvenuto proprio seguendo il consiglio di chi guidava l’intellighenzia conservatrice: dopo le elezioni del 2000 la Heritage Foundation aveva specificamente indirizzato la nuova squadra di governo a “decidere le nomine sulla base in primo luogo della lealtà ed in secondo luogo dell’esperienza[2]”.

Il disprezzo per l’esperienza, a sua volta, si è risolto nel disprezzo più in generale per il governo. “Il governo non è la soluzione dei nostri problemi”, aveva dichiarato Ronald Reagan; “il governo è il problema”. E allora perché prendersela se non si è governato bene?

Da dove è venuta questa ostilità verso le tecniche di governo?  Nel 1981 Lee Atwater, il famoso consigliere politico dei repubblicani, aveva spiegato l’evoluzione della “strategia sudista” del Partito, che all’origine si era concentrata sulla opposizione alla Legge sui diritti elettorali ma alla fine aveva assunto una forma assai più precisa: “Voi state diventando astratti quando parlate di tagliare le tasse, inoltre tutte queste cose delle quali state parlando sono questioni completamente economiche, mentre la loro conseguenza consiste nel fatto che  che i neri provocano un danno molto peggiore dei bianchi[3]”. In altre parole, il governo è il problema perché è il governo che prende i vostri soldi per darli a “quella gente”.

Si badi che l’aspetto razziale non è per niente astratto, persino oggi: Chip Saltsman, un candidato per la presidenza del Comitato Nazionale Repubblicano, ha inviato ai membri del comitato un CD che includeva una canzone dal titolo “Barack il Magico Nero” e, secondo alcune informazioni, la controversia che è nata dalla sua iniziativa sembra stia aumentando le possibilità della sua nomina.

E’ in questo modo che il regno di George W. Bush, il primo vero Presidente repubblicano sudista dalla Ricostruzione, è stato il culmine di un lungo processo. E a dispetto delle obiezioni di qualcuno a destra secondo le quali Bush avrebbe tradito il conservatorismo, la verità è che egli ha fondamentalmente portato a compimento sia le tattiche separatiste del suo partito – molto tempo prima di Sarah Palin, Bush aveva dichiarato che egli tornava al suo ranch per “stare in contatto con la vera America” – sia la sua filosofia di governo.

Questa è la ragione per la quale il fallimento della amministrazione è più importante di quello dello stesso Bush: esso rappresenta la fine del percorso di una strategia politica che ha dominato la scena per più di una generazione.

La verità del collasso di questa strategia non è, io credo, pienamente stata compresa da qualche osservatore. Così, qualche commentatore che mette in guardia il presidente eletto Barack Obama dal rischio di azioni troppo audaci ha utilizzato come storia istruttiva i fallimenti politici dei primi due anni di Bill Clinton.

Ma l’America nel 1993 era un paese molto diverso; non solo un paese che aveva ancora da scoprire cosa accade con il controllo dei conservatori di tutti e tre i rami del governo, ma anche un paese nel quale il controllo dei democratici sul Congresso dipendeva dai voti conservatori del Sud. Oggi, ai repubblicani sono stati portati via quasi tutti questi voti sudisti, ed hanno perso il resto del paese. Per un momento è stata una sfida assai aperta, ma alla fine la strategia sudista ha messo i repubblicani in un cul-di-sacco.

Obama ha dunque la possibilità di essere audace. Se i repubblicani mettessero in atto una strategia di attacco, del genere di quella del 1993, per promuovere una grande collaborazione, essi dovranno rendersi conto di due circostanze: non solo la crisi finanziaria ha gettato discredito sulle loro teorie economiche, ma il contesto razziale della retorica antigovernamentale non può più funzionare nel modo in cui l’avevano in precedenza utilizzato.

Alla fine i repubblicani torneranno sulla scena? Si, è naturale. Ma, escludendo qualche grave passo falso da parte di Obama, ciò non accadrà finché essi non smetteranno di piagnucolare e non guarderanno a cosa effettivamente è andato storto. E quando lo faranno, scopriranno di aver bisogno di stare in contatto davvero con la “vera America”,  un paese che ha molto maggiori  diversità, maggiore tolleranza e maggiore domanda di effettivo governo di quanto non si fossero immaginati con la loro filosofia politica. 

 

 


 

Fighting Off Depression By PAUL KRUGMANPublished: January 4, 2009

“If we don’t act swiftly and boldly,” declared President-elect Barack Obama in his latest weekly address, “we could see a much deeper economic downturn that could lead to double-digit unemployment.” If you ask me, he was understating the case.

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The fact is that recent economic numbers have been terrifying, not just in the United States but around the world. Manufacturing, in particular, is plunging everywhere. Banks aren’t lending; businesses and consumers aren’t spending. Let’s not mince words: This looks an awful lot like the beginning of a second Great Depression.

 

So will we “act swiftly and boldly” enough to stop that from happening? We’ll soon find out.

We weren’t supposed to find ourselves in this situation. For many years most economists believed that preventing another Great Depression would be easy. In 2003, Robert Lucas of the University of Chicago, in his presidential address to the American Economic Association, declared that the “central problem of depression-prevention has been solved, for all practical purposes, and has in fact been solved for many decades.”

 

 

Milton Friedman, in particular, persuaded many economists that the Federal Reserve could have stopped the Depression in its tracks simply by providing banks with more liquidity, which would have prevented a sharp fall in the money supply. Ben Bernanke, the Federal Reserve chairman, famously apologized to Friedman on his institution’s behalf: “You’re right. We did it. We’re very sorry. But thanks to you, we won’t do it again.”

 

 

It turns out, however, that preventing depressions isn’t that easy after all. Under Mr. Bernanke’s leadership, the Fed has been supplying liquidity like an engine crew trying to put out a five-alarm fire, and the money supply has been rising rapidly. Yet credit remains scarce, and the economy is still in free fall.

Friedman’s claim that monetary policy could have prevented the Great Depression was an attempt to refute the analysis of John Maynard Keynes, who argued that monetary policy is ineffective under depression conditions and that fiscal policy — large-scale deficit spending by the government — is needed to fight mass unemployment. The failure of monetary policy in the current crisis shows that Keynes had it right the first time. And Keynesian thinking lies behind Mr. Obama’s plans to rescue the economy.

 

 

But these plans may turn out to be a hard sell.

News reports say that Democrats hope to pass an economic plan with broad bipartisan support. Good luck with that.

 

 

In reality, the political posturing has already started, with Republican leaders setting up roadblocks to stimulus legislation while posing as the champions of careful Congressional deliberation — which is pretty rich considering their party’s behavior over the past eight years.

 

More broadly, after decades of declaring that government is the problem, not the solution, not to mention reviling both Keynesian economics and the New Deal, most Republicans aren’t going to accept the need for a big-spending, F.D.R.-type solution to the economic crisis.

 

 

The biggest problem facing the Obama plan, however, is likely to be the demand of many politicians for proof that the benefits of the proposed public spending justify its costs — a burden of proof never imposed on proposals for tax cuts.

 

This is a problem with which Keynes was familiar: giving money away, he pointed out, tends to be met with fewer objections than plans for public investment “which, because they are not wholly wasteful, tend to be judged on strict ‘business’ principles.” What gets lost in such discussions is the key argument for economic stimulus — namely, that under current conditions, a surge in public spending would employ Americans who would otherwise be unemployed and money that would otherwise be sitting idle, and put both to work producing something useful.

 

All of this leaves me concerned about the prospects for the Obama plan. I’m sure that Congress will pass a stimulus plan, but I worry that the plan may be delayed and/or downsized. And Mr. Obama is right: We really do need swift, bold action.

 

 

Here’s my nightmare scenario: It takes Congress months to pass a stimulus plan, and the legislation that actually emerges is too cautious. As a result, the economy plunges for most of 2009, and when the plan finally starts to kick in, it’s only enough to slow the descent, not stop it. Meanwhile, deflation is setting in, while businesses and consumers start to base their spending plans on the expectation of a permanently depressed economy — well, you can see where this is going.

 

So this is our moment of truth. Will we in fact do what’s necessary to prevent Great Depression II?

 

Vincere la depressione, di Paul Krugman

New York Times 4 gennaio 2009

 

“Se non agiremo con rapidità e con coraggio” ha dichiarato il Presidente eletto Barack Obama nel suo ultimo messaggio settimanale, “potremmo dover constatare un ripiegamento molto maggiore dell’economia che potrebbe portarci ad una disoccupazione a due cifre”. Se volete il mio parere, egli ha compreso il punto.

Il fatto è che gli ultimi dati economici sono terrificanti, non solo negli Stati Uniti ma in ogni area del mondo. La attività manifatturiera sta crollando dappertutto. Le Banche non danno prestiti; gli affari ed i consumi non tirano. Diciamo le cose come stanno: siamo dinanzi alla terribile prospettiva dell’inizio di una seconda Grande Depressione.

Dunque: agiremo “con la rapidità ed il coraggio” sufficienti a fermare ciò che sta succedendo? Lo scopriremo presto.

Non avevamo immaginato di ritrovarci in questa situazione. Per molti anni la grande maggioranza degli economisti avevano creduto che diagnosticare in anticipo un’altra Grande Depressione sarebbe stato facile. Nel 2003 Robert Lucas, dell’Università di Chicago, ne suo messaggio presidenziale alla Associazione Americana di Economia, aveva dichiarato che “il problema centrale della previsione della depressione è stato risolto, dal punto di vista di tutti gli scopi pratici, ed è stato risolto effettivamente per molti decenni”.

Milton Friedman in particolare, aveva persuaso molti economisti che la Federal Reserve avrebbe potuto fermare sul nascere la Depressione semplicemente rifornendo il sistema bancario di maggiore liquidità, in modo tale da prevenire una brusca caduta nelle riserve monetarie. Ben Bernanke, il Presidente della Federal Riserve, si era scusato con Friedman per conto della sua istituzione con parole diventate famose: “Lei ha ragione. E’ accaduto. Ne siamo dispiaciuti. Ma la ringrazio, non lo faremo di nuovo”.

E’ andata a finire, tuttavia, che prevenire le depressioni non è dopo tutto una cosa così semplice. Sotto la guida di Bernanke, la FED ha sostenuto la liquidità come l’equipaggio di una locomotiva, cercando di spengere per cinque volte l’allarme di incendio e l’offerta di denaro è salita rapidamente. Ma il credito è rimasto scarso e l’economia è ancora in caduta libera.

La pretesa di Friedman per la quale la politica monetaria avrebbe potuto prevenire la Grande Depressione era un tentativo di confutare la analisi di John Maynard Keynes, il quale riteneva che la politica monetaria fosse inefficace nelle condizioni della depressione e che la politica fiscale – la spesa su larga scala in deficit da parte dei governi pubblici – fosse necessaria per combattere la disoccupazione di massa. Il fallimento della politica monetaria nella crisi in corso dimostra che Keynes aveva visto giusto nel primo caso. E i concetti keynesiani stanno dietro i piani di salvataggio dell’economia di Obama.

Ma questi piani possono rivelarsi una grande delusione.

Servizi giornalistici riferiscono che i Democratici avrebbero lo speranza di far approvare un piano economico con un sostegno esterno di entrambi i partiti. In questo, auguriamo loro buona fortuna.

In realtà, le posizioni politiche appaiono già definite, con i leaders repubblicani che innalzano blocchi stradali contro una legislazione di sostegni economici nel mentre si atteggiano a campioni di scrupolo nelle deliberazioni congressuali; il che è alquanto spassoso, se si considera il comportamento del loro partito negli otto anni passati.

Più in generale, dopo decenni di dichiarazioni secondo le quali il problema, e non la soluzione del problema, era il governo, per non dire degli insulti sia alle politiche economiche keynesiane che al New Deal, la gran parte dei repubblicani non pare si appresti a riconoscere il bisogno di grandi investimenti, ovvero di una soluzione alla crisi economica del genere di quella di Franklin Delano Roosvelt.

Il problema più grosso che si delinea per il piano economico di Obama, tuttavia, è verosimile che consista nella richiesta di molti politici relativamente alla dimostrazione che i benefici delle proposte di spesa pubblica giustifichino i relativi costi. Un onere della prova che non era mai stato richiesto per le proposte di taglio delle tasse.

Questo è un problema con il quale Keynes aveva consuetudine: dar via il denaro, egli notò, si presta a minori obiezioni dei piani di investimenti pubblici “i quali, non essendo esclusivamente basati sulla spesa, tendono ad essere giudicati sulla base di principi propriamente ‘di impresa’ ”. Ciò che va perduto in ragionamenti del genere è l’argomento chiave per lo stimolo economico;  vale a dire, che nelle attuali condizioni, un impulso nella spesa pubblica potrebbe occupare americani che altrimenti sarebbero senza lavoro e risorse finanziarie che altrimenti resterebbero inattive, facendo funzionare entrambi nel produrre qualcosa di utile.

Tutto ciò mi lascia preoccupato a proposito delle prospettive del piano di Obama. Sono sicuro che il Congresso approverà il piano di sostegno all’economia, ma ho paura che quel piano possa essere ritardato e/o sottodimensionato. E Obama ha ragione: abbiamo davvero bisogno di una azione rapida e coraggiosa.

E’ qua il mio scenario da incubo: ci vorranno mesi perché il Congresso approvi il piano di sostegno, e i contenuti legislativi dei quali attualmente si parla sono troppo cauti. Come risultato, l’economia cadrà per buona parte del 2009 e quando il piano finalmente comincerà a funzionare, sarà solo sufficiente a rallentare la discesa, non a fermarla. Nel mentre la deflazione sta prendendo piede, nel mentre imprenditori e consumatori iniziano a far dipendere i loro piani di spesa dalla attesa di un’economia in permanente depressione – ebbene, potete rendervi conto di dove tutto questo porti.

Così è questo il nostro momento della verità. Faremo effettivamente quello che è necessario per prevenire una seconda Grande Depressione? 

 

 


 

Life Without Bubbles By PAUL KRUGMANPublished: January 6, 2009

 

America.

Whatever the new administration does, we’re in for months, perhaps even a year, of economic hell. After that, things should get better, as President Obama’s stimulus plan — O.K., I’m told that the politically correct term is now “economic recovery plan” — begins to gain traction. Late next year the economy should begin to stabilize, and I’m fairly optimistic about 2010.

 

 

Skip to next paragraphBut what comes after that? Right now everyone is talking about, say, two years of economic stimulus — which makes sense as a planning horizon. Too much of the economic commentary I’ve been reading seems to assume, however, that that’s really all we’ll need — that once a burst of deficit spending turns the economy around we can quickly go back to business as usual.

 

In fact, however, things can’t just go back to the way they were before the current crisis. And I hope the Obama people understand that.

The prosperity of a few years ago, such as it was — profits were terrific, wages not so much — depended on a huge bubble in housing, which replaced an earlier huge bubble in stocks. And since the housing bubble isn’t coming back, the spending that sustained the economy in the pre-crisis years isn’t coming back either.

 

To be more specific: the severe housing slump we’re experiencing now will end eventually, but the immense Bush-era housing boom won’t be repeated. Consumers will eventually regain some of their confidence, but they won’t spend the way they did in 2005-2007, when many people were using their houses as ATMs, and the savings rate dropped nearly to zero.

So what will support the economy if cautious consumers and humbled homebuilders aren’t up to the job?

A few months ago a headline in the satirical newspaper The Onion, on point as always, offered one possible answer: “Recession-Plagued Nation Demands New Bubble to Invest In.” Something new could come along to fuel private demand, perhaps by generating a boom in business investment.

 

But this boom would have to be enormous, raising business investment to a historically unprecedented percentage of G.D.P., to fill the hole left by the consumer and housing pullback. While that could happen, it doesn’t seem like something to count on.

 

A more plausible route to sustained recovery would be a drastic reduction in the U.S. trade deficit, which soared at the same time the housing bubble was inflating. By selling more to other countries and spending more of our own income on U.S.-produced goods, we could get to full employment without a boom in either consumption or investment spending.

 

But it will probably be a long time before the trade deficit comes down enough to make up for the bursting of the housing bubble. For one thing, export growth, after several good years, has stalled, partly because nervous international investors, rushing into assets they still consider safe, have driven the dollar up against other currencies — making U.S. production much less cost-competitive.

 

Furthermore, even if the dollar falls again, where will the capacity for a surge in exports and import-competing production come from? Despite rising trade in services, most world trade is still in goods, especially manufactured goods — and the U.S. manufacturing sector, after years of neglect in favor of real estate and the financial industry, has a lot of catching up to do.

 

 

Anyway, the rest of the world may not be ready to handle a drastically smaller U.S. trade deficit. As my colleague Tom Friedman recently pointed out, much of China’s economy in particular is built around exporting to America, and will have a hard time switching to other occupations.

 

 

In short, getting to the point where our economy can thrive without fiscal support may be a difficult, drawn-out process. And as I said, I hope the Obama team understands that.

Right now, with the economy in free fall and everyone terrified of Great Depression 2.0, opponents of a strong federal response are having a hard time finding support. John Boehner, the House Republican leader, has been reduced to using his Web site to seek “credentialed American economists” willing to add their names to a list of “stimulus spending skeptics.”

 

 

But once the economy has perked up a bit, there will be a lot of pressure on the new administration to pull back, to throw away the economy’s crutches. And if the administration gives in to that pressure too soon, the result could be a repeat of the mistake F.D.R. made in 1937 — the year he slashed spending, raised taxes and helped plunge the United States into a serious recession.

 

The point is that it may take a lot longer than many people think before the U.S. economy is ready to live without bubbles. And until then, the economy is going to need a lot of government help.

 

 

Vivere senza “bolle”, di Paul Krugman

New York Times 6 gennaio 2009

 

America.

Qualsiasi cosa la nuova amministrazione faccia, noi vivremo per qualche mese, forse persino per un anno, in una condizione economica infernale. Dopo ciò le cose potrebbero andare meglio, se il piano di stimoli del Presidente Obama (va bene, sono informato che il termine politicamente corretto è “piano di ripresa economica”!) comincerà a prendere spinta. Verso la fine del prossimo anno l’economia potrebbe cominciare a stabilizzarsi, ed io sono discretamente ottimista per il 2010.

Ma cosa ci aspetta dopo tutto questo? Ad oggi, per quel che si sente dire, ognuno sta ragionando di due anni di stimoli economici, che costituiscono un periodo sensato di pianificazione. Ma gran parte dei commenti economici che leggo sembrano comunque ritenere che una volta che la fiammata della spesa pubblica avrà rimesso l’economia a posto, noi potremo tornare rapidamente ai soliti affari.

Di fatto, però, le cose non potranno proprio tornare al punto in cui erano prima della crisi attuale. E spero che i sostenitori di Obama lo capiscano.

La prosperità di pochi anni orsono, nelle forme che aveva (i profitti erano spaventosi, i salari non altrettanto), dipendeva da una grande bolla nel settore degli alloggi, che a sua volta aveva rimpiazzato una grande bolla nei capitali azionari. E la spesa che sosteneva l’economia negli anni precedenti alla crisi non  è regredita, se non dal momento in cui la bolla degli alloggi è regredita.

Per essere più precisi: la grave crisi nel settore degli alloggi alla fine avrà termine, ma l’immenso boom degli alloggi dell’era Bush non sarà replicato. I consumatori alla fine riacquisteranno un po’ di fiducia, ma essi non torneranno a spendere come negli anni 2005-2007, quando molta gente usava le proprie case come un Bancomat[4], e l’andamento dei risparmi era caduto vicino allo zero.

E dunque, cosa sosterrà l’economia se consumatori prudenti e costruttori mortificati non saranno più al lavoro?

Pochi mesi fa un titolo del giornale satirico di New York City “The Onion”, calzante come spesso accade, forniva una possibile risposta: “Il paese afflitto dalla recessione implora una nuova Bolla su cui investire”. Qualcosa di nuovo che faccia presto ad alimentare la domanda privata,  probabilmente a seguito di un boom in investimenti affaristici.

Ma questo boom dovrebbe essere enorme, e far crescere gli investimenti in affari ad una percentuale del PIL storicamente senza precedenti, per riempire il buco lasciato dal venir meno dei consumi e della speculazione sugli alloggi. E’ possibile che accada, ma non sembra che si possa farci affidamento.

Una strada maggiormente plausibile per sostenere una ripresa potrebbe consistere in una drastica riduzione del deficit commerciale USA, che è volato in alto nello stesso momento in cui gonfiava la bolla degli alloggi. Vendendo di più agli altri paesi e spendendo di più del nostro reddito in beni di produzione americana, potremmo raggiungere condizioni di piena occupazione senza un boom in altri consumi o in spese di investimento.

Ma ci vorrà probabilmente molto tempo prima che il deficit commerciale si abbassi abbastanza da compensare lo scoppio della bolla degli alloggi. In primo luogo, la crescita dell’export, dopo parecchi anni buoni, è in stallo, in parte perché nervosi investitori internazionali,  precipitandosi su assets ancora considerati sani, hanno provocato un rialzo del dollaro nei confronti delle altre monete, rendendo la produzione statunitense molto meno competitiva dal lato dei costi.

Inoltre, persino se il dollaro scendesse di nuovo, da dove verrebbe la capacità di una crescita dell’export e delle produzioni competitive con l’importazione? Nonostante la crescita del commercio dei servizi, il commercio nella gran parte del mondo è ancora fondato sui beni, specialmente sui beni manifatturieri – e i settori manifatturieri degli USA, dopo anni di trascuratezza a favore del settore immobiliare e dell’economia finanziaria, hanno molto da fare per mettersi in pari.

In ogni modo, il resto del mondo potrebbe non essere pronto a fronteggiare un deficit commerciale USA drasticamente ridotto. Come il mio collega Tom Friedman ha recentemente dimostrato, gran parte dell’economia della Cina in particolare è costruita attorno alle esportazioni in America e avrebbe davvero un difficile momento se dovesse riconvertirsi ad altre occupazioni.

In breve, arrivare al punto nel quale la nostra economia possa prosperare senza supporti fiscali, potrebbe essere un processo prolungato e difficile. E come ho detto, io spero che la squadra di Obama se ne renda conto.

Per il momento, con l’economia in caduta libera e con il terrore che contagia tutti di una seconda Grande Depressione, coloro che si oppongono ad una forte reazione federale hanno un bel daffare nel trovare consensi. John Boehner, leader repubblicano alla Camera,  si è ridotto ad usare il suo sito web per cercare “accreditati economisti americani” che abbiano voglia di aggiungere i loro nomi ad una lista degli “scettici del sostegno pubblico”.

Ma una volta che l’economia si fosse un po’ risollevata, ci sarà una forte pressione verso la nuova amministrazione per fermarsi, per far piazza pulita dei sostegni pubblici all’economia. E se la nuova amministrazione cederà a queste pressioni troppo presto, il risultato potrebbe essere una ripetizione dell’errore che Franklin Delano Roosvelt commise nel 1937, l’anno in cui egli ridusse drasticamente la spesa, rialzò le tasse e contribuì a precipitare l’economia americana in una grave recessione.

Il punto è che ci potrebbe volere molto più tempo di quanto molti ritengono prima che l’economia americana sia pronta a vivere senza bolle. E sino ad allora, l’economia è destinata ad aver bisogno di un bel po’ di aiuto pubblico.

 


 

 

The Obama Gap By PAUL KRUGMANPublished: January 8, 2009

“I don’t believe it’s too late to change course, but it will be if we don’t take dramatic action as soon as possible. If nothing is done, this recession could linger for years.”

 

Skip to next paragraphSo declared President-elect Barack Obama on Thursday, explaining why the nation needs an extremely aggressive government response to the economic downturn. He’s right. This is the most dangerous economic crisis since the Great Depression, and it could all too easily turn into a prolonged slump.

 

But Mr. Obama’s prescription doesn’t live up to his diagnosis. The economic plan he’s offering isn’t as strong as his language about the economic threat. In fact, it falls well short of what’s needed.

 

Bear in mind just how big the U.S. economy is. Given sufficient demand for its output, America would produce more than $30 trillion worth of goods and services over the next two years. But with both consumer spending and business investment plunging, a huge gap is opening up between what the American economy can produce and what it’s able to sell.

 

And the Obama plan is nowhere near big enough to fill this “output gap.”

Earlier this week, the Congressional Budget Office came out with its latest analysis of the budget and economic outlook. The budget office says that in the absence of a stimulus plan, the unemployment rate would rise above 9 percent by early 2010, and stay high for years to come.

 

Grim as this projection is, by the way, it’s actually optimistic compared with some independent forecasts. Mr. Obama himself has been saying that without a stimulus plan, the unemployment rate could go into double digits.

 

Even the C.B.O. says, however, that “economic output over the next two years will average 6.8 percent below its potential.” This translates into $2.1 trillion of lost production. “Our economy could fall $1 trillion short of its full capacity,” declared Mr. Obama on Thursday. Well, he was actually understating things.

 

To close a gap of more than $2 trillion — possibly a lot more, if the budget office projections turn out to be too optimistic — Mr. Obama offers a $775 billion plan. And that’s not enough.

 

Now, fiscal stimulus can sometimes have a “multiplier” effect: In addition to the direct effects of, say, investment in infrastructure on demand, there can be a further indirect effect as higher incomes lead to higher consumer spending. Standard estimates suggest that a dollar of public spending raises G.D.P. by around $1.50.

 

 

But only about 60 percent of the Obama plan consists of public spending. The rest consists of tax cuts — and many economists are skeptical about how much these tax cuts, especially the tax breaks for business, will actually do to boost spending. (A number of Senate Democrats apparently share these doubts.) Howard Gleckman of the nonpartisan Tax Policy Center summed it up in the title of a recent blog posting: “lots of buck, not much bang.”

 

The bottom line is that the Obama plan is unlikely to close more than half of the looming output gap, and could easily end up doing less than a third of the job.

 

Why isn’t Mr. Obama trying to do more?

 

Is the plan being limited by fear of debt? There are dangers associated with large-scale government borrowing — and this week’s C.B.O. report projected a $1.2 trillion deficit for this year. But it would be even more dangerous to fall short in rescuing the economy. The president-elect spoke eloquently and accurately on Thursday about the consequences of failing to act — there’s a real risk that we’ll slide into a prolonged, Japanese-style deflationary trap — but the consequences of failing to act adequately aren’t much better.

 

 

Is the plan being limited by a lack of spending opportunities? There are only a limited number of “shovel-ready” public investment projects — that is, projects that can be started quickly enough to help the economy in the near term. But there are other forms of public spending, especially on health care, that could do good while aiding the economy in its hour of need.

 

Or is the plan being limited by political caution? Press reports last month indicated that Obama aides were anxious to keep the final price tag on the plan below the politically sensitive trillion-dollar mark. There also have been suggestions that the plan’s inclusion of large business tax cuts, which add to its cost but will do little for the economy, is an attempt to win Republican votes in Congress.

 

 

Whatever the explanation, the Obama plan just doesn’t look adequate to the economy’s need. To be sure, a third of a loaf is better than none. But right now we seem to be facing two major economic gaps: the gap between the economy’s potential and its likely performance, and the gap between Mr. Obama’s stern economic rhetoric and his somewhat disappointing economic plan.

 

Il difetto di Obama, di Paul Krugman

New York Times 8 gennaio 2009

 

“Io non credo che sia troppo tardi per cambiare direzione, ma sarà così se non prenderemo una iniziativa drastica prima possibile. Se non sarà fatto niente, questa recessione potrà trascinarsi per anni”.

Così giovedì si è espresso il Presidente eletto Barack Obama, spiegando le ragioni per le quali l’America ha bisogno di una risposta di governo  estremamente aggressiva alla recessione dell’economia. Egli ha ragione. Questa è la più grave crisi economica dall’epoca della Grande depressione, e potrebbe trasformarsi anche troppa facilmente in un declino di lungo periodo.

Ma la ricetta di Obama non è all’altezza della sua diagnosi. Il piano economico che egli offre non è altrettanto deciso delle parole che usa per indicare la minaccia economica. Nei fatti, esso resta ben al di sotto ciò che appare necessario.

Teniamo a mente quanto sia grande l’economia americana. Data una domanda adeguata alla capacità produttiva, l’America arriverebbe a produrre più di 30 mila miliardi di dollari in beni e servizi nei prossimi due anni. Ma considerato il calo sia dei consumi che degli investimenti, si delinea un ampio scarto tra quanto l’economia USA può produrre e quanto effettivamente è in grado di acquistare.

E il piano di Obama non è in alcun modo grande abbastanza da colmare questa “divario produttivo”.

Agli inizi di questa settimana il Congressional Budget Office è uscito con le sue ultime analisi sul bilancio e sulle prospettive economiche.  Il Budget Office afferma che, in assenza di un piano di sostegno, il tasso di disoccupazione potrebbe salire sopra il 9 per cento agli inizi del 2010 e restare alto per vari anni a venire.

Per quanto questa prospettiva sia sconfortante, essa è in realtà ottimistica se paragonata a qualche previsione indipendente. Lo stesso Obama ha riconosciuto che senza un piano di sostegno il tasso di disoccupazione potrebbe diventare a due cifre.

Tuttavia, anche il CBO afferma che “nei prossimi due anni la produzione economica si collocherà su una media del 6,8% al di sotto del suo potenziale”. Il che si traduce in una perdita di duemilacento miliardi di dollari di produzione persa. “La nostra economia potrebbe calare di mille miliardi di dollari rispetto alla sua complessiva potenzialità”, ha dichiarato Obama giovedì. Dunque, egli in effetti ha sottostimato la situazione.

Per colmare un buco di più di duemila miliardi di dollari – forse molto più elevato se le proiezioni del CBO risultassero troppo ottimistiche – Obama mette a disposizione un piano di 775 milioni di dollari. E questo non è sufficiente.

In effetti lo stimolo della spesa pubblica può in qualche caso avere un effetto moltiplicatore: in aggiunta alle conseguenze dirette, ad esempio, dell’investimento in infrastrutture sulla domanda, può esserci un ulteriore effetto indiretto conseguente a una maggiore spesa in consumi provocata da una crescita dei redditi. Secondo una stima consueta si assume che un dollaro di spesa pubblica accresca il PIL per circa 1 dollaro e mezzo.

Sennonché solo circa il 60 per cento del piano di Obama consiste in spesa pubblica. Il resto se ne va in tagli alle tasse – e molti economisti sono scettici su quanto questi tagli, particolarmente quelli relativi agli sgravi per le imprese, potranno effettivamente incoraggiare la spesa (un certo numero di senatori democratici condivide questi dubbi). Howard Gleckman, dell’organismo indipendente Tax Policy Center, ha riassunto questi dubbi nel titolo di un recente messaggio sul suo blog: “Un mucchio di dollari per un affare da poco”.

Morale della favola, è improbabile che il piano di Obama possa coprire più della metà dello scarto produttivo che si profila, e potrebbe facilmente finire con l’assolvere a meno di un terzo del suo compito.

Per quale ragione Obama non cerca di fare di più?

Forse il piano è stato condizionato dalla paura del debito? Ci sono pericoli derivanti dall’indebitamento governativo su larga scala; proprio questa settimana il rapporto del CBO ha previsto mille e duecento miliardi di dollari di debito per quest’anno. Ma potrebbe essere persino più pericoloso mancare l’obbiettivo del salvataggio dell’economia. Giovedì, il presidente eletto ha parlato con passione e con precisione delle conseguenze dell’inerzia – c’è il rischio reale che gli USA scivolino in una prolungata trappola deflazionistica sul modello del Giappone – ma le conseguenze di un intervento non adeguato non sarebbero molto migliori.

Il piano è forse condizionato dalla mancanza di opportunità di spesa? C’è soltanto un numero limitato di progetti ‘immediatamente esecutivi’[5], cioè di progetti che possono aver corso abbastanza rapidamente, in modo da sorreggere l’economia nel breve termine. Ma ci sono altre forme di sostegno pubblico, specialmente nel campo della assistenza sanitaria, che potrebbero fare del bene e allo stesso tempo aiutare l’economia nell’ora del bisogno.

Oppure questo piano è condizionato da cautele di carattere politico? Servizi giornalistici a dicembre  indicavano che i collaboratori di Obama sarebbero preoccupati di mantenere l’importo finale[6] della operazione al di sotto della soglia politicamente sensibile di mille miliardi di dollari.  C’è anche l’impressione che l’inclusione nel piano di ampi tagli delle tasse sulle imprese, che aumenta il suo costo ma produrrà poche conseguenze sull’economia, sia un tentativo di ottenere voti repubblicani nel Congresso.

Qualsiasi sia la spiegazione, il piano di Obama non sembra proprio adeguato alle esigenze della situazione economica. E’ certo che un terzo di una pagnotta è meglio di niente. Ma al momento siamo di fronte a due principali scarti: quello tra il potenziale dell’economia e il suo verosimile rendimento e quello tra la severa retorica economica di Obama e il suo piano alquanto deludente.

 

 


 

 

 

Ideas for Obama By PAUL KRUGMANPublished: January 11, 2009

Last week President-elect Barack Obama was asked to respond to critics who say that his stimulus plan won’t do enough to help the economy. Mr. Obama answered that he wants to hear ideas about “how to spend money efficiently and effectively to jump-start the economy.”

 

O.K., I’ll bite — although as I’ll explain shortly, the “jump-start” metaphor is part of the problem.

First, Mr. Obama should scrap his proposal for $150 billion in business tax cuts, which would do little to help the economy. Ideally he’d scrap the proposed $150 billion payroll tax cut as well, though I’m aware that it was a campaign promise.

 

Money not squandered on ineffective tax cuts could be used to provide further relief to Americans in distress — enhanced unemployment benefits, expanded Medicaid and more. And why not get an early start on the insurance subsidies — probably running at $100 billion or more per year — that will be essential if we’re going to achieve universal health care?

 

 

Mainly, though, Mr. Obama needs to make his plan bigger. To see why, consider a new report from his own economic team.

On Saturday, Christina Romer, the future head of the Council of Economic Advisers, and Jared Bernstein, who will be the vice president’s chief economist, released estimates of what the Obama economic plan would accomplish. Their report is reasonable and intellectually honest, which is a welcome change from the fuzzy math of the last eight years.

 

 

But the report also makes it clear that the plan falls well short of what the economy needs.

According to Ms. Romer and Mr. Bernstein, the Obama plan would have its maximum impact in the fourth quarter of 2010. Without the plan, they project, the unemployment rate in that quarter would be a disastrous 8.8 percent. Yet even with the plan, unemployment would be 7 percent — roughly as high as it is now.

 

 

After 2010, the report says, the effects of the economic plan would rapidly fade away. The job of promoting full recovery would, however, remain undone: the unemployment rate would still be a painful 6.3 percent in the last quarter of 2011.

 

Now, economic forecasting is an inexact science, to say the least, and things could turn out better than the report predicts. But they could also turn out worse. The report itself acknowledges that “some private forecasters anticipate unemployment rates as high as 11 percent in the absence of action.” And I’m with Lawrence Summers, another member of the Obama economic team, who recently declared, “In this crisis, doing too little poses a greater threat than doing too much.” Unfortunately, that principle isn’t reflected in the current plan.

 

So how can Mr. Obama do more? By including a lot more public investment in his plan — which will be possible if he takes a longer view.

The Romer-Bernstein report acknowledges that “a dollar of infrastructure spending is more effective in creating jobs than a dollar of tax cuts.” It argues, however, that “there is a limit on how much government investment can be carried out efficiently in a short time frame.” But why does the time frame have to be short?

 

As far as I can tell, Mr. Obama’s planners have focused on investment projects that will deliver their main jobs boost over the next two years. But since unemployment is likely to remain high well beyond that two-year window, the plan should also include longer-term investment projects.

 

And bear in mind that even a project that delivers its main punch in, say, 2011 can provide significant economic support in earlier years. If Mr. Obama drops the “jump-start” metaphor, if he accepts the reality that we need a multi-year program rather than a short burst of activity, he can create a lot more jobs through government investment, even in the near term.

 

 

Still, shouldn’t Mr. Obama wait for proof that a bigger, longer-term plan is needed? No. Right now the investment portion of the Obama plan is limited by a shortage of “shovel ready” projects, projects ready to go on short notice. A lot more investment can be under way by late 2010 or 2011 if Mr. Obama gives the go-ahead now — but if he waits too long before deciding, that window of opportunity will be gone.

 

 

 

One more thing: even with the Obama plan, the Romer-Bernstein report predicts an average unemployment rate of 7.3 percent over the next three years. That’s a scary number, big enough to pose a real risk that the U.S. economy will get stuck in a Japan-type deflationary trap.

So my advice to the Obama team is to scrap the business tax cuts, and, more important, to deal with the threat of doing too little by doing more. And the way to do more is to stop talking about jump-starts and look more broadly at the possibilities for government investment.

 

Idee per Obama, di Paul Krugman

New York Times 11 gennaio 2009

 

La scorsa settimana al Presidente eletto Barack Obama è stato chiesto di rispondere alle critiche secondo le quali il suo programma di sostegno non sarà un aiuto sufficinete all’economia. Obama rispose che egli desiderava ascoltare idee relative a “come spendere soldi efficacemente e come dare una effettiva scossa[7]  all’economia”.

Ebbene, proverò a rispondere[8], sebbene, come spiegherò brevemente, la metafora della “scossa” sia una parte del problema.

In primo luogo, Obama dovrebbe metter da parte la sua proposta di 150 miliardi di dollari di sgravi fiscali alle imprese, che sarebbero di poco aiuto all’economia. L’ideale sarebbe che egli mettesse da parte anche i 150 miliardi di dollari di sgravi fiscali, sebbene mi renda conto che si tratta di una promessa elettorale.

I soldi non sprecati in inefficaci sgravi fiscali potrebbero essere utilizzati in ulteriori aiuti agli americani in condizioni di bisogno – accrescendo le indennità di disoccupazione, ampliando Medicaid[9] ed altro ancora. E perché non stabilire una più precoce soglia di avvio ai sussidi assicurativi – probabilmente impegnando[10] attorno ai 100 miliardi e più di dollari all’anno – che saranno indispensabili se abbiamo intenzione di realizzare la assistenza sanitaria universale?

Tuttavia, Obama ha principalmente la necessità di rendere più cospicuo il proprio programma. Per rendersi conto dei motivi, si consideri il recente rapporto della sua stessa squadra di economisti.

Sabato scorso, Christina Romer, che prossimamente sarà messa a capo del Consiglio dei consulenti economici, e Jared Bernstein, che sarà l’economista principale del Vicepresidente, hanno pubblicato le stime relative a ciò che il programma di Obama si propone. Il loro rapporto è ragionevole ed intellettualmente onesto, la qualcosa costituisce un mutamento apprezzabile rispetto alla confusa matematica degli ultimi otto anni.

Ma il rapporto mette anche in chiaro che il programma si colloca ben al di sotto di quanto la situazione economica richiederebbe.

Secondo la signora Romer ed il signor Bernstein il programma di Obama avrebbe il suo massimo impatto nel corso del quarto trimestre del 2010. Senza il programma, essi prevedono che il tasso di disoccupazione in quel trimestre sarebbe attorno ad un disastroso 8 per cento. Tuttavia anche con il programma, la disoccupazione sarebbe circa al 7 per cento, grosso modo elevata come adesso.

Dopo il 2010, afferma il rapporto, gli effetti del programma economico svanirebbero rapidamente. Il compito di produrre una piena ripresa resterebbe, comunque, insoddisfatto: il tasso di disoccupazione resterebbe ancora al 6,3 per cento nell’ultimo trimestre del 2011.

Ora, le previsioni economiche sono una scienza inesatta, e le cose potrebbero risultare migliori di quanto il rapporto prevede. Ma potrebbero anche risultare peggiori. Il rapporto stesso riconosce che “alcune stime di economisti indipendenti prevedono tassi di disoccupazione attorno all’11 per cento in assenza di iniziative”. Ed io sono d’accordo con Lawrence Summers, un altro membro della squadra die economisti di Obama, che ha recentemente dichiarato “In questa crisi, fare troppo poco costituisce una minaccia maggiore che fare troppo”. Sfortunatamente, questo concetto non si riflette nel programma in questione.

Dunque, come può Obama fare di più? Includendo un ivestimento pubblico assai maggiore nel suo programma, il che è possibile se egli sceglie una prospettiva più lunga nel tempo.

Il rapporto Romer-Bernstein riconosce che “un dollaro di spesa in infrastrutture è più efficace nella creazione di lavoro che un dollaro di sgravi fiscali”. Esso afferma, tuttavia, che “c’è un limite alla quantità di investimento pubblico che può essere messa in atto in modo efficace in un contesto di breve periodo”. Ma perché il contesto temporale deve essere breve?

Per quanto posso riferire, i pianificatori di Obama si sono concentrati su investimenti che svilupperanno il loro principale sostegno all’occupazione nel corso dei prossimi due anni. Ma dato che la disoccupazione è probabile che resti elevata ben oltre quella finestra di due anni, il programma dovrebbe includere anche progetti di investimento a più lungo termine.

E si tenga a mente che persino un progetto che produca il suo principale effetto, diciamo, nel 2011 può offrire un significativo sostegno economico nei primi anni. Se Obama mette da parte il suo concetto  della “scossa di avvio”, se accetta la realtà secondo la quale ha bisogno di un programma pluriennale piuttosto che di una breve fiammata di efficacia, egli può dar vita a un bel po’ di posti di lavoro in più attraverso la spesa pubblica, anche nel breve termine.

Inoltre, non dovrebbe Obama nel frattempo attendere[11]  che divenga necessario un piano più grande a più lungo termine? No. In questo momento la quota di investimenti del piano di Obama è limitata dalla scarsità dei progetti “immediatamente cantierabili”, progetti pronti ad essere avviati con breve preavviso. Un po’ di investimenti in più potrebbero essere in corsa per l’ultima parte del 2010 ed il 2011 se Obama desse oggi il via libera; ma se egli aspetta troppo a lungo prima di decidere, quella finestra di opportunità si chiuderà.

Un ultimo aspetto: persino con il programma di Obama, il rapporto Romer-Bernstein prevede un tasso di disoccupazione medio del 7,3 per cento per i prossimi tre anni. E’ una cifra allarmante, abbastanza grande da proporre il rischio reale che l’economia degli Stati Uniti alla fine si impantani in un trappola deflazionistica di tipo giapponese.

Dunque il mio consiglio è che la squadra di Obama butti via i tagli fiscali alle imprese e, ancora più importante, che faccia i conti con il pericolo del fare troppo poco facendo di più. Ed il modo di fare di più è smetterla di parlare di “scosse di avvio” e guardare più complessivamente alle possibilità dell’investimento pubblico.

 

 


 

Forgive and Forget? By PAUL KRUGMANPublished: January 15, 2009

Last Sunday President-elect Barack Obama was asked whether he would seek an investigation of possible crimes by the Bush administration. “I don’t believe that anybody is above the law,” he responded, but “we need to look forward as opposed to looking backwards.”

I’m sorry, but if we don’t have an inquest into what happened during the Bush years — and nearly everyone has taken Mr. Obama’s remarks to mean that we won’t — this means that those who hold power are indeed above the law because they don’t face any consequences if they abuse their power.

 

 

Let’s be clear what we’re talking about here. It’s not just torture and illegal wiretapping, whose perpetrators claim, however implausibly, that they were patriots acting to defend the nation’s security. The fact is that the Bush administration’s abuses extended from environmental policy to voting rights. And most of the abuses involved using the power of government to reward political friends and punish political enemies.

 

At the Justice Department, for example, political appointees illegally reserved nonpolitical positions for “right-thinking Americans” — their term, not mine — and there’s strong evidence that officials used their positions both to undermine the protection of minority voting rights and to persecute Democratic politicians.

 

The hiring process at Justice echoed the hiring process during the occupation of Iraq — an occupation whose success was supposedly essential to national security — in which applicants were judged by their politics, their personal loyalty to President Bush and, according to some reports, by their views on Roe v. Wade, rather than by their ability to do the job.

 

 

 

Speaking of Iraq, let’s also not forget that country’s failed reconstruction: the Bush administration handed billions of dollars in no-bid contracts to politically connected companies, companies that then failed to deliver. And why should they have bothered to do their jobs? Any government official who tried to enforce accountability on, say, Halliburton quickly found his or her career derailed.

 

There’s much, much more. By my count, at least six important government agencies experienced major scandals over the past eight years — in most cases, scandals that were never properly investigated. And then there was the biggest scandal of all: Does anyone seriously doubt that the Bush administration deliberately misled the nation into invading Iraq?

 

Why, then, shouldn’t we have an official inquiry into abuses during the Bush years?

 

One answer you hear is that pursuing the truth would be divisive, that it would exacerbate partisanship. But if partisanship is so terrible, shouldn’t there be some penalty for the Bush administration’s politicization of every aspect of government?

 

Alternatively, we’re told that we don’t have to dwell on past abuses, because we won’t repeat them. But no important figure in the Bush administration, or among that administration’s political allies, has expressed remorse for breaking the law. What makes anyone think that they or their political heirs won’t do it all over again, given the chance?

 

In fact, we’ve already seen this movie. During the Reagan years, the Iran-contra conspirators violated the Constitution in the name of national security. But the first President Bush pardoned the major malefactors, and when the White House finally changed hands the political and media establishment gave Bill Clinton the same advice it’s giving Mr. Obama: let sleeping scandals lie. Sure enough, the second Bush administration picked up right where the Iran-contra conspirators left off — which isn’t too surprising when you bear in mind that Mr. Bush actually hired some of those conspirators.

 

Now, it’s true that a serious investigation of Bush-era abuses would make Washington an uncomfortable place, both for those who abused power and those who acted as their enablers or apologists. And these people have a lot of friends. But the price of protecting their comfort would be high: If we whitewash the abuses of the past eight years, we’ll guarantee that they will happen again.

 

Meanwhile, about Mr. Obama: while it’s probably in his short-term political interests to forgive and forget, next week he’s going to swear to “preserve, protect, and defend the Constitution of the United States.” That’s not a conditional oath to be honored only when it’s convenient.

 

And to protect and defend the Constitution, a president must do more than obey the Constitution himself; he must hold those who violate the Constitution accountable. So Mr. Obama should reconsider his apparent decision to let the previous administration get away with crime. Consequences aside, that’s not a decision he has the right to make.

 

Perdonare e dimenticare? di Paul Krugman

New York Times 15 gennaio 2009

 

Domenica scorsa è stato chiesto al Presidente eletto Barack Obama se egli intenda dar vita ad una indagine sui possibili reati della amministrazione Bush. “Io credo che nessuno sia spra la legge”, ha risposto, ma “abbiamo bisogno di guardare in avanti piuttosto che di guardarci alle spalle”.

Sono spiacente, ma se non si fa una inchiesta a proposito di cosa accadde durante gli anni di Bush, e praticamente tutti hanno capito dalle sottolineature di Obama che egli non intende farla, questo significa che coloro che hanno in mano il potere sono invece al di sopra della legge, giacché non hanno da fare i conti con alcuna conseguenza una volta che abusano del loro potere.

Cerchiamo di dire con chiarezza di cosa stiamo parlando. Non si tratta soltanto della tortura e delle intercettazioni telefoniche illegali, per le quali gli autori pretendono, senza alcuna plausibilità, di essersi comportati come patrioti che operavano per difendere la sicurezza della nazione. Il fatto è che gli abusi della amministrazione Bush si estendevano dalla politica ambientale ai diritti elettorali. E una gran parte degli abusi riguardava l’utilizzo del potere statale per gratificare gli amici politici e punire i nemici.

Presso il Dipartimento della Giustizia, ad esempio, coloro che avevano incarichi politici riservavano posti di natura non elettiva ad “Americani di orientamento di destra” – il termine è loro, non mio – e c’è la prova indiscutibile che dirigenti abbiano utilizzato le loro posizioni per scalzare le garanzie dei diritti di voto delle minorenze e per perseguitare politci Democratici.

I meccanismi di assunzione al Dipartimento della Giustizia hanno replicato i meccanismi di assunzione durante l’occupazione dell’Iraq – una occupazione il cui successo era stato presentato come essenziale per la sicurezza nazionale –  nei quali i candidati venivano giudicati sulla base dei loro orientamenti politici, della loro personale fedeltà al Presidente Bush e, secondo alcuni resoconti, sulla base dei loro punti di vista sulla sentenza della Corte Suprema ‘Roe versus Wade’[12], piuttosto che sulla base della loro adeguatezza all’incarico.

Parlando dell’Iraq, non si può dimenticare che quel paese è fallito alla prova della ricostruzione: la amministrazione Bush ha versato miliardi di dollari in contratti senza gara[13] ad imprese politicamente collegate al governo, imprese che hanno poi fallito nella esecuzione. Ogni dirigente dello Stato, uomo o donna, che provò a stabilire cotrolli contabili su, ad esempio, la Halliburton si ritrovò rapidamente con la carriera compromessa.

Ma c’è molto, molto di più. Per quanto mi consta, almeno sei importanti agenzie statali hanno avuto esperienza di importanti scandali nel corso degli ultimo otto anni – nella gran parte dei casi, scandali che non erano stati oggetto di indagini corrette. E c’è stato poi lo scandalo più grande di tutti: c’è qualcuno che può seriamente mettere in dubbio che la amministrazione Bush abbia deliberatamente indotto il nostro paese alla invasione dell’Iraq con l’inganno?

Perché, dunque, non ci dovrebbe essere un’inchiesta ufficiale sugli abusi durante la amministrazione Bush?

Una risposta che si sente in giro è che il perseguimento della verità provocherebbe divisioni, esacerberebbe la faziosità politica. Ma se la faziosità è così terribile, non dovrebbe esserci una qualche sanzione nei confronti della politicizzazione da parte della amministrazione Bush di ogni settore dello Stato?

In alternativa, ci viene detto che non dobbiamo soffermarci sugli abusi del passato, dato che non li ripeteremo. Ma nessuna personalità importante della amministrazione Bush, o tra gli alleati politici di quella amministrazione, ha espresso rimorso per aver violato la legge. Cosa fa ritenere che costoro, o loro eredi politici, non faranno le stesse cose in un’altra occasione, appena ne avranno la possibilità?

In effetti, è una sequenza che abbiamo già vista. Durante gli anni di Reagan, i cospiratori del caso Iran-Contra violarono la Costituzione in nome della sicurezza nazionale. Ma il primo Presidente Bush perdonò i principali malfattori, e quando alla fine la Casa Bianca cambiò di mani, gli  ambienti politici e giornalistici rivolsero a Clinton lo stesso consiglio che oggi rivolgono ad Obama: lasciamo che gli scandali restino in sonno. Difatti, la seconda amministrazione Bush ricominciò proprio dal punto in cui i cospiratori Iran-Contra l’avevano lasciata – il che non è sorprendente se si considera che il signor Bush effettivamente ingaggiò alcuni di  quei cospiratori.

Ora, è vero che una seria inchiesta sugli abusi dell’epoca di Bush farebbe di Washingotn un posto sgradevole, sia per coloro che abusarono del potere che per coloro che consentirono e difesero quegli abusi. E questi individui hanno una quantità di amici. Ma il prezzo della tutela della loro tranquillità sarebbe alto: se noi sottovalutiamo gli abusi degli ultimi otto anni, abbiamo la certezza che accadranno di nuovo.

Infine, a proposito di Obama: se è vero che perdonare e dimenticare sarebbe nel suo interesse politico a breve termine,  la prossima settimana egli presterà giuramento con la formula del “prservare, proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti”. Non si tratta di un giuramento condizionato, che possa essere onorato solo quando c’è convenienza.

E per proteggere e difendere la Costituzione, un Presidente deve fare di più che non obbedire egli stesso alla Costituzione: egli deve chiamare a rendere conto quelli che hanno violato la Costituzione. Per questo Obama dovrebbe riconsiderare la decisione che gli viene attribuita di consentire alla precedente amministrazione di farla franca con le violazioni della legge. A parte le conseguenze, non si tratta di una decisione che egli ha il diritto di assumere.

 

 

 

 

    

 


 

Wall Street Voodoo By PAUL KRUGMANPublished: January 18, 2009

Old-fashioned voodoo economics — the belief in tax-cut magic — has been banished from civilized discourse. The supply-side cult has shrunk to the point that it contains only cranks, charlatans, and Republicans.

 

Skip to next paragraphBut recent news reports suggest that many influential people, including Federal Reserve officials, bank regulators, and, possibly, members of the incoming Obama administration, have become devotees of a new kind of voodoo: the belief that by performing elaborate financial rituals we can keep dead banks walking.

 

[14]To explain the issue, let me describe the position of a hypothetical bank that I’ll call Gothamgroup, or Gotham for short.

 

On paper, Gotham has $2 trillion in assets and $1.9 trillion in liabilities, so that it has a net worth of $100 billion. But a substantial fraction of its assets — say, $400 billion worth — are mortgage-backed securities and other toxic waste. If the bank tried to sell these assets, it would get no more than $200 billion.

So Gotham is a zombie bank: it’s still operating, but the reality is that it has already gone bust. Its stock isn’t totally worthless — it still has a market capitalization of $20 billion — but that value is entirely based on the hope that shareholders will be rescued by a government bailout.

 

Why would the government bail Gotham out? Because it plays a central role in the financial system. When Lehman was allowed to fail, financial markets froze, and for a few weeks the world economy teetered on the edge of collapse. Since we don’t want a repeat performance, Gotham has to be kept functioning. But how can that be done?

 

 

Well, the government could simply give Gotham a couple of hundred billion dollars, enough to make it solvent again. But this would, of course, be a huge gift to Gotham’s current shareholders — and it would also encourage excessive risk-taking in the future. Still, the possibility of such a gift is what’s now supporting Gotham’s stock price.

 

A better approach would be to do what the government did with zombie savings and loans at the end of the 1980s: it seized the defunct banks, cleaning out the shareholders. Then it transferred their bad assets to a special institution, the Resolution Trust Corporation; paid off enough of the banks’ debts to make them solvent; and sold the fixed-up banks to new owners.

 

The current buzz suggests, however, that policy makers aren’t willing to take either of these approaches. Instead, they’re reportedly gravitating toward a compromise approach: moving toxic waste from private banks’ balance sheets to a publicly owned “bad bank” or “aggregator bank” that would resemble the Resolution Trust Corporation, but without seizing the banks first.

 

 

 

Sheila Bair, the chairwoman of the Federal Deposit Insurance Corporation, recently tried to describe how this would work: “The aggregator bank would buy the assets at fair value.” But what does “fair value” mean?

 

In my example, Gothamgroup is insolvent because the alleged $400 billion of toxic waste on its books is actually worth only $200 billion. The only way a government purchase of that toxic waste can make Gotham solvent again is if the government pays much more than private buyers are willing to offer.

 

 

Now, maybe private buyers aren’t willing to pay what toxic waste is really worth: “We don’t have really any rational pricing right now for some of these asset categories,” Ms. Bair says. But should the government be in the business of declaring that it knows better than the market what assets are worth? And is it really likely that paying “fair value,” whatever that means, would be enough to make Gotham solvent again?

 

 

What I suspect is that policy makers — possibly without realizing it — are gearing up to attempt a bait-and-switch: a policy that looks like the cleanup of the savings and loans, but in practice amounts to making huge gifts to bank shareholders at taxpayer expense, disguised as “fair value” purchases of toxic assets.

Why go through these contortions? The answer seems to be that Washington remains deathly afraid of the N-word — nationalization. The truth is that Gothamgroup and its sister institutions are already wards of the state, utterly dependent on taxpayer support; but nobody wants to recognize that fact and implement the obvious solution: an explicit, though temporary, government takeover. Hence the popularity of the new voodoo, which claims, as I said, that elaborate financial rituals can reanimate dead banks.

 

 

Unfortunately, the price of this retreat into superstition may be high. I hope I’m wrong, but I suspect that taxpayers are about to get another raw deal — and that we’re about to get another financial rescue plan that fails to do the job.

 

La magia nera di Wall Street, di Paul Krugman

New York Times 18 gennaio 2009

La vecchia moda della economia voodoo – la fede sulla magia del taglio delle tasse – è stata vanificata da ragionamenti più civili. Il culto dell’economia della domanda si è ridotto al punto da raggruppare solamente eccentrici, ciarlatani e repubblicani.

Ma recenti notizie giornalistiche suggeriscono che molta gente influente, inclusi funzionari della Federal Riserve, operatori di banca e, forse, anche componenti della subentrante amministrazione di Obama, sono diventati praticanti di un nuovo genere di magia nera, consistente nel convincimento secondo il quale attaverso complicati rituali finanziari si possano tenere in vita banche condannate a morire[15].

Per spiegare il ragionamento, consentitemi di descrivere la posizione di una ipotetica banca, che chiamerò Gothamgroup, o, in breve, Gotham.

Sulla carta, Gotham possiede 2 mila miliardi di dollari di assets e 1.900 miliardi di dollari di passività, cosicché essa ha un valore netto di 100 miliardi di dollari. Ma una parte sostanziale dei suoi assets – diciamo per un valore di 400 miliardi – sono titoli garantiti da mutui ed altri rifiuti tossici. Se la banca cercasse di vendere questi assets, non incasserebbe più di 200 miliardi.

In questo modo Gotham è una banca zombie: essa è ancora operativa, ma la realtà è che è finita al verde. Il suo stock non è completamente privo di valore – essa ha ancora una capitalizzazione di mercato di 20 miliardi di dollari – ma quel valore è interamente basato sulla speranza che gli azionisti verranno salvati dall’intervento governativo.

Perché il governo dovrebbe salvare la Gotham? Perché essa gioca un ruolo centrale nel sistema finanziario. Quando si lasciò che Lehman fallisse, i mercati finanziari si bloccarono e per poche settimane l’economia mondiale altalenò sull’orlo del collasso.  Dal momento che non desideriamo ripetere quella esperienza, Gotham deve essere mantenuta in funzione. Ma come può essere ottenuto ciò?

Bene, il Governo potrebbe semplicemente concedere due centinaia di miliardi di dollari, abbastanza per farla diventare nuovamente solvibile. Ma questo sarebbe, ovviamente, un gran regalo per gli attuali azionisti della Gotham, e potrebbe anche incoraggiare in futuro una eccessiva disposizione al rischio. Ciononostante, la possibilità di un tale regalo è ciò che al momento supporta il prezzo di listino della Gotham.

Un migliore approccio potrebbe consistere nel ripetere ciò che il governo fece con i risparmi ed i prestiti zombie alla fine degli anni 80: esso acquistò le banche defunte facendo piazza pulita degli azionisti. In quel caso esso trasferì i cattivi assets delle banche ad una speciale istituzione, la Resolution Trust Corporation; liquidò i debiti delle banche in misura sufficiente a renderle di nuovo solvibili; e vendette le banche così sistemate a nuovi proprietari.

Secondo quanto si mormora, tuttavia, gli operatori politici non avrebbero intenzione di seguire nessuna di queste strade. Invece, essi stanno orientandosi, secondo annunci ufficiali, verso una soluzione di compromesso: trasferire i rifiuti tossici dai bilanci delle banche private ad una nuova “cattiva banca”, o “banca di aggregazione”,  di proprietà pubblica, che potrebbe assomigliare alla Resolution Trust Corporation, ma non acquistando le banche originarie.

Sheila Bair, Presidente della Federal Riserve Insurance Corporation, recentemente ha provato a descrivere come dovrebbe funzionare quel meccanismo: “La banca di aggregazione comprerebbe gli assets al loro valore ragionevole”. Ma che cosa significa “valore ragionevole”?

Nel il mio esempio, Gothamgroup è insolvente perché i 400 miliardi di scarti tossici iscritti nei suoi libri hanno attualmente un valore di soli 200 miliardi. L’unico modo nel quale l’acquisto da parte del governo di questi titoli tossici può rendere Gotham nuovamente solvibile sarebbe che il governo pagasse molto di più di quanto gli acquirenti privati siano disponibili ad offrire.

Ora, è possibile che gli acquirenti privati non siano disponibili a pagare questi titoli tossici per il loro effettivo valore: “Noi non abbiamo al momento alcun criterio razionale per stabilire il prezzo giusto per alcune di queste categorie di assets”, ha detto la Bair. Ma il governo dovrebbe prendersi la responsabilità di dichiarare di conoscere meglio del mercato quale sia il valore degli assets? Ed è davvero verosimile che pagarli al loro “valore ragionevole”, qualunque cosa ciò significhi, sia sufficiente a rendere Gotham nuovamente solvibile?

Il mio sospetto è che gli operatori politici – forse senza rendersene conto – stanno preparandosi ad una operazione cosmetica[16]. Una politica che assomiglia alla operazione di rimessa in ordine dei risparmi e dei prestiti, ma che in pratica si risolve nel fare un gran regalo agli azionisti delle banche facendo pagare il conto ai contribuenti e camuffandolo come acquisto “al valore ragionevole” degli assets tossici.

Perché passare attraverso queste contorsioni? Pare che la risposta sia che Washington è come sempre mortalmente spaventata dalla parola “N”: Nazionalizzazione. La verità è che Gothamgroup e le sue istituzioni sorelle sono già sotto la custodia dello Stato, completamente alle dipendenze del supporto dei contribuenti; ma nessuno ha voglia di riconoscere questo fatto e portarlo alla sua logica conclusione: una esplicita, per quanto temporanea, presa in carico da parte del Governo. Di qua la popolarità della nuova magia nera, con la quale si pretende, attraverso elaborati riti finanziari, di rianimare banche morte.

Sfortunatamente, il prezzo di questo ritorno alla superstizione può essere elevato. Spero di sbagliarmi, ma ho il sospetto che i contribuenti stiano per ricevere un altro trattamento ingiusto e che noi si stia per ricevere un altro piano di salvataggio economico che non può funzionare.

 

 


 

Stuck in the Muddle By PAUL KRUGMANPublished: January 22, 2009

 

Like anyone who pays attention to business and financial news, I am in a state of high economic anxiety. Like everyone of good will, I hoped that President Obama’s Inaugural Address would offer some reassurance, that it would suggest that the new administration has this thing covered.

 

 

But it was not to be. I ended Tuesday less confident about the direction of economic policy than I was in the morning.

Just to be clear, there wasn’t anything glaringly wrong with the address — although for those still hoping that Mr. Obama will lead the way to universal health care, it was disappointing that he spoke only of health care’s excessive cost, never once mentioning the plight of the uninsured and underinsured.

 

Also, one wishes that the speechwriters had come up with something more inspiring than a call for an “era of responsibility” — which, not to put too fine a point on it, was the same thing former President George W. Bush called for eight years ago.

 

But my real problem with the speech, on matters economic, was its conventionality. In response to an unprecedented economic crisis — or, more accurately, a crisis whose only real precedent is the Great Depression — Mr. Obama did what people in Washington do when they want to sound serious: he spoke, more or less in the abstract, of the need to make hard choices and stand up to special interests.

 

That’s not enough. In fact, it’s not even right.

 

Thus, in his speech Mr. Obama attributed the economic crisis in part to “our collective failure to make hard choices and prepare the nation for a new age” — but I have no idea what he meant. This is, first and foremost, a crisis brought on by a runaway financial industry. And if we failed to rein in that industry, it wasn’t because Americans “collectively” refused to make hard choices; the American public had no idea what was going on, and the people who did know what was going on mostly thought deregulation was a great idea.

 

 

Or consider this statement from Mr. Obama: “Our workers are no less productive than when this crisis began. Our minds are no less inventive, our goods and services no less needed than they were last week or last month or last year. Our capacity remains undiminished. But our time of standing pat, of protecting narrow interests and putting off unpleasant decisions — that time has surely passed.”

 

The first part of this passage was almost surely intended as a paraphrase of words that John Maynard Keynes wrote as the world was plunging into the Great Depression — and it was a great relief, after decades of knee-jerk denunciations of government, to hear a new president giving a shout-out to Keynes. “The resources of nature and men’s devices,” Keynes wrote, “are just as fertile and productive as they were. The rate of our progress towards solving the material problems of life is not less rapid. We are as capable as before of affording for everyone a high standard of life. … But today we have involved ourselves in a colossal muddle, having blundered in the control of a delicate machine, the working of which we do not understand.”

 

 

But something was lost in translation. Mr. Obama and Keynes both assert that we’re failing to make use of our economic capacity. But Keynes’s insight — that we’re in a “muddle” that needs to be fixed — somehow was replaced with standard we’re-all-at-fault, let’s-get-tough-on-ourselves boilerplate.

 

 

Remember, Herbert Hoover didn’t have a problem making unpleasant decisions: he had the courage and toughness to slash spending and raise taxes in the face of the Great Depression. Unfortunately, that just made things worse.

Still, a speech is just a speech. The members of Mr. Obama’s economic team certainly understand the extraordinary nature of the mess we’re in. So the tone of Tuesday’s address may signify nothing about the Obama administration’s future policy.

 

 

On the other hand, Mr. Obama is, as his predecessor put it, the decider. And he’s going to have to make some big decisions very soon. In particular, he’s going to have to decide how bold to be in his moves to sustain the financial system, where the outlook has deteriorated so drastically that a surprising number of economists, not all of them especially liberal, now argue that resolving the crisis will require the temporary nationalization of some major banks.

 

So is Mr. Obama ready for that? Or were the platitudes in his Inaugural Address a sign that he’ll wait for the conventional wisdom to catch up with events? If so, his administration will find itself dangerously behind the curve.

 

And that’s not a place that we want the new team to be. The economic crisis grows worse, and harder to resolve, with each passing week. If we don’t get drastic action soon, we may find ourselves stuck in the muddle for a very long time.

 

Arenarsi nella confusione, di Paul Krugman

New York Times 22 gennaio 2009

 

 

Come tutti coloro che prestano attenzione alle notizie delle imprese e della finanza, sono in uno stato di elevata ansietà economica. Come ogni persona di buona volontà, io speravo che il messaggio inaugurale del Presidente Barack Obama avrebbe offerto qualche rassicurazione, che esso avrebbe indicato che cosa la nuova amministrazione ha predisposto per questa situazione.

Ma non è avvenuto. Ho concluso il giovedì meno persuaso sulla direzione di politica economica di quanto non fossi al mattino.

Per essere del tutto chiaro, non c’era niente di manifestamente inopportuno nel messaggio, sebbene per coloro che ancora sperano che Obama traccerà il percorso per una assistenza sanitaria di tipo universale, è stato deludente che egli abbia parlato solo del costo eccessivo della assistenza sanitaria, non menzionando neanche una volta la difficile condizione di coloro che non sono assicurati o che sono sottoassicurati.

Inoltre, si sarebbe desiderato che coloro che hanno predisposto il discorso se ne venissero fuori con qualcosa di maggiormente ispirato che non un appello ad “un’epoca di responsabilità”, che, pur non volendo eccessivamente sottilizzare, era lo stesso argomento al quale Gorge W. Bush aveva fatto riferimento otto anni fa.

Ma la mia reale perplessità in quel discorso, per quanto attiene ai fatti dell’economia, è stato il suo carattere convenzionale. In risposta ad una crisi economica senza precedenti – o, più precisamente, ad una crisi il cui unico vero precedente è stato la Grande Depressione – Obama ha fatto quello che si fa a Washington quando si vuole sembrare giudiziosi: ha parlato, più o meno astrattamente, del bisogno di fare scelte dure e di farla finita con gli interessi particolari.

Questo non è abbastanza. Nei fatti, questo non è nemmeno giusto.

In questo modo, nel suo discorso Obama ha attribuito in parte la crisi economica al “nostro fallimento collettivo nel fare scelte difficili e nel preparare la nazione ad una nuova epoca”; ma io non ho davvero idea di cosa egli abbia inteso dire. Questa è, in primo luogo e principalmente, una crisi causata dalla fuga del settore finanziario. E se noi abbiamo fallito nel controllare questo settore, ciò non è accaduto perché gli americani  si sono rifiutati di fare scelte dure; l’opinione pubblica americana non aveva nessuna idea di cosa stesse accadendo, e coloro i quali sapevano cosa stava accadendo in maggioranza pensavano che la deregulation fosse una grande idea.

Ora si consideri questa affermazione di Obama: “I nostri lavoratori non sono meno produttivi di quando la crisi è cominciata. Le nostre menti non sono meno inventive, i nostri beni e servizi non sono meno necessari di quanto fossero la scorsa settimana o lo scorso mese o lo scorso anno. Le nostre potenzialità non sono diminuite. Ma il tempo di stare fermi sulle nostre posizioni, o di proteggere i nostri stretti interessi e di rinviare decisioni spiacevoli – quel tempo è sicuramente passato.”

Con la prima parte di questo passaggio si è inteso quasi sicuramente parafrasare le parole che John Maynard Keynes scrisse mentre il mondo stava precipitando nella Grande Depressione – ed è stato un grande conforto, dopo decenni di insulti sguaiati da parte dei governi, ascoltare un nuovo presidente che si esprime con un richiamo a Keynes. “Le risorse della natura e i progetti degli uomini”, scrisse Keynes, “sono esattamente altrettanto fertili e produttivi di quanto fossero in precedenza. Il ritmo del nostro progresso verso la soluzione dei problemi materiali della vita non è meno rapido. Noi siamo capaci come prima di offrire ad ognuno un alto livello di esistenza … Ma oggi noi ci siamo avviluppati in una colossale confusione, essendoci mossi alla cieca nel controllo di una macchina delicata, il cui funzionamento non comprendiamo.”

Ma qualcosa è andato perso nella traduzione. Sia Obama che Keynes ritengono che abbiamo fallito nel fare uso delle nostre potenzialità economiche.   Ma l’intuizione di Keynes – per la quale siamo finiti in una “confusione” che deve essere fermata – in qualche modo è stata sostituita con la formula “è tutto sbagliato, è tutto da rifare”[17]).

Ricordiamoci: Herbert Hoover non aveva alcun problema nel prendere decisioni spiacevoli. Egli ebbe il coraggio e l’inflessibilità di tagliare le spese e di alzare le tasse in faccia alla Grande Depressione. Sfortunatamente, fece esattamente le cose peggiori.

Tuttavia, un discorso è soltanto un discorso. I membri del team economico di Obama certamente capiscono la natura straordinaria del guaio nel quale siamo finiti noi americani. Così il tono del messaggio di giovedì può non avere alcun significato per quanto concerne la politica futura della amministrazione di Obama.

D’altra parte, è a Obama che spettano le decisioni, così come fu per il suo predecessore. Ed egli tra poco dovrà prendere alcune decisioni importanti. In particolare, egli dovrà decidere con quanto coraggio fare le scelte di sostegno al sistema finanziario, dove le previsioni sono peggiorate così drasticamente che un numero sorprendente di economisti, non tutti di particolari convincimenti liberal, ora ritengono che la soluzione della crisi richiederà la temporanea nazionalizzazione di alcune delle banche maggiori.

Obama è dunque pronto per questo? Oppure le genericità del suo Messaggio Inaugurale sono state il segnale della sua intenzione di attendere, attenendosi alla convenzionale saggezza di star dietro agli eventi? Se così fosse, la sua amministrazione potrebbe trovarsi in condizioni di pericolo subito dopo la curva.

E non è questa la condizione nella quale noi vorremmo che la nuova squadra finisse. La crisi economica diventa sempre peggiore e più difficile da risolvere, con il passare delle settimane. Se non assumiamo una drastica e rapida iniziativa, potremmo ritrovarci arenati nella confusione per un tempo davvero lungo.

 

 

 


 

Bad Faith Economics By PAUL KRUGMANPublished: January 25, 2009

As the debate over President Obama’s economic stimulus plan gets under way, one thing is certain: many of the plan’s opponents aren’t arguing in good faith. Conservatives really, really don’t want to see a second New Deal, and they certainly don’t want to see government activism vindicated. So they are reaching for any stick they can find with which to beat proposals for increased government spending.

 

 

Some of these arguments are obvious cheap shots. John Boehner, the House minority leader, has already made headlines with one such shot: looking at an $825 billion plan to rebuild infrastructure, sustain essential services and more, he derided a minor provision that would expand Medicaid family-planning services — and called it a plan to “spend hundreds of millions of dollars on contraceptives.”

 

 

But the obvious cheap shots don’t pose as much danger to the Obama administration’s efforts to get a plan through as arguments and assertions that are equally fraudulent but can seem superficially plausible to those who don’t know their way around economic concepts and numbers. So as a public service, let me try to debunk some of the major antistimulus arguments that have already surfaced. Any time you hear someone reciting one of these arguments, write him or her off as a dishonest flack.

 

 

 

 

First, there’s the bogus talking point that the Obama plan will cost $275,000 per job created. Why is it bogus? Because it involves taking the cost of a plan that will extend over several years, creating millions of jobs each year, and dividing it by the jobs created in just one of those years.

 

It’s as if an opponent of the school lunch program were to take an estimate of the cost of that program over the next five years, then divide it by the number of lunches provided in just one of those years, and assert that the program was hugely wasteful, because it cost $13 per lunch. (The actual cost of a free school lunch, by the way, is $2.57.)

 

The true cost per job of the Obama plan will probably be closer to $100,000 than $275,000 — and the net cost will be as little as $60,000 once you take into account the fact that a stronger economy means higher tax receipts.

 

Next, write off anyone who asserts that it’s always better to cut taxes than to increase government spending because taxpayers, not bureaucrats, are the best judges of how to spend their money.

 

Here’s how to think about this argument: it implies that we should shut down the air traffic control system. After all, that system is paid for with fees on air tickets — and surely it would be better to let the flying public keep its money rather than hand it over to government bureaucrats. If that would mean lots of midair collisions, hey, stuff happens.

 

The point is that nobody really believes that a dollar of tax cuts is always better than a dollar of public spending. Meanwhile, it’s clear that when it comes to economic stimulus, public spending provides much more bang for the buck than tax cuts — and therefore costs less per job created (see the previous fraudulent argument) — because a large fraction of any tax cut will simply be saved.

 

This suggests that public spending rather than tax cuts should be the core of any stimulus plan. But rather than accept that implication, conservatives take refuge in a nonsensical argument against public spending in general.

Finally, ignore anyone who tries to make something of the fact that the new administration’s chief economic adviser has in the past favored monetary policy over fiscal policy as a response to recessions.

 

It’s true that the normal response to recessions is interest-rate cuts from the Fed, not government spending. And that might be the best option right now, if it were available. But it isn’t, because we’re in a situation not seen since the 1930s: the interest rates the Fed controls are already effectively at zero.

 

 

That’s why we’re talking about large-scale fiscal stimulus: it’s what’s left in the policy arsenal now that the Fed has shot its bolt. Anyone who cites old arguments against fiscal stimulus without mentioning that either doesn’t know much about the subject — and therefore has no business weighing in on the debate — or is being deliberately obtuse.

 

These are only some of the fundamentally fraudulent antistimulus arguments out there. Basically, conservatives are throwing any objection they can think of against the Obama plan, hoping that something will stick.

 

But here’s the thing: Most Americans aren’t listening. The most encouraging thing I’ve heard lately is Mr. Obama’s reported response to Republican objections to a spending-oriented economic plan: “I won.” Indeed he did — and he should disregard the huffing and puffing of those who lost.

 

Economia in malafede, di Paul Krugman

New York Times 25 gennaio 2009

 

Nel mentre il dibattito sul piano di sostegno all’economia del Presidente Barack Obama fa i primi passi, una cosa è certa: molti degli oppositori del piano non stanno ragionando in buona fede. Sicuramente non lo fanno i conservatori, i quali davvero non vogliono vedere un secondo New Deal, e certamente non vogliono stare a guardare che l’attivismo del governo risulti giustificato[18]. Così allungano la mano su ogni bastone a portata di mano, con il quale si possa picchiare sulle proposte di incremento della spesa governativa.

Alcuni di questi ragionamenti sono chiaramente congetture di poco valore. John Boehner, il leader della minoranza alla Camera, si è già guadagnato i titoli dei giornali con una di queste trovate: spulciando in un piano di 800 miliardi di dollari per la ricostruzione di infrastrutture, il sostegno ai servizi essenziali ed altro, egli ha deriso un provvedimento minore con il quale si intende potenziare i servizi di pianificazione familiare di Medicaid, e l’ha definito un piano “per spendere centinaia di miliardi di dollari di contraccettivi”.

Ma questi sarcasmi evidentemente dozzinali non costituiscono un pericolo particolarmente grande nel tentativo della amministrazione di Obama di superare la prova del piano,  quanto quegli altri ragionamenti ed asserzioni che, egualmente fraudolenti, appaiono però superficialmente plausibili a coloro i quali non riescono a rinvenirsi tra i numeri ed i concetti economici. In questo modo, alla stregua di un servizio pubblico, fatemi provare a sfatare alcuni dei principali argomenti contro il piano degli stimoli all’economia che sono già emersi. In ogni momento sentirete da qualcuno concetti del genere, prendete carta e penna e contestateli[19] come si fa nei casi di pubblicità disonesta.

In primo luogo, c’è la falsa diceria secondo la quale il piano di Obama costerà 275.000 dollari per posto di lavoro creato. Perché è falsa? Perché essa consiste nel prendere il costo di un piano che avrà efficacia per un certo numero di anni, creando milioni di posti di lavoro ogni anno, e nel dividerlo per i posti di lavoro creati in uno solo di quegli anni.

E’ come se un oppositore al programma delle mense scolastiche considerasse una stima del costo di tale programma nel corso dei prossimi cinque anni e poi la dividesse per il numero dei pasti forniti in uno solo di quegli anni, e sostenesse che quel programma è esageratamente dispendioso, risultando un costo di 13 dollari a pasto (il costo attuale di un pasto scolastico gratuito è 2,57 dollari).

Il vero costo per posto di lavoro del piano di Obama sarà probabilmente più vicino ai 100.000 che non a 275.000 dollari – e il costo netto sarà della dimensione modesta di 60.000 dollari, una volta messo in conto il fatto che una economia più forte significa entrate fiscali più elevate.

In secondo luogo, prendete carta e penna contro chiunque asserisca che è sempre meglio tagliare le tasse piuttosto che incrementare la spesa pubblica, giacché i contribuenti, non i burocrati, sono i migliori giudici su come spendere il loro denaro.

Ecco cosa pensare di questo argomento: esso implica che noi dovremmo abbattere il sistema di controllo del traffico aereo. Dopo tutto, quel sistema è pagato da quote dei biglietti degli aerei – e sicuramente sarebbe meglio lasciare il denaro nella tasche della gente che vola, piuttosto che rimetterlo ai burocrati del governo. Se ciò dovesse comportare un mucchio di collisioni in mezzo all’aria, suvvia,  sono cose che succedono.

Il punto è che nessuno crede realmente che un dollaro di riduzione delle tasse sia sempre meglio di un dollaro di spesa pubblica. E’ invece chiaro che quando si ragiona di sostegno all’economia, la spesa pubblica comporta un effetto molto maggiore per l’economia che non il taglio delle tasse. Perciò è inferiore il costo per ogni posto di lavoro creato: perché una larga parte della riduzione delle tasse comunque attuata se ne andrebbe semplicemente in risparmio.

Il che suggerisce che la spesa pubblica e non il taglio delle tasse dovrebbe essere al centro di ogni piano di sostegno. Ma lungi dall’accettare questa implicazione, i conservatori si rifugiano in una insensata ostilità di carattere generale contro la spesa pubblica.

Infine, ignorate chiunque cerchi di supporre qualcosa sulla base del fatto che il nuovo capo dei consulenti economici della amministrazione ha in passato favorito politiche monetarie, più che politiche di spesa, come risposta alle recessioni[20].

E’ vero che la normale risposta alle recessioni è il taglio dei tassi di interesse da parte della Fed, e non la spesa pubblica. E quella sarebbe la migliore soluzione anche adesso, se fosse utilizzabile. Ma non lo è, perché noi siamo in una situazione che non si era più vista dal 1930; i tassi di interesse che controlla la Fed, sono già effettivamente a zero.

E’ per quella ragione che stiamo parlando di intervento pubblico su larga scala: questo è quanto è rimasto nell’arsenale della politica una volta che la Fed ha terminato le sue cartucce[21]. Chiunque citi vecchi argomenti contro l’intervento pubblico senza fare menzione dell’altro aspetto non comprende molto della questione – e dunque non ha argomenti che possono pesare nel dibattito –  oppure sta diventando irrimediabilmente ottuso.

Questi sono solo alcuni dei fondamentali argomenti di tipo fraudolento contro il sostegno pubblico di quegli ambienti. In sostanza, i conservatori stanno lanciando contro il piano di Obama ogni obiezione che passa loro per la testa, nella speranza che qualcosa tenga.

Ma qua è il punto: la maggioranza degli americani non li sta ascoltando. La cosa più incoraggiante tra tutte quelle che ho sentito di recente è la risposta attribuita ad Obama alle obiezioni repubblicane relative ad un piano economico orientato alla spesa pubblica: “Io ho vinto”. Infatti egli ha vinto, e non dovrebbe curarsi delle insolenze e dei malumori di quelli che hanno perso

 


 

Health Care Now By PAUL KRUGMANPublished: January 29, 2009

The whole world is in recession. But the United States is the only wealthy country in which the economic catastrophe will also be a health care catastrophe — in which millions of people will lose their health insurance along with their jobs, and therefore lose access to essential care.

Skip to next paragraphWhich raises a question: Why has the Obama administration been silent, at least so far, about one of President Obama’s key promises during last year’s campaign — the promise of guaranteed health care for all Americans?

 

Let’s talk about the magnitude of the looming health care disaster.

Just about all economic forecasts, including those of the Obama administration’s own economists, say that we’re in for a prolonged period of very high unemployment. And high unemployment means a sharp rise in the number of Americans without health insurance.

After the economy slumped at the beginning of this decade, five million people joined the ranks of the uninsured — and that was with the unemployment rate peaking at only 6.3 percent. This time the Obama administration says that even with its stimulus plan, unemployment will reach 8 percent, and that it will stay above 6 percent until 2012. Many independent forecasts are even more pessimistic.

 

Why, then, aren’t we hearing more about ensuring health care access?

 

Now, it’s possible that those of us who care about this issue are reading too much into the administration’s silence. But let me address three arguments that I suspect Mr. Obama is hearing against moving on health care, and explain why they’re wrong.

 

First, some people are arguing that a major expansion of health care access would just be too expensive right now, given the vast sums we’re about to spend trying to rescue the economy.

But research sponsored by the Commonwealth Fund shows that achieving universal coverage with a plan similar to Mr. Obama’s campaign proposals would add “only” about $104 billion to federal spending in 2010 — not a small sum, of course, but not large compared with, say, the tax cuts in the Obama stimulus plan.

 

 

It’s true that the cost of universal health care will be a continuing expense, reaching far into the future. But that has always been true, and Mr. Obama has always claimed that his health care plan was affordable. The temporary expenses of his stimulus plan shouldn’t change that calculation.

 

Second, some people in Mr. Obama’s circle may be arguing that health care reform isn’t a priority right now, in the face of economic crisis.

 

But helping families purchase health insurance as part of a universal coverage plan would be at least as effective a way of boosting the economy as the tax breaks that make up roughly a third of the stimulus plan — and it would have the added benefit of directly helping families get through the crisis, ending one of the major sources of Americans’ current anxiety.

 

 

Finally — and this is, I suspect, the real reason for the administration’s health care silence — there’s the political argument that this is a bad time to be pushing fundamental health care reform, because the nation’s attention is focused on the economic crisis. But if history is any guide, this argument is precisely wrong.

 

 

Don’t take my word for it. Rahm Emanuel, the White House chief of staff, has declared that “you never want a serious crisis to go to waste.” Indeed. F.D.R. was able to enact Social Security in part because the Great Depression highlighted the need for a stronger social safety net. And the current crisis presents a real opportunity to fix the gaping holes that remain in that safety net, especially with regard to health care.

 

 

And Mr. Obama really, really doesn’t want to repeat the mistakes of Bill Clinton, whose health care push failed politically partly because he moved too slowly: by the time his administration was ready to submit legislation, the economy was recovering from recession and the sense of urgency was fading.

 

One more thing. There’s a populist rage building in this country, as Americans see bankers getting huge bailouts while ordinary citizens suffer.

 

I agree with administration officials who argue that these financial bailouts are necessary (though I have problems with the specifics). But I also agree with Barney Frank, the chairman of the House Financial Services Committee, who argues that — as a matter of political necessity as well as social justice — aid to bankers has to be linked to a strengthening of the social safety net, so that Americans can see that the government is ready to help everyone, not just the rich and powerful.

 

 

The bottom line, then, is that this is no time to let campaign promises of guaranteed health care be quietly forgotten. It is, instead, a time to put the push for universal care front and center. Health care now!

 

Assistenza sanitaria subito, di Paul Krugman

New York Times 29 gennaio 2009

 

Il mondo intero è in recessione. Ma gli Stati Uniti sono l’unico paese ricco nel quale la catstrofe economica sarà anche una catastrofe sanitaria, nel quale milioni di persone perderanno, assieme al loro posto di lavoro, la loro assicurazione sanitaria e di conseguenza l’accesso alla assistenza di base.

Il che pone una questione: perché la amministrazione Obama è rimasta silenziosa, almeno sinora, riguardo ad una delle promesse principali della campagna elettorale dell’anno passato: la promessa della assistenza sanitaria garantita per tutti gli americani?

Esaminiamo l’ampiezza del disastro della assistenza sanitaria che si delinea.

Quasi tutti gli scenari economici, inclusi quelli degli economisti della amministrazione Obama, dicono che siamo entrati in un lungo periodo di disoccupazione molto elevata. E l’alta disoccupazione significa una marcata crescita del numero di americani privi della assicurazione sanitaria.

Dopo che l’economia entrò in crisi all’inizio di questo decennio, cinque milioni di persone finirono nei ranghi dei non assicurati, e quello accadde con un tasso di disoccupazione che raggiunse il punto più alto soltanto al 6,3 per cento. Questa volta la amministrazione Obama afferma che, persino con il suo programma di sostegno, la disoccupazione raggiungerà l’8 per cento, e che resterà sopra il 6 per cento sino al 2012. Molte stime indipendenti sono ancora più pessimistiche.

Perché, dunque, non si sente parlare di più di come garantire l’accesso alla assistenza snaitaria?

Ora, è possibile che a quelli tra noi ai quali questo tema sta più a cuore, stiano dando troppo rilievo sl silenzio della amministrazione. Ma vorrei avanzare tre argomenti contrari ad una iniziativa sulla sanità ai quali ho il sospetto che Obama sia sensibile, e spiegare perché sono sbagliati.

Il primo, alcuni stanno sostenendo che una considerevole espansione dell’accesso alla assistenza sanitaria sarebbe troppo costosa in questo momento, considerate le grandi somme che ci accingiamo a spendere nel tentativo di salvare l’economia.

Ma ricerche sponsorizzate dal Commonwealth Fund [22]dimostrano che ottenere una copertura universale con un piano simile alle proposte elettorali di Obama aggiungerebbe “soltanto” 104 miliardi di dollari alla spesa federale del 2010; non una piccola somma, naturalmente, ma neanche grande in confronto, ad esempio, agli sgravi fiscali del programma di sostegno all’economia di Obama.

E’ vero che il costo di una assistenza sanitaria universale sarebbe una spesa continuativa, che si protrarrebbe nel futuro. Ma ciò è sempre stato vero, e Obama ha sempre sostenuto che il suo programma di assistenza sanitaria sarebbe stato sostenibile. Le spese temporanee del suo programma di sostegno non dovrebbero cambiare quei calcoli.

In secondo luogo, alcune persone tra gli stretti collaboratori di Obama potrebbero sostenere che la riforma della assistenza sanitaria non sia in questo momento una priorità, dinanzi alla crisi dell’economia.

Ma aiutare le famiglie a procurarsi una assicurazione sanitaria nell’ambito di un programma di copertura universale, sarebbe un modo per risollevare l’economia almeno altrettanto efficace delle agevolazioni fiscali che ammontano grosso modo ad un terzo del programma di sostegno, e avrebbe il beneficio aggiuntivo di aiutare le famiglie a passare attraverso la crisi, ponendo fine ad una delle maggiori fonti della attuale insicurezza degli Americani.

Infine – e questa ho il sospetto che sia la ragione principale del silenzio della amministrazione sulla assistenza sanitaria – c’è l’argomento politico secondo il quale questo non sarebbe un buon momento per portare avanti una riforma importante della assistenza sanitaria, giacché l’attenzione della nazione è concentrata sulla crisi economica. Ma, se la storia ci dice qualcosa, questo è proprio un argomento sbagliato.

A questo proposito, non basatevi sulle mie parole. Rahm Emanuel, a capo dello staff della Casa Bianca, ha dichiarato che “una crisi così grave non deve essere sprecata”. Infatti. Franklin Delano Roosvelt fu capace di promuovere la legislazione sulla Sicurezza Sociale in parte perché la Grande Depressione mise in evidenza la necessità di una rete più forte di protezione sociale. E l’attuale crisi costituisce una reale opportunità per porre rimedio ai buchi che restano aperti nelle rete di tale protezione, in particolare in riferimento alla assistenza sanitaria.

 E Obama davvero non dovrebbe voler ripetere gli errori di Bill Clinton, la cui iniziativa[23]   sulla assistenza sanitaria politicamente fallì in parte a causa del fatto che egli si mosse con troppa lentezza: nel tempo in cui la sua amministrazione allestì una proposta legislativa, l’economia si era ripresa dalla recessione e la sensazione di urgenza era svanita.

Un ultimo aspetto. C’è una rabbia populista che monta in questo paese, dal momento che gli americani si trovano dinanzi allo spettacolo delle gigantesche gratifiche ai banchieri, mentre i cittadini soffrono.

Io sono d’accordo con i dirigenti della amministrazione che ritengono che questi salvataggi finanziari siano necessari (sebbene abbia qualche problema sui modi specifici). Ma sono anche d’accordo con Barney Frank, presidente dell’ House Financial Services Committee, che ritiene che – per una considerazione sia di necessità politica che di giustizia sociale – l’aiuto ai banchieri debba essere collegato ad un rafforzamento della rete di protezione sociale, in modo che gli Americani possano rendersi conto che il governo è pronto ad aiutare chiunque, non solo i ricchi ed i potenti.

La morale, dunque, è che questi non sono tempi nei quali si possa lasciare tranquillamente nel dimenticatoio le promesse elettorali di una assistenza sanitaria garantita. Sono invece tempi nei quali all’iniziativa per la assistenza universale deve essere riconosciuto un posto avanzato e centrale. Assistenza sanitaria subito!


 

 

Bailouts for Bunglers By PAUL KRUGMANPublished: February 1, 2009

Question: what happens if you lose vast amounts of other people’s money? Answer: you get a big gift from the federal government — but the president says some very harsh things about you before forking over the cash.

Am I being unfair? I hope so. But right now that’s what seems to be happening.

Just to be clear, I’m not talking about the Obama administration’s plan to support jobs and output with a large, temporary rise in federal spending, which is very much the right thing to do. I’m talking, instead, about the administration’s plans for a banking system rescue — plans that are shaping up as a classic exercise in “lemon socialism”: taxpayers bear the cost if things go wrong, but stockholders and executives get the benefits if things go right.

 

 

When I read recent remarks on financial policy by top Obama administration officials, I feel as if I’ve entered a time warp — as if it’s still 2005, Alan Greenspan is still the Maestro, and bankers are still heroes of capitalism.

 

“We have a financial system that is run by private shareholders, managed by private institutions, and we’d like to do our best to preserve that system,” says Timothy Geithner, the Treasury secretary — as he prepares to put taxpayers on the hook for that system’s immense losses.

Meanwhile, a Washington Post report based on administration sources says that Mr. Geithner and Lawrence Summers, President Obama’s top economic adviser, “think governments make poor bank managers” — as opposed, presumably, to the private-sector geniuses who managed to lose more than a trillion dollars in the space of a few years.

 

 

And this prejudice in favor of private control, even when the government is putting up all the money, seems to be warping the administration’s response to the financial crisis.

Now, something must be done to shore up the financial system. The chaos after Lehman Brothers failed showed that letting major financial institutions collapse can be very bad for the economy’s health. And a number of major institutions are dangerously close to the edge.

 

So banks need more capital. In normal times, banks raise capital by selling stock to private investors, who receive a share in the bank’s ownership in return. You might think, then, that if banks currently can’t or won’t raise enough capital from private investors, the government should do what a private investor would: provide capital in return for partial ownership.

 

 

 

 

But bank stocks are worth so little these days — Citigroup and Bank of America have a combined market value of only $52 billion — that the ownership wouldn’t be partial: pumping in enough taxpayer money to make the banks sound would, in effect, turn them into publicly owned enterprises.

 

My response to this prospect is: so? If taxpayers are footing the bill for rescuing the banks, why shouldn’t they get ownership, at least until private buyers can be found? But the Obama administration appears to be tying itself in knots to avoid this outcome.

 

If news reports are right, the bank rescue plan will contain two main elements: government purchases of some troubled bank assets and guarantees against losses on other assets. The guarantees would represent a big gift to bank stockholders; the purchases might not, if the price was fair — but prices would, The Financial Times reports, probably be based on “valuation models” rather than market prices, suggesting that the government would be making a big gift here, too.

 

And in return for what is likely to be a huge subsidy to stockholders, taxpayers will get, well, nothing.

Will there at least be limits on executive compensation, to prevent more of the rip-offs that have enraged the public? President Obama denounced Wall Street bonuses in his latest weekly address — but according to The Washington Post, “the administration is likely to refrain from imposing tougher restrictions on executive compensation at most firms receiving government aid” because “harsh limits could discourage some firms from asking for aid.” This suggests that Mr. Obama’s tough talk is just for show.

 

 

 

Meanwhile, Wall Street’s culture of excess seems to have been barely dented by the crisis. “Say I’m a banker and I created $30 million. I should get a part of that,” one banker told The New York Times. And if you’re a banker and you destroyed $30 billion? Uncle Sam to the rescue!

There’s more at stake here than fairness, although that matters too. Saving the economy is going to be very expensive: that $800 billion stimulus plan is probably just a down payment, and rescuing the financial system, even if it’s done right, is going to cost hundreds of billions more. We can’t afford to squander money giving huge windfalls to banks and their executives, merely to preserve the illusion of private ownership.

 

Salvataggi per pasticcioni, di Paul Krugman

New York Times 1 febbraio 2009

 

Domanda: cosa succede se perdete consistenti somme del denaro di altra gente? Risposta: ricevete un gran regalo dal governo federale, ma il Presidente dirà cose molto dure sul vostro conto, dopo aver messo mano alla cassa.

Sono ingiusto? Spero che sia così. Ma al momento questo è quanto pare stia accadendo.

Per evitare equivoci, non sto parlando del piano della amministrazione per sostenere l’occupazione e la produzione attraverso una ampia e temporanea crescita della spesa pubblica, che è davvero la cosa più giusta da fare. Sto parlando dei piani di salvataggio del sistema bancario da parte della amministrazione, piani che si stanno configurando come un classico esercizio di “socialismo al limone”: i contribuenti sopportano il costo se gli affari vanno male, mentre gli azionisti ed i dirigenti prendono i benefici se le cose vanno bene.

Quando ho letto le note di politica finanziaria dei massimi funzionari della amministrazione Obama, mi sono sentito come se fossi entrato in una curvatura del tempo; come se fosse ancora il 2005, Alan Greenspan fosse ancora il Maestro e i banchieri fossero ancora gli eroi del capitalismo.

“Noi abbiamo un sistema finanziario che è fatto funzionare da azionisti privati, che è governato da istituzioni private, e ci piacerebbe fare del nostro meglio per preservare questo sistema” dice Timothy Geithner, il Segretario al Tesoro, nel mentre si prepara a mettere al gancio i contribuenti per le immense perdite di quel sistema.

Nel frattempo, un resoconto del Washington Post basato su fonti governative ci dice che Geithner e Lawrence Summers, il massimo consulente economico del Presidente Obama, “sono del parere che gli stati rendano mediocri[24] i dirigenti di banca”, in contrapposizione, presumibilmente, ai geni del settore privato che hanno amministrato in modo da perdere più di un migliaio di miliardi di dollari nello spazio di pochi anni.

E questo pregiudizio  a favore del controllo da parte dei privati, persino nel momento in cui il governo sta dando fondo a tutta le riserva monetaria, appare come l’elemento distorcente della risposta della amministrazione alla crisi finanziaria.

Ora, qualcosa deve essere fatto per  mettere al riparo il sistema finanziario. Il caos successivo al fallimento di Lehman Brothers ha dimostrato che lasciare andare al collasso le maggiori istituzioni finanziarie ha pessime conseguenze sulla salute dell’economia. E un certo numero di grandi istituzioni sono pericolosamente vicine al punto limite.

Dunque, le banche hanno bisogno di maggiori capitali. In tempi normali, le banche accrescono i capitali vendendo azioni agli investitori privati, i quali ricevono in cambio una partecipazione nella proprietà delle banche. E’ possibile pensare, dunque, che se al momento le banche non vogliono o non possono far crescere a sufficienza il capitale sul lato degli investitori privati, il governo dovrebbe comportarsi nello stesso modo in cui un investitore privato si comporterebbe: mettere a disposizione capitale in cambio di una partecipazione parziale alla proprietà.

Ma gli stocks delle banche sono stimati così scarsamente in questi giorni – Citigroup e Bank of America hanno un valore congiunto di mercato di soli 52 miliardi di dollari – che la proprietà non sarebbe in partecipazione: immettere sufficiente denaro dei contribuenti per risanare le banche equivarrebbe, in effetti, a trasformarle in imprese di proprietà pubblica.

La mia risposta a questa prospettiva è: dov’è il problema? Se i contribuenti stanno pagando il conto per il salvataggio delle banche, perché non dovrebbero diventare proprietari, almeno finché non si trovano compratori privati? Ma la amministrazione Obama sembra che stia convolando a giuste nozze[25],  pur di evitare questa via d’uscita.

Se le notizie sui giornali sono esatte, il piano di salvataggio delle banche conterrà due principali elementi: l’acquisto statale di una quota degli assets problematici delle banche  e la garanzia contro le perdite su altri assets. La garanzia rappresenterebbe un gran regalo agli azionisti delle banche; l’acquisto potrebbe non esserlo, se il prezzo fosse onesto – ma i prezzi, secondo The Financial Times, probabilmente sarebbero basati su “modelli di valutazione” piuttosto che sui valori di mercato, il che suggerisce che il governo farebbe un gran regalo, anche in questo caso.

E in cambio di quello che assomiglia ad un enorme sussidio agli azionisti, i contribuenti non avrebbero proprio niente.

Ci saranno per lo meno dei limiti ai compensi dei dirigenti, in modo da impedire gran parte di quelle vere e proprie rapine che hanno esasperato l’opinione pubblica? Obama ha denunciato i bonus di Wall Street nel corso del suo ultimo messaggio settimanale, ma secondo il Washington Post “la amministrazione è probabile che si astenga dall’imporre dure restrizioni ai compensi dei dirigenti di quella gran parte di società che riceveranno l’aiuto pubblico” perché “severe limitazioni potrebbero scoraggiare qualche impresa dal chiedere aiuti”. Dalla qual cosa si deduce che i toni duri di Obama siano soltanto una scena.

Nel frattempo, la cultura dell’eccesso di Wall Street sembra sia stata scarsamente intaccata dalla crisi. “Dico che sono un banchiere e che ho creato 30 milioni di dollari. Dovrei averne una parte.” Ha detto un banchiere al New York Times. E se tu sei un banchiere ed hai distrutto 30 miliardi di dollari? Ti salva lo Zio Sam!

C’è in ballo di più che non una sola questione di equità, per quanto conti anche quella. Salvare l’economia sta diventando molto costoso: quel piano di sostegni da 800 miliardi di dollari è probabilmente solo un pagamento di arretrati, e il salvataggio del sistema finanziario, anche se ben fatto, andrà a costare altri centinaia di miliardi. Non possiamo permetterci il lusso di buttar via soldi e distribuirli come manna dal cielo alle banche ed ai loro dirigenti, solo per conservare l’illusione della proprietà privata.

 


 

On the Edge By PAUL KRUGMANPublished: February 5, 2009

A not-so-funny thing happened on the way to economic recovery. Over the last two weeks, what should have been a deadly serious debate about how to save an economy in desperate straits turned, instead, into hackneyed political theater, with Republicans spouting all the old clichés about wasteful government spending and the wonders of tax cuts.

 

 

Skip to next paragraphIt’s as if the dismal economic failure of the last eight years never happened — yet Democrats have, incredibly, been on the defensive. Even if a major stimulus bill does pass the Senate, there’s a real risk that important parts of the original plan, especially aid to state and local governments, will have been emasculated.

 

Somehow, Washington has lost any sense of what’s at stake — of the reality that we may well be falling into an economic abyss, and that if we do, it will be very hard to get out again.

It’s hard to exaggerate how much economic trouble we’re in. The crisis began with housing, but the implosion of the Bush-era housing bubble has set economic dominoes falling not just in the United States, but around the world.

 

Consumers, their wealth decimated and their optimism shattered by collapsing home prices and a sliding stock market, have cut back their spending and sharply increased their saving — a good thing in the long run, but a huge blow to the economy right now. Developers of commercial real estate, watching rents fall and financing costs soar, are slashing their investment plans. Businesses are canceling plans to expand capacity, since they aren’t selling enough to use the capacity they have. And exports, which were one of the U.S. economy’s few areas of strength over the past couple of years, are now plunging as the financial crisis hits our trading partners.

 

 

 

 

Meanwhile, our main line of defense against recessions — the Federal Reserve’s usual ability to support the economy by cutting interest rates — has already been overrun. The Fed has cut the rates it controls basically to zero, yet the economy is still in free fall.

 

It’s no wonder, then, that most economic forecasts warn that in the absence of government action we’re headed for a deep, prolonged slump. Some private analysts predict double-digit unemployment. The Congressional Budget Office is slightly more sanguine, but its director, nonetheless, recently warned that “absent a change in fiscal policy … the shortfall in the nation’s output relative to potential levels will be the largest — in duration and depth — since the Depression of the 1930s.”

 

 

Worst of all is the possibility that the economy will, as it did in the ’30s, end up stuck in a prolonged deflationary trap.

 

We’re already closer to outright deflation than at any point since the Great Depression. In particular, the private sector is experiencing widespread wage cuts for the first time since the 1930s, and there will be much more of that if the economy continues to weaken.

As the great American economist Irving Fisher pointed out almost 80 years ago, deflation, once started, tends to feed on itself. As dollar incomes fall in the face of a depressed economy, the burden of debt becomes harder to bear, while the expectation of further price declines discourages investment spending. These effects of deflation depress the economy further, which leads to more deflation, and so on.

And deflationary traps can go on for a long time. Japan experienced a “lost decade” of deflation and stagnation in the 1990s — and the only thing that let Japan escape from its trap was a global boom that boosted the nation’s exports. Who will rescue America from a similar trap now that the whole world is slumping at the same time?

 

 

Would the Obama economic plan, if enacted, ensure that America won’t have its own lost decade? Not necessarily: a number of economists, myself included, think the plan falls short and should be substantially bigger. But the Obama plan would certainly improve our odds. And that’s why the efforts of Republicans to make the plan smaller and less effective — to turn it into little more than another round of Bush-style tax cuts — are so destructive.

 

 

So what should Mr. Obama do? Count me among those who think that the president made a big mistake in his initial approach, that his attempts to transcend partisanship ended up empowering politicians who take their marching orders from Rush Limbaugh. What matters now, however, is what he does next.

 

It’s time for Mr. Obama to go on the offensive. Above all, he must not shy away from pointing out that those who stand in the way of his plan, in the name of a discredited economic philosophy, are putting the nation’s future at risk. The American economy is on the edge of catastrophe, and much of the Republican Party is trying to push it over that edge.

 

Sul ciglio, di Paul Krugman

New York Times 5 febbraio 2009

 

E’ accaduta una cosa poco divertente sul percorso di una ripresa dell’economia. Nel corso delle ultime due settimane avrebbe dovuto aver luogo un dibattito terribilmente serio su come salvare un’economia che è finita in condizioni disperate, anziché trovarci, nel teatrino banale della politica,  dinnanzi ai Repubblicani che sciorinano tutti i vecchi clichés sullo spreco della spesa pubblica e sulle meraviglie degli sgravi fiscali.

E’ come se il deprimente fallimento economico degli ultimi otto anni non fosse mai avvenuto: malgrado tutto, i Democratici si sono ritrovati sulla difensiva. Anche se una importante legge di sostegno all’economia verrà approvata dal Senato, c’è il rischio reale che parti del programma originario, in particolare l’aiuto ai governi degli Stati e delle comunità locali, venga tagliato fuori[26].

In qualche modo, Washington ha perso del tutto la percezione di quale sia la posta in gioco: la realtà per la quale è del tutto possibile che si precipiti in un abisso economico, e laddove accada, il fatto che sarà molto difficile venirne a capo.

E’ difficile rischiare di esagerare la vastità del guaio nel quale siamo finiti. La crisi è cominciata nel settore immobiliare, ma l’implosione della bolla immobiliare dell’epoca di Bush ha provocato un effetto domino non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo.

I consumatori, con le ricchezze decimate e l’ottimismo in frantumi per effetto del collasso dei prezzi immobiliari e della scivolata del mercato azionario, hanno ridotto le loro spese e bruscamente incrementato i risparmi: una buona cosa nel lungo periodo, ma un colpo potente all’economia nelle condizioni attuali. Gli imprenditori del mercato immobiliare, dinanzi alla possibilità che gli affitti diminuiscano e che i costi finanziari salgano alle stelle, hanno ridotto drasticamente i loro programmi di investimento. Le imprese stanno cancellando i programmi di espansione produttiva, dato che non vendono in proporzione alla potenzialità produttiva che già hanno. E le esportazioni, che erano una delle poche aree di forza dell’economia americana nell’ultimo biennio, stanno sul momento sprofondando in conseguenza della crisi finanziaria che colpisce i nostri parner commerciali.

Nel frattempo, la nostra principale linea di difesa contro le recessioni – la possibilità che normalmente ha la Federal Reserve di sostenere l’economia attraverso i tagli ai tassi di interesse – è già stata oltrepassata. La Fed ha tagliato i tassi sotto il suo controllo praticamente a zero, e tuttavia l’economia è ancora in caduta libera.

Non c’è da meravigliarsi, dunque, che gran parte delle previsioni economiche mettano in guardia sul fatto che, in assenza di una iniziativa del governo, noi saremmo trascinati i una recessione profonda e duratura. Alcuni analisti privati prevedono una disoccupazione a due cifre. Il Congressional Budget Office è leggermente più ottimista[27], ma il suo direttore, tuttavia, a messo in guardia sul fatto che “in mancanza di un cambiamento nella politica finanziaria … la caduta del prodotto nazionale, in relazione ai suoi livelli potenziali, per durata e profondità, sarà la più grave dalla Depressione degli anni ‘30”.

La cosa peggiore di tutte è la possibilità che l’economia, come fece negli anni ’30, finisca con l’arenarsi in una duratura trappola deflazionistica.

Noi siamo già più vicini ad una aperta deflazione più che in qualsiasi altro momento dall’epoca della Grande Depressione. In particolare, il settore privato sta conoscendo tagli salariali generalizzati per la prima volta dagli anni ’30, e accadrà ben altro se l’economia continuerà ad indebolirsi.

Come il grande economista americano Irving Fisher sottolineò quasi 80 anni orsono, la deflazione, una volta partita, tende ad autoalimentarsi. Quando i redditi in dollari cadono dinanzi ad un’economia depressa, il peso del debito diventa più difficile da sostenere, mentre l’aspettativa di ulteriori abbassamenti dei prezzi scoraggia la spesa in investimenti. Questi effetti della deflazione deprimono ulteriormente l’economia, il che comporta maggiore deflazione, e così via.

E la trappola deflazionistica può procedere per un periodo prolungato. Negli anni ’90 il Giappone ha fatto l’esperienza di un “decennio perduto” di deflazione e di stagnazione, è l’unica circostanza che ha consentito al Giappone di venir fuori da una trappola del genere  è stato il boom globale che ha sollevato le esportazioni del paese. Chi salverà l’America da una simile trappola, ora che il mondo intero sta cadendo in contemporanea?

Il piano di Obama, se fosse approvato, consentirebbe all’America di evitare un proprio ‘decennio perduto’? Non necessariamente: un certo numero di economisti, incluso il sottoscritto, pensano che quel piano sia insufficiente e che dovrebbe essere sostanzialmente più grande. Ma il piano di Obama di certo aumenterebbe le nostre possibilità. E questo è il motivo per il quale gli sforzi dei Repubblicani per far diventare quel piano più modesto e meno efficace – per trasformarlo in poco di più di una riedizione di sgravi fiscali sullo stile di Bush – sono così distruttivi.

Dunque, cosa dovrebbe fare Obama? Io sono tra coloro che pensano che il Presidente abbia fatto un grande errore nel suo approccio iniziale, che i suoi tentativi di andare oltre la faziosità degli schieramenti finiranno col rafforzare quegli uomini politici che prendono gli ordini di scuderia[28] da Rush Limbaugh. Tuttavia quello che conta, adesso, è cosa sarà capace di fare prossimamente.

E’ tempo che Obama passi all’offensiva. Soprattutto, egli non deve mancare di sottolineare[29] che coloro che si oppongono al suo programma, in nome di una filosofia economica screditata, stanno mettendo a rischio il futuro della nazione. L’economia americana è sull’orlo di una catastrofe, e la parte prevalente del Partito Repubblicano sta cercando di spingerla oltre quel limite.

 


 

The Destructive Center By PAUL KRUGMANPublished: February 8, 2009

What do you call someone who eliminates hundreds of thousands of American jobs, deprives millions of adequate health care and nutrition, undermines schools, but offers a $15,000 bonus to affluent people who flip their houses?

 

Skip to next paragraphA proud centrist. For that is what the senators who ended up calling the tune on the stimulus bill just accomplished.

 

Even if the original Obama plan — around $800 billion in stimulus, with a substantial fraction of that total given over to ineffective tax cuts — had been enacted, it wouldn’t have been enough to fill the looming hole in the U.S. economy, which the Congressional Budget Office estimates will amount to $2.9 trillion over the next three years.

 

Yet the centrists did their best to make the plan weaker and worse.

One of the best features of the original plan was aid to cash-strapped state governments, which would have provided a quick boost to the economy while preserving essential services. But the centrists insisted on a $40 billion cut in that spending.

 

The original plan also included badly needed spending on school construction; $16 billion of that spending was cut. It included aid to the unemployed, especially help in maintaining health care — cut. Food stamps — cut. All in all, more than $80 billion was cut from the plan, with the great bulk of those cuts falling on precisely the measures that would do the most to reduce the depth and pain of this slump.

 

 

On the other hand, the centrists were apparently just fine with one of the worst provisions in the Senate bill, a tax credit for home buyers. Dean Baker of the Center for Economic Policy Research calls this the “flip your house to your brother” provision: it will cost a lot of money while doing nothing to help the economy.

 

All in all, the centrists’ insistence on comforting the comfortable while afflicting the afflicted will, if reflected in the final bill, lead to substantially lower employment and substantially more suffering.

 

But how did this happen? I blame President Obama’s belief that he can transcend the partisan divide — a belief that warped his economic strategy.

 

After all, many people expected Mr. Obama to come out with a really strong stimulus plan, reflecting both the economy’s dire straits and his own electoral mandate.

 

Instead, however, he offered a plan that was clearly both too small and too heavily reliant on tax cuts. Why? Because he wanted the plan to have broad bipartisan support, and believed that it would. Not long ago administration strategists were talking about getting 80 or more votes in the Senate.

 

Mr. Obama’s postpartisan yearnings may also explain why he didn’t do something crucially important: speak forcefully about how government spending can help support the economy. Instead, he let conservatives define the debate, waiting until late last week before finally saying what needed to be said — that increasing spending is the whole point of the plan.

 

 

And Mr. Obama got nothing in return for his bipartisan outreach. Not one Republican voted for the House version of the stimulus plan, which was, by the way, better focused than the original administration proposal.

 

In the Senate, Republicans inveighed against “pork” — although the wasteful spending they claimed to have identified (much of it was fully justified) was a trivial share of the bill’s total. And they decried the bill’s cost — even as 36 out of 41 Republican senators voted to replace the Obama plan with $3 trillion, that’s right, $3 trillion in tax cuts over 10 years.

 

 

 

So Mr. Obama was reduced to bargaining for the votes of those centrists. And the centrists, predictably, extracted a pound of flesh — not, as far as anyone can tell, based on any coherent economic argument, but simply to demonstrate their centrist mojo. They probably would have demanded that $100 billion or so be cut from anything Mr. Obama proposed; by coming in with such a low initial bid, the president guaranteed that the final deal would be much too small.

 

 

Such are the perils of negotiating with yourself.

Now, House and Senate negotiators have to reconcile their versions of the stimulus, and it’s possible that the final bill will undo the centrists’ worst. And Mr. Obama may be able to come back for a second round. But this was his best chance to get decisive action, and it fell short.

 

 

So has Mr. Obama learned from this experience? Early indications aren’t good.

 

For rather than acknowledge the failure of his political strategy and the damage to his economic strategy, the president tried to put a postpartisan happy face on the whole thing. “Democrats and Republicans came together in the Senate and responded appropriately to the urgency this moment demands,” he declared on Saturday, and “the scale and scope of this plan is right.”

 

No, they didn’t, and no, it isn’t.

 

Il Centro distruttivo, di Paul Krugman

New York Times 8 febbraio 2009

 

Come chiamereste qualcuno che toglie centinaia di migliaia di posti di lavoro agli americani, che sottrae milioni ad una assistenza sanitaria e ad una alimentazione adeguate, che porta al degrado le scuole, ma offre una gratifica di quindici mila dollari ai ricchi che cambiano[30] le loro case?

Un centrista fiero. Perché questo è quanto i senatori hanno finito col decidere[31] nella proposta di legge sul sostegno all’economia appena predisposta.

Anche se l’originale programma di Obama fosse stato approvato (circa 800 miliardi di dollari di sostegno, con una quota sostanziale di quel totale riservata ad inefficaci tagli fiscali), esso non sarebbe bastato a riempire l’esagerato buco nell’economia americana, che il Congressional Budget Office stima ammonterà a 2.900 miliardi di dollari nel corso dei prossimi tre anni.

Tuttavia, i centristi hanno fatto del loro meglio per indebolire ulteriormente  e peggiorare quel programma.

Uno degli articoli più importanti di quel programma, originariamente, era l’aiuto ai dissestati governi degli Stati, che avrebbe fornito un rapido sostegno all’economia, nel mentre avrebbe preservato servizi essenziali. Ma i centristi hanno insistito in un taglio di 40 miliardi di dollari su quelle spese.

Il programma originario prevedeva anche spese estremamente necessarie per la ricostruzione di edifici scolastici: 16 miliardi di dollari di tali spese sono stati tagliati. Esso includeva aiuti ai disoccupati, in particolare l’aiuto del mantenimento della assistenza sanitaria: tagliato. Tessere alimentari, tagliate. Alla fine, più di 80 miliardi di dollari sono stati esclusi dal programma, e la gran parte di quei tagli sono cascati in particolare sulle misure che avrebbero ottenuto il maggior risultato nella riduzione della gravità e della sofferenza di questo crollo.

Con l’altra mano, i centristi si sono comportati in apparenza con la massima benevolenza verso una delle peggiori proposte della legge del Senato, un credito di imposta per gli acquirenti di case. Dean Baker del Center for Economic Policy Research l’ha definita la disposizione del “girare la tua casa a tuo fratello”: costerà un sacco di soldi e non sarà di nessun aiuto all’economia.

Alla fine dei conti, l’insistenza dei centristi nel confortare chi è in condizioni confortevoli e nel perseguitare gli afflitti, se sarà riflessa nel testo definitivo, porterà ad una occupazione sostanzialmente più bassa ed a maggiori patimenti.

Ma come è potuto accadere? Io attribuisco la responsabilità alla convinzione del Presidente Obama di potersi collocare oltre le divisioni partitiche, una convinzione che ha distorto la sua strategia economica.

Dopo tutto, in molti si aspettavano che Obama se ne venisse fuori con un programma di sostegno realmente forte, che riflettesse sia le terribili ristrettezze dell’economia che il suo stesso mandato elettorale.

Invece, egli ha presentato un programma che è apparso, in ogni modo, sia troppo piccolo che troppo fiducioso negli sgravi fiscali. Perché? Perché voleva che il programma avesse un generale sostegno bipartisan, e pensava che l’avrebbe avuto. Non molto tempo fa gli strateghi della amministrazione parlavano di ottenere 80 voti e più al Senato.

Il desiderio struggente di superare le contrapposizioni da parte di Obama può anche spiegare perché egli non abbia fatto la cosa che sarebbe stata più importante: parlare con forza di come la spesa pubblica possa aiutare a sostenere l’economia. Invece, ha lasciato ai conservatori di circoscrivere il dibattito, aspettando sino alla recente ultima settimana prima di dire finalmente cosa sarebbe stato necessario dire, ovvero che la crescita della spesa era l’obbiettivo principale[32] del programma.

E Obama non ha ottenuto niente in cambio a questo suo esporsi in una logica bipartisan. Neanche un repubblicano ha votato per la versione della Camera del programma di sostegno, che è stata, naturalmente, più messa a fuoco della originaria proposta della amministrazione.

Al Senato, i repubblicani hanno inveito contro “il maiale”[33] – sebbene le spese superflue che essi pretendevano di aver identificato, e che erano in gran parte interamente giustificate, fossero una percentuale modesta del contenuto complessivo della proposta. Ed essi hanno fortemente disapprovato il costo della proposta, anche se 36 dei 41 senatori repubblicani hanno votato per rimpiazzare il programma di Obama con tre mila miliardi di dollari di sgravi fiscali in un decennio (tremila miliardi, proprio così).

In questo modo Obama si è ridotto a contrattare i voti di quei centristi. E i centristi, come era prevedibile, ne hanno ricavato un credito sporporzionato[34], non, per quanto se ne dica, fondato su argomenti economici di una qualche coerenza, ma semplicemente per dimostrare il loro potere magico[35] centrista. Probabilmente, essi avrebbero chiesto che cento miliardi di dollari o giù di lì venissero tagliati da qualsiasi cosa Obama avesse proposto: essendosi presentato con una offerta iniziale talmente bassa, il Presidente si è garantito un accordo finale ancora più al ribasso.

Questi sono i rischi, quando si negozia con se stessi.

A questo punto, i negoziatori di Camera e Senato debbono riconciliare le rispettive versioni del programma di sostegno, ed è possibile che il testo finale annulli il peggio che è stato imposto dai centristi. E Obama può essere nelle condizioni di rientrare in scena per una seconda volta. Ma questa era la migliore opportunità che aveva per assumere una iniziativa efficace, e l’ha mancata.

Ha, dunque, Obama imparato qualcosa da questa esperienza? Le prime indicazioni non sono buone.

Perché, piuttosto che riconoscere il fallimento della propria strategia politica, il Presidente ha cercato di dare una ottimistica sembianza di superamento delle faziosità partitiche all’intera questione[36]. “I Democratici ed i Repubblicani sono venuti assieme al Senato ed hanno dato una risposta appropriata all’urgenza imposta dal momento”, ha dichiarato sabato, aggiungendo che “la misura e lo scopo di questo programma sono giusti”.

Mentre non è andata così, né l’una cosa né l’altra.

 

 

 

 


 

Failure to Rise By PAUL KRUGMANPublished: February 12, 2009

By any normal political standards, this week’s Congressional agreement on an economic stimulus package was a great victory for President Obama. He got more or less what he asked for: almost $800 billion to rescue the economy, with most of the money allocated to spending rather than tax cuts. Break out the Champagne!

 

 

Skip to next paragraphOr maybe not. These aren’t normal times, so normal political standards don’t apply: Mr. Obama’s victory feels more than a bit like defeat. The stimulus bill looks helpful but inadequate, especially when combined with a disappointing plan for rescuing the banks. And the politics of the stimulus fight have made nonsense of Mr. Obama’s postpartisan dreams.

 

Let’s start with the politics.

One might have expected Republicans to act at least slightly chastened in these early days of the Obama administration, given both their drubbing in the last two elections and the economic debacle of the past eight years.

 

But it’s now clear that the party’s commitment to deep voodoo — enforced, in part, by pressure groups that stand ready to run primary challengers against heretics — is as strong as ever. In both the House and the Senate, the vast majority of Republicans rallied behind the idea that the appropriate response to the abject failure of the Bush administration’s tax cuts is more Bush-style tax cuts.

 

 

And the rhetorical response of conservatives to the stimulus plan — which will, it’s worth bearing in mind, cost substantially less than either the Bush administration’s $2 trillion in tax cuts or the $1 trillion and counting spent in Iraq — has bordered on the deranged.

 

 

It’s “generational theft,” said Senator John McCain, just a few days after voting for tax cuts that would, over the next decade, have cost about four times as much.

It’s “destroying my daughters’ future. It is like sitting there watching my house ransacked by a gang of thugs,” said Arnold Kling of the Cato Institute.

 

And the ugliness of the political debate matters because it raises doubts about the Obama administration’s ability to come back for more if, as seems likely, the stimulus bill proves inadequate.

 

For while Mr. Obama got more or less what he asked for, he almost certainly didn’t ask for enough. We’re probably facing the worst slump since the Great Depression. The Congressional Budget Office, not usually given to hyperbole, predicts that over the next three years there will be a $2.9 trillion gap between what the economy could produce and what it will actually produce. And $800 billion, while it sounds like a lot of money, isn’t nearly enough to bridge that chasm.

 

Officially, the administration insists that the plan is adequate to the economy’s need. But few economists agree. And it’s widely believed that political considerations led to a plan that was weaker and contains more tax cuts than it should have — that Mr. Obama compromised in advance in the hope of gaining broad bipartisan support. We’ve just seen how well that worked.

 

 

 

Now, the chances that the fiscal stimulus will prove adequate would be higher if it were accompanied by an effective financial rescue, one that would unfreeze the credit markets and get money moving again. But the long-awaited announcement of the Obama administration’s plans on that front, which also came this week, landed with a dull thud.

 

 

The plan sketched out by Tim Geithner, the Treasury secretary, wasn’t bad, exactly. What it was, instead, was vague. It left everyone trying to figure out where the administration was really going. Will those public-private partnerships end up being a covert way to bail out bankers at taxpayers’ expense? Or will the required “stress test” act as a back-door route to temporary bank nationalization (the solution favored by a growing number of economists, myself included)? Nobody knows.

 

 

Over all, the effect was to kick the can down the road. And that’s not good enough. So far the Obama administration’s response to the economic crisis is all too reminiscent of Japan in the 1990s: a fiscal expansion large enough to avert the worst, but not enough to kick-start recovery; support for the banking system, but a reluctance to force banks to face up to their losses. It’s early days yet, but we’re falling behind the curve.

 

 

And I don’t know about you, but I’ve got a sick feeling in the pit of my stomach — a feeling that America just isn’t rising to the greatest economic challenge in 70 years. The best may not lack all conviction, but they seem alarmingly willing to settle for half-measures. And the worst are, as ever, full of passionate intensity, oblivious to the grotesque failure of their doctrine in practice.

 

 

There’s still time to turn this around. But Mr. Obama has to be stronger looking forward. Otherwise, the verdict on this crisis might be that no, we can’t.

 

Incapaci di crescere, di Paul Krugman

New York Times 12 febbraio 2009

 

Secondo un consueto metro di giudizio politico, l’accordo in Congresso di questa settimana sul complesso di interventi di sostegno all’economia parrebbe una grande vittoria del Presidente Obama. Egli ha ottenuto più o meno quello che aveva chiesto: quasi 800 miliardi di dollari per salvare l’economia, con la gran parte dei fondi destinati alla spesa pubblica anziché ai tagli delle tasse. Si stappi lo champagne!

O forse no. Questi non sono tempi normali, dunque non si applicano i normali standards politici: la vittoria di Obama assomiglia più a una sconfitta. La legge di sostegno appare utile ma inadeguata, specialmente in connessione con il deludente piano di salvataggio delle banche. E la politica della battaglia sul programma di sostegno ha ridotto ad un nonsenso i sogni di superamento delle faziosità dei partiti da parte del Presidente.

Copminciamo con le considerazioni politiche.

Ci si sarebbe aspettati che i Repubblicani si fossero comportati almeno in modo leggermente castigato in questi primi giorni della amministrazione Obama, in considerazione sia della loro sonora sconfitta[37]nelle ultime due elezioni, sia del disastro economico degli otto anni passati.

Sennonché appare chiaro che la adesione di quel partito ad una inquietante cultura da magia nera[38] – rafforzata, in parte, dai gruppi di pressione che si sono prontamente candidati a competere come primi sfidanti contro gli eretici – è più forte che mai. Sia alla Camera che al Senato, la grande maggioranza dei Repubblicani si è riorganizzata attorno all’idea che la risposta più appropriata all’indegno fallimento degli sgravi fiscali della amministrazione Bush, consista in una dose maggiore di sgravi fiscali dello stesso genere.

E la risposta teatrale dei conservatori al programma di sostegno dell’economia – che, è importante non dimenticarsene, costerà sostanzialmente meno sia dei 2 mila miliardi di dollari di sgravi fiscali della amministrazione Bush che dei mille miliardi di dollari e passa[39] spesi in Iraq – ha sconfinato nel pazzesco[40].

E’ “un furto generazionale”, ha affermato il Senatore John McCain, appena pochi giorni dopo aver votato un taglio alle tasse che, nel corso del prossimo decennio, avrebbe il costo di circa quattro volte tanto.

E’ come “distruggere il futuro delle mie figlie. E’ come starsene seduti a guardare ma mia casa saccheggiata da una banda di teppisti”, ha detto Arnold Kling del Cato Institute.

E quanto sia stato brutto questo dibattito politico è importante, perché fa crescere dubbi sulla capacità della amministrazione Obama di tornare a chiedere di più, una volta che, come sembra probabile, il programma di sostegno si mostrerà insufficiente.

Che Obama abbia ottenuto, per il momento, più o meno quanto avesse richiesto, è quasi certo che egli non abbia chiesto abbastanza. Noi stiamo fronteggiando, con ogni probabilità, la peggiore crisi dalla Grande Depressione. Il Congressional Budget Office, che non è solito indulgere alle esagerazioni, prevede che nei prossimi tre anni noi avremo una differenza di 2.900 miliardi di dollari tra quanto l’economia avrebbe prodotto e quanto effettivamente produrrà. E 800 miliardi di dollari, se sembrano un bel po’ di soldi, non sono nemmeno sufficienti ad attraversare questo abisso.

Ufficialmente, la amministrazione insiste che questo programma è adeguato ai bisogni dell’economia. Ma pochi economisti sono d’accordo. Ed è ampiamente ritenuto che considerazioni di natura politica abbiano indotto ad un programma che era inizialmente più debole  e che contiene più sgravi fiscali di quanto avrebbe dovuto, ovvero che Obama abbia raggiunto in anticipo un compromesso nella speranza di guadagnare un sostegno bipartisan più ampio. La qualcosa si è appena visto a quali risultati ha portato.

Ora, le possibilità che il programma di sostegno finanziario si dimostrino adeguate sarebbero maggiori se esso fosse accompagnato da un efficace salvataggio del sistema finanziario, capace di scongelare i mercati del credito e di rimettere in movimento denaro. Ma l’annuncio lungamente atteso dei programmi della amministrazione Obama su questo fronte, il quale anche si è avuto questa settimana, è atterrato con un tonfo sordo[41].

Il piano descritto sommariamente da Tim Geithner, il Segretario al Tesoro, non è cattivo, ad esser precisi. Piuttosto è vago. Lascia tutti con l’interrogativo di dove la amministrazione intenda andare a parare per davvero. Queste concertazioni pubblico-private finiranno con l’essere una copertura al salvataggio dei banchieri a spese dei contribuenti? Oppure, gli “stress tests” che sono stati disposti funzioneranno come un percorso ad una temporanea nazionalizzazione delle banche per la porta di servizio[42] (la quale soluzione sarebbe vista con favore da un numero crescente di economisti, incluso il sottoscritto)? Nessuno lo sa.

Più che altro, l’effetto sembra sia stato quello di prendere tempo[43]. E questo non basta. Fino ad adesso la risposta alla crisi economica della amministrazione Obama ricorda anche troppo quella del Giappone degli anni 90: una espansione finanziaria sufficientemente ampia da evitare il peggio, ma insufficiente a dare l’avvio alla ripresa; sostegno al sistema bancario, ma riluttanza a costringere le banche a fronteggiare le loro perdite. Siamo ancora ai primi giorni, ma rischiamo di uscire di strada alla prima curva.

E non so voi, ma io ho una sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco – una sensazione che mi dice che l’America non si sta portando all’altezza della sfida più grande in 70 anni. Può darsi che le persone migliori[44] non manchino del tutto di convinzione, ma sembrano in modo allarmante aver voglia di scegliere[45] mezze misure. E le peggiori sono, come sempre, provvide di intensa passionalità, ma in pratica immemori del fallimento grottesco delle proprie tesi.

C’è ancora tempo per cambiare le cose[46]. Ma Obama deve essere più determinato nel guardare in avanti. Altrimenti, il verdetto finale su questa crisi potrebbe diventare: no, non possiamo.

 


 

Decade at Bernie’s By PAUL KRUGMANPublished: February 15, 2009

By now everyone knows the sad tale of Bernard Madoff’s duped investors. They looked at their statements and thought they were rich. But then, one day, they discovered to their horror that their supposed wealth was a figment of someone else’s imagination.

 

Skip to next paragraphUnfortunately, that’s a pretty good metaphor for what happened to America as a whole in the first decade of the 21st century.

 

Last week the Federal Reserve released the results of the latest Survey of Consumer Finances, a triennial report on the assets and liabilities of American households. The bottom line is that there has been basically no wealth creation at all since the turn of the millennium: the net worth of the average American household, adjusted for inflation, is lower now than it was in 2001.

At one level this should come as no surprise. For most of the last decade America was a nation of borrowers and spenders, not savers. The personal savings rate dropped from 9 percent in the 1980s to 5 percent in the 1990s, to just 0.6 percent from 2005 to 2007, and household debt grew much faster than personal income. Why should we have expected our net worth to go up?

 

 

Yet until very recently Americans believed they were getting richer, because they received statements saying that their houses and stock portfolios were appreciating in value faster than their debts were increasing. And if the belief of many Americans that they could count on capital gains forever sounds naïve, it’s worth remembering just how many influential voices — notably in right-leaning publications like The Wall Street Journal, Forbes and National Review — promoted that belief, and ridiculed those who worried about low savings and high levels of debt.

 

 

Then reality struck, and it turned out that the worriers had been right all along. The surge in asset values had been an illusion — but the surge in debt had been all too real.

 

So now we’re in trouble — deeper trouble, I think, than most people realize even now. And I’m not just talking about the dwindling band of forecasters who still insist that the economy will snap back any day now.

 

For this is a broad-based mess. Everyone talks about the problems of the banks, which are indeed in even worse shape than the rest of the system. But the banks aren’t the only players with too much debt and too few assets; the same description applies to the private sector as a whole.

 

And as the great American economist Irving Fisher pointed out in the 1930s, the things people and companies do when they realize they have too much debt tend to be self-defeating when everyone tries to do them at the same time. Attempts to sell assets and pay off debt deepen the plunge in asset prices, further reducing net worth. Attempts to save more translate into a collapse of consumer demand, deepening the economic slump.

 

 

Are policy makers ready to do what it takes to break this vicious circle? In principle, yes. Government officials understand the issue: we need to “contain what is a very damaging and potentially deflationary spiral,” says Lawrence Summers, a top Obama economic adviser.

 

 

In practice, however, the policies currently on offer don’t look adequate to the challenge. The fiscal stimulus plan, while it will certainly help, probably won’t do more than mitigate the economic side effects of debt deflation. And the much-awaited announcement of the bank rescue plan left everyone confused rather than reassured.

 

There’s hope that the bank rescue will eventually turn into something stronger. It has been interesting to watch the idea of temporary bank nationalization move from the fringe to mainstream acceptance, with even Republicans like Senator Lindsey Graham conceding that it may be necessary. But even if we eventually do what’s needed on the bank front, that will solve only part of the problem.

 

If you want to see what it really takes to boot the economy out of a debt trap, look at the large public works program, otherwise known as World War II, that ended the Great Depression. The war didn’t just lead to full employment. It also led to rapidly rising incomes and substantial inflation, all with virtually no borrowing by the private sector. By 1945 the government’s debt had soared, but the ratio of private-sector debt to G.D.P. was only half what it had been in 1940. And this low level of private debt helped set the stage for the great postwar boom.

 

 

 

Since nothing like that is on the table, or seems likely to get on the table any time soon, it will take years for families and firms to work off the debt they ran up so blithely. The odds are that the legacy of our time of illusion — our decade at Bernie’s — will be a long, painful slump.

 

Dieci anni con Bernie[47], di Paul Krugman

New York Times 15 febbraio 2009

 

A questo punto, tutti conoscono la triste storia degli investitori imbrogliati da Bernard Madoff. Guardavano i loro estratti conto e pensavano di essere ricchi. Ma poi, un giorno, scoprirono con orrore che la loro presunta ricchezza era frutto della immaginazione di qualcun altro.

Sfortunatamente, questa è una metafora piuttosto calzante di quanto è successo all’America intera nel primo decennio del 21° secolo.

La scorsa settimana, la Federal Reserve ha pubblicato l’ultima rilevazione del Consumer Finances, un rapporto triennale sugli attivi ed i passivi delle famiglie americane. In conclusione, non c’è stata fondamentalmente alcuna creazione di ricchezza a partire dal nuovo millennio: il valore netto di una famiglia media americana, depurato dall’inflazione, è oggi inferiore di quanto non fosse nel 2001.

Da una parte, questo non dovrebbe sorprendere. Per gran parte dell’ultimo decennio, l’America è stata una nazione di persone che hanno preso prestiti ed hanno speso, non di risparmiatori. Il tasso di risparmio personale è sceso dal 9 per cento negli anni 80 al 5 per cento degli anni 90, sino ad appena lo 0,6 per cento dal 2005 al 2007, e il debito è cresciuto molto più velocemente del reddito personale. Perché mai avremmo dovuto attenderci che il valore netto fosse salito?

Tuttavia, sino a poco tempo fa gli Americani pensavano di star diventando più ricchi, giacché ricevevano estratti conto che dicevano che le loro case e i loro portafogli azionari stavano crescendo in valore molto più velocemente di quanto stessero crescendo i loro debiti. E se la fiducia di molti americani di poter contare in eterno su plusvalenze appare un po’ ingenua, è solo il caso di ricordare quante voci influenti – in particolare su pubblicazioni di orientamento di destra come The Wall Street Journal, Forbes e National Review – hanno sostenuto quella fiducia e ridicolizzato coloro che si preoccupavano del basso risparmio e degli alti livelli del debito.

Poi è venuto il momento della verità[48], ed è venuto fuori che coloro che si preoccupavano avevano avuto sempre ragione. La crescita dei valori attivi era stata un’illusione, ma la crescita del debito era stata sin troppo vera.

Dunque, ora siamo nei guai, guai più seri, penso, di quanto gran parte delle persone non abbia sinora compreso. E non sto solo parlando della banda degli analisti, che sta scemando, che ancora insistono che l’economia di qua a poco darà un colpo di frusta[49].

Per questa ragione siamo nella confusione più totale. Tutti parlano dei problemi delle banche, che in effetti sono in condizioni persino peggiori del resto del sistema. Ma le banche non sono gli unici attori con troppo debito e con troppi pochi assets; la stessa descrizione può essere fornita per il settore privato nella sua interezza.

Come il grande economista americano Irving Fisher sottolineò negli anni 30, le cose che le persone e le imprese fanno appena comprendono di avere troppi debiti tendono ad essere autopunitive, dal momento che tutti provano a farle contemporaneamente. I tentativi di vendere assets e di saldare il debito approfondiscono la caduta dei prezzi dei valori attivi, riducendo ulteriormente il valore netto. I tentativi di risparmiare maggiormente si trasformano in un collasso della domanda dei consumatori, aggravando la crisi dell’economia.

Sono pronti i responsabili politici a fare quello che occorre per rompere questo circolo vizioso? In linea di principio, si. I dirigenti del governo comprendono il problema: abbiamo bisogno di “contenere quella che è una spirale molto dannosa e potenzialmente deflazionistica”, afferma Lawrence Summer, alto consigliere economico di Obama.

In pratica, tuttavia, le politiche attualmente in uso non appaiono adeguate alla sfida. Il programma di sostegno all’economia, se sarà sicuramente di aiuto, probabilmente non farà altro che mitigare gli effetti economici collaterali della deflazione del debito. E il molto atteso annuncio del piano di salvataggio del sistema bancario ha lasciato tutti confusi, più che rassicurati.

Si spera che il salvataggio delle banche si trasformi in qualcosa di più efficace. E’ stato interessante constatare che l’idea di una temporanea nazionalizzazione di alcune banche è passata da un consenso di un gruppo ristretto ad una accettazione diffusa, persino con repubblicani come il Senatore Lindsey Graham che hanno ammesso che potrebbe essere necessaria. Ma anche se facessimo quanto è necessario sul fronte delle banche, si risolverebbe solo una parte del problema.

Se si vuole rendersi conto di quello che effettivamente serve per tirar fuori[50] l’economia da una trappola del debito, si pensi a quel vasto programma di opere pubbliche, che prese il nome di Seconda Guerra Mondiale, che mise un termine alla Grande Depressione. La guerra non portò solamente alla piana occupazione. Essa determinò anche un rapido innalzamento dei redditi ed una sostanziale inflazione, il tutto in pratica senza alcun contributo da parte del settore privato. Con il 1945 il debito dello stato era salito alle stelle, ma la quota del debito del settore privato sul PIL era diventata appena la metà di quello che era stata nel 1940.  E questo basso livello del debito privato contribuì a definire lo scenario per il grande boom postbellico.

Sinché niente del genere sarà messo sul tavolo, o sinché non apparirà possibile metterlo sul tavolo con una qualche rapidità, ci vorranno anni perché le famiglie e le imprese smaltiscano il debito che hanno fatto crescere rapidamente con tanta spensieratezza[51]. E’ probabile che l’eredità della nostra epoca di illusioni – il nostro decennio con Bernie – sarà una lunga e penosa depressione.

 

 


 

Who’ll Stop the Pain? By PAUL KRUGMANPublished: February 19, 2009

Earlier this week, the Federal Reserve released the minutes of the most recent meeting of its open market committee — the group that sets interest rates. Most press reports focused either on the Fed’s downgrade of the near-term outlook or on its adoption of a long-run 2 percent inflation target.

 

 

Skip to next paragraphBut my eye was caught by the following chilling passage (yes, things are so bad that the summarized musings of central bankers can keep you up at night): “All participants anticipated that unemployment would remain substantially above its longer-run sustainable rate at the end of 2011, even absent further economic shocks; a few indicated that more than five to six years would be needed for the economy to converge to a longer-run path characterized by sustainable rates of output growth and unemployment and by an appropriate rate of inflation.”

 

So people at the Fed are troubled by the same question I’ve been obsessing on lately: What’s supposed to end this slump? No doubt this, too, shall pass — but how, and when?

 

To appreciate the problem, you need to know that this isn’t your father’s recession. It’s your grandfather’s, or maybe even (as I’ll explain) your great-great-grandfather’s.

 

Your father’s recession was something like the severe downturn of 1981-1982. That recession was, in effect, a deliberate creation of the Federal Reserve, which raised interest rates to as much as 17 percent in an effort to control runaway inflation. Once the Fed decided that we had suffered enough, it relented, and the economy quickly bounced back.

 

Your grandfather’s recession, on the other hand, was something like the Great Depression, which happened in spite of the Fed’s efforts, not because of them. When a stock market bubble and a credit boom collapsed, bringing down much of the banking system with them, the Fed tried to revive the economy with low interest rates — but even rates barely above zero weren’t low enough to end a prolonged era of high unemployment.

 

Now we’re in the midst of a crisis that bears an eerie, troubling resemblance to the onset of the Depression; interest rates are already near zero, and still the economy plunges. How and when will it all end?

 

To be sure, the Obama administration is taking action to help the economy, but it’s trying to mitigate the slump, not end it. The stimulus bill, on the administration’s own estimates, will limit the rise in unemployment but fall far short of restoring full employment. The housing plan announced this week looks good in the sense that it will help many homeowners, but it won’t spur a new housing boom.

 

What, then, will actually end the slump?

Well, the Great Depression did eventually come to an end, but that was thanks to an enormous war, something we’d rather not emulate. The slump that followed Japan’s “bubble economy” also eventually ended, but only after a lost decade. And when Japan finally did start to experience some solid growth, it was thanks to an export boom, which was in turn made possible by vigorous growth in the rest of the world — not an experience anyone can repeat when the whole world is in a slump.

 

 

So will our slump go on forever? No. In fact, the seeds of eventual recovery are already being planted.

 

Consider housing starts, which have fallen to their lowest level in 50 years. That’s bad news for the near term. It means that spending on construction will fall even more. But it also means that the supply of houses is lagging behind population growth, which will eventually prompt a housing revival.

 

 

Or consider the plunge in auto sales. Again, that’s bad news for the near term. But at current sales rates, as the finance blog Calculated Risk points out, it would take about 27 years to replace the existing stock of vehicles. Most cars will be junked long before that, either because they’ve worn out or because they’ve become obsolete, so we’re building up a pent-up demand for cars.

 

 

The same story can be told for durable goods and assets throughout the economy: given time, the current slump will end itself, the way slumps did in the 19th century. As I said, this may be your great-great-grandfather’s recession. But recovery may be a long time coming.

 

 

The closest 19th-century parallel I can find to the current slump is the recession that followed the Panic of 1873. That recession did eventually end without any government intervention, but it lasted more than five years, and another prolonged recession followed just three years later.

 

You can see, then, why some Fed officials are so pessimistic.

Let’s be clear: the Obama administration’s policy initiatives will help in this difficult period — especially if the administration bites the bullet and takes over weak banks. But still I wonder: Who’ll stop the pain?

 

Chi fermerà questa pena? di Paul Krugman,

New York Times 19 febbraio 2009

 

Agli inizi di questa settimana, la Federal Reserve ha reso pubblici i verbali del più recente incontro della sua commissione “a mercato aperto”, il gruppo che fissa i tassi di interesse.  La maggior parte dei resoconti giornalistici si sono concentrati sia sul peggioramento della previsione di breve termine da parte della Fed, sia sulla sua adozione di un obbiettivo di inflazione di lungo periodo del 2 per cento.

Ma la mia attenzione è stata catturata dal seguente scoraggiante passaggio (si, le cose vanno così male che le compendiate cogitazioni dei banchieri centrali possono tenerti in piedi di notte): “Tutti i partecipanti prevedono che la disoccupazione potrebbe rimanere sostanzialmente al di sopra del suo tasso sostenibile di più lungo periodo alla fine del 2011, persino in assenza di ulteriori shocks; alcuni hanno indicato che dovrebbero essere necessari più di cinque o sei anni perché l’economia converga su un sentiero di stabilizzazione caratterizzato da tassi sostenibili di crescita del reddito e di disoccupazione, nonché da un appropriato tasso di inflazione.”

E così ci sono persone alla Fed preoccupate dalla stessa questione che da un po’ di tempo mi ossessiona: quando si può supporre che finisca questa caduta? Non c’è dubbio che anche questa congiuntura finirà; ma come e quando?

Perché possiate mettere bene a fuoco il problema, è necessario comprendere che questa non è la recessione dei vostri padri. E’ quella dei vostri nonni, o forse (come spiegherò) addirittura quella dei vostri bis-bis-nonni.

La recessione dei vostri padri fu il drastico calo dell’economia del 1981-82. Quella recessione fu, in effetti, una creatura deliberatamente voluta dalla Federal Reserve, che innalzò il tassi di interesse sino al 17 % per controllare una inflazione che era sfuggita di mano. Una volta che la Fed decise che avevamo sofferto abbastanza, essa rallentò e l’economia rapidamente balzò alle condizioni precedenti.

La recessione dei vostri nonni, invece, fu la Grande Depressione, che avvenne nonostante gli sforzi delle Federal Reserve, e non a causa di essi. Quando la bolla dei mercati azionari e quella del boom del credito collassarono, portando giù con loro gran parte del sistema bancario, la Fed provò a rivitalizzare l’economia con tassi di interesse bassi, ma persino tassi di interesse appena sopra lo zero non erano bassi abbastanza da interrompere un’era prolungata di alta disoccupazione.

Siamo ora nel mezzo di una crisi che mostra una strana, preoccupante somiglianza con gli inizi della Grande Depressione; i tassi di interesse sono quasi vicini a zero, e ancora l’economia è in caduta. Come e quando tutto ciò avrà termine?

E’ sicuro che la amministrazione Obama ha assunto una iniziativa per aiutare l’economia, ma essa sta cercando di mitigare la caduta, non di porle un termine. La legge sugli stimoli all’economia, secondo le stime della stessa amministrazione, limiterà la crescita della disoccupazione, ma non produrrà l’effetto di ristabilire la piena occupazione. Il piano casa che è stato annunciato questa settimana sembra buono, nel senso che esso aiuterà molti proprietari di abitazione, ma non spingerà ad un nuovo boom immobiliare.

Che cosa, dunque, in queste condizioni potrà interrompere la caduta?

Ebbene, alla fine la Grande depressione ebbe termine, ma ciò avvenne grazie ad un enorme conflitto bellico, ovvero qualcosa che noi non dovremmo voler imitare. La caduta che ha fatto seguito alla “bolla economica” del Giappone anch’essa alla fine ebbe termine, ma solo dopo un decennio perduto. E quando il Giappone finalmente ricominciò a mostrare segni di una qualche solida crescita, ciò avvenne grazie ad un boom delle esportazioni, che fu a sua volta reso possibile da una crescita vigorosa nel resto del mondo – una esperienza che non si può ripetere a piacimento, quando il resto del mondo è anch’esso in crisi.

Dunque, la nostra crisi economica andrà avanti per sempre? No. Nei fatti, i semi di una ripresa finale sono già stati piantati.

Si consideri la costruzione di nuove abitazioni, che è caduta al suo livello più basso in 50 anni. Questa è una cattiva notizia, nel breve termine. Essa significa che l’investimento nell’edilizia cadrà persino più in basso. Ma essa significa anche che la domanda di case è in ritardo rispetto alla crescita della popolazione, la qualcosa alla fine provocherà una ripresa del settore abitativo.

Oppure si consideri la caduta nella vendita di autoveicoli. Ancora, questa è una cattiva notizia nel breve termine. Ma ai tassi correnti di vendita, come il blog finanziario Calculated Risk ha messo in evidenza, ci vorranno circa 27 anni per rimpiazzare lo stock esistente di autoveicoli. Gran parte delle automobili dovranno essere scartate ben prima di questa data, vuoi perché ci saremo stancati noi, vuoi perché esse saranno diventate obsolete; dunque, noi stiamo accumulando una domanda repressa di autoveicoli.

La stessa storia può essere raccontata per i beni durevoli e per ogni altro oggetto dell’attivo dell’economia: a un dato tempo, la attuale caduta si fermerà da sola, nel modo in cui ogni crisi si è comportata nel 19° secolo. Come ho detto, questa potrebbe essere una recessione simile a quella del vostro bis-bis-nonno. Ma il recupero è probabile che tarderà a manifestarsi.

Il confronto più somigliante alla attuale crisi che posso individuare nel corso del 19° secolo è la recessione che seguì al Panico del 1873. Alla fine, quella recessione ebbe termine senza alcun intervento governativo, ma essa durò più di cinque anni, e fu seguita da un’altra prolungata recessione appena tre anni dopo.

Vi potete rendere conto, allora, per quale motivo i dirigenti della Fed siano così pessimisti.

Diciamolo con chiarezza: le iniziative politiche della amministrazione Obama  saranno di aiuto in questo difficile periodo, specialmente se la amministrazione affinerà i suoi strumenti e si farà carico della debolezza delle banche. Nondimeno io mi chiedo: chi fermerà questa pena? 

 


 

Banking on the Brink By PAUL KRUGMANPublished: February 22, 2009

Comrade Greenspan wants us to seize the economy’s commanding heights.

 

Skip to next paragraphO.K., not exactly. What Alan Greenspan, the former Federal Reserve chairman — and a staunch defender of free markets — actually said was, “It may be necessary to temporarily nationalize some banks in order to facilitate a swift and orderly restructuring.” I agree.

 

 

The case for nationalization rests on three observations.

First, some major banks are dangerously close to the edge — in fact, they would have failed already if investors didn’t expect the government to rescue them if necessary.

Second, banks must be rescued. The collapse of Lehman Brothers almost destroyed the world financial system, and we can’t risk letting much bigger institutions like Citigroup or Bank of America implode.

 

Third, while banks must be rescued, the U.S. government can’t afford, fiscally or politically, to bestow huge gifts on bank shareholders.

 

Let’s be concrete here. There’s a reasonable chance — not a certainty — that Citi and BofA, together, will lose hundreds of billions over the next few years. And their capital, the excess of their assets over their liabilities, isn’t remotely large enough to cover those potential losses.

Arguably, the only reason they haven’t already failed is that the government is acting as a backstop, implicitly guaranteeing their obligations. But they’re zombie banks, unable to supply the credit the economy needs.

 

 

To end their zombiehood the banks need more capital. But they can’t raise more capital from private investors. So the government has to supply the necessary funds.

But here’s the thing: the funds needed to bring these banks fully back to life would greatly exceed what they’re currently worth. Citi and BofA have a combined market value of less than $30 billion, and even that value is mainly if not entirely based on the hope that stockholders will get a piece of a government handout. And if it’s basically putting up all the money, the government should get ownership in return.

 

 

Still, isn’t nationalization un-American? No, it’s as American as apple pie.

 

Lately the Federal Deposit Insurance Corporation has been seizing banks it deems insolvent at the rate of about two a week. When the F.D.I.C. seizes a bank, it takes over the bank’s bad assets, pays off some of its debt, and resells the cleaned-up institution to private investors. And that’s exactly what advocates of temporary nationalization want to see happen, not just to the small banks the F.D.I.C. has been seizing, but to major banks that are similarly insolvent.

 

The real question is why the Obama administration keeps coming up with proposals that sound like possible alternatives to nationalization, but turn out to involve huge handouts to bank stockholders.

 

For example, the administration initially floated the idea of offering banks guarantees against losses on troubled assets. This would have been a great deal for bank stockholders, not so much for the rest of us: heads they win, tails taxpayers lose.

 

Now the administration is talking about a “public-private partnership” to buy troubled assets from the banks, with the government lending money to private investors for that purpose. This would offer investors a one-way bet: if the assets rise in price, investors win; if they fall substantially, investors walk away and leave the government holding the bag. Again, heads they win, tails we lose.

 

 

Why not just go ahead and nationalize? Remember, the longer we live with zombie banks, the harder it will be to end the economic crisis.

How would nationalization take place? All the administration has to do is take its own planned “stress test” for major banks seriously, and not hide the results when a bank fails the test, making a takeover necessary. Yes, the whole thing would have a Claude Rains feel to it, as a government that has been propping up banks for months declares itself shocked, shocked at the miserable state of their balance sheets. But that’s O.K.

 

 

And once again, long-term government ownership isn’t the goal: like the small banks seized by the F.D.I.C. every week, major banks would be returned to private control as soon as possible. The finance blog Calculated Risk suggests that instead of calling the process nationalization, we should call it “preprivatization.”

 

 

The Obama administration, says Robert Gibbs, the White House spokesman, believes “that a privately held banking system is the correct way to go.” So do we all. But what we have now isn’t private enterprise, it’s lemon socialism: banks get the upside but taxpayers bear the risks. And it’s perpetuating zombie banks, blocking economic recovery.

 

 

What we want is a system in which banks own the downs as well as the ups. And the road to that system runs through nationalization.

 

Le banche dinanzi al baratro, di Paul Krugman

New York Times 22 febbraio 2009

Il compagno Greenspan ci chiede di espropriare i posti di comando al vertice dell’economia.

Va bene, non è proprio così. Quello che Alan Greenspan, il precedente Presidente della Federal Reserve nonché incrollabile difensore del libero mercato, effettivamente ha detto è stato: “Può essere necessaria una nazionalizzazione temporanea di alcune banche allo scopo di facilitare una rapida e ordinata ristrutturazione”. Io sono d’accordo.

La tesi della nazionalizzazione si fonda su tre osservazioni.

La prima: alcune principali banche sono pericolosamente vicine al punto limite – di fatto, esse sarebbero fallite se gli investitori non avessero aspettato il loro salvataggio da parte del governo, in caso di necessità.

La seconda: le banche devono essere salvate. Il collasso di Lehman Brothers ha quasi distrutto il sistema finanziario mondiale, e non si può rischiare lasciando che istituti molto più grandi come Citigroup o Bank of America implodano.

La terza: nel mentre le banche devono essere salvate, il governo degli Stati Uniti non può permettersi, finanziariamente e politicamente, di conferire imponenti regali agli azionisti delle banche.

Cerchiamo di essere concreti. C’è una ragionevole prababilità – non una certezza – che Citi e BofA, assieme, perderanno centinaia di miliardi nel corso dei prossimi pochi anni. E i loro capitali, le eccedenze dei loro assets sulle sofferenze, non sono neanche lontanamente sufficienti a coprire quelle perdite potenziali.

Si può supporre che l’unica ragione per la quale esse non sono già fallite consista nel fatto che il governo ha agito come una barriera di protezione, implicitamente garantendo le loro obbligazioni. Ma si tratta di banche finite, incapaci di fornire il credito di cui l’economia ha bisogno.

Per interrompere la loro condizione di zombie quelle banche hanno bisogno di maggior capitale. Ma esse non sono nelle condizioni di accrescere ulteriore capitale da parte degli investitori privati. Dunque, il governo deve fornire i fondi necessari.

Ma questo è il punto: i fondi necessari per rimettere pienamente in vita queste banche eccederebbero sostanzialmente il loro valore attuale. Citi e BofA hanno un valore congiunto di mercato inferiore ai 30 miliardi di dollari, ed anche questo valore è principalmente, se non interamente, basato sulla speranza che gli azionisti otterrano una parte dell’elemosina di stato. E il governo, se in sostanza mette a disposizione il denaro occorrente, dovrebbe ottenere in cambio la partecipazione alla proprietà.

Tuttavia, non sono le nazionalizzazioni non-americane[52]? No, esse sono americane come la torta di mele.

Ultimamente la Federal Deposit Insurance Corporation ha confiscato banche che riteneva insolventi ad un ritmo di due alla settimana. Quando la F.D.I.C. confisca una banca, essa si prende a carico i cattivi assets della banca, salda una parte dei suoi debiti e rivende l’istituto ripulito agli investitori privati. E questo è esattamente quello che i sostenitori della temporanea nazionalizzazione vorrebbero veder accadere, non solo nei casi delle piccole banche che la F.D.I.C. sta confiscando, ma per le banche principali che sono similmente insolventi.

Il problema reale è perché la amministrazione Obama continua a venirsene fuori con proposte che appaiono come possibili alternative alla nazionalizzazione, ma finiscono con il comportare ampi contribuiti agli azionisti delle banche.

Ad esempio, all’inizio la amministrazione ha messo in giro l’dea di offrire alle banche garanzie contro le perdite sugli assets problematici. Questo sarebbe stato un grande affare per gli azionisti delle banche, non altrettanto per noi: testa avrebbero vinto loro, croce avremmo perso noi.

Adesso la amministrazione sta ragionando di una “concertazione pubblico-privato” per acquistare gli assets problematici dalle banche, con il governo che concede in prestito agli investitori privati denaro per quello che propone. In questo modo si offrirebbe agli investitori una scommessa a senso unico: se gli assets crescono nel loro prezzo, gli investitori vincono; se, in sostanza, non hanno successo, escono fuori e lasciano il compito al governo[53]. Ancora una volta: testa vincono loro, croce perdiamo noi.

Non sarebbe corretto andare sino in fondo e nazionalizzare? Ricordiamoci, più a lungo conviviamo con banche defunte, più difficile risulterà porre fine alla crisi economica.

Come avrebbe luogo la nazionalizzazione? Tutto quello che la amministrazione deve fare è prendere sul serio gli stessi “stress tests” che essa ha previsto per le banche principali, e non nascondersi i risultati quando una banca presenta gravi difetti al test, assumendo le necessarie iniziative di sostituzione. Si, l’intera questione richiederebbe un Claude Rains[54] a interpretarla, come nel caso di un governo che, dopo aver puntellato per mesi alcune banche, si dichiara esso stesso colpito, colpito dalla miserabile condizione dei loro libri contabili. Ma questo sarebbe tutto.

E ripetiamo ancora una volta che la proprietà da parte dello Stato nel lungo periodo non è l’obbiettivo: come le piccole banche che la F.D.I.C. mette sotto tutela ogni settimana, le banche principali tornerebbero sotto il controllo dei privati prima possibile. Il blog finanziario Claculated Risk ha suggerito di definire tale processo “preprivatizzazione”, anziché nazionalizzazione.

La amministrazione Obama, secondo Robert Gibbs, portavoce della Casa Bianca, ritiene “che il controllo privato del sistema bancario sia il corretto modo di procedere”. E’ quello che pensiamo tutti. Ma quello a cui siamo di fronte non è un’impresa privata, è una specie di socialismo all’acqua di rose[55]: le banche si prendono i vantaggi ma i contribuenti sopportano i rischi.  E rendere permanenti banche zombie significa bloccare la ripresa economica.

Ciò che vogliamo è un sistema nel quale alle banche tocchino sia i vantaggi che i rischi. E la strada per giungere a questo sistema passa dalle nazionalizzazioni.


 

Climate of Change By PAUL KRUGMANPublished: February 27, 2009

Elections have consequences. President Obama’s new budget represents a huge break, not just with the policies of the past eight years, but with policy trends over the past 30 years. If he can get anything like the plan he announced on Thursday through Congress, he will set America on a fundamentally new course.

 

Skip to next paragraphThe budget will, among other things, come as a huge relief to Democrats who were starting to feel a bit of postpartisan depression. The stimulus bill that Congress passed may have been too weak and too focused on tax cuts. The administration’s refusal to get tough on the banks may be deeply disappointing. But fears that Mr. Obama would sacrifice progressive priorities in his budget plans, and satisfy himself with fiddling around the edges of the tax system, have now been banished.

 

 

 

For this budget allocates $634 billion over the next decade for health reform. That’s not enough to pay for universal coverage, but it’s an impressive start. And Mr. Obama plans to pay for health reform, not just with higher taxes on the affluent, but by putting a halt to the creeping privatization of Medicare, eliminating overpayments to insurance companies.

 

On another front, it’s also heartening to see that the budget projects $645 billion in revenues from the sale of emission allowances. After years of denial and delay by its predecessor, the Obama administration is signaling that it’s ready to take on climate change.

 

And these new priorities are laid out in a document whose clarity and plausibility seem almost incredible to those of us who grew accustomed to reading Bush-era budgets, which insulted our intelligence on every page. This is budgeting we can believe in.

 

Many will ask whether Mr. Obama can actually pull off the deficit reduction he promises. Can he actually reduce the red ink from $1.75 trillion this year to less than a third as much in 2013? Yes, he can.

 

Right now the deficit is huge thanks to temporary factors (at least we hope they’re temporary): a severe economic slump is depressing revenues and large sums have to be allocated both to fiscal stimulus and to financial rescues.

 

But if and when the crisis passes, the budget picture should improve dramatically. Bear in mind that from 2005 to 2007, that is, in the three years before the crisis, the federal deficit averaged only $243 billion a year. Now, during those years, revenues were inflated, to some degree, by the housing bubble. But it’s also true that we were spending more than $100 billion a year in Iraq.

So if Mr. Obama gets us out of Iraq (without bogging us down in an equally expensive Afghan quagmire) and manages to engineer a solid economic recovery — two big ifs, to be sure — getting the deficit down to around $500 billion by 2013 shouldn’t be at all difficult.

 

But won’t the deficit be swollen by interest on the debt run-up over the next few years? Not as much as you might think. Interest rates on long-term government debt are less than 4 percent, so even a trillion dollars of additional debt adds less than $40 billion a year to future deficits. And those interest costs are fully reflected in the budget documents.

 

So we have good priorities and plausible projections. What’s not to like about this budget? Basically, the long run outlook remains worrying.

 

According to the Obama administration’s budget projections, the ratio of federal debt to G.D.P., a widely used measure of the government’s financial position, will soar over the next few years, then more or less stabilize. But this stability will be achieved at a debt-to-G.D.P. ratio of around 60 percent. That wouldn’t be an extremely high debt level by international standards, but it would be the deepest in debt America has been since the years immediately following World War II. And it would leave us with considerably reduced room for maneuver if another crisis comes along.

 

 

Furthermore, the Obama budget only tells us about the next 10 years. That’s an improvement on Bush-era budgets, which looked only 5 years ahead. But America’s really big fiscal problems lurk over that budget horizon: sooner or later we’re going to have to come to grips with the forces driving up long-run spending — above all, the ever-rising cost of health care.

 

And even if fundamental health care reform brings costs under control, I at least find it hard to see how the federal government can meet its long-term obligations without some tax increases on the middle class. Whatever politicians may say now, there’s probably a value-added tax in our future.

 

But I don’t blame Mr. Obama for leaving some big questions unanswered in this budget. There’s only so much long-run thinking the political system can handle in the midst of a severe crisis; he has probably taken on all he can, for now. And this budget looks very, very good.

 

Un clima di cambiamento, di Paul Krugman

New York Times 27 febbraio 2009

 

Arrivano le conseguenze delle elezioni. Il nuovo bilancio del Presidente Obama rappresenta una grande rottura, non soltanto con le politiche dei passati otto anni, ma con il corso politico degli ultimi trenta anni. Se egli riuscirà ad ottenere qualche risultato secondo le linee del piano annunciato giovedì al Congresso, egli collocherà l’America su una prospettiva fondamentalmente nuova.

Il bilancio, tra le altre cose, produrrà grande sollievo tra i democratici, che cominciavano a patire un po’ di depressione, dopo l’esaltazione di partito nella competizione elettorale[56]. La legge di sostegno all’economia che il Congresso ha approvato era sembrata troppo debole e troppo caratterizzata dai tagli alla tassazione. Il rifiuto della amministrazione di operare con durezza sul sistema bancario poteva aver provocato profonda delusione. Ma i timori secondi i quali Obama avrebbe sacrificato le priorità dei progressisti nei suoi progetti di bilancio, e si sarebbe accontentato di gingillarsi sui margini del sistema fiscale, ora sono stati scacciati.

E’ questo il significato della allocazione di 634 miliardi di dollari nel prossimo decennio per la riforma sanitaria. Non è sufficiente per coprire i costi di una assistenza universale, ma è un avvio impressionante. E Obama prevede di trovare la copertura per la riforma sanitaria, non solo attraverso una tassazione più elevata sui ricchi, ma interrompendo la privatizzazione strisciante di Medicare ed eliminando i costi esagerati delle compagnie assicurative.

Su un altro fronte, rincuora anche vedere che il bilancio prevede 645 miliardi di dollari in entrate dalla vendita di autorizzazioni alle emissioni. Dopo anni di rifiuti e di rinvii da parte dei suoi predecessori, la amministrazione di Obama sta segnalando che è pronta ad accettare la sfida del cambiamento climatico.

E queste nuove priorità sono predisposte in un documento la cui chiarezza e plausibilità sono quasi incredibili per quelli di noi che si erano abituati alla lettura dei bilanci dell’era Bush, dove ogni pagina costituiva un insulto alla intelligenza. Ora siamo dinanzi ad un modo di costruire i bilanci nel quale possiamo avere fiducia.

Molti si chiederanno se Obama effettivamente potrà riuscire a ridurre il deficit, secondo le sue promesse. Potrà davvero ridurre i conti in rosso[57] dagli 1,75 trilioni di dollari di quest’anno a meno di un terzo nel 2013? Si, egli può farlo.

In questo momento il deficit è molto elevato per effetto di fattori temporanei (per lo meno noi speriamo che siano temporanei): una severa caduta dell’economia provoca effetti depressivi sulle entrate e somme imponenti devono essere allocate sia allo stimolo fiscale che ai salvataggi finanziari.

Ma se e quando la crisi sarà passata, il quadro del bilancio dovrebbe migliorare in modo impressionante. Teniamo a mente che dal 2005 al 2007, cioè nei tre anni precedenti la crisi, il deficit federale era in media di soli 243 miliardi di dollari all’anno. Ora, durante quegli anni, le entrate erano inflazionate, in qualche misura, dalla bolla immobiliare. Ma è anche vero che noi spendevamo 100 miliardi di dollari all’anno in Iraq.

Così, se Obama ci porta fuori dall’Iraq (senza andare ad impantanarci in una altrettanto dispendiosa palude afgana) ed opera per costruire una solida ripresa economica – due grandi “se”, questo è innegabile – ottenere una riduzione del deficit attorno ai 500 miliardi di dollari non dovrebbe essere, dopotutto, difficile.

Ma il deficit non si sarà ingrossato per effetto degli interessi sul debito aumentati nel corso dei prossimi anni? Non così tanto come potreste ritenere. Gli interessi sul debito governativo a lungo termine sono meno del 4 per cento, così persino un migliaio di miliardi di dollari di debito addizionale aggiunge meno di 40 miliardi di dollari all’anno ai futuri deficit. E quelli interessi sul debito sono pienamente considerati nei documenti di bilancio.

Dunque, abbiamo buone priorità e plausibili proiezioni. Che cosa può non piacere di questo bilancio? Fondamentalmente, la previsione di lungo periodo rimane inquietante.

In coerenza con le stime del bilancio della amministrazione Obama, la percentuale del debito federale sul PIL, una misura generalmente in uso della posizione finanziaria del governo, volerà in alto per pochi prossimi anni, per poi più o meno stabilizzarsi. Ma questa stabilità sarà raggiunta ad una percentuale del debito sul PIL di circa il 60 per cento. Questo non sarebbe un livello del debito particolarmente alto secondo gli standards internazionali, ma sarebbe il punto più profondo del debito che l’America abbia mai registrato sin dagli anni immediatamente successivi alla II Guerra Mondiale. E ciò ci lascerebbe con spazio estremamente ridotto di manovra, se un’altra crisi sopraggiungesse.

Inoltre, il bilancio di Obama ci parla soltanto dei prossimi dieci anni. Questo è un miglioramento rispetto ai bilanci dell’era Bush, che guardavano innanzi solo per un periodo di cinque anni. Ma i veri grandi problemi fiscali dell’America stanno in agguato in quell’orizzonte di bilancio: prima o poi dovremo affrontare i meccanismi che si attivano nella spesa di lungo periodo, tra tutti, il costo sempre crescente della assistenza sanitaria.

E persino se la fondamentale riforma della assistenza sanitaria porterà i costi sotto controllo, alla fine mi è difficile vedere come il governo federale potrà soddisfare le sue obbligazioni di lungo termine senza qualche incremento delle tasse sulla classe media. Per quanto gli uomini politici possano dire adesso, ci sarà probabilmente un valore aggiunto di natura fiscale nel nostro futuro.

Ma io non incolpo Obama per aver lasciata qualche grande questione senza risposta nel suo bilancio. Soltanto con un pensiero davvero di lungo periodo il sistema politico può manovrare nel mezzo di una aspra crisi; egli probabilmente si è fatto carico di ciò che era possibile, per il momento. E il suo bilancio appare davvero molto buono.    

 

 

 


 

Revenge of the Glut By Paul KrugmanPublished: March 1, 2009

Remember the good old days, when we used to talk about the “subprime crisis” — and some even thought that this crisis could be “contained”? Oh, the nostalgia!

 

Skip to next paragraphToday we know that subprime lending was only a small fraction of the problem. Even bad home loans in general were only part of what went wrong. We’re living in a world of troubled borrowers, ranging from shopping mall developers to European “miracle” economies. And new kinds of debt trouble just keep emerging.

 

 

How did this global debt crisis happen? Why is it so widespread? The answer, I’d suggest, can be found in a speech Ben Bernanke, the Federal Reserve chairman, gave four years ago. At the time, Mr. Bernanke was trying to be reassuring. But what he said then nonetheless foreshadowed the bust to come.

 

 

The speech, titled “The Global Saving Glut and the U.S. Current Account Deficit,” offered a novel explanation for the rapid rise of the U.S. trade deficit in the early 21st century. The causes, argued Mr. Bernanke, lay not in America but in Asia.

In the mid-1990s, he pointed out, the emerging economies of Asia had been major importers of capital, borrowing abroad to finance their development. But after the Asian financial crisis of 1997-98 (which seemed like a big deal at the time but looks trivial compared with what’s happening now), these countries began protecting themselves by amassing huge war chests of foreign assets, in effect exporting capital to the rest of the world.

 

 

The result was a world awash in cheap money, looking for somewhere to go.

 

Most of that money went to the United States — hence our giant trade deficit, because a trade deficit is the flip side of capital inflows. But as Mr. Bernanke correctly pointed out, money surged into other nations as well. In particular, a number of smaller European economies experienced capital inflows that, while much smaller in dollar terms than the flows into the United States, were much larger compared with the size of their economies.

Still, much of the global saving glut did end up in America. Why?

 

Mr. Bernanke cited “the depth and sophistication of the country’s financial markets (which, among other things, have allowed households easy access to housing wealth).” Depth, yes. But sophistication? Well, you could say that American bankers, empowered by a quarter-century of deregulatory zeal, led the world in finding sophisticated ways to enrich themselves by hiding risk and fooling investors.

 

And wide-open, loosely regulated financial systems characterized many of the other recipients of large capital inflows. This may explain the almost eerie correlation between conservative praise two or three years ago and economic disaster today. “Reforms have made Iceland a Nordic tiger,” declared a paper from the Cato Institute. “How Ireland Became the Celtic Tiger” was the title of one Heritage Foundation article; “The Estonian Economic Miracle” was the title of another. All three nations are in deep crisis now.

 

 

For a while, the inrush of capital created the illusion of wealth in these countries, just as it did for American homeowners: asset prices were rising, currencies were strong, and everything looked fine. But bubbles always burst sooner or later, and yesterday’s miracle economies have become today’s basket cases, nations whose assets have evaporated but whose debts remain all too real. And these debts are an especially heavy burden because most of the loans were denominated in other countries’ currencies.

 

 

Nor is the damage confined to the original borrowers. In America, the housing bubble mainly took place along the coasts, but when the bubble burst, demand for manufactured goods, especially cars, collapsed — and that has taken a terrible toll on the industrial heartland. Similarly, Europe’s bubbles were mainly around the continent’s periphery, yet industrial production in Germany — which never had a financial bubble but is Europe’s manufacturing core — is falling rapidly, thanks to a plunge in exports.

 

 

If you want to know where the global crisis came from, then, think of it this way: we’re looking at the revenge of the glut.

And the saving glut is still out there. In fact, it’s bigger than ever, now that suddenly impoverished consumers have rediscovered the virtues of thrift and the worldwide property boom, which provided an outlet for all those excess savings, has turned into a worldwide bust.

 

One way to look at the international situation right now is that we’re suffering from a global paradox of thrift: around the world, desired saving exceeds the amount businesses are willing to invest. And the result is a global slump that leaves everyone worse off.

 

 

So that’s how we got into this mess. And we’re still looking for the way out.

 

La vendetta degli eccessi, di Paul Krugman

New York Times 1 marzo 2009

 

Ricordate i bei giorni andati, quando ci si intratteneva a parlare della “crisi dei subprime” e qualcuno persino pensava che questa crisi sarebbe stata “contenuta”? Oh, che nostalgia!

Oggi sappiamo che il mercato dei subprime era solo una piccola frazione del problema. Persino i cattivi mutui sulle abitazioni erano solo una parte di ciò che si sarebbe dimostrato sbagliato. Noi viviamo in un mondo di debitori inguaiati, tra i quali possiamo annoverare sia coloro che hanno puntato sullo sviluppo dei centri commerciali che le economie “miracolo” di alcuni paesi europei. E nuovi generi di guai derivanti dal debito stanno appena manifestandosi.

Ma come è potuta accadere questa crisi del debito globale? Perché essa è così vasta? La risposta, potrei suggerire, la si può trovare nella dichiarazione che Ben Bernanke, il Presidente della Federal Reserve, ha fornito quattro giorni fa. In quella occasione, Bernanke stava cercando di essere rassicurante. Nondimeno, ciò che egli dichiarò allora faceva presagire il disastro in arrivo.

Il discorso, dal titolo “L’eccesso del risparmio globale e il resoconto del deficit corrente degli USA”, ha offerto  una nuova spiegazione alla rapida crescita del deficit commerciale americano in questi inizi di 21° secolo. Le cause, ha argomentato Bernanke, non stanno in America, bensì in Asia.

Sulla metà degli anni ’90, le economie asiatiche emergenti erano state le maggiori importatrici di capitali, presi a prestito all’estero per finanziare il loro sviluppo. Ma a seguito della crisi finanziaria del 1997-98 (che sembrò un grosso problema all’epoca, ma appare di poco conto paragonata a cosa sta succedendo oggi) questi paesi cominciarono a proteggersi accumulando i fondi di una vasta campagna sugli assets stranieri, ovvero esportando capitali nel resto del mondo.

Il risultato fu una inondazione mondiale di denaro a basso costo, che sembrava buono per ogni scopo.

Gran parte di questo denaro arrivò negli Stati Uniti – da qui il gigantesco deficit commerciale, giacché un deficit commerciale è il rovescio della medaglia degli afflussi di capitale.  Ma, come Bernanke correttamente sottolinea, quel denaro invase anche altre nazioni. In particolare, un certo numero di economie europee sperimentò afflussi di capitali che, più piccoli in termini di dollari rispetto a quelli che entrarono negli Stati Uniti, erano assai maggiori in considerazione della dimensione delle loro economie.

Tuttavia, gran parte di quell’eccesso di risparmio globale finì in America. Come mai?

Bernanke menziona “lo spessore e la sofisticazione dei mercati finanziari del paese (che, tra le altre cose, hanno consentito alle famiglie un facile accesso alla ricchezza immobiliare)”. Lo spessore, si capisce. Ma la sofisticazione? Bene, si potrebbe dire che i banchieri americani, rafforzati da un quarto di secolo di zelante deregolamentazione, avevano insegnato al mondo intero come procurarsi modi sofisticati per arricchire nascondendo i rischi e raggirando gli investitori.

Inoltre, sistemi finanziari aperti a tutti e regolati in modo vago caratterizzarono molti altri contenitori di quell’ampio afflusso di capitali. Questo può spiegare la quasi magica correlazione tra il plauso dei conservatori di due o tre anni orsono ed il disastro economico  di oggi. “Le riforme hanno fatto dell’Islanda una tigre nordica”, dichiarava un quotidiano del Cato Institute. “In che modo l’Irlanda è diventata una tigre celtica”, era il titolo di un articolo della Heritage Foundation. “Il miracolo economico dell’Estonia”, era il titolo di un altro articolo. Oggi tutte e tre quelle nazioni sono in crisi nera.

Per un momento, in quei paesi l’irruzione dei capitali aveva creato l’illusione della ricchezza, proprio come era accaduto ai proprietari di case americani; i prezzi dei loro assets erano in crescita, le valute erano forti ed ogni cosa sembrava andar bene. Ma le bolle scoppiano sempre prima o dopo, e l’economie miracolo di ieri sono diventate i casi disperati di oggi, nazioni i cui assets sono evaporati ma i cui debiti sono rimasti tutti anche troppo reali. E questi debiti sono un fardello particolarmente pesante perché la maggior parte di quei prestiti venivano considerati come moneta corrente in altri paesi.

Né il danno è rimasto confinato agli originali creditori. In America, la bolla immobiliare principalmente era insediata sulle coste, ma quando la bolla è scoppiata, la domanda di beni manifatturieri, specialmente di automobili, è crollata, e questo ha comportato un terribile tributo  nella roccaforte dei territori industriali. In modo simile, le bolle europee si erano manifestate principalmente attorno alla periferia del continente; ciononostante la produzione industriale in Germania – che non ha avuto bolle finanziarie ma è il centro dell’Europa manifatturiera –  è caduta rapidamente, grazie al crollo delle esportazioni.

Se volete sapere da dove la crisi globale è venuta, dunque, potete giudicarla nel modo seguente: siamo di fronte alla vendetta degli eccessi.

E l’eccesso di risparmio è ancora là fuori. Nei fatti, esso è più grande che mai, ora che consumatori improvvisamente impoveriti hanno riscoperto le virtù della austerità e che il boom della povertà in tutto il mondo, che forniva uno sbocco a tutti quegli eccessi di risparmio,  si è trasformato in un disastro di dimensioni globali.

Un modo di guardare alla situazione internazionale, al punto a cui siamo, è quello di considerare che stiamo soffrendo di un paradosso globale del risparmio: nel mondo nel suo complesso, il risparmio da tempo agognato supera gli importi che  le imprese hanno voglia di investire. E il risultato è una caduta globale che lascia tutti peggio che mai.

Questo è il modo in cui siamo finiti in questo pasticcio. E stiamo ancora cercandone una via d’uscita.

 


 

The Big Dither By PAUL KRUGMANPublished: March 5, 2009

Last month, in his big speech to Congress, President Obama argued for bold steps to fix America’s dysfunctional banks. “While the cost of action will be great,” he declared, “I can assure you that the cost of inaction will be far greater, for it could result in an economy that sputters along for not months or years, but perhaps a decade.”

 

 

 

 

Skip to next paragraphMany analysts agree. But among people I talk to there’s a growing sense of frustration, even panic, over Mr. Obama’s failure to match his words with deeds. The reality is that when it comes to dealing with the banks, the Obama administration is dithering. Policy is stuck in a holding pattern.

 

Here’s how the pattern works: first, administration officials, usually speaking off the record, float a plan for rescuing the banks in the press. This trial balloon is quickly shot down by informed commentators.

 

Then, a few weeks later, the administration floats a new plan. This plan is, however, just a thinly disguised version of the previous plan, a fact quickly realized by all concerned. And the cycle starts again.

 

 

Why do officials keep offering plans that nobody else finds credible? Because somehow, top officials in the Obama administration and at the Federal Reserve have convinced themselves that troubled assets, often referred to these days as “toxic waste,” are really worth much more than anyone is actually willing to pay for them — and that if these assets were properly priced, all our troubles would go away.

 

Thus, in a recent interview Tim Geithner, the Treasury secretary, tried to make a distinction between the “basic inherent economic value” of troubled assets and the “artificially depressed value” that those assets command right now. In recent transactions, even AAA-rated mortgage-backed securities have sold for less than 40 cents on the dollar, but Mr. Geithner seems to think they’re worth much, much more.

 

And the government’s job, he declared, is to “provide the financing to help get those markets working,” pushing the price of toxic waste up to where it ought to be.

 

What’s more, officials seem to believe that getting toxic waste properly priced would cure the ills of all our major financial institutions. Earlier this week, Ben Bernanke, the Federal Reserve chairman, was asked about the problem of “zombies” — financial institutions that are effectively bankrupt but are being kept alive by government aid. “I don’t know of any large zombie institutions in the U.S. financial system,” he declared, and went on to specifically deny that A.I.G. — A.I.G.! — is a zombie.

 

 

 

This is the same A.I.G. that, unable to honor its promises to pay off other financial institutions when bonds default, has already received $150 billion in aid and just got a commitment for $30 billion more.

The truth is that the Bernanke-Geithner plan — the plan the administration keeps floating, in slightly different versions — isn’t going to fly.

Take the plan’s latest incarnation: a proposal to make low-interest loans to private investors willing to buy up troubled assets. This would certainly drive up the price of toxic waste because it would offer a heads-you-win, tails-we-lose proposition. As described, the plan would let investors profit if asset prices went up but just walk away if prices fell substantially.

 

 

 

But would it be enough to make the banking system healthy? No.

Think of it this way: by using taxpayer funds to subsidize the prices of toxic waste, the administration would shower benefits on everyone who made the mistake of buying the stuff. Some of those benefits would trickle down to where they’re needed, shoring up the balance sheets of key financial institutions. But most of the benefit would go to people who don’t need or deserve to be rescued.

And this means that the government would have to lay out trillions of dollars to bring the financial system back to health, which would, in turn, both ensure a fierce public outcry and add to already serious concerns about the deficit. (Yes, even strong advocates of fiscal stimulus like yours truly worry about red ink.) Realistically, it’s just not going to happen.

 

So why has this zombie idea — it keeps being killed, but it keeps coming back — taken such a powerful grip? The answer, I fear, is that officials still aren’t willing to face the facts. They don’t want to face up to the dire state of major financial institutions because it’s very hard to rescue an essentially insolvent bank without, at least temporarily, taking it over. And temporary nationalization is still, apparently, considered unthinkable.

 

 

But this refusal to face the facts means, in practice, an absence of action. And I share the president’s fears: inaction could result in an economy that sputters along, not for months or years, but for a decade or more.

 

Il grande nervosismo, di Paul Krugman

New York Times 5 marzo 2009

 

Lo scorso mese, in occasione del suo importante discorso al Congresso, il Presidente Barack Obama si è detto favorevole a compiere passi coraggiosi per mettere in ordine ciò che non funzione nel sistema bancario americano. “Per quanto il prezzo dell’agire potrà essere grande” ha dichiarato “posso assicurarvi che il prezzo dell’immobilismo sarebbe ancora più grande. Dall’immobilismo potrebbe venir fuori il risultato di un’economia che perde colpi non solo per un periodo di mesi o anni, ma forse per un decennio.”

Molti analisti sono della stessa opinione. Ma tra la gente con cui parlo c’è una sensazione crescente di frustrazione, persino di panico, per il pericolo che Obama non riesca ad accompagnare alle parole i fatti. La verità è che quando arriva a misurarsi con il sistema bancario, la amministrazione Obama diventa nervosa. Come se la politica si piantasse in uno schema fisso.

Ecco come funziona lo schema: in primo luogo, i funzionari della amministrazione, che di solito parlano in modo ufficioso, passano alla stampa un piano di salvataggio delle banche. Su questa notizia diffusa per sondare l’opinione pubblica rapidamente si abbatte il fuoco di fila dei commentatori informati.

A quel punto, poche settimane dopo, la amministrazione diffonde un nuovo piano. Tuttavia, questo piano è soltanto una versione leggermente modificata del precedente, circostanza rapidamente compresa da tutti coloro che se ne intendono. E il circolo si riavvia.

Perché i funzionari continuano ad offrire piani che nessun altro giudica credibili? Perché in qualche modo i massimi funzionari della amministrazione Obama e della Federal Reserve si sono convinti che gli assets problematici, spesso riferiti in questi giorni come “scarti tossici”, valgono molto di più di quanto ognuno attualmente abbia intenzione di pagarli – e se questi assets fossero correttamente valutati, tutti i nostri problemi se ne andrebbero.

In questo senso, in una recente intervista il Segretario del Tesoro Tim Geithner ha cercato di stabilire una distinzione tra “l’intrinseco valore economico di base” di questi assets problematici e “il valore artificiosamente depresso” che in questo momento è loro imposto. In recenti scambi, persino titoli classificati “AAA” collegati a mutui ipotecari sono stati venduti per meno di 40 centesimi al dollaro, ma Geithner  sembra ritenere che essi valgano molto, molto di più.

E il lavoro del governo, ha dichiarato, è quello di “provvedere al finanziamento per aiutare questi mercati a funzionare”, facendo salire  il prezzo degli “scarti tossici” sino a dove dovrebbe stare.

C’è di più: quei dirigenti sembrano credere che facendo in modo che i titoli tossici siano correttamente apprezzati si curerebbero le malattie di tutte i nostri maggiori istituti finanziari. Agli inizi di questa settimana, a Ben Bernanke, Presidente della Federal Reserve, è stata posta una domanda a proposito del problema degli “zombie” – quelle istituzioni finanziarie che sono effettivamente fallite, ma che sono tenute in vita dall’aiuto del governo. “Io non sono al corrente di alcun significativo problema di “zombie” nelle istituzioni finanziarie USA”, egli ha dichiarato, e ha proseguito negando in modo specifico che AIG[58] – AIG! – sia uno “zombie”.

Si tratta della stessa AIG che, incapace di onorare i suoi impegni nel liquidare altri istituti finanziari quando i suoi titoli sono andati in default,  ha già ricevuto 150 miliardi di dollari di aiuti ed ha appena ricevuto un impegno per ulteriori 30 miliardi.

La verità è che il piano Bernanke-Geithner – il piano che la amministrazione continua a far circolare, in versioni leggermente differenti – non riesce a decollare.

Consideriamo l’ultima incarnazione di questo piano: una proposta di istituire prestiti a basso interesse per investitori privati che manifestino l’intenzione di acquistare gli assets problematici. Questo certamente spingerebbe in alto i prezzi dei titoli tossici, perché offrirebbe uno proposta del tipo “testa vincete voi, croce perdiamo noi”.  Per come è stato descritto, quel piano consentirebbe agli investitori di guadagnare se i prezzi degli assets salgono, ma esattamente di tirarsene fuori se essi si abbassano in modo sostanziale.

Ma ciò sarebbe sufficiente per rimettere in salute il sistema finanziario? No.

Considerate la questione in questo modo: usando i fondi dei contribuenti come sussidio ai prezzi dei titoli tossici, la amministrazione irrorerebbe di benefici chiunque abbia fatto lo sbaglio di acquistare quella roba. Una parte di questi benefici colerebbe sino a dove ce n’è bisogno, puntellando i bilanci di istituzioni chiave del sistema finanziario. Ma la maggior parte dei benefici finirebbe a persone che non ne hanno bisogno o che non meritano di essere salvate.

E questo significa che il governo dovrebbe spendere trilioni di dollari per risanare il sistema finanziario, con il che, in cambio, sarebbe garantita una indignata protesta da parte dell’opinione pubblica ed aumenterebbero le già serie preoccupazioni sul lato del deficit. (Si, persino fieri sostenitori dello stimolo pubblico come il sottoscritto sono in ansia per i conti in rosso.) Realisticamente, non è proprio il caso che accada.

Dunque, perché questa idea zombie – nel senso che continua morire, ma continua anche a tornare sulla scena  – ha una presa così potente? La risposta, io temo, è che i dirigenti governativi non hanno ancora la volontà di guardare in faccia i fatti.  Essi non vogliono guardare in faccia l’orribile situazione dei più importanti istituti finanziari, perché è davvero duro concepire il salvataggio di una banca essenzialmente insolvente senza, almeno temporaneamente, prenderne la responsabilità. E una nazionalizzazione temporanea è ancora, a quanto sembra, considerata impensabile.

Ma questo rifiuto a guardare in faccia i fatti significa, in pratica, una assenza di azione. Ed io condivido i timori del Presidente: l’inazione potrebbe comportare una economia che continua a battere colpi, non per mesi o anni, ma per un decennio o più ancora.  

 


 

Behind the Curve By PAUL KRUGMANPublished: March 8, 2009

President Obama’s plan to stimulate the economy was “massive,” “giant,” “enormous.” So the American people were told, especially by TV news, during the run-up to the stimulus vote. Watching the news, you might have thought that the only question was whether the plan was too big, too ambitious.

 

 

Skip to next paragraphYet many economists, myself included, actually argued that the plan was too small and too cautious. The latest data confirm those worries — and suggest that the Obama administration’s economic policies are already falling behind the curve.

To see how bad the numbers are, consider this: The administration’s budget proposals, released less than two weeks ago, assumed an average unemployment rate of 8.1 percent for the whole of this year. In reality, unemployment hit that level in February — and it’s rising fast.

 

Employment has already fallen more in this recession than in the 1981-82 slump, considered the worst since the Great Depression. As a result, Mr. Obama’s promise that his plan will create or save 3.5 million jobs by the end of 2010 looks underwhelming, to say the least. It’s a credible promise — his economists used solidly mainstream estimates of the impacts of tax and spending policies. But 3.5 million jobs almost two years from now isn’t enough in the face of an economy that has already lost 4.4 million jobs, and is losing 600,000 more each month.

 

 

There are now three big questions about economic policy. First, does the administration realize that it isn’t doing enough? Second, is it prepared to do more? Third, will Congress go along with stronger policies?

 

On the first two questions, I found Mr. Obama’s latest interview with The Times anything but reassuring.

“Our belief and expectation is that we will get all the pillars in place for recovery this year,” the president declared — a belief and expectation that isn’t backed by any data or model I’m aware of. To be sure, leaders are supposed to sound calm and in control. But in the face of the dismal data, this remark sounded out of touch.

 

 

And there was no hint in the interview of readiness to do more.

A real fix for the troubles of the banking system might help make up for the inadequate size of the stimulus plan, so it was good to hear that Mr. Obama spends at least an hour each day with his economic advisors, “talking through how we are approaching the financial markets.” But he went on to dismiss calls for decisive action as coming from “blogs” (actually, they’re coming from many other places, including at least one president of a Federal Reserve bank), and suggested that critics want to “nationalize all the banks” (something nobody is proposing).

 

 

As I read it, this dismissal — together with the continuing failure to announce any broad plans for bank restructuring — means that the White House has decided to muddle through on the financial front, relying on economic recovery to rescue the banks rather than the other way around. And with the stimulus plan too small to deliver an economic recovery … well, you get the picture.

 

Sooner or later the administration will realize that more must be done. But when it comes back for more money, will Congress go along?

Republicans are now firmly committed to the view that we should do nothing to respond to the economic crisis, except cut taxes — which they always want to do regardless of circumstances. If Mr. Obama comes back for a second round of stimulus, they’ll respond not by being helpful, but by claiming that his policies have failed.

 

 

The broader public, by contrast, favors strong action. According to a recent Newsweek poll, a majority of voters supports the stimulus, and, more surprisingly, a plurality believes that additional spending will be necessary. But will that support still be there, say, six months from now?

Also, an overwhelming majority believes that the government is spending too much to help large financial institutions. This suggests that the administration’s money-for-nothing financial policy will eventually deplete its political capital.

 

So here’s the picture that scares me: It’s September 2009, the unemployment rate has passed 9 percent, and despite the early round of stimulus spending it’s still headed up. Mr. Obama finally concedes that a bigger stimulus is needed.

 

But he can’t get his new plan through Congress because approval for his economic policies has plummeted, partly because his policies are seen to have failed, partly because job-creation policies are conflated in the public mind with deeply unpopular bank bailouts. And as a result, the recession rages on, unchecked.

 

O.K., that’s a warning, not a prediction. But economic policy is falling behind the curve, and there’s a real, growing danger that it will never catch up.

 

Dietro la curva, di Paul Krugman.

International Herald Tribune 8 marzo 2009.

 

Il piano di stimoli all’economia del Presidente Barack Obama sarebbe stato “massiccio”, “gigantesco”, “enorme”. Questo era quello che veniva detto al popolo americano, specialmente dai notiziari televisivi, nel corso delle manovre preparatorie al voto sugli stimoli. Guardando quei telegiornali, potreste aver pensato che l’unica questione fosse che quel piano era troppo grande, troppo ambizioso.

Invece molti economisti, me compreso, ritengono che il piano sia stato troppo piccolo e troppo cauto. Gli ultimi dati confermano quei timori, e danno l’impressione che le politiche economiche della amministrazione Obama siano già in difficoltà dopo la prima curva.

Nel constatare quanto siano cattivi quei numeri, si consideri questo: le proposte di bilancio della amministrazione, rese note meno di due settimane fa, assumono un tasso medio di disoccupazione dell’8,1 per cento per questo intero anno. In realtà, la disoccupazione ha raggiunto questo livello a febbraio, e sta crescendo velocemente.

L’occupazione è già caduta in questa recessione maggiormente di quanto non avvenne con la crisi del 1981-82, che era considerata la peggiore dalla Grande Depressione. Di conseguenza, la promessa di Obama secondo la quale il suo piano avrebbe creato o salvato 3,5 milioni di posti di lavoro attorno alla fine del 2010 appare sovrastimata, per dire il minimo. Essa è una promessa credibile, i suoi economisti utilizzano con serietà le stime sulle tendenze principali degli effetti delle politiche fiscali e di spesa. Ma 3,5 milioni di posti di lavoro tra quasi due anni a partire da oggi non sono abbastanza, a fronte di un’economia che ha già perso 4,4 milioni di posti di lavoro e che ne sta perdendo ogni mese 600 mila in più.

Si pongono ora tre grandi questioni attorno alle politiche per l’economia. La prima: riuscirà la amministrazione a realizzare ciò che pure non è sufficiente? La seconda: è pronta a fare di più? La terza: il Congresso avrà la volontà di procedere con politiche più forti?

Sulle prime due questioni, ho trovato l’ultima intervista di Obama al New York Times tutt’altro che rassicurante.

“La nostra convinzione e la nostra aspettativa è che avremo collocato i nostri pilastri per la ripresa entro quest’anno”, ha dichiarato il presidente; una convinzione ed una aspettativa che non sono confortate da alcun dato o modello del quale io sia in possesso. Certamente, si suppone che i dirigenti politici offrano una impressione di calma e di padronanza della situazione. Ma di fronte a dati deprimenti, questa sottolineatura non sembra pertinente.

E non c’era nessun cenno nell’intervista di una disponibilità a fare di più.

Un reale rimedio ai guai del sistema bancario potrebbe aiutare a compensare la dimensione inadeguata del piano di stimoli, pertanto è stato bene apprendere che Obama passa come minimo un’ora al giorno con i suoi consiglieri economici “a ridiscutere da cima a fondo[59]  di come stiamo affrontando i mercati finanziari”.  Ma egli ha proseguito liquidando gli inviti per una iniziativa più efficace come se provenissero da “blogs” (in effetti, essi vengono da molte parti, incluso come minimo un presidente di una banca della Federal Reserve), ed ha suggerito che le critiche contengano l’intenzione di “nazionalizzare tutte le banche” (cosa che nessuno sta proponendo).

Per come ho inteso, questa liquidazione – insieme alla perdurante incapacità di annunciare un qualsiasi piano generale di ristrutturazione delle banche – significa che la Casa Bianca ha deciso di cavarsela alla meno peggio[60] sul fronte finanziario,  facendo affidamento per il salvataggio delle banche su una ripresa economica, piuttosto che su altre strade disponibili. E con un piano degli stimoli insufficiente a provocare una ripresa dell’economia … bene, vi immaginate il quadro.

Presto o tardi la amministrazione si renderà conto che qualcosa di più deve essere fatto. Ma quando essa tornerà indietro con la proposta di maggiori finanziamenti, il Congresso procederà in quella direzione?

I repubblicani al momento sono fermamente impegnati in una posizione secondo la quale non occorrerebbe far niente per rispondere alla crisi economica, se non tagliare le tasse – cosa che secondo loro andrebbe fatta in ogni occasione a prescindere dalle circostanze. Se Obama tornasse indietro per un secondo giro degli stimoli, essi non risponderebbero con disponibilità, piuttosto protesterebbero per il fallimento delle sue politiche.

Il più ampio pubblico, al contrario, è favorevole ad azioni forti. Secondo un recente sondaggio di Newsweek, la maggioranza degli elettori è favorevole agli stimoli e, più sorprendente, una maggioranza relativa crede che una spesa ulteriore sarà necessaria. Ma questo sostegno sarà ancora tale, diciamo, tra sei mesi a partire da oggi?

Inoltre, una schiacciante maggioranza ritiene che il governo stia spendendo troppo nell’ampio sostegno agli istituti finanziari. Il che suggerisce che la politica finanziaria della amministrazione consistente in aiuti in cambio di niente, alla fine provocherà un impoverimento del suo capitale politico.

Ecco dunque il quadro che mi sgomenta: siamo a settembre del 2009, il tasso di disoccupazione ha superato il 9 per cento, a dispetto di ciò gli effetti del primo round della spesa di stimoli stanno ancora maturando. Obama finalmente riconosce che è indispensabile un sostegno più grande.

Ma egli non può ottenere la approvazione del Congresso al suo nuovo piano perché il consenso alle sue politiche economiche è precipitato, in parte perché si giudica che le sue politiche non abbiano funzionato, in parte perché le politiche di creazione di posti di lavoro nell’opinione pubblica si sono confuse con salvataggi delle banche profondamente impopolari. Come risultato: la recessione imperversa, incontrollata.

Va bene, questo è un monito, non una profezia. Ma la politica economica sta uscendo di strada dietro la curva, e c’è un pericolo reale, crescente che non si rimetterà al passo.

 

 

 

 


 

A Continent Adrift

By PAUL KRUGMAN

Published: March 16, 2009

MADRID

Skip to next paragraph I’m concerned about Europe. Actually, I’m concerned about the whole world — there are no safe havens from the global economic storm. But the situation in Europe worries me even more than the situation in America.

 

Just to be clear, I’m not about to rehash the standard American complaint that Europe’s taxes are too high and its benefits too generous. Big welfare states aren’t the cause of Europe’s current crisis. In fact, as I’ll explain shortly, they’re actually a mitigating factor.

The clear and present danger to Europe right now comes from a different direction — the continent’s failure to respond effectively to the financial crisis.

 

Europe has fallen short in terms of both fiscal and monetary policy: it’s facing at least as severe a slump as the United States, yet it’s doing far less to combat the downturn.

 

On the fiscal side, the comparison with the United States is striking. Many economists, myself included, have argued that the Obama administration’s stimulus plan is too small, given the depth of the crisis. But America’s actions dwarf anything the Europeans are doing.

 

The difference in monetary policy is equally striking. The European Central Bank has been far less proactive than the Federal Reserve; it has been slow to cut interest rates (it actually raised rates last July), and it has shied away from any strong measures to unfreeze credit markets.

The only thing working in Europe’s favor is the very thing for which it takes the most criticism — the size and generosity of its welfare states, which are cushioning the impact of the economic slump.

 

This is no small matter. Guaranteed health insurance and generous unemployment benefits ensure that, at least so far, there isn’t as much sheer human suffering in Europe as there is in America. And these programs will also help sustain spending in the slump.

 

But such “automatic stabilizers” are no substitute for positive action.

Why is Europe falling short? Poor leadership is part of the story. European banking officials, who completely missed the depth of the crisis, still seem weirdly complacent. And to hear anything in America comparable to the know-nothing diatribes of Germany’s finance minister you have to listen to, well, Republicans.

 

 

But there’s a deeper problem: Europe’s economic and monetary integration has run too far ahead of its political institutions. The economies of Europe’s many nations are almost as tightly linked as the economies of America’s many states — and most of Europe shares a common currency. But unlike America, Europe doesn’t have the kind of continentwide institutions needed to deal with a continentwide crisis.

 

 

This is a major reason for the lack of fiscal action: there’s no government in a position to take responsibility for the European economy as a whole. What Europe has, instead, are national governments, each of which is reluctant to run up large debts to finance a stimulus that will convey many if not most of its benefits to voters in other countries.

 

 

You might expect monetary policy to be more forceful. After all, while there isn’t a European government, there is a European Central Bank. But the E.C.B. isn’t like the Fed, which can afford to be adventurous because it’s backed by a unitary national government — a government that has already moved to share the risks of the Fed’s boldness, and will surely cover the Fed’s losses if its efforts to unfreeze financial markets go bad. The E.C.B., which must answer to 16 often-quarreling governments, can’t count on the same level of support.

Europe, in other words, is turning out to be structurally weak in a time of crisis.

The biggest question is what will happen to those European economies that boomed in the easy-money environment of a few years ago, Spain in particular.

 

For much of the past decade Spain was Europe’s Florida, its economy buoyed by a huge speculative housing boom. As in Florida, boom has now turned to bust. Now Spain needs to find new sources of income and employment to replace the lost jobs in construction.

 

In the past, Spain would have sought improved competitiveness by devaluing its currency. But now it’s on the euro — and the only way forward seems to be a grinding process of wage cuts. This process would have been difficult in the best of times; it will be almost inconceivably painful if, as seems all too likely, the European economy as a whole is depressed and tending toward deflation for years to come.

 

Does all this mean that Europe was wrong to let itself become so tightly integrated? Does it mean, in particular, that the creation of the euro was a mistake? Maybe.

 

But Europe can still prove the skeptics wrong, if its politicians start showing more leadership. Will they?

 

Un continente alla deriva, di Paul Krugman

New York Times 16 marzo 2009

 

MADRID

Sono in pensiero per l’Europa. In effetti, sono in pensiero per il mondo intero – non ci sono cieli al riparo dalla tempesta globale dell’economia. Ma la situazione in Europa mi preoccupa ancora di più di quella in America.

Sgombriamo subito il campo dalla vecchia tradizionale lamentela americana secondo la quale le tasse in Europa sarebbero troppo alte e le sue politiche sociali troppo generose. Gli stati del grande assistenzialismo non sono la causa della crisi attuale dell’Europa. Di fatto, come spiegherò sommariamente, essi sono piuttosto un fattore di mitigazione.

Il pericolo chiaro e attuale per l’Europa ha in questo momento una diversa origine: l’incapacità del continente a rispondere efficacemente alla crisi finanziaria

L’Europa ha mancato il suo obbiettivo sia in termini di politica finanziaria che monetaria: essa è alle prese con una recessione almeno atrettanto severa di quella degli Stati Uniti, tuttavia sta facendo molto meno per contrastare la svolta negativa.

Sul piano finanziario, il confronto con gli Stati Uniti è impressionante. Molti economisti, incluso il sottoscritto, hanno sostenuto che il programma di sostegno della amministrazione Obama sia troppo modesto, data la profondità della crisi. Ma le iniziative dell’America appaiono gigantesche[61], al confronto di tutto quello che si sta facendo in Europa.

La differenza delle politiche monetarie appare altrettanto impressionante. La Banca Centrale Europea è stata assai meno fattiva della Federal Reserve: essa è stata lenta a tagliare i tassi di interesse (lo scorso luglio, in effetti, alzò i tassi) e si è guardata dall’assumere misure forti per sbloccare i mercati creditizi.

L’unica cosa che funziona a vantaggio dell’Europa è proprio quella per la quale essa incontra le massime critiche: la dimensione e la generosità delle sue istituzioni assistenziali, che stanno attutendo l’impatto delle recessione economica.

Non è un piccolo aspetto. L’assicurazione sanitaria garantita e i generosi assegni di disoccupazione fanno in modo che, almeno fino a un certo punto, in Europa non ci sia un eguale completo impoverimento delle persone come in America. E questi programmi contribuiscono anche a sostenere la spesa pubblica nel corso della crisi.

Ma tali “stabilizzatori automatici” non sostituiscono le azioni positive.

Perché l’Europa resta così al di sotto delle aspettative? In parte, questa situazione dipende da una guida modesta. I dirigenti del sistema bancario europeo, che hanno del tutto sottovalutato la profondità della crisi, appaiono tuttora stranamente compiaciuti. Per udire, in America, qualcosa di simile agli agnostici discorsi del ministro delle finanze tedesco, ebbene, bisogna ascoltare i repubblicani.

Ma c’è un problema più serio: l’integrazione economica e monetaria dell’Europa è andata troppo avanti, rispetto alle sue istituzioni politiche. Le economie di molte nazioni europee sono quasi altrettanto strettamente interconnesse delle economie di molti Stati americani, e gran parte dell’Europa condivide una moneta comune. Ma diversamente dall’America, l’Europa non è dotata di quel genere di istituzioni di dimensioni continentali necessarie a misurarsi con una crisi di dimensioni continentali.

Questa è la principale spiegazione della mancanza di una iniziativa di finanza pubblica: non c’è un governo che sia nelle condizioni di assumersi una responsabilità per conto dell’economia europea nel suo complesso. Al suo posto l’Europa ha governi nazionali, ognuno dei quali  è riluttante a far crescere rapidamente un ampio debito per finanziare un programma di sostegno che porterà un buon numero, se non la maggioranza, dei vantaggi agli elettori di altri paesi.

Vi potreste aspettare che la politica monetaria sia più energica. In fondo, se non c’è un governo europeo, c’è una Banca Centrale Europea. Ma la BCE non è come la Fed, che può permettersi di essere audace perché è sostenuta da un unico governo nazionale – un governo che ha già assunto iniziative per condividere i rischi dell’audacia della Fed, e che sicuramente darà copertura alla Fed se i suoi sforzi per sbloccare i mercati finanziari non andassero a buon fine. La BCE, che deve rispondere a 16 governi spesso in disputa tra di loro, non può contare su un analogo livello di sostegno.

L’Europa, in altre parole, si sta rivelando strutturalmente debole in tempi di crisi.

Il problema più grande è che questo avviene a scapito di quelle economie europee che sono grandemente cresciute nel contesto di moneta facile di pochi anni fa, la Spagna in particolare.

Per gran parte dello scorso decennio la Spagna ha funzionato come la Florida europea, la sua economia è stata tirata su da un vasto boom speculativo nel settore immobiliare. In questo momento la Spagna ha bisogno di trovare nuove fonti di reddito e di occupazione che rimpiazzino i posti di lavoro perduti nell’edilizia.

Nel passato, la Spagna avrebbe provato a migliorare la sua competitività svalutando la sua moneta. Ma adesso è nell’euro, e l’unica via d’uscita sembra essere un brusco processo di tagli salariali. Un processo del genere sarebbe stato difficile nei momenti buoni; esso sarà quasi inconcepibilmente doloroso se, come sembra anche troppo probabile, l’economia europea nel suo complesso sarà in condizioni di depressione e tenderà verso la deflazione per gli anni avvenire.

Tutto questo significa che l’Europa ha avuto torto allorché si è permessa livelli di integrazione così stringenti? Significa, in particolare, che la istituzione dell’euro è stata un errore? Può essere.

Ma l’Europa può ancora dimostrare che gli scettici sbagliano, se i suoi politici cominceranno a mostrare una maggiore capacità di guida. Lo faranno?   

 

 

 

 

  

 

   

 

 

 


 

Financial Policy Despair By PAUL KRUGMANPublished: March 22, 2009

 

Over the weekend The Times and other newspapers reported leaked details about the Obama administration’s bank rescue plan, which is to be officially released this week. If the reports are correct, Tim Geithner, the Treasury secretary, has persuaded President Obama to recycle Bush administration policy — specifically, the “cash for trash” plan proposed, then abandoned, six months ago by then-Treasury Secretary Henry Paulson.

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This is more than disappointing. In fact, it fills me with a sense of despair.

 

After all, we’ve just been through the firestorm over the A.I.G. bonuses, during which administration officials claimed that they knew nothing, couldn’t do anything, and anyway it was someone else’s fault. Meanwhile, the administration has failed to quell the public’s doubts about what banks are doing with taxpayer money.

 

 

And now Mr. Obama has apparently settled on a financial plan that, in essence, assumes that banks are fundamentally sound and that bankers know what they’re doing.

 

It’s as if the president were determined to confirm the growing perception that he and his economic team are out of touch, that their economic vision is clouded by excessively close ties to Wall Street. And by the time Mr. Obama realizes that he needs to change course, his political capital may be gone.

 

 

Let’s talk for a moment about the economics of the situation.

Right now, our economy is being dragged down by our dysfunctional financial system, which has been crippled by huge losses on mortgage-backed securities and other assets.

 

As economic historians can tell you, this is an old story, not that different from dozens of similar crises over the centuries. And there’s a time-honored procedure for dealing with the aftermath of widespread financial failure. It goes like this: the government secures confidence in the system by guaranteeing many (though not necessarily all) bank debts. At the same time, it takes temporary control of truly insolvent banks, in order to clean up their books.

 

That’s what Sweden did in the early 1990s. It’s also what we ourselves did after the savings and loan debacle of the Reagan years. And there’s no reason we can’t do the same thing now.

 

But the Obama administration, like the Bush administration, apparently wants an easier way out. The common element to the Paulson and Geithner plans is the insistence that the bad assets on banks’ books are really worth much, much more than anyone is currently willing to pay for them. In fact, their true value is so high that if they were properly priced, banks wouldn’t be in trouble.

 

And so the plan is to use taxpayer funds to drive the prices of bad assets up to “fair” levels. Mr. Paulson proposed having the government buy the assets directly. Mr. Geithner instead proposes a complicated scheme in which the government lends money to private investors, who then use the money to buy the stuff. The idea, says Mr. Obama’s top economic adviser, is to use “the expertise of the market” to set the value of toxic assets.

 

But the Geithner scheme would offer a one-way bet: if asset values go up, the investors profit, but if they go down, the investors can walk away from their debt. So this isn’t really about letting markets work. It’s just an indirect, disguised way to subsidize purchases of bad assets.

 

The likely cost to taxpayers aside, there’s something strange going on here. By my count, this is the third time Obama administration officials have floated a scheme that is essentially a rehash of the Paulson plan, each time adding a new set of bells and whistles and claiming that they’re doing something completely different. This is starting to look obsessive.

 

 

But the real problem with this plan is that it won’t work. Yes, troubled assets may be somewhat undervalued. But the fact is that financial executives literally bet their banks on the belief that there was no housing bubble, and the related belief that unprecedented levels of household debt were no problem. They lost that bet. And no amount of financial hocus-pocus — for that is what the Geithner plan amounts to — will change that fact.

 

 

 

You might say, why not try the plan and see what happens? One answer is that time is wasting: every month that we fail to come to grips with the economic crisis another 600,000 jobs are lost.

 

Even more important, however, is the way Mr. Obama is squandering his credibility. If this plan fails — as it almost surely will — it’s unlikely that he’ll be able to persuade Congress to come up with more funds to do what he should have done in the first place.

 

All is not lost: the public wants Mr. Obama to succeed, which means that he can still rescue his bank rescue plan. But time is running out.

 

Politica finanziaria senza speranza, di Paul Krugman

New York Times 22 marzo 2009

 

Sul Times e su altri giornali del fine settimana è stata riportata l’anticipazione di alcuni dettagli del progetto di salvataggio delle banche della amministrazione Obama, progetto che sarà reso ufficiale nel corso di questa settimana. Se tali resoconti sono corretti, Tim Geithner, il Segretario al Tesoro, avrebbe convinto il Presidente Obama a riciclare la politica della amministrazione Bush – precisamente quel progetto del “denaro in cambio di spazzatura” proposto, e successivamente abbandonato, sei mesi fa dall’allora Segretario al tesoro Henry Paulson.

Questo è più che deludente. Nei fatti, è una notizia che mi riempie di un senso di disperazione.

Dopo tutto, eravamo appena passati attraverso un fuoco di fila con il caso dei bonus della AIG, durante il quale i dirigenti della amministrazione avevano proclamato di non essere al corrente di niente, che non avrebbero potuto far niente, e che in ogni caso la colpa era di qualcun altro. Nel frattempo, la amministrazione non era riuscita a placare i dubbi di una opinione pubblica a proposito di ciò che stanno facendo le banche con i soldi dei contribuenti.

E ora Obama avrebbe, a quanto pare, preso la decisione di un piano finanziario che, nella sostanza, stabilisce che queste banche sono fondamentalmente sane e che quei banchieri sanno quello che fanno.

E’ come se il Presidente avesse deciso di confermare la crescente impressione che egli ed il suo gruppo di consulenti economici non siano in sintonia, che la visione dei problemi dell’economia da parte di questi ultimi sia annebbiata da legami troppo stretti con Wall Street. E quando verrà il momento in cui Obama si renderà conto di aver bisogno di cambiare registro, il suo capitale politico potrebbe essersi disperso.

Lasciatemi per un momento riepilogare la situazione economica.

In questo momento la nostra economia è come trascinata giù  dalle disfunzioni del nostro sistema finanziario, che è stato danneggiato dalle vaste perdite sui titoli collegati ai mutui ipotecari e su altri assets.

Come gli storici dell’economia potrebbero raccontarvi, questa è una vecchia storia, non particolarmente diversa da dozzine di crisi similari nel corso dei secoli. Ed esistono modalità, rispettate nel tempo, per misurarsi con le conseguenze di così ampi fallimenti finanziari. Le cose funzionano in questo modo: il governo assicura la fiducia nel sistema garantendo molti debiti delle banche (anche se non necessariamente tutti). Allo stesso tempo, esso assume il controllo delle banche effettivamente insolventi, al fine di mettere in ordine i loro bilanci.

Questo è quanto la Svezia fece agli inizi degli anni ’90. Questo è anche ciò che fecero gli americani dopo la débacle dei risparmi e dei prestiti negli anni di Reagan. E non c’è alcuna ragione per la quale non si debba fare lo stesso in questo frangente.

Ma la amministrazione Obama, come in precedenza la amministrazione Bush, sembra che desideri una via d’uscita più facile. Il punto in comune dei piani di Paulson e di Geithner è l’insistenza secondo la quale i cattivi assets nel bilanci delle banche valgono molto, molto di più di quanto ogni potenziale acquirente abbia attualmente intenzione di pagare. Nei fatti, il loro effettivo valore sarebbe così alto che se fossero correttamente valutati, le banche non avrebbero problemi.

Di conseguenza, l’idea è quella di utilizzare i fondi dei contribuenti per portare su i prezzi dei cattivi assets sino a livelli “giusti”. Paulson proponeva attraverso l’acquisto diretto da parte del Governo. Geithner invece propone uno schema complicato secondo il quale il Governo presta denaro ad investitori privati, i quali successivamente usano quei finanziamenti per acquistare la roba in questione. L’idea, dice il massimo consulente finanziario di Obama, è quella di utilizzare “la competenza del mercato” per assestare il valore dei titoli tossici.

Ma lo schema di Geithner offrirebbe una scommessa senza rischi: se il valore degli assets sale, gli investitori guadagnano, ma se esso scende, gli investitori possono liberarsi del loro debito. Dunque, questo non è proprio come lasciar funzionare il mercato. Si tratta semplicemente di un modo indiretto e camuffato per sussidiare l’acquisto di titoli tossici.

A parte la questione del probabile costo per i contribuenti, c’è qualcosa di strano in ciò che sta venendo fuori. Per quanto mi consta, è la terza volta che i dirigenti della amministrazione Obama hanno diffuso uno schema che è sostanzialmente una riedizione del piano Paulson, ogni volta aggiungendo un apparato di campanelle e fischietti[62], con la pretesa di aver confezionato un oggetto completamente diverso. Comincia a sembrare una ossessione.

Ma il vero problema di questo piano è che esso è destinato a non funzionare. Si, è possibile che nella stima degli assets problematici ci sia una qualche sottovalutazione. Ma il fatto è che i dirigenti del sistema finanziario hanno letteralmente messo in gioco le loro banche compiendo un atto di fede sulla inesistenza di una bolla immobiliare, nonché un ulteriore e correlato atto di fede sul fatto che i livelli di indebitamento senza precedenti delle famiglie, non fossero un problema. Essi hanno perso quella scommessa. E nessun importo del gioco di prestigio finanziario[63] – giacché in questo il piano Geithner consiste – cambierà questo dato di fatto.

Si può obiettare: perché non mettere alla prova il piano e vedere quello che succede? Una risposta è che si tratterebbe di tempo buttato via: ogni mese che perdiamo nel prendere di petto la crisi economica, se ne vanno altri 600.000 posti di lavoro.

Persino più importante, tuttavia, è il modo in cui Obama sta dilapidando la sua credibilità. Se questo piano fallisce – come è quasi certo che accadrà – è improbabile che egli sarà capace di convincere il Congresso ad approvare maggiori stanziamenti per fare ciò che avrebbe dovuto fare in prima istanza.

Non tutto è perduto: l’opinione pubblica desidera che Obama abbia successo, il che implica che egli ha ancora la possibilità di mettere in salvo un suo piano di salvataggio delle banche. Ma il tempo sta per scadere.   

 


      

The Market Mystique By PAUL KRUGMANPublished: March 26, 2009

 

On Monday, Lawrence Summers, the head of the National Economic Council, responded to criticisms of the Obama administration’s plan to subsidize private purchases of toxic assets. “I don’t know of any economist,” he declared, “who doesn’t believe that better functioning capital markets in which assets can be traded are a good idea.”

 

 

Leave aside for a moment the question of whether a market in which buyers have to be bribed to participate can really be described as “better functioning.” Even so, Mr. Summers needs to get out more. Quite a few economists have reconsidered their favorable opinion of capital markets and asset trading in the light of the current crisis.

 

 

 

But it has become increasingly clear over the past few days that top officials in the Obama administration are still in the grip of the market mystique. They still believe in the magic of the financial marketplace and in the prowess of the wizards who perform that magic.

The market mystique didn’t always rule financial policy. America emerged from the Great Depression with a tightly regulated banking system, which made finance a staid, even boring business. Banks attracted depositors by providing convenient branch locations and maybe a free toaster or two; they used the money thus attracted to make loans, and that was that.

 

 

And the financial system wasn’t just boring. It was also, by today’s standards, small. Even during the “go-go years,” the bull market of the 1960s, finance and insurance together accounted for less than 4 percent of G.D.P. The relative unimportance of finance was reflected in the list of stocks making up the Dow Jones Industrial Average, which until 1982 contained not a single financial company.

 

It all sounds primitive by today’s standards. Yet that boring, primitive financial system serviced an economy that doubled living standards over the course of a generation.

 

After 1980, of course, a very different financial system emerged. In the deregulation-minded Reagan era, old-fashioned banking was increasingly replaced by wheeling and dealing on a grand scale. The new system was much bigger than the old regime: On the eve of the current crisis, finance and insurance accounted for 8 percent of G.D.P., more than twice their share in the 1960s. By early last year, the Dow contained five financial companies — giants like A.I.G., Citigroup and Bank of America.

 

And finance became anything but boring. It attracted many of our sharpest minds and made a select few immensely rich.

 

Underlying the glamorous new world of finance was the process of securitization. Loans no longer stayed with the lender. Instead, they were sold on to others, who sliced, diced and puréed individual debts to synthesize new assets. Subprime mortgages, credit card debts, car loans — all went into the financial system’s juicer. Out the other end, supposedly, came sweet-tasting AAA investments. And financial wizards were lavishly rewarded for overseeing the process.

 

 

 

 

But the wizards were frauds, whether they knew it or not, and their magic turned out to be no more than a collection of cheap stage tricks. Above all, the key promise of securitization — that it would make the financial system more robust by spreading risk more widely — turned out to be a lie. Banks used securitization to increase their risk, not reduce it, and in the process they made the economy more, not less, vulnerable to financial disruption.

 

 

Sooner or later, things were bound to go wrong, and eventually they did. Bear Stearns failed; Lehman failed; but most of all, securitization failed.

 

Which brings us back to the Obama administration’s approach to the financial crisis.

Much discussion of the toxic-asset plan has focused on the details and the arithmetic, and rightly so. Beyond that, however, what’s striking is the vision expressed both in the content of the financial plan and in statements by administration officials. In essence, the administration seems to believe that once investors calm down, securitization — and the business of finance — can resume where it left off a year or two ago.

 

 

To be fair, officials are calling for more regulation. Indeed, on Thursday Tim Geithner, the Treasury secretary, laid out plans for enhanced regulation that would have been considered radical not long ago.

 

But the underlying vision remains that of a financial system more or less the same as it was two years ago, albeit somewhat tamed by new rules.

 

As you can guess, I don’t share that vision. I don’t think this is just a financial panic; I believe that it represents the failure of a whole model of banking, of an overgrown financial sector that did more harm than good. I don’t think the Obama administration can bring securitization back to life, and I don’t believe it should try.

 

La mistica del mercato, di Paul Krugman

New York Times, 26 marzo.

 

 

Lunedì scorso, Lawrence Summers, il capo del Consiglio Economico Nazionale, ha risposto alle critiche al piano della amministrazione Obama per sovvenzionare gli acquisti di titoli tossici da parte di privati. “Io non sono al corrente di nessun economista – ha dichiarato – che non creda che l’utilizzo dei mercati finanziari per mettere in vendita tali assets, per effetto del loro migliore funzionamento, non sia una buona idea”.

Lasciamo stare per un momento la questione se un mercato nel quale i compratori hanno bisogno di ricevere un premio per partecipare, possa realmente essere definito dotato di “miglior funzionamento”. Anche ammesso, il signor Summers ha evidentemente bisogno di andarsene un po’ di più in giro. Un discreto numero di economisti hanno rivalutato il proprio giudizio favorevole sui mercati di capitali e sugli acquisti di assets, alla luce della crisi corrente.

Il fatto è che nei giorni trascorsi si è venuto chiarendo sempre di più che i massimi responsabili della amministrazione Obama sono ancora sotto l’effetto della mistica del mercato. Essi credono ancora nella magia dei mercati finanziari e nella bravura dei maghi che mettono in atto tali incantesimi.

La mistica del mercato non ha sempre retto le politiche finanziarie. L’America venne fuori dalla Grande Depressione con un sistema finanziario strettamente regolamentato, che consentì alla finanza affari sobri, persino noiosi. Le banche attraevano i depositi provvedendo a convenienti localizzazioni delle filiali ed offrivano nel migliore dei casi uno o due brindisi; esse usavano il denaro attirato in questo modo per fare mutui, e questo era tutto.

E il sistema finanziario non era in fondo semplicemente noioso. Piuttosto, esso era  piccolo, per gli standars dei nostri giorni. Persino durante gli “anni a go-go”, con il mercato rialzista degli anni ’60, la finanze e le assicurazioni insieme contavano meno del 4% del PIL. La relativa irrilevanza della finanza si rifletteva nella lista dei titoli che andavano a comporre il Dow Jones Industrial Average, che sino al 1982 non conteneva neanche una impresa finanziaria.

Tutto ciò suona piuttosto primitivo per le condizioni attuali. Eppure, quel primitivo e noioso sistema finanziario ha servito un’economia che, nel corso di una generazione, ha raddoppiato gli standards della vita comune.

Dopo il 1980, naturalmente, si è affermato un sistema finanziario del tutto nuovo. Nell’era Reagan, tutta improntata alla deregolazione, quelle banche all’antica furono crescentemente rimpiazzate da un sistema affaristico[64] su larga scala. Il nuovo sistema era assai più grande di quello del vecchio regime: alla vigilia della crisi attuale la finanza e le assicurazioni realizzavano l’8 per cento del PIL, più del doppio della loro quota negli anni ’60. Agli inizi dell’anno passato, l’indice del Dow conteneva cinque compagnie finanziarie: giganti come AIG, Citygroup e Bank of America.

La finanza è diventata tutto meno che noiosa. Essa ha attratto molti dei nostri cervelli più fini ed ha selezionato un piccolo gruppo di individui immensamente ricchi.

Sottostante il nuovo affascinante mondo della finanza, ha avuto luogo il processo della espansione dei titoli azionari (securitization). I prestiti non si fermavano a lungo presso chi li concedeva. Piuttosto, essi venivano venduti ad altri, che tagliavano a fette, tritavano e trattavano al passatutto i debiti individuali per sintetizzare nuovi attivi. I subprime ipotecari, i debiti sulle carte di credito, i mutui per l’acquisto di automobili: tutto è entrato nel passatutto del sistema finanziario. E sul lato opposto, presumibilmente, c’erano gli investimenti comodamentemente valutati della massima attendibilità. Nel frattempo, i maghi della finanza venivano generosamente retribuiti per aver ‘vigilato’ sull’intero processo.

Ma i maghi, che lo sapessero o no, erano fraudolenti, e il loro incantesimo si è trasformato in poco più che una collezione di scenette di trucchi grossolani. Soprattutto, la promessa-chiave della espansione a dismisura dei titoli azionari, che avrebbe dovuto far diventare il sistema finanziario più robusto per effetto di una spalmatura assai più vasta del rischio, si è rivelata una menzogna. Le banche avevano usato quella espansione dei titoli per incrementare il loro rischio, non per ridurlo, e in quel processo esse hanno reso l’economia non meno, ma più vulnerabile alla rottura del sistema finanziario.

Presto o tardi, le cose erano indirizzate a finir male, e alla fine è successo. Bear Staerns è fallita, Lehman è fallita, ma soprattutto, la scommessa della smisurata espansione dei titoli è fallita.

Il che ci riporta al tema dell’approccio della amministrazione Obama alla crisi finanziaria.

Comprensibilmente, gran parte del dibattito sul piano dei titoli tossici si è focalizzato sui dettagli e sulla aritmetica. Dietro questo, tuttavia, ciò che è in ballo è la concezione che viene espressa sia nel contenuto del piano finanziario, sia nelle dichiarazioni dei dirigenti della amministrazione. Nella sostanza, la amministrazione sembra ritenere che una volta che gli investitori si saranno calmati, quel sistema di dilatazione dei titoli azionari e di fare affari da parte del mondo finanziario possa riacquistare ciò che aveva perso uno o due anni prima.

Ad esser giusti, i dirigenti si stanno esprimendo a favore di una maggiore regolazione. Infatti, giovedì scorso Tim Geithner, Segretario al Tesoro, ha presentato programmi per un miglioramento del sistema delle regole che sarebbe stato considerato radicale in un passato recente.

Ma la concezione che in questo modo si sottintende è quella di un sistema finanziario che resta più o meno lo stesso di due anni fa, quantunque in qualche misura sottomesso a nuove regole.

Come si è compreso, io non condivido questa visione. Io non credo che quello a cui stiamo assistendo sia solo una fibrillazione del mondo della finanza; io credo che si sia dinanzi al fallimento di un intero modello di “fare banca” da parte di un settore finanziario cresciuto sproporzionatamente, che ha provocato più guasti che vantaggi. Io non credo che la amministrazione Obama possa riportare in vita quel sistema di espansione illimitata dei titoli azionari, non credo neppure che dovrebbe provarci.        

 

 

       

      

 

 

   

   


 

America the Tarnished By PAUL KRUGMANPublished: March 29, 2009

Ten years ago the cover of Time magazine featured Robert Rubin, then Treasury secretary, Alan Greenspan, then chairman of the Federal Reserve, and Lawrence Summers, then deputy Treasury secretary. Time dubbed the three “the committee to save the world,” crediting them with leading the global financial system through a crisis that seemed terrifying at the time, although it was a small blip compared with what we’re going through now.

 

All the men on that cover were Americans, but nobody considered that odd. After all, in 1999 the United States was the unquestioned leader of the global crisis response. That leadership role was only partly based on American wealth; it also, to an important degree, reflected America’s stature as a role model. The United States, everyone thought, was the country that knew how to do finance right.

 

How times have changed.

Never mind the fact that two members of the committee have since succumbed to the magazine cover curse, the plunge in reputation that so often follows lionization in the media. (Mr. Summers, now the head of the National Economic Council, is still going strong.) Far more important is the extent to which our claims of financial soundness — claims often invoked as we lectured other countries on the need to change their ways — have proved hollow.

 

 

Indeed, these days America is looking like the Bernie Madoff of economies: for many years it was held in respect, even awe, but it turns out to have been a fraud all along.

 

 

It’s painful now to read a lecture that Mr. Summers gave in early 2000, as the economic crisis of the 1990s was winding down. Discussing the causes of that crisis, Mr. Summers pointed to things that the crisis countries lacked — and that, by implication, the United States had. These things included “well-capitalized and supervised banks” and reliable, transparent corporate accounting. Oh well.

 

One of the analysts Mr. Summers cited in that lecture, by the way, was the economist Simon Johnson. In an article in the current issue of The Atlantic, Mr. Johnson, who served as the chief economist at the I.M.F. and is now a professor at M.I.T., declares that America’s current difficulties are “shockingly reminiscent” of crises in places like Russia and Argentina — including the key role played by crony capitalists.

 

In America as in the third world, he writes, “elite business interests — financiers, in the case of the U.S. — played a central role in creating the crisis, making ever-larger gambles, with the implicit backing of the government, until the inevitable collapse. More alarming, they are now using their influence to prevent precisely the sorts of reforms that are needed, and fast, to pull the economy out of its nosedive.”

 

 

It’s no wonder, then, that an article in yesterday’s Times about the response President Obama will receive in Europe was titled “English-Speaking Capitalism on Trial.”

Now, in fairness we have to say that the United States was far from being the only nation in which banks ran wild. Many European leaders are still in denial about the continent’s economic and financial troubles, which arguably run as deep as our own — although their nations’ much stronger social safety nets mean that we’re likely to experience far more human suffering. Still, it’s a fact that the crisis has cost America much of its credibility, and with it much of its ability to lead.

 

And that’s a very bad thing.

Like many other economists, I’ve been revisiting the Great Depression, looking for lessons that might help us avoid a repeat performance. And one thing that stands out from the history of the early 1930s is the extent to which the world’s response to crisis was crippled by the inability of the world’s major economies to cooperate.

 

The details of our current crisis are very different, but the need for cooperation is no less. President Obama got it exactly right last week when he declared: “All of us are going to have to take steps in order to lift the economy. We don’t want a situation in which some countries are making extraordinary efforts and other countries aren’t.”

Yet that is exactly the situation we’re in. I don’t believe that even America’s economic efforts are adequate, but they’re far more than most other wealthy countries have been willing to undertake. And by rights this week’s G-20 summit ought to be an occasion for Mr. Obama to chide and chivy European leaders, in particular, into pulling their weight.

 

 

But these days foreign leaders are in no mood to be lectured by American officials, even when — as in this case — the Americans are right.

 

The financial crisis has had many costs. And one of those costs is the damage to America’s reputation, an asset we’ve lost just when we, and the world, need it most.

 

La malfamata America[65], di Paul Krugman

New York Times, 29 marzo 2009

 

Dieci anni fa la copertina di Time Magazine mostrava le immagini di Robert Rubin, allora Segretario al Tesoro, di Alan Greenspan, allora Presidente della Federal Reserve, e di Lawrence Summers, allora vicesegretario al Tesoro. Time definiva i tre come “il comitato per la salvezza del mondo”, accreditandoli di una leadership del sistema finanziario globale, nel mezzo di una crisi che sembrava per quei tempi spaventosa, sebbene si trattasse di poca cosa, in confronto a quanto stiamo attraversando oggi.

Gli uomini di quella copertina erano tutti americani, ma nessuno lo considerava strano. In fondo, nel 1999 gli Stati Uniti erano senza discussione i responsabili della risposta alla crisi globale. Quel ruolo di guida era solo in parte basato sulla ricchezza dell’America; in una misura importante esso rifletteva anche la statura dell’America come modello di comportamento[66]. Gli Stati Uniti, ognuno pensava, erano il paese che sapeva come governare i processi finanziari nel modo giusto.

Quanta acqua è passata sotto i ponti.

Non ha importanza il fatto che due componenti di quel comitato, da allora, siano finiti in disgrazia sulle copertine delle riviste, per effetto di una caduta nella reputazione che nei media assai frequentemente si avvicenda ai momenti di celebrità (Summers, che ora presiede il Consiglio Economico Nazionale, è ancora sulla cresta dell’onda). Assai più importante è il fatto che la valutazione sulla quale fondiamo le nostre pretese di solidità finanziaria – pretese spesso invocate quando facciamo prediche ad altri paesi sulla necessità per essi di cambiar strada – si sia dimostrata vuota.

L’America di questi giorni assomiglia piuttosto a qualcosa che potremmo definire come il Bernie Madoff delle economie: per molti anni essa è stata considerata con rispetto, persino con soggezione, ma è andata a finire che era stato tutto un inganno.

E’ doloroso oggi rileggere una conferenza che Summers tenne agli inizi del 2000, quando la crisi economica degli anni 90 era stata archiviata. Nel discutere di quella crisi, Summers aveva messo l’accento su ciò che era mancato nelle difficoltà di vari paesi; condizioni sulle quali, al confronto, gli Stati Uniti avevano invece potuto contare. Tra queste caratteristiche aveva incluso “un sistema bancario ben capitalizzato e ben controllato”, ed un affidabile, trasparente sistema di contabilità. Ma guarda un po’!

Uno degli analisti citati da Summers in quella conferenza, naturalmente, era l’economista Simon Johnson. In un articolo sulla edizione corrente di The Atlantic, Johnson, che attualmente è il principale economista del FMI nonché professore al MIT, afferma che le attuali difficoltà dell’America “fanno venire in mente in modo impressionante” le crisi in luoghi come la Russia e l’Argentina, incluso il ruolo chiave giocato dai capitalisti “amici del potere”.

In America come nel terzo mondo, egli scrive, “elites degli interessi affaristici – uomini del settore finanziario, nel caso degli Stati Uniti – hanno giocato un ruolo centrale nel provocare la crisi, facendo scommesse su scala sempre più larga, con l’implicita copertura del governo, sino all’inevitabile collasso. Ancora più allarmante, costoro stanno ora usando la loro influenza per impedire sul nascere proprio quel genere di riforme che sono necessarie all’economia, in modo da tirarla fuori con fermezza dalla caduta in picchiata”.

Non meraviglia, dunque, che un articolo del Times di ieri a proposito della accoglienza che il Presidente Obama  riceverà in Europa, avesse per titolo “Il capitalismo in lingua inglese alla prova”.

Ora, onestamente dobbiamo dire che gli Stati Uniti non sono certo l’unico paese nel quale le banche hanno funzionato con sregolatezza. Molti leaders europei tendono e minimizzare i guai economici e finanziari del continente, che da quanto si può capire sono profondi come i nostri, sebbene le reti di protezione sociale molto più solide delle loro nazioni indichino che noi dovremo fronteggiare una esperienza assai più aspra di sofferenza delle persone.  E’ anche un fatto che la crisi comporta per l’America il prezzo di una parte considerevole della sua credibilità, e con essa della sua capacità di leadership.

E questa è senz’altro una cosa negativa.

Come molti altri economisti, sono andato a rivisitare la storia della Grande Depressione, alla ricerca di lezioni che ci possano aiutare ad evitare una analoga esperienza. E una cosa che emerge con chiarezza dalla storia dei primi anni 30 è la misura in cui la risposta del mondo alla crisi fu allora danneggiata dalla incapacità delle maggiori economie a collaborare.

I dettagli della crisi attuale sono molto differenti, ma il bisogno della cooperazione non è minore. Il Presidente Obama ha percepito ciò con assoluta chiarezza quando, la scorsa settimana, ha dichiarato: “Tutti noi dobbiamo fare passi concreti per risollevare l’economia. Noi non desideriamo una situazione nella quale alcuni paesi facciano sforzi straordinari ed altri no.”

Ciononostante, questa è esattamente la situazione nella quale ci troviamo. Io non credo che neanche gli sforzi dell’America siano adeguati, ma essi sono assai maggiori  della propensione ad impegnarsi della gran parte dei paesi ricchi. Per giustizia, il summit del G20 di questo fine settimana dovrebbe, dunque, essere una occasione per Obama per muovere un rimprovero e per mostrare la propria proccupazione ai leaders europei, in particolare per spingerli ad  impegnare il loro effettivo potenziale.

Ma i leaders stranieri, in questi giorni, non devono in alcun modo ricevere prediche dai dirigenti americani, persino quando, come in questo caso, questi ultimi hanno ragione.

La crisi finanziaria ha avuto molti costi. Ed uno di questi costi è il danno che abbiamo ricevuto alla reputazione dell’America, un asset che abbiamo perduto proprio nel momento in cui, noi ed il mondo, ne avevamo maggior bisogno.  

 

 

 

 


 

China’s Dollar Trap By PAUL KRUGMANPublished: April 2, 2009

 

Back in the early stages of the financial crisis, wags joked that our trade with China had turned out to be fair and balanced after all: They sold us poison toys and tainted seafood; we sold them fraudulent securities.

 

But these days, both sides of that deal are breaking down. On one side, the world’s appetite for Chinese goods has fallen off sharply. China’s exports have plunged in recent months and are now down 26 percent from a year ago. On the other side, the Chinese are evidently getting anxious about those securities.

But China still seems to have unrealistic expectations. And that’s a problem for all of us.

 

The big news last week was a speech by Zhou Xiaochuan, the governor of China’s central bank, calling for a new “super-sovereign reserve currency.”

 

The paranoid wing of the Republican Party promptly warned of a dastardly plot to make America give up the dollar. But Mr. Zhou’s speech was actually an admission of weakness. In effect, he was saying that China had driven itself into a dollar trap, and that it can neither get itself out nor change the policies that put it in that trap in the first place.

 

Some background: In the early years of this decade, China began running large trade surpluses and also began attracting substantial inflows of foreign capital. If China had had a floating exchange rate — like, say, Canada — this would have led to a rise in the value of its currency, which, in turn, would have slowed the growth of China’s exports.

 

But China chose instead to keep the value of the yuan in terms of the dollar more or less fixed. To do this, it had to buy up dollars as they came flooding in. As the years went by, those trade surpluses just kept growing — and so did China’s hoard of foreign assets.

 

Now the joke about fraudulent securities was actually unfair. Aside from a late, ill-considered plunge into equities (at the very top of the market), the Chinese mainly accumulated very safe assets, with U.S. Treasury bills — T-bills, for short — making up a large part of the total. But while T-bills are as safe from default as anything on the planet, they yield a very low rate of return.

 

 

Was there a deep strategy behind this vast accumulation of low-yielding assets? Probably not. China acquired its $2 trillion stash — turning the People’s Republic into the T-bills Republic — the same way Britain acquired its empire: in a fit of absence of mind.

 

And just the other day, it seems, China’s leaders woke up and realized that they had a problem.

The low yield doesn’t seem to bother them much, even now. But they are, apparently, worried about the fact that around 70 percent of those assets are dollar-denominated, so any future fall in the dollar would mean a big capital loss for China. Hence Mr. Zhou’s proposal to move to a new reserve currency along the lines of the S.D.R.’s, or special drawing rights, in which the International Monetary Fund keeps its accounts.

 

But there’s both less and more here than meets the eye. S.D.R.’s aren’t real money. They’re accounting units whose value is set by a basket of dollars, euros, Japanese yen and British pounds. And there’s nothing to keep China from diversifying its reserves away from the dollar, indeed from holding a reserve basket matching the composition of the S.D.R.’s — nothing, that is, except for the fact that China now owns so many dollars that it can’t sell them off without driving the dollar down and triggering the very capital loss its leaders fear.

 

So what Mr. Zhou’s proposal actually amounts to is a plea that someone rescue China from the consequences of its own investment mistakes. That’s not going to happen.

 

And the call for some magical solution to the problem of China’s excess of dollars suggests something else: that China’s leaders haven’t come to grips with the fact that the rules of the game have changed in a fundamental way.

Two years ago, we lived in a world in which China could save much more than it invested and dispose of the excess savings in America. That world is gone.

 

Yet the day after his new-reserve-currency speech, Mr. Zhou gave another speech in which he seemed to assert that China’s extremely high savings rate is immutable, a result of Confucianism, which values “anti-extravagance.” Meanwhile, “it is not the right time” for the United States to save more. In other words, let’s go on as we were.

 

 

That’s also not going to happen.

The bottom line is that China hasn’t yet faced up to the wrenching changes that will be needed to deal with this global crisis. The same could, of course, be said of the Japanese, the Europeans — and us.

 

And that failure to face up to new realities is the main reason that, despite some glimmers of good news — the G-20 summit accomplished more than I thought it would — this crisis probably still has years to run.

 

La Cina e la trappola del dollaro, di Paul Krugman

New York Times, 2 aprile 2009

 

Tempo fa, nei primi momenti della crisi finanziaria, i buontemponi scherzavano sul fatto che, in fondo, il commercio USA con la Cina fosse finito col diventare giusto ed equilibrato: essi ci avevano venduto giocattoli avvelenati e pesce contaminato; noi gli avevamo venduto titoli fraudolenti.

Ma, in questi giorni, entrambi i lati di questo scambio sono entrati in crisi. Da una parte, l’appetito mondiale per i beni cinesi è caduto bruscamente. Nei mesi recenti le esportazioni cinesi sono crollate e sono oggi sotto del 26 per cento rispetto ad un anno fa. D’altra parte, i cinesi stanno diventando con tutta evidenza ansiosi sui dei nostri titoli.

Eppure la Cina sembra ancora avere aspettative irrealistiche. E questo è un problema per tutti.

La grande notizia della scorsa settimana era stato un discorso di Zhou Xiaochuan, il Governatore della Banca Centrale della Cina, nel corso del quale egli si era pronunciato a favore di una nuova “moneta di riserva super-sovrana”.

L’ala paranoide del Partito Repubblicano aveva immediatamente messo in guardia contro un ignobile complotto rivolto a costringere l’America a lasciare indifeso il dollaro. Ma, in realtà, il discorso di Zhou era una ammissione di debolezza. In effetti, egli aveva dichiarato che la Cina era finita dentro la trappola del dollaro e che non poteva né tirarsene fuori, né modificare le politiche che per prime l’avevano cacciata in quell’imbroglio.

Qualche antefatto: nei primi anni di questo decennio, la Cina cominciò a gestire ampi surplus commerciali e cominciò anche ad attrarre flussi di capitali stranieri. Se la Cina avesse avuto un tasso di cambio fluttuante – come, ad esempio, il Canada – questo l’avrebbe condotta ad innalzare il valore della propria moneta, il che, a sua volta, avrebbe rallentato la crescita delle esportazioni cinesi.

Ma la Cina scelse, invece, di fissare il valore dello yuan in rapporto più o meno fisso con il dollaro. Per far ciò, essa doveva acquistare dollari nella misura in cui gli piovevano addosso. Con il passare degli anni, quei surplus commerciali presero davvero a crescere, e in questo modo la Cina accumulò assets stranieri.

A quel punto, lo scherzo dei titoli fraudolenti divenne in effetti sleale. A parte, da un lato, il tuffo sconsiderato nelle azioni ordinarie (ai livelli più alti del mercato), i cinesi accumularono principalmente assets molto sicuri: i buoni del Tesoro USA – in breve, T-bills – costituirono una larga parte del totale. Ma, a parte il fatto che i buoni del Tesoro sono al sicuro dal rischio di default come ogni cosa sul pianeta, essi fruttano un tasso di interesse molto basso.

C’era una riflettuta strategia, dietro questa vasta accumulazione di assets a basso rendimento? Probabilmente no. La Cina acquistò i suoi 2 trilioni di riserva – trasformando la Repubblica del Popolo in Repubblica dei Buoni del Tesoro – nello stesso modo in cui la Gran Bretagna acquistò il suo impero: a seguito di un impulso irriflessivo.

E solo nei giorni scorsi, a quanto sembra, i leaders cinesi si sono svegliati ed hanno compreso che avevano un problema.

Il basso rendimento non pare che gli avesse dato molta pena, sino a quel punto. Ma essi, a quanto sembra, sono preoccupati del fatto che circa il 70 per cento di quegli assets sono classificati come dollari, cosicché ogni futura caduta del dollaro comporterebbe una grande perdita di capitale per la Cina. Da qui la proposta di Zhou di creare una nuova moneta di riserva sul genere dei diritti speciali di prelievo, sulla base dei quali il Fondo Monetario Internazionale tiene la sua contabilità.

Ma balza agli occhi che in questa soluzione c’è, nello stesso tempo, troppo e troppo poco. I diritti speciali di prelievo non sono una vera moneta. Essi sono unità contabili il cui valore è dato da un cestino di dollari, euro, yen giapponese e sterline inglesi. E non c’è niente che impedisca alla Cina di diversificare le sue riserve in monete diverse dal dollaro, piuttosto che possedere un cestino di riserve che faccia il paio della composizione dei fondi speciali di prelievo; niente, se non il fatto che la Cina oggi possiede molti dollari e che non può metterli in vendita senza provocare una caduta del valore di quella moneta, innescando così quella effettiva perdita di capitale che i suoi leaders temono.

Così, quello che Zhou propone in realtà corrisponde ad un pretesto, per effetto del quale qualcuno dovrebbe salvare la Cina dalle conseguenze dei suoi investimenti sbagliati. Il che non è probabile che accada.

E la richiesta di una qualche magica soluzione al problema dei dollari in eccesso posseduti dalla Cina, suggerisce qualcosa d’altro: che i leaders cinesi ancora non riescono a misurarsi con il fatto che è avvenuto un cambiamento di fondo nelle regole del gioco.

Due anni fa, vivevamo il un mondo nel quale la Cina poteva risparmiare molto di più di quanto non potesse investire e mettere a disposizione dell’America questo eccesso di risparmio. Questo mondo è finito.

Eppure, il giorno dopo il discorso sulla nuova moneta di riserva, Zhou, in un’altra esternazione, sembra che abbia asserito che l’estremamente elevato tasso di risparmio della Cina sia destinato a restare immutabile, quasi una eredità del confucianesimo, che si basa sulla valorizzazione della austerità. Nel frattempo, non sarebbe “il momento opportuno” per gli Stati Uniti per risparmiare maggiormente. In altre parole: andiamo avanti così senza cambiar niente.

Anche questo non è probabile che accada.

La questione di fondo è che la Cina non ha ancora guardato in faccia i cambiamenti e gli strappi che saranno necessari per affrontare questa crisi globale. Naturalmente, lo stesso si potrebbe dire dei giapponesi, degli europei e di noi americani.

E l’incapacità a misurarsi con le nuove realtà è la ragione principale per la quale, a dispetto di alcuni barlumi di buone notizie – il summit del G20, ad esempio, ha conseguito un risultato maggiore di quanto immaginassi – questa crisi probabilmente durerà ancora anni.

 

 


 

 

Making Banking Boring By PAUL KRUGMANPublished: April 9, 2009

Thirty-plus years ago, when I was a graduate student in economics, only the least ambitious of my classmates sought careers in the financial world. Even then, investment banks paid more than teaching or public service — but not that much more, and anyway, everyone knew that banking was, well, boring.

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In the years that followed, of course, banking became anything but boring. Wheeling and dealing flourished, and pay scales in finance shot up, drawing in many of the nation’s best and brightest young people (O.K., I’m not so sure about the “best” part). And we were assured that our supersized financial sector was the key to prosperity.

 

Instead, however, finance turned into the monster that ate the world economy.

Recently, the economists Thomas Philippon and Ariell Reshef circulated a paper that could have been titled “The Rise and Fall of Boring Banking” (it’s actually titled “Wages and Human Capital in the U.S. Financial Industry, 1909-2006”). They show that banking in America has gone through three eras over the past century.

 

Before 1930, banking was an exciting industry featuring a number of larger-than-life figures, who built giant financial empires (some of which later turned out to have been based on fraud). This highflying finance sector presided over a rapid increase in debt: Household debt as a percentage of G.D.P. almost doubled between World War I and 1929.

 

During this first era of high finance, bankers were, on average, paid much more than their counterparts in other industries. But finance lost its glamour when the banking system collapsed during the Great Depression.

 

The banking industry that emerged from that collapse was tightly regulated, far less colorful than it had been before the Depression, and far less lucrative for those who ran it. Banking became boring, partly because bankers were so conservative about lending: Household debt, which had fallen sharply as a percentage of G.D.P. during the Depression and World War II, stayed far below pre-1930s levels.

 

Strange to say, this era of boring banking was also an era of spectacular economic progress for most Americans.

 

After 1980, however, as the political winds shifted, many of the regulations on banks were lifted — and banking became exciting again. Debt began rising rapidly, eventually reaching just about the same level relative to G.D.P. as in 1929. And the financial industry exploded in size. By the middle of this decade, it accounted for a third of corporate profits.

As these changes took place, finance again became a high-paying career — spectacularly high-paying for those who built new financial empires. Indeed, soaring incomes in finance played a large role in creating America’s second Gilded Age.

 

 

Needless to say, the new superstars believed that they had earned their wealth. “I think that the results our company had, which is where the great majority of my wealth came from, justified what I got,” said Sanford Weill in 2007, a year after he had retired from Citigroup. And many economists agreed.

 

Only a few people warned that this supercharged financial system might come to a bad end. Perhaps the most notable Cassandra was Raghuram Rajan of the University of Chicago, a former chief economist at the International Monetary Fund, who argued at a 2005 conference that the rapid growth of finance had increased the risk of a “catastrophic meltdown.” But other participants in the conference, including Lawrence Summers, now the head of the National Economic Council, ridiculed Mr. Rajan’s concerns.

And the meltdown came.

 

Much of the seeming success of the financial industry has now been revealed as an illusion. (Citigroup stock has lost more than 90 percent of its value since Mr. Weill congratulated himself.) Worse yet, the collapse of the financial house of cards has wreaked havoc with the rest of the economy, with world trade and industrial output actually falling faster than they did in the Great Depression. And the catastrophe has led to calls for much more regulation of the financial industry.

 

 

But my sense is that policy makers are still thinking mainly about rearranging the boxes on the bank supervisory organization chart. They’re not at all ready to do what needs to be done — which is to make banking boring again.

 

Part of the problem is that boring banking would mean poorer bankers, and the financial industry still has a lot of friends in high places. But it’s also a matter of ideology: Despite everything that has happened, most people in positions of power still associate fancy finance with economic progress.

Can they be persuaded otherwise? Will we find the will to pursue serious financial reform? If not, the current crisis won’t be a one-time event; it will be the shape of things to come.

 

Riportiamo la noia nelle banche

di Paul Krugman

New York Times 9 aprile 2009

Più di trent’anni fa, quando ero studente universitario in economia, solo il meno ambizioso del mio corso cercava di far carriera nel mondo della finanza. Anche allora nelle banche di investimento[67] si guadagnava di più che nell’insegnamento o nei servizi pubblici, ma non tanto quanto oggi e, in ogni caso, ognuno sapeva che le banche erano, a dirla tutta, noiose.

Negli anni successivi, naturalmente, le banche divennero tutto meno che noiose. Gli affari divennero floridi e le retribuzioni nel settore finanziario si impennarono,  attirando i giovani americani migliori e più brillanti (beh, su fatto che fossero i “migliori” si può discutere). Ci fu assicurato che il nostro sovradimensionato settore finanziario era la chiave della prosperità.

Invece, in qualche modo, la finanza si è trasformata nel mostro che ha mangiato l’economia mondiale.

Di recente, gli economisti Thomas Philippon e Ariel Reshef hanno messo in circolazione uno scritto che potrebbe essere intitolato “Ascesa e crollo del noioso sistema bancario” (in effetti il titolo è “Salari e capitale umano nel settore finanziario americano. 1909-2006”). Essi mostrano in che modo il sistema bancario è passato attraverso tre fasi nel corso dell’ultimo secolo.

Prima del 1930, le banche erano un settore eccitante dell’economia che si caratterizzava per una varietà di personaggi esagerati[68], i quali fondavano imperi finanziari giganteschi (alcuni dei quali, successivamente, si mostravano costruiti sulla frode). Questa finanza dalle grandi ambizioni[69] fu alla base di una rapida crescita del debito: il debito delle famiglie in percentuale al PIL quasi raddoppiò. tra la Prima Guerra Mondiale ed il 1929.

Durante questa prima epoca dell’alta finanza, i banchieri erano pagati molto di più dei loro colleghi negli altri comparti economici. Ma il fascino della finanza cessò di colpo, al momento del collasso delle banche durante la Grande Depressione.

Il settore bancario che emerse da quel collasso divenne strettamente regolamentato, molto meno luccicante[70] del periodo precedente alla Depressione, e molto meno lucrativo per coloro che lo gestivano. Le banche divennero noiose, in parte perché i banchieri erano molto cauti nel dare prestiti: il debito delle famiglie in percentuale al PIL, che era precipitato durante la Depressione e la Seconda Guerra Mondiale, rimase assai sotto i livelli degli anni 30.

Strano a dirsi, quest’epoca di ‘noia bancaria’ fu anche un’epoca di progresso economico spettacolare per la gran parte degli americani.

Dopo il 1980, tuttavia, quando cambiarono i venti della politica, molte delle regole sulle banche vennero tolte di mezzo, e il sistema divenne nuovamente eccitante. Il debito cominciò a salire rapidamente, in effetti raggiungendo, in rapporto al PIL, proprio lo stesso livello del 1929. E il settore finanziario esplose nelle sue dimensioni. Alla metà di questo decennio, esso realizzava un terzo dei profitti delle imprese.

Nel momento in cui questi cambiamenti presero piede, la finanza tornò ad essere una carriera di alte retribuzioni, spettacolarmente elevate per coloro che costruivano i nuovi imperi finanziari. In effetti, i redditi schizzati alle stelle del settore finanziario giocarono un ruolo fondamentale nel dar vita alla seconda Età dell’Oro americana.

Non è il caso di dire che le nuove stelle erano persuase di essersi guadagnate la loro ricchezza. “Io credo che i risultati ottenuti dalla mia società, che sono in gran parte all’origine della mia ricchezza, giustifichino quello che ho ricevuto”, disse Sanford Weill nel 2007, un anno dopo essere andato in pensione da Citigroup. E molti economisti ne convennero.

Solo poche persone misero in guardia sul fatto che questo sovraccarico sistema finanziario avrebbe potuto avere un brutta fine. Forse la più eminente Cassandra fu Raghuram Rajan dell’Università di Chicago, un ex economista capo del Fondo Monetario Internazionale, il quale in una conferenza del 2005 affermò che quella rapida crescita della finanza avrebbe accresciuto il rischio di un “disastro catastrofico[71]”. Ma altri partecipanti a quella conferenza, compreso Lawrence Summers, oggi a capo del National Economic Council, misero in ridicolo le preoccupazioni di Rajan.

E il disastro arrivò.

Gran parte dell’apparente successo del settore finanziario, si è oggi rivelato illusorio (le azioni di Citigroup hanno perso più del 90 per cento del loro valore dal momento in cui il signor Weill si congratulava con se stesso). La cosa peggiore, tuttavia, è stato il collasso delle aziende finanziarie delle carte di credito, che ha portato distruzione nella parte restante dell’economia, con un commercio mondiale ed una produzione industriale che sta effettivamente cadendo più velocemnete di quanto non fece con la Grande Depressione. E la catastrofe ha portato alle richieste di una regolamentazione molto maggiore del settore finanziario.

Ma la mia sensazione è che gli uomini politici stiano più che altro pensando ad alcune correzioni ai contenuti dello statuto organizzativo della vigilanza sulle banche. Essi non sono affatto pronti a fare quello che dovrebbe essere fatto, ovvero a far tornare un’altra volta noioso il sistema bancario.

Una parte del problema è che un sistema bancario noioso significherebbe banchieri più poveri, e il sistema finanziario ha ancora un bel po’ di amici nelle alte sfere. Ma è anche una faccenda ideologica: a dispetto di tutto quanto è accaduto, molte persone in posizioni di potere associano ancora  la finanza fantasiosa e il successo economico.

Sarà possibile convincerli diversamente? Troveranno la voglia di lavorare ad una seria riforma finanziaria? Se non sarà così, la crisi attuale non resterà un evento straordinario; essa sarà l’annuncio[72] di ciò che deve ancora succedere.


 

Tea Parties Forever By PAUL KRUGMANPublished: April 12, 2009

This is a column about Republicans — and I’m not sure I should even be writing it.

 

Today’s G.O.P. is, after all, very much a minority party. It retains some limited ability to obstruct the Democrats, but has no ability to make or even significantly shape policy.

 

Beyond that, Republicans have become embarrassing to watch. And it doesn’t feel right to make fun of crazy people. Better, perhaps, to focus on the real policy debates, which are all among Democrats.

 

But here’s the thing: the G.O.P. looked as crazy 10 or 15 years ago as it does now. That didn’t stop Republicans from taking control of both Congress and the White House. And they could return to power if the Democrats stumble. So it behooves us to look closely at the state of what is, after all, one of our nation’s two great political parties.

 

 

One way to get a good sense of the current state of the G.O.P., and also to see how little has really changed, is to look at the “tea parties” that have been held in a number of places already, and will be held across the country on Wednesday. These parties — antitaxation demonstrations that are supposed to evoke the memory of the Boston Tea Party and the American Revolution — have been the subject of considerable mockery, and rightly so.

 

But everything that critics mock about these parties has long been standard practice within the Republican Party.

Thus, President Obama is being called a “socialist” who seeks to destroy capitalism. Why? Because he wants to raise the tax rate on the highest-income Americans back to, um, about 10 percentage points less than it was for most of the Reagan administration. Bizarre.

 

But the charge of socialism is being thrown around only because “liberal” doesn’t seem to carry the punch it used to. And if you go back just a few years, you find top Republican figures making equally bizarre claims about what liberals were up to. Remember when Karl Rove declared that liberals wanted to offer “therapy and understanding” to the 9/11 terrorists?

 

 

Then there are the claims made at some recent tea-party events that Mr. Obama wasn’t born in America, which follow on earlier claims that he is a secret Muslim. Crazy stuff — but nowhere near as crazy as the claims, during the last Democratic administration, that the Clintons were murderers, claims that were supported by a campaign of innuendo on the part of big-league conservative media outlets and figures, especially Rush Limbaugh.

 

 

 

Speaking of Mr. Limbaugh: the most impressive thing about his role right now is the fealty he is able to demand from the rest of the right. The abject apologies he has extracted from Republican politicians who briefly dared to criticize him have been right out of Stalinist show trials. But while it’s new to have a talk-radio host in that role, ferocious party discipline has been the norm since the 1990s, when Tom DeLay, the House majority leader, became known as “The Hammer” in part because of the way he took political retribution on opponents.

 

 

 

Going back to those tea parties, Mr. DeLay, a fierce opponent of the theory of evolution — he famously suggested that the teaching of evolution led to the Columbine school massacre — also foreshadowed the denunciations of evolution that have emerged at some of the parties.

 

Last but not least: it turns out that the tea parties don’t represent a spontaneous outpouring of public sentiment. They’re AstroTurf (fake grass roots) events, manufactured by the usual suspects. In particular, a key role is being played by FreedomWorks, an organization run by Richard Armey, the former House majority leader, and supported by the usual group of right-wing billionaires. And the parties are, of course, being promoted heavily by Fox News.

 

But that’s nothing new, and AstroTurf has worked well for Republicans in the past. The most notable example was the “spontaneous” riot back in 2000 — actually orchestrated by G.O.P. strategists — that shut down the presidential vote recount in Florida’s Miami-Dade County.

 

 

So what’s the implication of the fact that Republicans are refusing to grow up, the fact that they are still behaving the same way they did when history seemed to be on their side? I’d say that it’s good for Democrats, at least in the short run — but it’s bad for the country.

For now, the Obama administration gains a substantial advantage from the fact that it has no credible opposition, especially on economic policy, where the Republicans seem particularly clueless.

 

But as I said, the G.O.P. remains one of America’s great parties, and events could still put that party back in power. We can only hope that Republicans have moved on by the time that happens.

 

“Un “tea party” infinito”di Paul Krugman

New York Times 12 aprile

 

Questo è un articolo sui Repubblicani, e non sono nemmeno sicuro che avrei dovuto scriverlo.

Dopo tutto, il Partito Repubblicano di oggi è davvero un partito minoritario. Esso mantiene una qualche limitata capacità di ostruzionismo nei confronti dei democratici, ma non è capace di fare politica e neppure di delinearla con un qualche senso[73].

Più ancora, osservare i repubblicani è diventato imbarazzante. E non è cosa giusta farsi beffe di persone strampalate. Sarebbe meglio, forse, mettere a fuoco il reale dibattito politico, che avviene tutto tra i democratici.

Ma la questione è la seguente: il Great Old Party, dieci o quindici anni fa,  sembrava fuori di senno esattamente come adesso. La qual cosa non impedì ai repubblicani di prendere il controllo di entrambi i rami del Congresso e della Casa Bianca. Ed essi potrebbero tornare al potere se i democratici fanno un passo falso. Per questo è conveniente che si osservi da vicino la condizione di quello che rimane uno dei due grandi partiti politici della nostra nazione.

Un modo per avere una percezione esatta della condizione attuale del GOP, ed anche per constatare quanto poco esso sia cambiato, è quello di osservare quei “tea parties” che sono già stati tenuti in un certo numero di località, e che verrano organizzati in tutto il paese mercoledì prossimo.  Questi “ricevimenti” – manifestazioni contro le tasse che si suppone evochino la memoria del Boston Tea Party e della Rivoluzione Americana – sono stati fatti oggetto di notevole derisione, certamente a ragione.

Ma in qualunque modo i critici ironizzino su queste manifestazioni, in realtà si tratta di pratiche in uso da tempo all’interno del Partito Repubblicano.

E così, il Presidente Obama è stato definito un “socialista” che cerca di distruggere il capitalismo. Perché? Perché egli ha l’intenzione di aumentare la percentuale di tassazione dei redditi più alti degli americani, riportandola, oddio[74], circa dieci punti sotto il livello che ebbe per gran parte della amministrazione Reagan. Bizzarro.

Ma l’accusa di socialismo è stata messa in giro solo perché il termine “liberal” è sembrato che non arrivasse a segno [75] con la forza necessaria. E se voi andate indietro con la memoria solo di pochi anni, ricorderete che i massimi esponenti repubblicani alzavano nello stesso modo vibrate proteste a proposito di ciò di cui i liberals erano a loro avviso capaci. Ricordate quando Karl Rove affermava che i liberals intendevano offrire “terapia e comprensione” ai terroristi del 9 settembre?

Ci sono poi le pretese, avanzate in qualche recente manifestazione del movimento tea-party, secondo le quali Obama non sarebbe nato in America, che fanno il pari con altre precedenti secondo le quali egli sarebbe, in segreto, un musulmano. Spazzatura pazzesca, ma non così dissimile dalla pazzia delle affermazioni, avanzate nel corso della precedente amministrazione dei Democratici, secondo le quali i Clinton erano degli assassini, affermazioni che furono sostenute da una campagna di insinuazioni[76] da parte dei più accreditati circuiti mediatici conservatori e di personaggi di quegli ambienti[77], in particolare Rush Limbaugh.

Parlando del signor Limbaugh, l’aspetto più impressionante del suo ruolo nella situazione attuale consiste nella fedeltà che egli è nelle condizioni di pretendere dal resto delle forze di destra. Le infami scuse che egli ha ottenuto dagli uomini politici repubblicani che avevano osato rivolgergli modeste critiche potrebbero per davvero venir fuori da un campionario di processi stalinisti[78]. Ma se avere in quel ruolo un conduttore di trasmissioni radiofoniche è una novità, una feroce disciplina di partito è stata la norma sino dagli anni 90, allorquando Tom DeLay, il leader della maggioranza alla Camera, fu soprannominato “il martello”, in parte a causa dei modi nei quali egli tolse i contributi politici agli oppositori.

Tornando ai personaggi dei tea parties, va detto che il signor DeLay, feroce oppositore della teoria dell’evoluzione (rimase famoso per aver insinuato che il massacro alla scuola di Columbine fosse stato provocato dall’insegnamento dell’evoluzionismo), aveva in fondo presagito le denunce della teoria dell’evoluzione che si sono sentite in alcune di quelle manifestazioni.

E infine, non ultimo in ordine di importanza: è dimostrato che  i tea parties non sono affatto una filiazione spontanea del sentimento popolare. Anziché avere radici nell’erba, essi sono eventi di erba sintetica[79], manipolati dai ‘soliti ignoti’[80].  In particolare un ruolo chiave è stato giocato da Freedom Works, una organizzazione diretta da Richard Armey, ex leader di maggioranza alla Camera, e sostenuta dal solito gruppo di miliardari della destra. E le manifestazioni dei tea parties, naturalmente, sono promosse con un grande impegno di Fox News.

Ma anche in questo non c’è niente di nuovo, e questo genere di eventi ‘sintetici’ fecero buoni servizi ai repubblicani nel passato. L’esempio più significativo fu la sommossa “spontanea” nel passato anno 2000, effettivamente orchestrata da ‘strateghi’ repubblicani, con la quale fu impedito il riconteggio dei voti alle elezioni presidenziali nella Contea di Miami-Dade, in Florida.

Qual’è, dunque, la conseguenza del fatto che i Repubblicani si rifiutano di crescere, ovvero del fatto che essi stanno continuando a comportarsi come quando la storia sembrava essere dalla loro parte? Potrei dire che è una buona conseguenza per i Democratici, almeno nel breve periodo, ma che è pessima per il paese.

Sul momento, l’amministrazione Obama trae un sostanziale vantaggio dal fatto di non avere una opposizione credibile, specialmente nel caso della politica economica, per la quale i Repubblicani sembrano non avere la minima idea.

Ma, come ho detto, il G.O.P. resta uno dei grandi Partiti americani, e le circostanze potrebbero ancora portare quel Partito al potere. Possiamo solo sperare che al momento in cui ciò accadesse, i Repubblicani si siano dati una mossa.

 

 

 

 

 


 

Green Shoots and Glimmers By PAUL KRUGMANPublished: April 16, 2009

Ben Bernanke, the Federal Reserve chairman, sees “green shoots.” President Obama sees “glimmers of hope.” And the stock market has been on a tear.

So is it time to sound the all clear? Here are four reasons to be cautious about the economic outlook.

 

1. Things are still getting worse. Industrial production just hit a 10-year low. Housing starts remain incredibly weak. Foreclosures, which dipped as mortgage companies waited for details of the Obama administration’s housing plans, are surging again.

 

 

The most you can say is that there are scattered signs that things are getting worse more slowly — that the economy isn’t plunging quite as fast as it was. And I do mean scattered: the latest edition of the Beige Book, the Fed’s periodic survey of business conditions, reports that “five of the twelve Districts noted a moderation in the pace of decline.” Whoopee.

2. Some of the good news isn’t convincing. The biggest positive news in recent days has come from banks, which have been announcing surprisingly good earnings. But some of those earnings reports look a little … funny.

Wells Fargo, for example, announced its best quarterly earnings ever. But a bank’s reported earnings aren’t a hard number, like sales; for example, they depend a lot on the amount the bank sets aside to cover expected future losses on its loans. And some analysts expressed considerable doubt about Wells Fargo’s assumptions, as well as other accounting issues.

 

 

 

Meanwhile, Goldman Sachs announced a huge jump in profits from fourth-quarter 2008 to first-quarter 2009. But as analysts quickly noticed, Goldman changed its definition of “quarter” (in response to a change in its legal status), so that — I kid you not — the month of December, which happened to be a bad one for the bank, disappeared from this comparison.

 

I don’t want to go overboard here. Maybe the banks really have swung from deep losses to hefty profits in record time. But skepticism comes naturally in this age of Madoff.

 

Oh, and for those expecting the Treasury Department’s “stress tests” to make everything clear: the White House spokesman, Robert Gibbs, says that “you will see in a systematic and coordinated way the transparency of determining and showing to all involved some of the results of these stress tests.” No, I don’t know what that means, either.

 

3. There may be other shoes yet to drop. Even in the Great Depression, things didn’t head straight down. There was, in particular, a pause in the plunge about a year and a half in — roughly where we are now. But then came a series of bank failures on both sides of the Atlantic, combined with some disastrous policy moves as countries tried to defend the dying gold standard, and the world economy fell off another cliff.

 

Can this happen again? Well, commercial real estate is coming apart at the seams, credit card losses are surging and nobody knows yet just how bad things will get in Japan or Eastern Europe. We probably won’t repeat the disaster of 1931, but it’s far from certain that the worst is over.

 

4. Even when it’s over, it won’t be over. The 2001 recession officially lasted only eight months, ending in November of that year. But unemployment kept rising for another year and a half. The same thing happened after the 1990-91 recession. And there’s every reason to believe that it will happen this time too. Don’t be surprised if unemployment keeps rising right through 2010.

 

Why? “V-shaped” recoveries, in which employment comes roaring back, take place only when there’s a lot of pent-up demand. In 1982, for example, housing was crushed by high interest rates, so when the Fed eased up, home sales surged. That’s not what’s going on this time: today, the economy is depressed, loosely speaking, because we ran up too much debt and built too many shopping malls, and nobody is in the mood for a new burst of spending.

 

 

 

Employment will eventually recover — it always does. But it probably won’t happen fast.

So now that I’ve got everyone depressed, what’s the answer? Persistence.

History shows that one of the great policy dangers, in the face of a severe economic slump, is premature optimism. F.D.R. responded to signs of recovery by cutting the Works Progress Administration in half and raising taxes; the Great Depression promptly returned in full force. Japan slackened its efforts halfway through its lost decade, ensuring another five years of stagnation.

 

 

The Obama administration’s economists understand this. They say all the right things about staying the course. But there’s a real risk that all the talk of green shoots and glimmers will breed a dangerous complacency.

So here’s my advice, to the public and policy makers alike: Don’t count your recoveries before they’re hatched.

 

“Segnali incoraggianti e barlumi di speranza[81]” di Paul Krugman

New York Times 16 aprile 2009

Ben Bernanke vede “segnali incoraggianti”. Il Presidente Obama vede “barlumi di speranza”. E il mercato azionario ha messo furia[82].

E’ dunque il tempo di dare il segnale di ‘scampato pericolo’[83]? Ci sono quattro ragioni per essere cauti sulla prospettiva economica.

1 Le cose continuano ancora a peggiorare. La produzione industriale ha appena raggiunto il punto basso di dieci anni fa. I movimenti del settore immobiliare restano incredibilmente deboli. I pignoramenti, che sono diminuiti mentre le aziende creditizie  aspettavano i dettagli dei programmi abitativi della amministrazione Obama, stanno crescendo di nuovo.

Il massimo che si può dire è che si è in presenza di segni sporadici per i quali le cose continuano a peggiorare più lentamente, ovvero che l’economia non sta crollando rapidamente come in precedenza. E non a caso dico sporadici: l’ultima edizione del Beige Book, la rivista periodica della Fed sulle condizioni degli affari, riporta che “cinque Distretti su dodici mostrano una attenuazione nel ritmo di declino”. Evviva[84]!

2 Alcune buone notizie non sono convincenti. Nei giorni recenti la notizia più positiva è venuta dalle banche, che hanno sorprendentemente annunciato buoni guadagni. Ma alcuni dei resoconti relativi a questi guadagni sono … buffi.

Wells Fargo, ad esempio, ha annunziato la sua migliore prestazione trimestrale di tutti i tempi. Ma i resoconti dei guadagni di una banca non sono numeri indiscutibili[85], come se si trattasse di vendite: ad esempio, essi dipendono in buona parte dalla quantità di capitali che la banca mette da parte per coprirsi da future perdite attese nei suoi prestiti. E alcuni analisti hanno espresso notevoli dubbi sulle supposizioni di Wells Fargo, così come su altri aspetti della contabilità.  

Nel frattempo, Goldman Sachs ha annunciato un grande salto in avanti nei profitti dall’ultimo trimestre del 2008 al primo trimestre del 2009. Ma, come gli analisti hanno rapidamente notato, Goldman ha cambiato la sua definizione di “trimestre” (a seguito di un mutamento del suo status legale), cosicchè – non vi sto prendendo in giro[86] – il mese di dicembre, che per combinazione era stato[87] il peggiore per la banca, e scomparso dai suoi confronti.

Non vorrei, a questo punto, finire all’estremo opposto[88]. Può darsi che le banche si siano spostate[89] da gravi perdite a massicci profitti in un tempo record. Ma, in un’epoca di casi alla Madoff, lo scetticismo viene naturale.

E infine, per coloro che sono in attesa che i “test di sofferenza[90]” del Dipartimento del Tesoro chiariscano ogni cosa: il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, fa sapere che “potrete osservare in modo sistematico e coordinato la trasparenza nel determinare e nel mostrare tutto ciò che attiene ad alcuni risultati di questi ‘tests’ di sofferenza”. La qualcosa, davvero, neanch’io so cosa possa significare.

3 Potrebbe  non essere finita qua[91]. Anche nel corso della Grande Depressione, le cose non furono così lineari. Ci fu, in particolare, una pausa nella caduta, dopo circa un anno e mezzo, grosso modo al punto in cui siamo oggi. Ma a quel punto intervennero una serie di fallimenti di banche su entrambe le sponde dell’Atlantico, in connessione con alcune disastrose scelte politiche allorché i paesi cercarono di difendere il morente gold standard, e l’economia mondiale precipitò in un altro strapiombo.

Potrebbe accadere di nuovo? Ebbene, il commercio immobiliare sta andando a rotoli[92], crescono le perdite nelle carte di credito e nessuno sa ancora esattamente quali guai ci aspettano in Giappone o nell’Europa dell’Est. E’ probabile che non si ripeterà il disastro del 1931, ma è tutt’altro che certo che il peggio sia passato.

4 Persino quando sarà alle nostre spalle, non sarà superato. La recessione del 2001 ufficialmente durò solo otto mesi, essendosi conclusa nel novembre di quell’anno. Ma la disoccupazione continuò a crescere per un altro anno e mezzo. La stessa cosa accadde dopo la recessione del 1990-91. E ci sono tutte le ragioni per credere che ciò accadrà anche questa volta. Non sorprendiamoci se la disoccupazione continuerà a crescere ben oltre il 2010.

Perché? Le riprese con i diagrammi “a forma di V”, nelle quali l’occupazione torna baldanzosa ai livelli precedenti, hanno luogo soltanto quando si è in presenza ad un bel po’ di domanda accumulata. Nel 1982, ad esempio, il settore immobiliare fu schiacciato da alti tassi di interesse, cosicché quando la Fed ridusse la pressione, la vendita delle abitazioni schizzò in alto. Non è quello che sta accadendo in questa occasione: oggi l’economia è depressa, per dirla in modo spiccio, perché ci si è accollati troppi debiti e si sono costruiti troppi centri commerciali, e nessuno è in vena di sobbarcarsi una nuova fiammata di spesa.

L’occupazione effettivamente riprenderà, accade sempre. Ma probabilmente non avverrà in breve tempo.

Dunque, ora che vi ho tutti intristiti, qual è la risposta? Occorre insistere.

La storia mostra che uno dei grandi pericoli della politica, di fronte a gravi crisi dell’economia, è l’ottimismo prematuro. Franklin Delano Roosvelt reagì ai segni di ripresa dimezzando la Work Progress Administration e alzando le tasse; la Grande Depressione immediatamente riprese a pieno regime. Il Giappone rallentò i suoi sforzi a metà strada durante il decennio perduto, guadagnandosi altri cinque anni di stagnazione.

Gli economisti della amministrazione Obama, questo lo capiscono. Essi dicono cose del tutto giuste quando parlano di mantenere la rotta. Ma c’è il rischio reale che tutto questo gran parlare di segnali incoraggianti e di barlumi di speranza induca ad un pericoloso compiacimento.

Ecco dunque il consiglio che rivolgo allo stesso modo all’opinione pubblica ed ai dirigenti politici: non date per buona la  ripresa prima d’averla saldamente in pugno[93].

 

 

 

 


 

Erin Go Broke By PAUL KRUGMANPublished: April 19, 2009

“What,” asked my interlocutor, “is the worst-case outlook for the world economy?” It wasn’t until the next day that I came up with the right answer: America could turn Irish.

 

What’s so bad about that? Well, the Irish government now predicts that this year G.D.P. will fall more than 10 percent from its peak, crossing the line that is sometimes used to distinguish between a recession and a depression.

But there’s more to it than that: to satisfy nervous lenders, Ireland is being forced to raise taxes and slash government spending in the face of an economic slump — policies that will further deepen the slump.

 

 

And it’s that closing off of policy options that I’m afraid might happen to the rest of us. The slogan “Erin go bragh,” usually translated as “Ireland forever,” is traditionally used as a declaration of Irish identity. But it could also, I fear, be read as a prediction for the world economy.

How did Ireland get into its current bind? By being just like us, only more so. Like its near-namesake Iceland, Ireland jumped with both feet into the brave new world of unsupervised global markets. Last year the Heritage Foundation declared Ireland the third freest economy in the world, behind only Hong Kong and Singapore.

 

 

One part of the Irish economy that became especially free was the banking sector, which used its freedom to finance a monstrous housing bubble. Ireland became in effect a cool, snake-free version of coastal Florida.

 

 

Then the bubble burst. The collapse of construction sent the economy into a tailspin, while plunging home prices left many people owing more than their houses were worth. The result, as in the United States, has been a rising tide of defaults and heavy losses for the banks.

 

And the troubles of the banks are largely responsible for putting the Irish government in a policy straitjacket.

 

On the eve of the crisis Ireland seemed to be in good shape, fiscally speaking, with a balanced budget and a low level of public debt. But the government’s revenue — which had become strongly dependent on the housing boom — collapsed along with the bubble.

Even more important, the Irish government found itself having to take responsibility for the mistakes of private bankers. Last September Ireland moved to shore up confidence in its banks by offering a government guarantee on their liabilities — thereby putting taxpayers on the hook for potential losses of more than twice the country’s G.D.P., equivalent to $30 trillion for the United States.

The combination of deficits and exposure to bank losses raised doubts about Ireland’s long-run solvency, reflected in a rising risk premium on Irish debt and warnings about possible downgrades from ratings agencies.

 

 

Hence the harsh new policies. Earlier this month the Irish government simultaneously announced a plan to purchase many of the banks’ bad assets — putting taxpayers even further on the hook — while raising taxes and cutting spending, to reassure lenders.

 

Is Ireland’s government doing the right thing? As I read the debate among Irish experts, there’s widespread criticism of the bank plan, with many of the country’s leading economists calling for temporary nationalization instead. (Ireland has already nationalized one major bank.) The arguments of these Irish economists are very similar to those of a number of American economists, myself included, about how to deal with our own banking mess.

 

But there isn’t much disagreement about the need for fiscal austerity. As far as responding to the recession goes, Ireland appears to be really, truly without options, other than to hope for an export-led recovery if and when the rest of the world bounces back.

 

 

So what does all this say about those of us who aren’t Irish?

For now, the United States isn’t confined by an Irish-type fiscal straitjacket: the financial markets still consider U.S. government debt safer than anything else.

 

But we can’t assume that this will always be true. Unfortunately, we didn’t save for a rainy day: thanks to tax cuts and the war in Iraq, America came out of the “Bush boom” with a higher ratio of government debt to G.D.P. than it had going in. And if we push that ratio another 30 or 40 points higher — not out of the question if economic policy is mishandled over the next few years — we might start facing our own problems with the bond market.

 

 

Not to put too fine a point on it, that’s one reason I’m so concerned about the Obama administration’s bank plan. If, as some of us fear, taxpayer funds end up providing windfalls to financial operators instead of fixing what needs to be fixed, we might not have the money to go back and do it right.

 

 

And the lesson of Ireland is that you really, really don’t want to put yourself in a position where you have to punish your economy in order to save your banks.

 

“L’Irlanda finisce sul lastrico[94]” di Paul Krugman

New York Times 19 aprile 2009

“Quale sarebbe”, aveva chiesto il mio interlocutore, “lo scenario peggiore per le prospettive dell’economia mondiale?” Non era ancora passato un giorno che trovai la risposta giusta: l’America potrebbe diventare come l’Irlanda.

In che senso sarebbe così negativo? In sostanza, ad oggi il governo irlandese prevede che il PIL annuale avrà una caduta superiore al 10 per cento rispetto al suo livello più elevato, superando il discrimine che talora è utilizzato per distinguere una recessione da una depressione.

Ma c’è di peggio: per venire incontro al nervosismo di coloro che acquistano bonds, l’Irlanda è al momento costretta ad alzare le tasse ed a ridurre drasticamente la spesa pubblica pure in presenza della caduta dell’economia, politiche che renderanno quella caduta ancora più grave.

Ed è questo che, esaurendosi le possibilità della politica, io temo possa accadere a tutti noi. Lo slogan “Erin go bragh”, normalmente trodotto con “Irlanda per sempre”, era tradizionalmente utilizzato come una dichiarazione dell’identità irlandese. Ma esso potrebbe pure essere letto, ho paura, come un pronostico per l’economia mondiale.

Come si è provocata l’Irlanda i suoi guai attuali[95]? Nello stesso modo di noi, solo in una dimensione un po’ maggiore. Come il suo quasi omonimo[96] vicino l’Islanda, l’Irlanda saltò a pié pari nel nuovo mondo gagliardo[97] dei mercati globali privi di controllo. L’anno passato Heritage Foundation dichiarò l’Irlanda la terza economia più libera del mondo, alle spalle soltanto di Hong Kong e Singapore.

Un settore dell’Irlanda che era diventato particolarmente libero era quella bancario, che utilizzò la sua totale mancanza di condizionamenti per finanziare una mostruosa bolla immobiliare. In effetti, l’Irlanda era diventata una gelida versione della costiera Florida, sia pure priva di serpenti[98].

Poi la bolla scoppiò. Il collasso del settore delle costruzioni spinse l’economia in una caduta in picchiata[99], mentre la caduta dei prezzi delle abitazioni lasciò molte persone con debiti superiori al valore delle loro case[100]. Il risultato, come negli Stati Uniti, fu una marea crescente di fallimenti per morosità e di pesanti perdite per le banche.

E i guai delle banche sono i maggiori responsabili della camicia di forza in cui è stata costretta la politica del governo irlandese.

Poco prima che iniziasse la crisi[101] l’Irlanda sembrava essere in buona forma, finanziariamente parlando[102], con un bilancio in equilibrio ed un livello del debito pubblico basso. Ma le entrate dello Stato, che erano diventate fortemente dipendenti dalla bolla immobiliare, collassarono assieme[103] alla bolla.

Ancora più importante, il governo irlandese ritenne di doversi accollare responsabilità per gli errori dei banchieri privati. Lo scorso settembre l’Irlanda assunse una iniziativa per puntellare la fiducia nelle sue banche offrendo una garanzia statale sulle loro passività, di conseguenza caricò sui contribuenti perdite superiori al doppio del PIL del paese, equivalenti a 30 mila miliardi nel caso dell’America.

La combinazione dei deficit e dell’esposizione delle banche accrebbe i dubbi sulla solvibilità a lungo termine dell’Irlanda, che si espressero in una crescita del premio sul rischio del debito irlandese e in messe in guardia da parte delle agenzie di rating su possibili retrocessioni nelle lore stime.

Da lì le nuove dure politiche. Agli inizi di questo mese il governo irlandese ha contemporaneamente annunciato un programma per l’acquisto di molti assets cattivi dalle banche – mettendo i contribuenti ancora più sulle spine[104] – e incrementi fiscali e tagli alle spese, allo scopo di rassicurare i creditori.

Il governo irlandese sta facendo le cose giuste? Da quanto leggo sul dibattito tra gli esperti irlandesi, c’è un’ampia critica su programma relativo alle banche, e molti dei principali economisti chiedono piuttosto una nazionalizzazione temporanea delle banche (l’Irlanda ha già nazionalizzato una banca importante). Gli argomenti di questi economisti irlandesi sono assai simili a quelli di un certo numero di economisti americani, compreso il sottoscritto, a proposito di come fare i conti con il nostro disordine nel settore bancario.

Ma non c’è molto disaccordo sul fatto che sia necessaria una austerità finanziaria. Per tutto il tempo in cui dovrà rispondere alla recessione che avanza, l’Irlanda appare essere, per davvero, senza altra scelta se non la speranza di una ripresa guidata dalle esportazioni, se e quando il resto del mondo tornerà alla situazione precedente.

Che cosa comporta tutto ciò, per quelli tra noi che non sono irlandesi?

Sino a questo punto, gli Stati Uniti non sono costretti in una camicia di forza del genere di quella irlandese: i mercati finanziari considerano ancora il debito statale americano più sicuro di qualsiasi altro prodotto.

Ma non possiamo stabilire che questo sarà sempre vero. Sfortunatamente non avevamo risparmiato per far fronte al peggio: grazie ai tagli delle tasse e alla guerra in Iraq, l’America era venuta fuori dal “boom” dell’epoca di Bush con il più alto tasso di debito pubblico sul PIL che si fosse mai registrato. E se noi spingiamo quel tasso ancora di 30 o 40 punti più in alto – a prescindere dal fatto che la politica economica sia mal gestita nei prossimi anni – potremo cominciare ad avere i nostri problemi con il mercato dei bonds.

No vorrei sottilizzare troppo[105], ma questa è una ragione per la quale sono così  preoccupato del piano per le banche della amministrazione Obama. Se, come alcuni di noi temono, i fondi dei contribuenti finiranno col fornire inaspettate fortune[106] agli operatori del settore finanziario, invece di correggere quello che deve essere corretto, potremmo non avere risorse per tornare indietro e fare ciò che va fatto.

E la lezione dell’Irlanda è che davvero non bisogna mettersi nelle condizioni di dover punire la propria economia per salvare le banche.

 

 


 

Reclaiming America’s Soul By PAUL KRUGMANPublished: April 23, 2009

“Nothing will be gained by spending our time and energy laying blame for the past.” So declared President Obama, after his commendable decision to release the legal memos that his predecessor used to justify torture. Some people in the political and media establishments have echoed his position. We need to look forward, not backward, they say. No prosecutions, please; no investigations; we’re just too busy.

 

 

 

And there are indeed immense challenges out there: an economic crisis, a health care crisis, an environmental crisis. Isn’t revisiting the abuses of the last eight years, no matter how bad they were, a luxury we can’t afford?

 

No, it isn’t, because America is more than a collection of policies. We are, or at least we used to be, a nation of moral ideals. In the past, our government has sometimes done an imperfect job of upholding those ideals. But never before have our leaders so utterly betrayed everything our nation stands for. “This government does not torture people,” declared former President Bush, but it did, and all the world knows it.

 

 

And the only way we can regain our moral compass, not just for the sake of our position in the world, but for the sake of our own national conscience, is to investigate how that happened, and, if necessary, to prosecute those responsible.

 

What about the argument that investigating the Bush administration’s abuses will impede efforts to deal with the crises of today? Even if that were true — even if truth and justice came at a high price — that would arguably be a price we must pay: laws aren’t supposed to be enforced only when convenient. But is there any real reason to believe that the nation would pay a high price for accountability?

 

 

For example, would investigating the crimes of the Bush era really divert time and energy needed elsewhere? Let’s be concrete: whose time and energy are we talking about?

 

Tim Geithner, the Treasury secretary, wouldn’t be called away from his efforts to rescue the economy. Peter Orszag, the budget director, wouldn’t be called away from his efforts to reform health care. Steven Chu, the energy secretary, wouldn’t be called away from his efforts to limit climate change. Even the president needn’t, and indeed shouldn’t, be involved. All he would have to do is let the Justice Department do its job — which he’s supposed to do in any case — and not get in the way of any Congressional investigations.

 

 

I don’t know about you, but I think America is capable of uncovering the truth and enforcing the law even while it goes about its other business.

Still, you might argue — and many do — that revisiting the abuses of the Bush years would undermine the political consensus the president needs to pursue his agenda.

 

 

But the answer to that is, what political consensus? There are still, alas, a significant number of people in our political life who stand on the side of the torturers. But these are the same people who have been relentless in their efforts to block President Obama’s attempt to deal with our economic crisis and will be equally relentless in their opposition when he endeavors to deal with health care and climate change. The president cannot lose their good will, because they never offered any.

 

 

That said, there are a lot of people in Washington who weren’t allied with the torturers but would nonetheless rather not revisit what happened in the Bush years.

 

Some of them probably just don’t want an ugly scene; my guess is that the president, who clearly prefers visions of uplift to confrontation, is in that group. But the ugliness is already there, and pretending it isn’t won’t make it go away.

 

Others, I suspect, would rather not revisit those years because they don’t want to be reminded of their own sins of omission.

For the fact is that officials in the Bush administration instituted torture as a policy, misled the nation into a war they wanted to fight and, probably, tortured people in the attempt to extract “confessions” that would justify that war. And during the march to war, most of the political and media establishment looked the other way.

 

 

 

It’s hard, then, not to be cynical when some of the people who should have spoken out against what was happening, but didn’t, now declare that we should forget the whole era — for the sake of the country, of course.

 

Sorry, but what we really should do for the sake of the country is have investigations both of torture and of the march to war. These investigations should, where appropriate, be followed by prosecutions — not out of vindictiveness, but because this is a nation of laws.

 

We need to do this for the sake of our future. For this isn’t about looking backward, it’s about looking forward — because it’s about reclaiming America’s soul.

 

“Ritrovare l’anima dell’America” di Paul Krugman

New York Times 23 aprile 2009

“Non ci guadagneremo nulla a buttar via tempo ed energie nel cercar di stabilire le colpe per il passato”. Così ha dichiarato il Presidente Obama, dopo aver preso la lodevole decisione di rendere pubblici gli appunti legali[107] sulla base dei quali il suo predecessore aveva giustificato il ricorso alla tortura. Negli ambienti politici e giornalistici, alcuni hanno fatto eco a questa presa di posizione. Abbiamo bisogno di guardare in avanti, non indietro, hanno sostenuto. Nessuna azione giudiziaria[108], per favore; nessuna indagine; abbiamo per davvero anche troppi problemi.

E ci sono, in effetti, sfide immense, anche senza quella faccenda[109]: la crisi economica, la crisi della assistenza sociale, la crisi ambientale. Non è forse vero che andarci ad occupare degli abusi degli ultimi otto anni, per quanto negativi possano essere stati, è un lusso che non possiamo concederci?

No, non è vero, perché l’America è qualcosa di più che uno scenario di beghe politiche[110]. Noi siamo, o almeno eravamo abituati ad essere, una nazione di principi morali. Nel passato, i nostri governi in qualche occasione si sono comportati in modo discutibile, facendo ricorso a quegli ideali[111]. Ma mai in precedenza i nostri dirigenti politici avevano tradito in modo così completo tutto ciò che ha per noi un significato[112]. “Questo governo non tortura la gente” dichiarò il precedente Presidente Bush, ed invece lo stava facendo, e tutto il mondo ne è venuto al corrente.

E l’unico modo nel quale noi possiamo riacquistare la nostra bussola morale, non solo per il nostro prestigio nel mondo, ma anche per il bene della nostra coscienza nazionale, è aprire una indagine su come ciò sia avvenuto e perseguire legalmente i responsabili.

Che dire dell’argomento secondo il quale una indagine sugli abusi della amministrazione Bush sarebbe di ostacolo agli sforzi per fronteggiare le crisi odierne? Anche se ciò fosse vero – anche se il prezzo della verità e della giustizia finisse con l’essere così alto – esso sarebbe probabilmente un prezzo da pagare: non si può pensare che le leggi vadano rispettate solo quando conviene[113]. Ma c’è un qualche serio motivo per credere che la nazione dovrebbe pagare un prezzo così elevato per un comportamento responsabile[114]?

Per esempio, indagare sui crimini dell’epoca di Bush, davvero distrarrebbe tempo ed energie necessarie per altro? Cerchiamo di essere concreti: di quale tempo ed energie stiamo mai parlando?

Tim Geithner, il Segretario al Tesoro, non dovrebbe essere sottratto al suo impegno[115] per salvare l’economia. Peter Orszag non dovrebbe essere sottratto dai suoi impegni per la riforma della assistenza sanitaria. Steven Chu, il Segretario all’Energia, non dovrebbe essere sottratto ai suoi impegni per contenere il cambiamento climatico. Anche il Presidente non c’è bisogno che sia coinvolto, ed anzi davvero non dovrebbe esserlo. Tutto quello che avrebbe da fare sarebbe lasciar svolgere il proprio compito al Dipartimento della Giustizia – che si suppone lo faccia in ogni caso – e non essere di intralcio[116] ad una ipotetica indagine del Congresso[117].

Non so cosa pensiate voi, ma io ritengo che l’America sia nelle condizioni di portare alla luce la verità e di far rispettare le leggi anche nel mentre si occupa di altri affari.

E’ vero che si potrebbe avanzare l’ipotesi, come fanno molti, che andare a rimettere le mani sugli abusi degli anni di Bush potrebbe minare quel consenso politico al quale il Presidente ha bisogno di dedicarsi nella sua agenda.

Ma la risposta a questo è: quale consenso politico? C’è ancora, ahimè, nella nostra vita politica un significativo numero di persone che sta dalla parte dei torturatori. Ma si tratta delle stesse persone che sono state inflessibili nei tentativi di bloccare il Presidente Obama nella sua ricerca di una via d’uscita alla crisi economica e che saranno nello stesso modo inflessibili nella loro opposizione quando tenterà di misurarsi con i temi della assistenza sanitaria e del cambiamento climatico. Il Presidente non rischia di perdere la loro disponibilità, perché non gli hanno mai offerto niente del genere.

Ciò detto, c’è un buon numero di persone a Washington che non stavano dalla parte dei torturatori ma che nondimeno preferirebbero non tornare ad occuparsi di quanto accadde negli anni di Bush.

E’ probabile che alcuni di loro semplicemente non desiderino una prospettiva sgradevole[118]: opino che il Presidente, che chiaramente preferisce gli scenari edificanti agli scontri[119], faccia parte di questo gruppo. Ma la realtà sgradevole la abbiamo già dinanzi, e pensare che non sia così non serve a rimuoverla.

Altri, sospetto, non vorrebbero rivisitare quegli anni perché non desiderano ricordarsi del loro peccati di omissione.

Perché la sostanza è che i dirigenti nella amministrazione Bush si avvalsero della tortura come una vera e propria politica, costrinsero con l’inganno la nazione in una guerra che volevano a tutti i costi combattere e, probabilmente, torturarono persone nel tentativo di estorcere “confessioni” che fornissero una giustificazione a quella guerra. E durante il percorso verso quella guerra, una buona parte degli ambienti politici e mediatici scelsero di guardare altrove.

E difficile, dunque, non reagire con sarcasmo[120] dinanzi allo spettacolo di persone che avrebbero dovuto dire la loro contro quello che stava succedendo e non lo fecero, ed ora dichiarano che si dovrebbe mettere una pietra sopra l’intero periodo[121] – per il bene della nazione, naturalmente.

Spiacente, ma quello che davvero dovrebbe esser fatto per il bene della nazione sarebbero indagini, sia sulla tortura che sui modi nei quali si entrò in guerra. Queste indagini dovrebbero, se questo risultasse congruo[122], essere seguite da iniziative giudiziarie, non per spirito di vendetta, ma perché siamo una nazione che si fonda sul rispetto della legge.

Questo è quanto abbiamo bisogno di fare per il bene della nostra convivenza futura. Perché tutto questo non significa volgere indietro lo sguardo, semmai significa guardare in avanti, giacchè la posta in gioco è quella di ritrovare l’anima dell’America.

 

 

  

 

 


 

Money for Nothing By PAUL KRUGMANPublished: April 26, 2009

On July 15, 2007, The New York Times published an article with the headline “The Richest of the Rich, Proud of a New Gilded Age.” The most prominently featured of the “new titans” was Sanford Weill, the former chairman of Citigroup, who insisted that he and his peers in the financial sector had earned their immense wealth through their contributions to society.

 

Soon after that article was printed, the financial edifice Mr. Weill took credit for helping to build collapsed, inflicting immense collateral damage in the process. Even if we manage to avoid a repeat of the Great Depression, the world economy will take years to recover from this crisis.

 

All of which explains why we should be disturbed by an article in Sunday’s Times reporting that pay at investment banks, after dipping last year, is soaring again — right back up to 2007 levels.

 

Why is this disturbing? Let me count the ways.

First, there’s no longer any reason to believe that the wizards of Wall Street actually contribute anything positive to society, let alone enough to justify those humongous paychecks.

Remember that the gilded Wall Street of 2007 was a fairly new phenomenon. From the 1930s until around 1980 banking was a staid, rather boring business that paid no better, on average, than other industries, yet kept the economy’s wheels turning.

 

So why did some bankers suddenly begin making vast fortunes? It was, we were told, a reward for their creativity — for financial innovation. At this point, however, it’s hard to think of any major recent financial innovations that actually aided society, as opposed to being new, improved ways to blow bubbles, evade regulations and implement de facto Ponzi schemes.

 

 

Consider a recent speech by Ben Bernanke, the Federal Reserve chairman, in which he tried to defend financial innovation. His examples of “good” financial innovations were (1) credit cards — not exactly a new idea; (2) overdraft protection; and (3) subprime mortgages. (I am not making this up.) These were the things for which bankers got paid the big bucks?

 

Still, you might argue that we have a free-market economy, and it’s up to the private sector to decide how much its employees are worth. But this brings me to my second point: Wall Street is no longer, in any real sense, part of the private sector. It’s a ward of the state, every bit as dependent on government aid as recipients of Temporary Assistance for Needy Families, a k a “welfare.”

 

 

I’m not just talking about the $600 billion or so already committed under the TARP. There are also the huge credit lines extended by the Federal Reserve; large-scale lending by Federal Home Loan Banks; the taxpayer-financed payoffs of A.I.G. contracts; the vast expansion of F.D.I.C. guarantees; and, more broadly, the implicit backing provided to every financial firm considered too big, or too strategic, to fail.

 

 

One can argue that it’s necessary to rescue Wall Street to protect the economy as a whole — and in fact I agree. But given all that taxpayer money on the line, financial firms should be acting like public utilities, not returning to the practices and paychecks of 2007.

 

Furthermore, paying vast sums to wheeler-dealers isn’t just outrageous; it’s dangerous. Why, after all, did bankers take such huge risks? Because success — or even the temporary appearance of success — offered such gigantic rewards: even executives who blew up their companies could and did walk away with hundreds of millions. Now we’re seeing similar rewards offered to people who can play their risky games with federal backing.

 

 

So what’s going on here? Why are paychecks heading for the stratosphere again? Claims that firms have to pay these salaries to retain their best people aren’t plausible: with employment in the financial sector plunging, where are those people going to go?

 

 

No, the real reason financial firms are paying big again is simply because they can. They’re making money again (although not as much as they claim), and why not? After all, they can borrow cheaply, thanks to all those federal guarantees, and lend at much higher rates. So it’s eat, drink and be merry, for tomorrow you may be regulated.

 

 

Or maybe not. There’s a palpable sense in the financial press that the storm has passed: stocks are up, the economy’s nose-dive may be leveling off, and the Obama administration will probably let the bankers off with nothing more than a few stern speeches. Rightly or wrongly, the bankers seem to believe that a return to business as usual is just around the corner.

 

We can only hope that our leaders prove them wrong, and carry through with real reform. In 2008, overpaid bankers taking big risks with other people’s money brought the world economy to its knees. The last thing we need is to give them a chance to do it all over again.

 

“Denaro per niente” di Paul Krugman

New York Times 26 aprile 2009

 

Il 15 luglio del 2007, The New York Times pubblicò un articolo dal titolo “Il più ricco dei ricchi, orgoglio di una nuova Età dell’Oro”. Il più importante protagonista tra i ‘nuovi titani’ era Sanford Weill, il precedente Presidente di Citigroup, che amava ripetere che lui ed i suoi pari del settore finanziario si erano guadagnati le loro immense fortune in cambio del loro contributo alla società.

Subito dopo questo articolo andasse in stampa, l’edificio finanziario che il signor Weill  aveva rivendicato[123] di aver contribuito a costruire collassò, provocando un conseguente disastroso danno. Anche se stiamo cercando di evitare il ripetersi di una Grande Depressione, ci vorranno anni perché l’economia mondiale si riprenda da questa crisi.

Tutto questo spiega perché si dovrebbe essere indignati alla lettura di un articolo sul Sunday Times, secondo il quale gli stipendi presso le banche di investimento, dopo esser calati l’anno passato, sono di nuovo saliti alle stelle, tornando proprio ai livelli del 2007.

Perché tutto ciò indigna? Fatemi elencare le ragioni[124].

In primo luogo, non c’è più alcuna ragione di credere che i maghi di Wall Street diano effettivamente un qualche contributo positivo alla società, tantomeno un contributo tale[125] da meritarsi quelle enormi[126] gratifiche.

Si ricordi che la dorata Wall Street del 2007, era un fenomeno relativamente nuovo. A partire dal 1930 sino circa al 1980, il sistema bancario era stato un settore economico stabile se non noioso, che pagava retribuzioni non superiori, in media con le altre industrie, e che ciononostante faceva girare le ruote dell’economia.

Perché dunque un certo numero di banchieri hanno cominciato ad accumulare così grandi fortune? Ci è stato raccontato che fu una ricompensa alla loro creatività, a causa dell’innovazione finanziaria. A questo punto, tuttavia, è difficile pensare ad una qualche significativa recente innovazione finanziaria, mentre si può constatare l’effetto di nuovi, sofisticati modi di alimentare bolle, di evadare le regole e di alimentare, in sostanza, lo “schema Ponzi’[127]

Si consideri un recente discorso di Ben Bernanke, con il quale egli ha provato a difendere le innovazioni nel campo della finanza. A suo avviso, esempi di ‘buone’ innovazioni finanziarie sarebbero state: 1) le carte di credito, che non sono esattamente una nuova idea; 2) la protezione degli scoperti di conto[128]; 3) i mutui subprime[129] (non lo sto inventando). E sarebbero queste le ragioni per le quali i banchieri percepiscono grandi emolumenti?

Certamente, si può sostenere che vivendo in un’economia fondata sul libero mercato, tocca al settore privato stabilire quale sia il valore dei propri dipendenti. Ma questa osservazione mi conduce al secondo punto: Wall Street non è più, in nessun senso, parte del settore privato. E’ un reparto dello Stato, sotto ogni punto di vista[130] dipendente dall’aiuto statale come gli assegnatari dell’ “assistenza temporanea alle famiglie bisognose”, anche nota come “assistenza sociale”[131].

Non sto solo parlando dei circa 600 miliardi di dollari già impegnati per effetto del TARP [132]. C’è anche l’ampia estensione delle linee di credito decisa dalla Federal Reserve; ci sono i prestiti su larga scala a carico delle Banche federali per i mutui sulla casa; il pagamento dei contratti della A.I.G[133]. con i soldi dei contribuenti; la grande espansione delle garanzie della F.D.I.C.[134]; c’è inoltre, più in generale, l’implicito sostegno ad ogni società finanziaria che sia considerata troppo grande, ovvero troppo strategica, per rischiare un fallimento.

Si può ritenere che il salvataggio di Wall Street sia necessario per proteggere l’economia nel suo insieme, e infatti anch’io concordo. Ma, considerato tutto il denaro che rischiano i contribuenti[135], le imprese finanziarie dovrebbero essere chiamate ad agire come dei servizi pubblici, e non ritornare alle pratiche degli emolumenti del 2007.

Per di più, pagare enormi compensi agli intrallazzatori[136] non è solo indecoroso; è pericoloso. Perché, in fin dei conti, i banchieri si erano assunti rischi così grandi? Perché il successo – o anche l’apparenza del successo – comportava tali giganteschi compensi: persino i dirigenti che avevano mandato in dissesto le proprie imprese potevano uscire di scena, come di fatto sono usciti, con centinaia di milioni. Ed ora assistiamo a compensi simili offerti a individui che possono permettersi di condurre giochi rischiosi con la copertura federale.

Che cosa sta dunque succedendo? Perché quelle gratifiche schizzano ancora una volta alle stelle? L’argomento secondo il quale le imprese dovrebbero pagare compensi di tale natura per trattenere i propri uomini migliori non è plausibile: con l’occupazione che crolla nel settore finanziario, dove dovrebbe mai andare questa gente?

No, la ragione reale per la quale le società finanziarie stanno nuovamente spendendo alla grande, deriva semplicemente dal fatto che possono farlo. Stanno facendo di nuovo soldi (per quanto, meno di quanto sostengano) e dunque perché no? Dopo tutto, esse possono prendere in prestito denaro a buon prezzo, grazie a tutte quelle garanzie federali, e darlo a credito a tassi molti superiori. Proprio così:  mangiate, bevete e state allegri, che domani pagherete il conto[137].

O forse no. Nella stampa finanziaria c’è la sensazione palpabile che la tempesta sia passata: le azioni sono in rialzo, l’economia forse si sta stabilizzando dopo la caduta in picchiata[138], e l’amministrazione Obama probabilmente lascerà fare i banchieri con niente di più che qualche rimbrotto[139]. Giusto o sbagliato che sia, i banchieri sembrano pensare che il ritorno ai soliti affari sia proprio dietro l’angolo.

Noi possiamo solo sperare che i nostri dirigenti gli dimostrino che stanno sbagliando, portando a compimento[140] una riforma effettiva. Nel 2008, l’attitudine dei banchieri superpagati a prendersi grossi rischi con i soldi della gente ha messo l’economia in ginocchio. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è dar loro una opportunità di farlo nuovamente. 

 

 

 


 

An Affordable Salvation By PAUL KRUGMANPublished: April 30, 2009

The 2008 election ended the reign of junk science in our nation’s capital, and the chances of meaningful action on climate change, probably through a cap-and-trade system on emissions, have risen sharply.

 

 

But the opponents of action claim that limiting emissions would have devastating effects on the U.S. economy. So it’s important to understand that just as denials that climate change is happening are junk science, predictions of economic disaster if we try to do anything about climate change are junk economics.

 

Yes, limiting emissions would have its costs. As a card-carrying economist, I cringe when “green economy” enthusiasts insist that protecting the environment would be all gain, no pain.

 

But the best available estimates suggest that the costs of an emissions-limitation program would be modest, as long as it’s implemented gradually. And committing ourselves now might actually help the economy recover from its current slump.

Let’s talk first about those costs.

A cap-and-trade system would raise the price of anything that, directly or indirectly, leads to the burning of fossil fuels. Electricity, in particular, would become more expensive, since so much generation takes place in coal-fired plants.

 

Electric utilities could reduce their need to purchase permits by limiting their emissions of carbon dioxide — and the whole point of cap-and-trade is, of course, to give them an incentive to do just that. But the steps they would take to limit emissions, such as shifting to other energy sources or capturing and sequestering much of the carbon dioxide they emit, would without question raise their costs.

 

 

If emission permits were auctioned off — as they should be — the revenue thus raised could be used to give consumers rebates or reduce other taxes, partially offsetting the higher prices. But the offset wouldn’t be complete. Consumers would end up poorer than they would have been without a climate-change policy.

 

 

But how much poorer? Not much, say careful researchers, like those at the Environmental Protection Agency or the Emissions Prediction and Policy Analysis Group at the Massachusetts Institute of Technology. Even with stringent limits, says the M.I.T. group, Americans would consume only 2 percent less in 2050 than they would have in the absence of emission limits. That would still leave room for a large rise in the standard of living, shaving only one-twentieth of a percentage point off the average annual growth rate.

To be sure, there are many who insist that the costs would be much higher. Strange to say, however, such assertions nearly always come from people who claim to believe that free-market economies are wonderfully flexible and innovative, that they can easily transcend any constraints imposed by the world’s limited resources of crude oil, arable land or fresh water.

 

So why don’t they think the economy can cope with limits on greenhouse gas emissions? Under cap-and-trade, emission rights would just be another scarce resource, no different in economic terms from the supply of arable land.

 

Needless to say, people like Newt Gingrich, who says that cap-and-trade would “punish the American people,” aren’t thinking that way. They’re just thinking “capitalism good, government bad.” But if you really believe in the magic of the marketplace, you should also believe that the economy can handle emission limits just fine.

 

So we can afford a strong climate change policy. And committing ourselves to such a policy might actually help us in our current economic predicament.

 

Right now, the biggest problem facing our economy is plunging business investment. Businesses see no reason to invest, since they’re awash in excess capacity, thanks to the housing bust and weak consumer demand.

But suppose that Congress were to mandate gradually tightening emission limits, starting two or three years from now. This would have no immediate effect on prices. It would, however, create major incentives for new investment — investment in low-emission power plants, in energy-efficient factories and more.

 

To put it another way, a commitment to greenhouse gas reduction would, in the short-to-medium run, have the same economic effects as a major technological innovation: It would give businesses a reason to invest in new equipment and facilities even in the face of excess capacity. And given the current state of the economy, that’s just what the doctor ordered.

 

This short-run economic boost isn’t the main reason to move on climate-change policy. The important thing is that the planet is in danger, and the longer we wait the worse it gets. But it is an extra reason to move quickly.

So can we afford to save the planet? Yes, we can. And now would be a very good time to get started.

 

“Una salvezza sostenibile” di Paul Krugman

New York Times 30 aprile 2009

 

Le elezioni del 2008 hanno messo fine al predominio di una scienza d’accatto[141] nella capitale, e le possibilità di una iniziativa ragionevole sul cambiamento climatico, probabilmente sulla base della applicazione di un metodo del genere cap-and-trade[142] sulle emissioni, sono improvvisamente aumentate.

Ma gli oppositori di tale iniziativa sostengono che la limitazione delle emissioni avrebbe effetti devastanti sull’economia statunitense. Dunque è importante comprendere che nello stesso modo in cui il negazionismo del cambiamento climatico è una scienza d’accatto, la previsione di un disastro economico se solo si prova a fare qualcosa sul cambiamento del clima, è un’economia d’accatto.

E’ vero, la limitazione delle emissioni avrebbe i suoi costi. Come economista patentato[143], io rabbrividisco[144] quando gli entusiasti della “economia verde” insistono nell’affermare che la protezione dell’ambiente sarebbe solo un guadagno e nessuna pena.

Ma le stime più affidabili suggeriscono che i costi di una programma di limitazione delle emissioni sarebbero modesti, purché siano graduati nel tempo[145]. E impegnarci in questo periodo potrebbe contribuire  a far uscire l’economia dalla attuale depressione.

Esaminiamo dapprima la questione dei costi.

Un sistema cap-and-trade accrescerebbe il costo di ogni prodotto che, direttamente o indirettamente, sia riconducibile al consumo di combustibili fossili. L’elettricità, in particolare, diventerebbe più cara, sinchè sarà prodotta in una parte così grande presso impianti alimentati a carbone.

Le società nel settore elettrico potrebbero ridurre il loro bisogno di ottenere permessi, limitando le emissioni di anidride carbonica, e l’intero meccanismo del cap and trade consiste, naturalmente, del dar loro un incentivo proprio per far questo. Ma i passi che esse dovrebbero fare per limitare le emissioni, come quello di convertirsi ad altre fonti energetiche ovvero di catturare e mettere fuori dal ciclo gran parte della anidride carbonica da esse prodotta, avrebbero senza alcun dubbio i loro costi.

Se i permessi alle emissioni fossero messi in vendita[146], come dovrebbero, l’incremento di entrate così ottenuto potrebbe essere usato per dare ai consumatori un rimborso oppure per ridurre altre tasse, in questo modo bilanciando parzialmente i prezzi più alti. Ma il risarcimento non sarebbe completo. I consumatori finirebbero con l’essere impoveriti più di quanto non lo sarebbero senza una politica per il cambiamento climatico.

Ma quanto impoveriti? Non molto, dicono accurate ricerche come quelle della Environmental Protection Agency e del Emission Prediction and Policy Analysis Group[147] dell’Istituto di Tecnologia del Massachusetts. Anche in presenza di limiti severi, gli americani consumerebbero nel 2050 solo il 2 per cento in meno di quanto non farebbero in assenza di limiti alle emissioni, afferma il Gruppo del M.I.T. Il che lascerebbe ancora spazio per un’ampia crescita delle condizioni di vita, tagliando solo un ventesimo di punto in percentuale sul tasso di crescita medio annuale.

Certamente, ci sono molti che ripetono che i costi sarebbero molto superiori. E’ curioso, tuttavia, che asserzioni del genere provengano da persone che pretendono di credere nelle economie del libero mercato, nella loro meravigliosa flessibilità e capacità di innovazione, nonché nella loro capacità di prescindere da ogni limite imposto dalla risorse globali non infinite di petrolio grezzo, di terre coltivabili e di acqua dolce[148].

Perché mai, dunque, costoro non credono che l’economia possa reggere[149] limiti alle emissioni dei gas serra? Con il meccanismo del cap-and-trade, i diritti alle emissioni sarebbero una nuova risorsa limitata, non diversa, in termini economici, dalla offerta di terra coltivabile.

Non è il caso di dire che individui come Newt Gingrich, secondo il quale quel meccanismo del cap-and-trade “punirebbe il popolo americano”, non sono nelle condizioni di ragionare su quegli aspetti. Essi si limitano a ritenere che “il capitalismo è buono, il governo è cattivo”. Ma chi realmente crede nella magia del mercato, non dovrebbe far fatica a credere che l’economia possa ben fare i conti  anche con i limiti alle emissioni.

Dunque, possiamo permetterci una forte politica di contrasto al cambiamento climatico. E l’impegno in una politica del genere potrebbe essere di aiuto nella attuale situazione difficile[150] della nostra economia.

In questo momento, il più grande problema dinanzi al quale si trova l’economia e la caduta degli investimenti produttivi[151]. I settori produttivi non vedono ragioni per investire, sinchè sono inondati da un eccesso di offerta[152], grazie alla bolla immobiliare ed alla debole domanda di consumi.

Ma supponiamo che al Congresso accada di stabilire[153] limiti alle emissioni gradualmente più stringenti, partendo tra due o tre anni da oggi. Questo non avrebbe un effetto immediato sui prezzi. Determinerebbe, tuttavia, maggiori incentivi per gli investimenti; investimenti in impianti elettrici a basse emissioni, in industrie energicamente efficienti e quant’altro.

Per dirla altrimenti, un impegno alla riduzione delle emissioni dei gas serra avrebbe, nel breve medio periodo, lo stesso effetto di una importante innovazione tecnologica: essa darebbe alle imprese una ragione per investire in nuove attrezzature e strutture[154] persino a fronte di un eccesso di offerta. Considerate le condizioni attuali dell’economia, questo sarebbe appunto quello che prescrive il medico.

Questo stimolo economico di breve periodo non è la ragione principale per avviarsi su una politica di contenimento del cambiamento climatico. Il fatto importante è che il pianeta è in pericolo, e più a lungo si aspetta peggio sarà. Ma questa è una ragione ulteriore per muoversi rapidamente.

Dunque, possiamo permetterci di salvare il pianeta? Si, possiamo. Ed ora sarebbe un momento molto propizio per cominciare.

 

 

 


 

Falling Wage Syndrome By PAUL KRUGMANPublished: May 3, 2009

Wages are falling all across America.

 

Some of the wage cuts, like the givebacks by Chrysler workers, are the price of federal aid. Others, like the tentative agreement on a salary cut here at The Times, are the result of discussions between employers and their union employees. Still others reflect the brute fact of a weak labor market: workers don’t dare protest when their wages are cut, because they don’t think they can find other jobs.

 

Whatever the specifics, however, falling wages are a symptom of a sick economy. And they’re a symptom that can make the economy even sicker.

 

First things first: anecdotes about falling wages are proliferating, but how broad is the phenomenon? The answer is, very.

It’s true that many workers are still getting pay increases. But there are enough pay cuts out there that, according to the Bureau of Labor Statistics, the average cost of employing workers in the private sector rose only two-tenths of a percent in the first quarter of this year — the lowest increase on record. Since the job market is still getting worse, it wouldn’t be at all surprising if overall wages started falling later this year.

 

 

But why is that a bad thing? After all, many workers are accepting pay cuts in order to save jobs. What’s wrong with that?

 

The answer lies in one of those paradoxes that plague our economy right now. We’re suffering from the paradox of thrift: saving is a virtue, but when everyone tries to sharply increase saving at the same time, the effect is a depressed economy. We’re suffering from the paradox of deleveraging: reducing debt and cleaning up balance sheets is good, but when everyone tries to sell off assets and pay down debt at the same time, the result is a financial crisis.

 

 

And soon we may be facing the paradox of wages: workers at any one company can help save their jobs by accepting lower wages, but when employers across the economy cut wages at the same time, the result is higher unemployment.

 

Here’s how the paradox works. Suppose that workers at the XYZ Corporation accept a pay cut. That lets XYZ management cut prices, making its products more competitive. Sales rise, and more workers can keep their jobs. So you might think that wage cuts raise employment — which they do at the level of the individual employer.

 

 

But if everyone takes a pay cut, nobody gains a competitive advantage. So there’s no benefit to the economy from lower wages. Meanwhile, the fall in wages can worsen the economy’s problems on other fronts.

 

In particular, falling wages, and hence falling incomes, worsen the problem of excessive debt: your monthly mortgage payments don’t go down with your paycheck. America came into this crisis with household debt as a percentage of income at its highest level since the 1930s. Families are trying to work that debt down by saving more than they have in a decade — but as wages fall, they’re chasing a moving target. And the rising burden of debt will put downward pressure on consumer spending, keeping the economy depressed.

 

 

Things get even worse if businesses and consumers expect wages to fall further in the future. John Maynard Keynes put it clearly, more than 70 years ago: “The effect of an expectation that wages are going to sag by, say, 2 percent in the coming year will be roughly equivalent to the effect of a rise of 2 percent in the amount of interest payable for the same period.” And a rise in the effective interest rate is the last thing this economy needs.

 

Concern about falling wages isn’t just theory. Japan — where private-sector wages fell an average of more than 1 percent a year from 1997 to 2003 — is an object lesson in how wage deflation can contribute to economic stagnation.

So what should we conclude from the growing evidence of sagging wages in America? Mainly that stabilizing the economy isn’t enough: we need a real recovery.

There has been a lot of talk lately about green shoots and all that, and there are indeed indications that the economic plunge that began last fall may be leveling off. The National Bureau of Economic Research might even declare the recession over later this year.

 

But the unemployment rate is almost certainly still rising. And all signs point to a terrible job market for many months if not years to come — which is a recipe for continuing wage cuts, which will in turn keep the economy weak.

 

To break that vicious circle, we basically need more: more stimulus, more decisive action on the banks, more job creation.

 

 

Credit where credit is due: President Obama and his economic advisers seem to have steered the economy away from the abyss. But the risk that America will turn into Japan — that we’ll face years of deflation and stagnation — seems, if anything, to be rising.

 

“La sindrome della caduta dei salari” di Paul Krugman

New York Times 3 maggio 2009

I salari stanno cadendo dappertutto in America.

Alcuni dei tagli salariali, come le rinunce[155] dei lavoratori della Chrisler, sono il prezzo pagato agli aiuti federali. Altri, come il tentativo di accordo per tagli salariali qua al The Times, sono il risultato di confronti tra i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali. Altri ancora sono la pura e semplice conseguenza della debolezza del mercato del lavoro: gli operai non osano protestare nel momento in cui i loro salari vengono ridotti, perché non pensano di poter trovare altri lavori.

Qualsiasi siano le modalità specifiche, tuttavia, la caduta dei salari è un sintomo di un’economia malata. E si tratta di un sintomo che può rendere l’economia ancora più ammalata.

Ma andiamo con ordine: i casi di riduzioni dei salari si moltiplicano, ma quanto è ampio questo fenomeno? La risposta è, molto ampio.

E’ vero che molti lavoratori stanno ancora ottenendo incrementi retributivi. Ma i tagli alle retribuzioni sono tali che, secondo il Bureau of Labor Statistics il costo medio dei lavoratori occupati nel settore privato è cresciuto soltanto dello 0,2 per cento nel primo trimestre di quest’anno, la più bassa crescita da molto tempo. Siccome il mercato del lavoro continua a peggiorare, non sarebbe sorprendente se alla fine di quest’anno i salari complessivi iniziassero a cadere.

Ma perché si tratta di una tendenza negativa? Dopo tutto, molti lavoratori stanno accettando tagli alle retribuzioni allo scopo di salvare il posto di lavoro. Cosa c’è di sbagliato in questo?

La risposta consiste in uno di quei paradossi che ci affliggono in questa fase la nostra economia. Stiamo soffrendo il paradosso del risparmio: risparmiare è una virtù, ma quando tutti cercano di accrescere improvvisamente i loro risparmi nello stesso periodo, la conseguenza è una economia depressa. Nello stesso modo stiamo soffrendo per il paradosso del deleverage[156]: ridurre il debito e rimettere a pulito i bilanci è una buona cosa, ma quanto tutti cercano di disfarsi dei loro assets contemporaneamente, il risultato è una crisi finanziaria.

E tra non molto dovremo fare i conti con il paradosso dei salari: i lavoratori di una qualsiasi impresa possono contribuire alla salvezza del loro posto di lavoro accettando salari più bassi, ma quando si riducono le contribuzioni ai lavoratori in una intera economia, il risultato è che la disoccupazione si innalza.

Ecco come funziona questo paradosso. Supponiamo che gli operai dell’impresa XYZ accettino un taglio alle retribuzioni. Essi consentono in tal modo alla direzione aziendale XYZ di abbassare i prezzi, rendendo i propri prodotti più competitivi. Le vendite crescono, e un numero maggiore di lavoratori può mantenere il posto. Dunque si potrebbe pensare che i tagli ai salari accrescano l’occupazione, che è quello che accade al livello della singola impresa.

Ma se ognuno ricorre al taglio delle retribuzioni, nessuno ottiene alcun vantaggio competitivo. In questo modo non c’è nessun vantaggio per l’economia da salari più bassi. Contemporaneamente, la caduta dei salari può peggiorare i problemi dell’economia su più fronti.

In particolare, con i salari che diminuiscono, e di conseguenza con i redditi che si abbassano, il problema del debito eccessivo si aggrava: la rata mensile del mutuo non scende con il ridursi della vostra retribuzione. Al momento in cui l’America è precipitata in questa crisi, i debiti delle famiglie come percentuale del reddito erano ai livelli più elevati dall’anno 1930. Le famiglie stanno cercando di abbassare quel debito risparmiando più di quanto non avessero fatto nel corso del decennio, ma se i salari calano, esse devono inseguire un bersaglio in movimento[157]. E il peso crescente del debito spingerà verso il basso la spesa per i consumi, causando depressione economica.

Le cose vanno anche peggio se gli uomini d’affari ed i consumatori si aspettano che i salari decrescano ulteriormente nel futuro. John  Maynard Keynes lo spiegò con chiarezza più di 70 anni fa: “L’effetto della aspettativa di un abbassamento dei salari, diciamo, del 2 per cento nell’anno avvenire, sarà grosso modo lo stesso dell’effetto di una crescita del 2 per cento della somma degli interessi da pagare per lo stesso periodo”. E una crescita del tasso di interesse effettivo è l’ultima cosa di cui l’economia abbia bisogno.

La preoccupazione sulla caduta dei salari non è semplicemente una teoria. Il Giappone – nel quale i salari del settore privato calarono in media dell’1 per cento all’anno dal 1997 al 2003 – può essere considerato un testo di studio su come la fedlazione dei salari può contribuire alla stagnazione economica.

Che cosa, dunque, dobbiamo concludere a proposito della crescente evidenza dell’abbassamento dei livelli salariali in America?

Si sono fatti un sacco di discorsi di recente a proposito dei segni di ripresa[158] e di cose del genere, ed invece ci sono indicazioni per le quali il crollo economico che ebbe inizio con la recente caduta si potrebbe stabilizzare[159]. Il National Bureau of Economic Research potrebbe persino dichiarare che la condizione di recessione supererà il limiti dell’anno in corso.

In ogni caso, il tasso di disoccupazione è, quasi certamente, ancora in crescita. E tutti i segnali indicano un mercato del lavoro terribile per i prossimi mesi se non per i prossimi anni, la qual cosa è una specie di ricetta per la prosecuzione dei tagli sui salari, che a loro volta indeboliscono l’economia.

Per rompere questo circolo vizioso, fondamentalmente ci servono queste cose in più: più mezzi al programma di sostegno dell’economia, più decisione nella azione nei confronti delle banche, più iniziative per la creazione di occupazione.

Si deve riconoscere il merito[160]: il Presidente Obama ed ai suoi consiglieri economici hanno allontanato l’economia dall’abisso. Ma il rischio che l’America si trasformi in una specie di Giappone – che si debba fare i conti con anni di deflazione e di stagnazione – sembra, piuttosto, che stia crescendo.

 

 


 

Stressing the Positive By PAUL KRUGMANPublished: May 7, 2009

 

Hooray! The banking crisis is over! Let’s party! O.K., maybe not.

Skip to next paragraphIn the end, the actual release of the much-hyped bank stress tests on Thursday came as an anticlimax. Everyone knew more or less what the results would say: some big players need to raise more capital, but over all, the kids, I mean the banks, are all right. Even before the results were announced, Tim Geithner, the Treasury secretary, told us they would be “reassuring.”

 

But whether you actually should feel reassured depends on who you are: a banker, or someone trying to make a living in another profession.

I won’t weigh in on the debate over the quality of the stress tests themselves, except to repeat what many observers have noted: the regulators didn’t have the resources to make a really careful assessment of the banks’ assets, and in any case they allowed the banks to bargain over what the results would say. A rigorous audit it wasn’t.

 

 

 

But focusing on the process can distract from the larger picture. What we’re really seeing here is a decision on the part of President Obama and his officials to muddle through the financial crisis, hoping that the banks can earn their way back to health.

 

It’s a strategy that might work. After all, right now the banks are lending at high interest rates, while paying virtually no interest on their (government-insured) deposits. Given enough time, the banks could be flush again.

 

 

But it’s important to see the strategy for what it is and to understand the risks.

Remember, it was the markets, not the government, that in effect declared the banks undercapitalized. And while market indicators of distrust in banks, like the interest rates on bank bonds and the prices of bank credit-default swaps, have fallen somewhat in recent weeks, they’re still at levels that would have been considered inconceivable before the crisis.

 

As a result, the odds are that the financial system won’t function normally until the crucial players get much stronger financially than they are now. Yet the Obama administration has decided not to do anything dramatic to recapitalize the banks.

 

Can the economy recover even with weak banks? Maybe. Banks won’t be expanding credit any time soon, but government-backed lenders have stepped in to fill the gap. The Federal Reserve has expanded its credit by $1.2 trillion over the past year; Fannie Mae and Freddie Mac have become the principal sources of mortgage finance. So maybe we can let the economy fix the banks instead of the other way around.

 

But there are many things that could go wrong.

It’s not at all clear that credit from the Fed, Fannie and Freddie can fully substitute for a healthy banking system. If it can’t, the muddle-through strategy will turn out to be a recipe for a prolonged, Japanese-style era of high unemployment and weak growth.

 

 

Actually, a multiyear period of economic weakness looks likely in any case. The economy may no longer be plunging, but it’s very hard to see where a real recovery will come from. And if the economy does stay depressed for a long time, banks will be in much bigger trouble than the stress tests — which looked only two years ahead — are able to capture.

 

Finally, given the possibility of bigger losses in the future, the government’s evident unwillingness either to own banks or let them fail creates a heads-they-win-tails-we-lose situation. If all goes well, the bankers will win big. If the current strategy fails, taxpayers will be forced to pay for another bailout.

 

But what worries me most about the way policy is going isn’t any of these things. It’s my sense that the prospects for fundamental financial reform are fading.

 

 

Does anyone remember the case of H. Rodgin Cohen, a prominent New York lawyer whom The Times has described as a “Wall Street éminence grise”? He briefly made the news in March when he reportedly withdrew his name after being considered a top pick for deputy Treasury secretary.

 

Well, earlier this week, Mr. Cohen told an audience that the future of Wall Street won’t be very different from its recent past, declaring, “I am far from convinced there was something inherently wrong with the system.” Hey, that little thing about causing the worst global slump since the Great Depression? Never mind.

 

 

Those are frightening words. They suggest that while the Federal Reserve and the Obama administration continue to insist that they’re committed to tighter financial regulation and greater oversight, Wall Street insiders are taking the mildness of bank policy so far as a sign that they’ll soon be able to go back to playing the same games as before.

 

So as I said, while bankers may find the results of the stress tests “reassuring,” the rest of us should be very, very afraid.

 

“Mettere l’accento sulle cose positive[161]” di Paul Krugman

New York Times 7 maggio 2009

 

Evviva[162]! La crisi delle banche è superata! Si riparte! O forse no?

Alla fine, la effettiva messa in circolazione dei tests sulle difficoltà delle banche più famose[163] ha provocato delusione[164]. Ognuno sapeva, più o meno, come sarebbe andata a finire: alcuni grandi protagonisti necessitano di incrementi di capitale, ma ciò che conta, i fanciulli – intendo gli istituti bancari – stanno bene. Anche prima che i risultati fossero annunciati, Tim Geithner, il Segretario al Tesoro, ci ha detto che sarebbero stati “rassicuranti”.

Ma, che vi sentiate davvero rassicurati, dipende da chi siete: se siete banchieri, oppure individui che cercano di tirare avanti in una qualsiasi altra professione.

Non voglio tornare sulla discussione[165] relativa alla qualità stessa di quei tests di esposizione alla crisi delle banche, salvo ripetere quello che molti osservatori hanno osservato: gli organi di vigilanza non avevano gli strumenti per fare una verifica effettivamente accurata degli assets degli isituti di credito, e in alcuni casi hanno consentito alle banche una sorta di contrattazione su cosa in conclusione sarebbe risultato. Non si è trattato di verifiche contabili rigorose. 

Sennonchè, mettere a fuoco la procedure seguita potrebbe distrarre dal quadro d’assieme. Quello a cui effettivamente stiamo assistendo è la decisione da parte del Presidente Obama e dei suoi dirigenti di arrivare in qualche modo ad una conclusione[166] della crisi finanziaria, sperando che le banche possano ritrovare per loro conto una strada di risanamento.

Si tratta di una strategia che potrebbe funzionare. Dopo tutto, in questo momento le banche stanno concedendo prestiti ad elevati tassi di interesse, mentre in pratica praticamente non pagano interessi sui loro depositi, garantiti dal governo. Dando loro il tempo necessario, le banche potrebbero tornare a far cassa.

Ma è importante capire la strategia con la quale si vuole arrivare a questo risultato e comprenderne i rischi.

Non dimentichiamo che sono stati i mercati, e non il governo, a dichiarare le banche sottocapitalizzate. E se gli indicatori sulla sfiducia del mercati sulle banche, come i tassi di interesse sulle obbligazioni bancarie e i prezzi dei credit-default-swaps, sono calati di qualche punto nelle scorse settimane, essi restano tuttavia a livelli che sarebbero stati inconcepibili prima della crisi.

Ne deriva che è probabile che il sistema finanziario non riprenderà a funzionare normalmente prima che i principali protagonisti non acquistino molta maggiore forza finanziaria di quanta attualmente non abbiano. Tuttavia, la amministrazione Obama ha deciso di non fare niente di spettacolare per ricapitalizzare le banche.

Potrà riprendersi l’economia, con banche deboli? Le banche non espanderanno i loro crediti in tempi ragionevolmente brevi, ma i prestiti garantiti dallo Stato sono intervenuti per chiudere questa falla[167]. La Federal Reserve ha ampliato le sue linee di credito per 1.200 miliardi di dollari nel corso dell’anno passato; Fannie Mae e Freddie Mac[168] sono diventati le principali fonti di finanziamento dei mutui. E’ dunque possibile che avvenga che l’economia ponga rimedio ai problemi delle banche, invece del contrario[169].

Ma ci sono vari aspetti che potrebbero andare storti.

Non è del tutto chiaro se il credito proveniente dalla Fed, tramite Fannie e Freddie, potrà sostituirsi per intero ad un sistema bancario in salute. Se non ci riuscisse, la strategia del tirare a campare[170] potrebbe rivelarsi una ricetta per un prolungato periodo di alta disoccupazione e di debole crescita, sul modello del Giappone.

Effettivamente, un periodo di molti anni di debolezza economica appare probabile in casi del genere. Può darsi che l’economia non abbia ricadute, ma è piuttosto arduo capire da dove dovrebbe venire una effettiva ripresa. E se l’economia resterà depressa per un periodo prolungato, le banche si ritroveranno in guai assai maggiori di quanto i tests di esposizione alla crisi – che erano riferiti ai soli due prossimi anni – non fossero nelle condizioni di intuire[171].

Infine, data la possibilità di perdite più grandi nel futuro, la evidente indisponibilità del governo sia ad acquisire il possesso delle banche che a lasciarle fallire potrebbe riprodurre una situazione di perpetuazione di ogni genere di furbizia[172]. Se l’attuale strategia fallisse, i contribuenti potrebbero essere costretti a pagare per un altro salvataggio.

Ma non sono queste le cose che soprattutto mi preoccupano, a proposito di questo indirizzo politico. E’ piuttosto la sensazione che le prospettive di una riforma fondamentale del sistema finanziaio, in questo modo, svaniscono.

C’è qualcuno che ricorda il caso di H. Rodgin Cohen, un eminente avvocato di New York che The Times aveva indicato come una “eminenza grigia di Wall Street”? In breve, egli fece notizia lo scorso marzo, quando, secondo quanto si dice[173], ritirò la sua disponibilità dopo essere stato presentato come il candidato più accreditato[174] alla carica di vicesegretario al Tesoro.

Ebbene, agli inizi di questa settimana, Coehn ha spiegato ai suoi ascoltatori che il futuro di Wall Street non sarà molto diverso dal suo passato, dichiarando: “Io non penso affatto che ci fosse qualcosa di intrinsecamente sbagliato nel sistema”. Oddio! E quella questioncella che è stata causa della più grave recessione globale dall’epoca della Grande Depressione? Quella ormai non conta.

 Si tratta di affermazioni terrificanti. Esse danno l’idea che mentre la Federal Reserve e l’amministrazione Obama continuano ad insistere di essere impegnati per una regolamentazione finanziaria più stringente e per forme di sorveglianza più efficaci, gli addetti ai lavori di Wall Street interpretano la mitezza della politica bancaria come il segno che potranno presto ritornare ai giochi di sempre.

Come ho detto, nel mentre i banchieri possono giudicare i risultati dei tests sulla esposizione delle banche come rassicuranti, tutti gli altri farebbero bene ad aver paura.

 

 

 

 

 


 

Harry, Louise and Barack By PAUL KRUGMANPublished: May 10, 2009

Is this the end for Harry and Louise?

Harry and Louise were the fictional couple who appeared in advertisements run by the insurance industry in 1993, fretting about what would happen if “government bureaucrats” started making health care decisions. The ads helped kill the Clinton health care plan, and have stood, ever since, as a symbol of the ability of powerful special interests to block health care reform.

 

 

 

 

But on Saturday, excited administration officials called me to say that this time the medical-industrial complex (their term, not mine) is offering to be helpful.

 

Six major industry players — including America’s Health Insurance Plans (AHIP), a descendant of the lobbying group that spawned Harry and Louise — have sent a letter to President Obama sketching out a plan to control health care costs. What’s more, the letter implicitly endorses much of what administration officials have been saying about health economics.

 

Are there reasons to be suspicious about this gift? You bet — and I’ll get to that in a bit. But first things first: on the face of it, this is tremendously good news.

 

The signatories of the letter say that they’re developing proposals to help the administration achieve its goal of shaving 1.5 percentage points off the growth rate of health care spending. That may not sound like much, but it’s actually huge: achieving that goal would save $2 trillion over the next decade.

 

 

How are costs to be contained? There are few details, but the industry has clearly been reading Peter Orszag, the budget director.

In his previous job, as the director of the Congressional Budget Office, Mr. Orszag argued that America spends far too much on some types of health care with little or no medical benefit, even as it spends too little on other types of care, like prevention and treatment of chronic conditions. Putting these together, he concluded that “substantial opportunities exist to reduce costs without harming health over all.”

 

 

Sure enough, the health industry letter talks of “reducing over-use and under-use of health care by aligning quality and efficiency incentives.” It also picks up a related favorite Orszag theme, calling for “adherence to evidence-based best practices and therapies.” All in all, it’s just what the doctor, er, budget director ordered.

 

 

Before we start celebrating, however, we have to ask the obvious question. Is this gift a Trojan horse? After all, several of the organizations that sent that letter have in the past been major villains when it comes to health care policy.

 

 

I’ve already mentioned AHIP. There’s also the Pharmaceutical Research and Manufacturers of America (PhRMA), the lobbying group that helped push through the Medicare Modernization Act of 2003 — a bill that both prevented Medicare from bargaining over drug prices and locked in huge overpayments to private insurers. Indeed, one of the new letter’s signatories is former Representative Billy Tauzin, who shepherded that bill through Congress then immediately left public office to become PhRMA’s lavishly paid president.

 

 

The point is that there’s every reason to be cynical about these players’ motives. Remember that what the rest of us call health care costs, they call income.

 

What’s presumably going on here is that key interest groups have realized that health care reform is going to happen no matter what they do, and that aligning themselves with the Party of No will just deny them a seat at the table. (Republicans, after all, still denounce research into which medical procedures are effective and which are not as a dastardly plot to deprive Americans of their freedom to choose.)

 

 

I would strongly urge the Obama administration to hang tough in the bargaining ahead. In particular, AHIP will surely try to use the good will created by its stance on cost control to kill an important part of health reform: giving Americans the choice of buying into a public insurance plan as an alternative to private insurers. The administration should not give in on this point.

 

 

But let me not be too negative. The fact that the medical-industrial complex is trying to shape health care reform rather than block it is a tremendously good omen. It looks as if America may finally get what every other advanced country already has: a system that guarantees essential health care to all its citizens.

 

And serious cost control would change everything, not just for health care, but for America’s fiscal future. As Mr. Orszag has emphasized, rising health care costs are the main reason long-run budget projections look so grim. Slow the rate at which those costs rise, and the future will look far brighter.

 

 

I still won’t count my health care chickens until they’re hatched. But this is some of the best policy news I’ve heard in a long time.

 

“Harry, Louise e Barack” di Paul Krugman

New York Times 10 maggio 2009

 

Siamo alla fine per Harry e Louise?

Harry e Louise erano la coppia di protagonisti della fiction che, nel 1993, appariva nella campagna pubblicitaria a cura del sistema delle assicurazioni, e che si lamentava di cosa sarebbe potuto accadere se i “burocrati dello Stato” avessero cominciato a prendere le decisioni in materia di assistenza sanitaria. La campagna pubblicitaria contribuì a liquidare il programma di assistenza sanitaria di Clinton, ed è rimasta famosa sino ad oggi come simbolo della abilità di potenti interessi corporativi nell’impedire una riforma del sistema sanitario.

Ma alcuni stupefatti[175] dirigenti della amministrazione, sabato scorso mi hanno chiamato per dirmi che questa volta il complesso assicurativo-farmaceutico[176] (l’espressione viene da loro, non è mia) si sarebbe offerto di collaborare.

Sei principali soggetti del settore – incluso l’America’s Health Insurance Plans (AHIP), che è  il discendente del gruppo lobbistico che produsse ‘Harry e Louise’ – hanno inviato una lettera al Presidente Obama nella quale viene delineato un piano[177] per il controllo dei costi della assistenza sanitaria. Di più, la lettera aderirebbe implicitamente gran parte di ciò che sono venuti dicendo i dirigenti della amministrazione in materia di economia sanitaria.

Ci sono ragioni per avere qualche sospetto per un regalo del genere? Potete scommetterci, e ve lo spieghero tra un momento. Ma procediamo con ordine. Stante questa notizia, questa è la straordinaria novità.

I firmatari della lettera affermano che starebbero sviluppando proposte per contribuire all’obbiettivo della amministrazione di una riduzione di 1,5 punti percentuali nell’andamento crescente della spesa per l’assistenza sanitaria. Questo può non sembrare molto, ma è in effetti una gran cosa: ottenere quel risultato consentirebbe un risparmio di 2 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio.

Come potrebbero essere contenuti tali costi? Emergono pochi dettagli, ma i responsabili del settore chiaramente devono aver letto Peter Orszag, il direttore del Bilancio.

In un suo precedente lavoro, nella veste di direttore del Congressional Budget Office, Orszag sosteneva che l’America spende troppo per vari tipi di assistenza che provocano benefici sulla salute modesti o nulli, nel mentre spende troppo poco in altri tipi di assistenza, come la prevenzione ed il trattamento delle condizioni di cronicità. Considerando tutti questi aspetti, egli concludeva che “esistono concrete possibilità di ridurre i costi, soprattutto senza alcun danno alla salute”.

Infatti, la lettera delle associazioni del settore parla di “riduzione degli eccessi e delle deficienze assistenziali attraverso una omogeneità qualitativa ed incentivi all’efficacia delle prestazioni”.  Inoltre, essa raccoglie un tema collegato e prediletto da Orszag, pronunciandosi “a favore di una aderenza alle pratiche e terapie che si riscontrano nei fatti come le migliori”. In conclusione, è proprio quello che aveva ordinato il dottore, scusate[178], il direttore del Budget Office.

Tuttavia, prima di festeggiare, dobbiamo porci una ovvia domanda: se questo regalo fosse un ‘Cavallo di Troia’? Dopo tutto, gran parte delle organizzazioni che hanno spedito la lettera si sono comportate in passato come i peggiori soggetti, al momento in cui si è trattato delle politiche di assistenza sanitaria.

Ho prima fatto un cenno al AHIP. C’è anche il Pharmaceutical Research and Mainifacturers of America (PhRMA), il gruppo lobbistico che contribuì a condurre a termine la legge per la cosiddetta modernizzazione di Medicare del 2003, con la quale fu impedita a Medicare sia la possibilità di contrattare i prezzi dei medicinali che quella di chiudere la pratica dei sovracompensi alle assicurazioni private. Difatti, uno di coloro che hanno sottoscritto la lettera è l’ex-parlamentare Billy Tauzin, che istruì quel progetto di legge nei meandri del Congresso, salvo lasciare subito dopo il suo incarico pubblico per diventare il presidente profumatamente pagato della PhARM.

Il fatto è che ci sono tutte le ragioni per essere scettici sulle motivazioni di questi individui. Bisogna tenere a mente che tutto quello che per noi sono i costi della assistenza sanitaria, per loro sono guadagni.

Quello che probabilmente sta accadendo è che i principali gruppi di interesse hanno compreso che la riforma della assistenza sanitaria procederà a prescindere da qualsiasi cosa essi facciano, e che se si allineassero al Partito del Rifiuto, otterrebbero soltanto di perdere un posto al tavolo delle trattative (in fin dei conti, i Repubblicani sono ancora alle prese con la denuncia della ricerca delle procedure mediche più efficaci, sospettate di essere un ignobile complotto per privare gli americani della loro libertà di scelta[179]).

Io suggerirei con forza alla amministrazione Obama di tenersi ferma nella contrattazione sulle posizioni più avanzate[180]. In particolare, la AHIP cercherà sicuramente di utilizzare il clima di buona volontà determinato dalla sua posizione sul controllo dei costi per liquidare una parte importante della riforma sanitaria: dare agli americani la possibilità di scelta nell’acquistare una programma assicurativo pubblico anziché una assicurazione privata. La amministrazione non dovrebbe arrendersi[181] su questo punto.

Ma non vorrei apparire troppo negativo. Il fatto che il complesso assicurativo-farmaceutico stia cercando di condizionare la riforma della assistenza sanitaria anziché bloccarla è un sintomo[182] straordinariamente buono. Sembra che l’America possa finalmente avere quello che gli altri paesi avanzati già hanno: un sistema che garantisca la assistenza sanitaria di base a tutti i cittadini.

E un serio controllo dei costi cambierà ogni cosa, non solo nel caso nel caso della sanità, ma in generale per il futuro delle finanze americane. Come Orszag ha sottolineato con forza, i costi crescenti della assistenza sanitaria sono la principale ragione per la quale le proiezioni di lungo periodo del bilancio appaiono così scure. Se si rallenta il tasso di crescita di questi costi, il futuro apparirà molto più luminoso.

Io non considererò catturata la volpe della riforma sanitaria, finchè non sarà nel sacco[183]. Ma questa è la più bella notizia che non si sentiva da tempo nelle faccende della politica.

 

 


 

Empire of Carbon By PAUL KRUGMANPublished: May 14, 2009

TAIPEI, Taiwan

Skip to next paragraph I have seen the future, and it won’t work.

 

These should be hopeful times for environmentalists. Junk science no longer rules in Washington. President Obama has spoken forcefully about the need to take action on climate change; the people I talk to are increasingly optimistic that Congress will soon establish a cap-and-trade system that limits emissions of greenhouse gases, with the limits growing steadily tighter over time. And once America acts, we can expect much of the world to follow our lead.

 

 

But that still leaves the problem of China, where I have been for most of the last week.

 

Like every visitor to China, I was awed by the scale of the country’s development. Even the annoying aspects — much of my time was spent viewing the Great Wall of Traffic — are byproducts of the nation’s economic success.

 

But China cannot continue along its current path because the planet can’t handle the strain.

The scientific consensus on prospects for global warming has become much more pessimistic over the last few years. Indeed, the latest projections from reputable climate scientists border on the apocalyptic. Why? Because the rate at which greenhouse gas emissions are rising is matching or exceeding the worst-case scenarios.

 

And the growth of emissions from China — already the world’s largest producer of carbon dioxide — is one main reason for this new pessimism.

China’s emissions, which come largely from its coal-burning electricity plants, doubled between 1996 and 2006. That was a much faster pace of growth than in the previous decade. And the trend seems set to continue: In January, China announced that it plans to continue its reliance on coal as its main energy source and that to feed its economic growth it will increase coal production 30 percent by 2015. That’s a decision that, all by itself, will swamp any emission reductions elsewhere.

 

 

 

So what is to be done about the China problem?

Nothing, say the Chinese. Each time I raised the issue during my visit, I was met with outraged declarations that it was unfair to expect China to limit its use of fossil fuels. After all, they declared, the West faced no similar constraints during its development; while China may be the world’s largest source of carbon-dioxide emissions, its per-capita emissions are still far below American levels; and anyway, the great bulk of the global warming that has already happened is due not to China but to the past carbon emissions of today’s wealthy nations.

 

 

And they’re right. It is unfair to expect China to live within constraints that we didn’t have to face when our own economy was on its way up. But that unfairness doesn’t change the fact that letting China match the West’s past profligacy would doom the Earth as we know it.

 

 

Historical injustice aside, the Chinese also insisted that they should not be held responsible for the greenhouse gases they emit when producing goods for foreign consumers. But they refused to accept the logical implication of this view — that the burden should fall on those foreign consumers instead, that shoppers who buy Chinese products should pay a “carbon tariff” that reflects the emissions associated with those goods’ production. That, said the Chinese, would violate the principles of free trade.

Sorry, but the climate-change consequences of Chinese production have to be taken into account somewhere. And anyway, the problem with China is not so much what it produces as how it produces it. Remember, China now emits more carbon dioxide than the United States, even though its G.D.P. is only about half as large (and the United States, in turn, is an emissions hog compared with Europe or Japan).

 

 

The good news is that the very inefficiency of China’s energy use offers huge scope for improvement. Given the right policies, China could continue to grow rapidly without increasing its carbon emissions. But first it has to realize that policy changes are necessary.

 

 

There are hints, in statements emanating from China, that the country’s policy makers are starting to realize that their current position is unsustainable. But I suspect that they don’t realize how quickly the whole game is about to change.

 

As the United States and other advanced countries finally move to confront climate change, they will also be morally empowered to confront those nations that refuse to act. Sooner than most people think, countries that refuse to limit their greenhouse gas emissions will face sanctions, probably in the form of taxes on their exports. They will complain bitterly that this is protectionism, but so what? Globalization doesn’t do much good if the globe itself becomes unlivable.

 

 

 

It’s time to save the planet. And like it or not, China will have to do its part.

 

“L’impero del carbone” di Paul Krugman

New York Times 14 maggio 2009

 

Taipei, Taiwan

Ho visto il futuro e non mi pare che vada bene.

Questi dovrebbero essere tempi di speranza per gli ambientalisti. Gli scienziati  d’accatto[184] non governano più a Washington. Il Presidente Obama ha parlato con forza del bisogno di assumere un’iniziativa sul cambiamento climatico. La gente con cui parlo è sempre più ottimista sul fatto che il Congresso approverà presto un sistema del genere “cap and trade” che contenga le emissioni dei gas serra, con dei limiti che diventino gradualmente nel tempo sempre più stringenti[185]. E una volta che questa soluzione fosse diventata legge, potremmo aspettarci che gran parte del mondo segua il nostro esempio.

Ma resta ancora il problema della Cina, dove ho passato gran parte della scorsa settimana.

Come tutti quelli che visitano la Cina, sono rimasto ammirato dalla dimensione dello sviluppo di quel paese. Persino gli aspetti più fastidiosi – ho passato gran parte del mio tempo dinanzi alla vista della Grande Muraglia del traffico – sono sottoprodotti del successo economico di quella nazione.

Ma la Cina non potrà a lungo proseguire su quella strada, perché il pianeta non è nella condizioni di sopportare una tensione del genere.

La posizione degli scienziati sulle prospettive del riscaldamento globale è diventata molto più pessimistica nel corso degli ultimi pochi anni. Ed infatti, le ultime proiezioni da parte di affidabili scienziati del clima, sono al limite di una prospettiva apocalittica. Perché? Perché il ritmo di crescita al quale crescono le emissioni dei gas serra sta eguagliando o superando le peggiori aspettative.

E la crescita delle emissioni in Cina – che è già il più importante produttore di anidride carbonica del mondo – è una delle ragioni di questo recente pessimismo.

Le emissioni della Cina, che provengono in gran parte dai suoi impianti elettrici che bruciano carbone, sono raddoppiate dal 1966 al 2006. C’è stato un ritmo di crescita molto superiore che nel decennio precedente. Ed è una tendenza che pare proseguire stabilmente[186]: in gennaio la Cina ha annunciato che i suoi impianti continueranno a dipendere dal carbone come principale fonte energetica e che allo scopo di alimentare la sua crescita economica essa accrescerà la produzione di carbone del 30 per cento entro il 2015. Si tratta di una decisione che, da sola, sommergerebbe ogni riduzione delle emissioni in tutto il resto del mondo.

Che cosa, dunque, si deve fare del problema cinese?

Niente, dicono i cinesi. Tutte le volte che ho provato a sollevare le questione durante la mia visita, mi sono scontrato con indignate dichiarazioni secondo le quali sarebbe ingiusto aspettarsi che la Cina limiti il suo ricorso ai combustibili fossili. Dopo tutto, sostenevano, l’Occidente non si è imposto limiti del genere nel corso del suo sviluppo; inoltre, se la Cina è diventata la più grande fonte di emissioni di anidride carbonica del mondo, le sue emissioni pro-capite sono ancora molto inferiori ai livelli dell’America; la maggior parte del riscaldamento globale che si è già verificato non è dovuta alla Cina, ma alle passate emissioni di anidride carbonica delle nazioni che oggi sono ricche.

E hanno ragione. E’ ingiusto aspettarsi che la Cina conviva con restrizioni che noi non abbiamo dovuto sopportare quando la nostra economia era al loro livello. Ma questa ingiustizia non cambia il fatto che se si consentisse alla Cina di eguagliare la passata sregolatezza dell’Occidente[187], si manderebbe in rovina la Terra così come la abbiamo conosciuta.

A parte l’ingiustizia storica, i Cinesi insistono anche sul fatto che essi non dovrebbero essere ritenuti responsabili per i gas serra che emettono producendo beni per il consumo estero. Ma essi rifiutano di accettare la conseguenza logica di questo punto di vista (secondo il quale il peso dovrebbe piuttosto ricadere sui consumatori stranieri), che dovrebbe consistere nel far pagare agli acquirenti dei prodotti cinesi una “tassa sul carbone” che corrisponda alle emissioni associate alla produzione di quei beni. Questo, dicono i Cinesi, violerebbe le regole del libero mercato.

Può dispiacere, ma le conseguenze sul cambiamento climatico delle produzioni cinesi devono essere messe in qualche modo nel conto. E, in ogni caso, il problema con la Cina non è tanto quanto essa produce, ma come lo produce. Rcordiamo che la Cina attualmente emette maggiori volumi di anidride carbonica degli Stati Uniti, per quanto il suo PIL corrisponda a circa la metà di quello americano (e gli Stati Uniti, a loro volta, sono ingordi consumatori di anidride carbonica[188], se confrontati all’Europa ed al Giappone).

La buona notizia è che la grande inefficienza nel consumo cinese di energia lascia aperte grandi opportunità[189] di miglioramento. Dandosi le politiche giuste, la Cina potrebbe continuare a crescere rapidamente senza accrescere le emissioni di anidride carbonica. Ma prima di tutto, essa deve provocare quei mutamenti nelle sue politiche che sono indispensabili.

Ci sono segnali, nelle dichiarazioni ufficiali che provengono dalla Cina, secondo i quali gli uomini politici di quel paese starebbero cominciando a rendersi conto della insostenibilità della situazione attuale. Ma ho l’impressione che essi non si rendano conto della rapidità con la quale l’intera partita si stia modficando.

Nel momento in cui gli Stati Uniti e le altre nazioni avanzate alla fine si decideranno a misurarsi con il cambiamento climatico, essi acquisiranno una sorta di potere morale[190] nei confronti di quelle nazioni che si rifiutano di agire. Prima di quanto molti ritengano, i paesi che si rifiutano di limitare le loro emissioni di gas serra dovranno fare i conti con sanzioni, probabilmente nella forma di tasse sulle loro esportazioni. Essi protesteranno vivacemente[191] contro questa forma di protezionismo, ma cosa ci si può fare? La mondializzazione non provocherebbe alcun gran vantaggio, se il mondo stesso diventa invivibile.

E’ venuto il tempo si salvare il pianeta. Volente o nolente, la Cina dovrà fare la sua parte.      

 

 

 

 


 

The Perfect, the Good, the Planet By PAUL KRUGMANPublished: May 17, 2009

In a way, it was easy to take stands during the Bush years: the Bushies and their allies in Congress were so determined to move the nation in the wrong direction that one could, with a clear conscience, oppose all the administration’s initiatives.

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Now, however, a somewhat uneasy coalition of progressives and centrists rules Washington, and staking out a position has become much trickier. Policy tends to move things in a desirable direction, yet to fall short of what you’d hoped to see. And the question becomes how many compromises, how much watering down, one is willing to accept.

There will be a lot of soul-searching later this year for advocates of health care reform. (For me the make-or-break issue is whether the legislation includes a public plan.) But right now it’s the environmental community that has to decide how much it’s willing to bend.

 

 

If we’re going to get real action on climate change any time soon, it will be via some version of legislation proposed by Representatives Henry Waxman and Edward Markey. Their bill would limit greenhouse gases by requiring polluters to receive or buy emission permits, with the number of available permits — the “cap” in “cap and trade” — gradually falling over time.

 

 

 

 

It goes without saying that the usual suspects on the right have denounced Waxman-Markey: global warming isn’t real, emission limits will destroy the economy, yada yada. But the bill also faces opposition from some environmentalists, who are balking at the compromises the sponsors made to gain political support.

 

So is Waxman-Markey — whose language was released last week — good enough?

 

Well, Al Gore has praised the bill, and plans to organize a grass-roots campaign on its behalf. A number of environmental organizations, ranging from the League of Conservation Voters to the Environmental Defense Fund, have also come out in strong support.

 

But Greenpeace has declared that it “cannot support this bill in its current state.” And some influential environmental figures — most notably James Hansen, the NASA scientist who first drew the public’s attention to global warming — oppose the whole idea of cap and trade, arguing for a carbon tax instead.

 

 

I’m with Mr. Gore. The legislation now on the table isn’t the bill we’d ideally want, but it’s the bill we can get — and it’s vastly better than no bill at all.

One objection — the claim that carbon taxes are better than cap and trade — is, in my view, just wrong. In principle, emission taxes and tradable emission permits are equally effective at limiting pollution. In practice, cap and trade has some major advantages, especially for achieving effective international cooperation.

 

 

Not to put too fine a point on it, think about how hard it would be to verify whether China was really implementing a promise to tax carbon emissions, as opposed to letting factory owners with the right connections off the hook. By contrast, it would be fairly easy to determine whether China was holding its total emissions below agreed-upon levels.

 

 

 

The more serious objection to Waxman-Markey is that it sets up a system under which many polluters wouldn’t have to pay for the right to emit greenhouse gases — they’d get their permits free. In particular, in the first years of the program’s operation more than a third of the allocation of emission permits would be handed over at no charge to the power industry.

 

Now, these handouts wouldn’t undermine the policy’s effectiveness. Even when polluters get free permits, they still have an incentive to reduce their emissions, so that they can sell their excess permits to someone else. That’s not just theory: allowances for sulfur dioxide emissions are allocated to electric utilities free of charge, yet the cap-and-trade system for SO2 has been highly successful at controlling acid rain.

 

 

But handing out emission permits does, in effect, transfer wealth from taxpayers to industry. So if you had your heart set on a clean program, without major political payoffs, Waxman-Markey is a disappointment.

 

Still, the bill represents major action to limit climate change. As the Center for American Progress has pointed out, by 2020 the legislation would have the same effect on global warming as taking 500 million cars off the road. And by all accounts, this bill has a real chance of becoming law in the near future.

 

So opponents of the proposed legislation have to ask themselves whether they’re making the perfect the enemy of the good. I think they are.

After all the years of denial, after all the years of inaction, we finally have a chance to do something major about climate change. Waxman-Markey is imperfect, it’s disappointing in some respects, but it’s action we can take now. And the planet won’t wait.

 

“Il perfetto, il buono ed il pianeta” di Paul Krugman

New York Times 17 maggio 2009

In un certo senso, era facile prendere posizione durante gli anni di Bush: gli uomini del Presidente e la sua maggioranza in Congresso[192] erano così determinati a guidare la nazione nella direzione sbagliata che uno poteva, in piena coscienza, opporsi a tutte le iniziative della amministrazione.

Oggi però, una coalizione piuttosto inquieta[193] di progressisti e di centristi governa a Washington e definire[194] una posizione è diventato assai più rischioso[195]. La politica tende a muovere le cose nella direzione desiderabile, tuttavia in modo più timido di quanto sarebbe auspicabile. E il problema diventa quello di quanti compromessi, di quanto annacquamento si sia disposti ad accettare.

Ci saranno un bel po’ di esami di coscienza, dopo quest’anno, per i sostenitori della riforma della assistenza sanitaria (dal mio punto di vista, la questione discriminante resta quella se la legge includerà o meno un programma pubblico). Ma in questo momento, è la comunità ambientalista che deve decidere su quanto è disposta a transigere[196].

Se stiamo andando nella direzione di assumere comunque una iniziativa sul cambiamento climatico in tempi brevi, la strada dovrebbe essere quella di una qualche versione del testo proposto dai deputati[197] Henry Waxman ed Edward Markey. La loro proposta provocherebbe un contenimento dei gas serra attraverso l’obbligo per gli inquinatori di ottenere o di acquistare permessi di emissione, prevedendo che il numero dei permessi ammissibili – ovvero l’aspetto del “dare un limite”, nella formula del cosiddetto “cap and trade”[198] – descresca gradualmente col tempo.

Non è il caso di dire che i ‘soliti ignoti[199]’ della destra hanno denunciato la Waxman-Markey: il riscaldamento globale non sarebbe vero, i limiti alle emissioni distruggerebbero l’economia, ed altre piacevolezze del genere[200]. Ma la proposta deve anche misurarsi con l’opposizione di qualche ambientalista, che si tira indietro rispetto ai compromessi fatti dai proponenti per cercar di ottenere un adeguato sostegno politico.

Come si deve, dunque, giudicare la Waxman-Markey, il cui testo[201] è stato reso noto la settimana scorsa?

Al Gore ha espresso un apprezzamento positivo sulla legge ed ha deciso di organizzare una campagna popolare a suo favore[202]. Sono anche uscite a suo sostegno un certo numero di associazioni ambientalistiche, dalla League of Conservation Voters[203] al Environmental Defense Fund [204].

Ma Greenpeace ha dichiarato di “non poter sostenere nella sua attuale formulazione la proposta di legge”. Inoltre, alcune influenti personalità ambientalistiche – la più significativa di tutte è quella di James Hansen, lo scienziato della NASA che per primo richiamò l’attenzione pubblica sul riscaldamento ambientale – si oppongono all’idea in sé del “cap and trade”, e sostengono al suo posto una tassa sulle emissioni di biossido di carbonio.

Io sto con Gore. La legge che è all’attenzione non è quella che avremmo idealmente voluto, ma è una legge che possiamo accettare, ed è una soluzione incomparabilmente migliore che non avere nessuna legge.

Una delle obiezioni, la pretesa secondo la quale una tassa sul biossido di carbonio sarebbe meglio del “cap and trade”, secondo il mio punto di vista, è proprio sbagliata. In via di principio, tasse sulle emissioni o permessi scambiabili di emissioni sono egualmente efficaci nel limitare l’inquinamento. In pratica, il “cap and trade” presenta qualche importante vantaggio, soprattutto perché può favorire una efficace cooperazione internazionale.

Non vorrei sembrasse una sottigliezza[205], ma pensate a quanto sarebbe più difficile verificare se la Cina stia effettivamente rispettando la promessa di tassare le emissioni di biossido di carbonio, e all’opposto con quanta facilità si potrebbe in quel paese consentire, ai proprietari delle industrie dotati di buoni appoggi[206], di non fare il loro dovere[207]. Sarebbe invece, in alternativa, abbastanza facile determinare se la Cina sta mantenendo le sue emissioni totali al di sotto di livelli concordati in precedenza.

L’obiezione più seria alla Waxman-Merkey è che essa prevede un meccanismo sulla base del quale molti inquinatori non dovrebbero pagare niente per le emissioni di gas serra: essi otterrebbero le autorizzazioni gratuitamente. In particolare, nei primi anni di operatività del programma più di un terzo delle assegnazioni dei permessi di emissione verrebbe attribuito all’industria energetica senza alcun costo.

In realtà, queste assegnazioni non metterebbero a repentaglio l’efficacia di questa politica. Anche quando gli inquinatori avranno i permessi gratuiti, essi avranno purtuttavia un incentivo  ridurre le loro emissioni, giacché potranno vendere le loro autorizzazioni eccedenti a qualcun altro. Né si tratta solo di teoria; le concessioni relative alle emissioni di biossido di zolfo sono state assegnate ai servizi elettrici a titolo gratuito, tuttavia il sistema “cap and trade” per l’SO2 ha avuto un elevato successo nel controllo delle piogge acide.

Tuttavia, la distribuzione dei permessi, effettivamente, mette in atto un trasferimento di ricchezza dai contribuenti all’industria. Dunque, se il vostro cuore batte per un onesto programma[208], senza importanti contropartite di natura politica[209], la Waxman-Merkey è una delusione.

E tuttavia, la proposta di legge rappresenta una iniziativa importante al fine di limitare il cambiamento climatico. Come ha sottolineato il Center for American Progress, entro il 2020 quella legge avrebbe lo stesso effetto che l’uscita di circolazioone di 500 milioni di automobili. E, a quanto si dice[210], questa proposta ha una reale possibilità di diventare legge nel futuro prossimo.

Dunque gli oppositori della legislazione proposta devono chiedersi se per caso non stiano rendendo l’ottimo nemico del buono. Io penso che sia così.

Dopo gli anni del diniego[211], dopo gli anni dell’inerzia, abbiamo finalmente la possibilità di fare qualcosa di importante in materia di cambiamento climatico. La Waxman-Markey è imperfetta, per qualche espetto è deludente, ma è una iniziativa concreta che si può assumere sul momento. E il pianeta non ci aspetterà.

 

 

 

 

 

 


 

Blue Double Cross By PAUL KRUGMANPublished: May 21, 2009

That didn’t take long. Less than two weeks have passed since much of the medical-industrial complex made a big show of working with President Obama on health care reform — and the double-crossing is already well under way. Indeed, it’s now clear that even as they met with the president, pretending to be cooperative, insurers were gearing up to play the same destructive role they did the last time health reform was on the agenda.

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So here’s the question: Will Mr. Obama gloss over the reality of what’s happening, and try to preserve the appearance of cooperation? Or will he honor his own pledge, made back during the campaign, to go on the offensive against special interests if they stand in the way of reform?

 

The story so far: on May 11 the White House called a news conference to announce that major players in health care, including the American Hospital Association and the lobbying group America’s Health Insurance Plans, had come together to support a national effort to control health care costs.

 

The fact sheet on the meeting, one has to say, was classic Obama in its message of post-partisanship and, um, hope. “For too long, politics and point-scoring have prevented our country from tackling this growing crisis,” it said, adding, “The American people are eager to put the old Washington ways behind them.”

 

 

But just three days later the hospital association insisted that it had not, in fact, promised what the president said it had promised — that it had made no commitment to the administration’s goal of reducing the rate at which health care costs are rising by 1.5 percentage points a year. And the head of the insurance lobby said that the idea was merely to “ramp up” savings, whatever that means.

 

Meanwhile, the insurance industry is busily lobbying Congress to block one crucial element of health care reform, the public option — that is, offering Americans the right to buy insurance directly from the government as well as from private insurance companies. And at least some insurers are gearing up for a major smear campaign.

 

 

 

On Monday, just a week after the White House photo-op, The Washington Post reported that Blue Cross Blue Shield of North Carolina was preparing to run a series of ads attacking the public option. The planning for this ad campaign must have begun quite some time ago.

 

 

The Post has the storyboards for the ads, and they read just like the infamous Harry and Louise ads that helped kill health care reform in 1993. Troubled Americans are shown being denied their choice of doctor, or forced to wait months for appointments, by faceless government bureaucrats. It’s a scary image that might make some sense if private health insurance — which these days comes primarily via HMOs — offered all of us free choice of doctors, with no wait for medical procedures. But my health plan isn’t like that. Is yours?

 

 

 

 

 

“We can do a lot better than a government-run health care system,” says a voice-over in one of the ads. To which the obvious response is, if that’s true, why don’t you? Why deny Americans the chance to reject government insurance if it’s really that bad?

 

For none of the reform proposals currently on the table would force people into a government-run insurance plan. At most they would offer Americans the choice of buying into such a plan.

 

And the goal of the insurers is to deny Americans that choice. They fear that many people would prefer a government plan to dealing with private insurance companies that, in the real world as opposed to the world of their ads, are more bureaucratic than any government agency, routinely deny clients their choice of doctor, and often refuse to pay for care.

 

Which brings us back to Mr. Obama.

Back during the Democratic primary campaign, Mr. Obama argued that the Clintons had failed in their 1993 attempt to reform health care because they had been insufficiently inclusive. He promised instead to gather all the stakeholders, including the insurance companies, around a “big table.” And that May 11 event was, of course, intended precisely to show this big-table strategy in action.

 

 

But what if interest groups showed up at the big table, then blocked reform? Back then, Mr. Obama assured voters that he would get tough: “If those insurance companies and drug companies start trying to run ads with Harry and Louise, I’ll run my own ads as president. I’ll get on television and say ‘Harry and Louise are lying.’ ”

 

 

The question now is whether he really meant it.

 

The medical-industrial complex has called the president’s bluff. It polished its image by showing up at the big table and promising cooperation, then promptly went back to doing all it can to block real change. The insurers and the drug companies are, in effect, betting that Mr. Obama will be afraid to call them out on their duplicity.

 

It’s up to Mr. Obama to prove them wrong.

 

“Il doppio gioco della Croce Azzurra[212]” di Paul Krugman

New York Times 21 maggio 2009

Non c’è voluto molto. Sono passate meno di due settimane dal momento in cui il complesso assicurativo-farmaceutico[213] mise in piedi la sceneggiata della collaborazione con il Presidente Obama sulla riforma della assistenza sanitaria, e il doppio gioco è già sotto gli occhi di tutti[214]. Difatti, a questo punto è chiaro che le compagnie assicuratrici, anche se incontravano il Presidente nella pretesa di apparire collaborative, in realtà stavano attrezzandosi a giocare lo stesso ruolo distruttivo che ebbero l’ultima volta che la riforma sanitaria fu nell’agenda di un governo.

La domanda, a questo punto, è la seguente: Obama farà finta di non vedere[215] la realtà delle cose, e cercherà di mantenere l’apparenza di una collaborazione? Oppure, egli onorerà la promessa fatta nel corso della campagna presidenziale, di andare all’offensiva contro gli interessi particolari se essi si fossero messi di mezzo[216] alla riforma?

Riassumiamo la storia sino a questo punto: il giorno 11 maggio la Casa Bianca ha convocato una conferenza stampa per annunciare che i principali soggetti del settore, compresa la American Hospital Association e il gruppo lobbistico America’s Health Insurance Plans, avevano deciso di sostenere un impegno nazionale per il controllo dei costi della assistenza sanitaria.

Il resoconto sintetico[217] dell’incontro, va detto, è consistito nell’ormai consueto messaggio di superamento delle faziosità e di speranza[218] da parte di Obama. “Troppo a lungo, la politica e gli sterili battibecchi[219] hanno impedito al nostro paese di affrontare questa crisi sempre più grande”, egli ha detto, ed ha aggiunto: “Il popolo americano è ansioso di mettersi alle spalle le vecchie abitudini di Washington”.

Ma appena tre giorni dopo, la associazione delle aziende ospedaliere sottolineava che essa non aveva affatto promesso quanto sostenuto dal Presidente, ovvero che non aveva assunto alcun impegno nei confronti dell’obbiettivo della amministrazione di ridurre il tasso di incremento dei costi della assistenza sanitaria di 1,5 punti percentuali all’anno. E il capo della lobby assicurativa affermava che l’idea era stata semplicemente quella di “accrescere” i risparmi, chissà cosa intendendo significare.

Nel frattempo, il settore delle assicurazioni ha in corso una impegnativa attività di lobbying per bloccare un aspetto cruciale della riforma della assistenza sanitaria, la cosiddetta ‘opzione pubblica’, ovvero l’offerta agli americani del diritto di acquistare la copertura assicurativa direttamente dallo Stato, nello stesso modo in cui la si acquista presso le compagnie private. E, alla fine, qualche assicurazione sembra che si stia organizzando per una più aggressiva campagna di calunnie[220].

Lunedì, appena una settimana dopo la foto di gruppo alla Casa Bianca, The Washington Post riportava la notizia secondo la quale la associazione Blu Cross Blu Shield [221] del Nord Carolina si stava preparando a mettere in circolazione una serie di iniziative pubblicitarie contro l’opzione pubblica. Questa campagna si può supporre che fosse già predisposta da  un bel po’ di tempo.

Il Washington Post [222] è in possesso della sequenza dei bozzetti e delle didascalie[223] relative alla iniziativa propagandistica, ed essi scorrono[224] proprio come nella oscena campagna pubblicitaria ‘Harry e Louise”, che contribuì a liquidare la riforma della assistenza sanitaria nell’anno 1993. Si mostrano Americani con gravi problemi nel mentre viene loro negata la scelta di un medico, oppure nel mentre sono costretti ad attendere mesi per un appuntamento, a causa di anonimi burocrati statali. Sono immagini allarmanti, che potrebbero avere un qualche senso se l’assicurazione sanitaria privata – che di questi tempi arriva in primo luogo attraverso l’HMO[225]offrisse ad ognuno la scelta libera dei dottori e dispensasse da ogni attesa per le procedure mediche. Io, a dir la verità, non godo di prestazioni del genere, e voi?

“Noi possiamo fare assai meglio che un sistema statale di assistenza sanitaria”, dice una voce fuori dal campo in uno di quegli spot. Al che, la risposta più naturale sarebbe: se potete far meglio, perché non lo fate? Perché negare agli Americani il diritto di rifiutare la assistenza dello Stato, qualora essa fosse davvero così cattiva?

Nessuna delle proposte di riforma attualmente sul tavolo costringerebbero le persone ad entrare in un programma assicurativo statale. Al massimo, esse offrono agli americani la possibilità di acquistare quel programma.

L’obbiettivo delle assicurazioni è proprio quello di impedire questa scelta. Esse temono che molte persone sceglierebbero un programma statale piuttosto che dover fare i conti con compagnie assicurative private che, nel mondo reale così diverso da quello della loro pubblicità,  sono molto più burocratiche di ogni agenzia governativa, ordinariamente negano ai clienti la scelta del medico, e addirittura spesso rifiutano di pagare l’assistenza.

Il che ci riporta ad Obama.

Nel corso della passate primarie dei Democratici, Obama sostenne che i Clinton avevano mancato l’obbiettivo della riforma sanitaria perché non avevano ricercato a sufficienza la collaborazione di tutti i soggetti. Egli promise invece di mettere attorno a “un grande tavolo” tutti coloro che avevano interessi nel settore[226], incluse le compagnie assicuratrici. E l’appuntamento dell’11 maggio aveva, naturalmente, l’intenzione di mostrare questa strategia del ‘grande tavolo’ in funzione.

Ma cosa sarebbe accaduto se questi gruppi di interesse così assortiti attorno al grande tavolo, successivamente si fossero scagliati contro la riforma? A quel punto, Obama rassicurò gli elettori che si sarebbe comportato con durezza: “Se le compegnie assicuratrici e le imprese farmaceutiche cominceranno a mettere in circolazione spot pubblicitari con Herry e Louise, in quanto presidente io gli opporrò la nostra pubblicità. Andremo sulle televisioni e diremo: ‘Harry e Luoise stanno mentendo’ ”.

La questione ora è se egli intendesse farlo sul serio.

Il complesso assicurativo-farmaceutico ha deciso di ‘andare a vedere’ se il Presidente stia bluffando. Si sono dati una spolverata per mostrarsi al gran tavolo e promettere collaborazione, dopodiché sono prontamente tornati a fare tutto quello che è in loro potere per impedire ogni effettivo cambiamento. Le assicurazioni e le industrie farmaceutiche stanno, in effetti, scommettendo sul fatto che Obama non se la sentirà di denunciare la loro doppiezza.

Tocca ora a lui mostrare che si sbagliano.

 

 

 

 

 

 

State of Paralysis By PAUL KRUGMANPublished: May 24, 2009

California, it has long been claimed, is where the future happens first. But is that still true? If it is, God help America.

 

The recession has hit the Golden State hard. The housing bubble was bigger there than almost anywhere else, and the bust has been bigger too. California’s unemployment rate, at 11 percent, is the fifth-highest in the nation. And the state’s revenues have suffered accordingly.

 

What’s really alarming about California, however, is the political system’s inability to rise to the occasion.

Despite the economic slump, despite irresponsible policies that have doubled the state’s debt burden since Arnold Schwarzenegger became governor, California has immense human and financial resources. It should not be in fiscal crisis; it should not be on the verge of cutting essential public services and denying health coverage to almost a million children. But it is — and you have to wonder if California’s political paralysis foreshadows the future of the nation as a whole.

 

The seeds of California’s current crisis were planted more than 30 years ago, when voters overwhelmingly passed Proposition 13, a ballot measure that placed the state’s budget in a straitjacket. Property tax rates were capped, and homeowners were shielded from increases in their tax assessments even as the value of their homes rose.

 

 

The result was a tax system that is both inequitable and unstable. It’s inequitable because older homeowners often pay far less property tax than their younger neighbors. It’s unstable because limits on property taxation have forced California to rely more heavily than other states on income taxes, which fall steeply during recessions.

 

Even more important, however, Proposition 13 made it extremely hard to raise taxes, even in emergencies: no state tax rate may be increased without a two-thirds majority in both houses of the State Legislature. And this provision has interacted disastrously with state political trends.

 

For California, where the Republicans began their transformation from the party of Eisenhower to the party of Reagan, is also the place where they began their next transformation, into the party of Rush Limbaugh. As the political tide has turned against California Republicans, the party’s remaining members have become ever more extreme, ever less interested in the actual business of governing.

 

And while the party’s growing extremism condemns it to seemingly permanent minority status — Mr. Schwarzenegger was and is sui generis — the Republican rump retains enough seats in the Legislature to block any responsible action in the face of the fiscal crisis.

 

Will the same thing happen to the nation as a whole?

 

Last week Bill Gross of Pimco, the giant bond fund, warned that the U.S. government may lose its AAA debt rating in a few years, thanks to the trillions it’s spending to rescue the economy and the banks. Is that a real possibility?

 

 

Well, in a rational world Mr. Gross’s warning would make no sense. America’s projected deficits may sound large, yet it would take only a modest tax increase to cover the expected rise in interest payments — and right now American taxes are well below those in most other wealthy countries. The fiscal consequences of the current crisis, in other words, should be manageable.

 

But that presumes that we’ll be able, as a political matter, to act responsibly. The example of California shows that this is by no means guaranteed. And the political problems that have plagued California for years are now increasingly apparent at a national level.

 

To be blunt: recent events suggest that the Republican Party has been driven mad by lack of power. The few remaining moderates have been defeated, have fled, or are being driven out. What’s left is a party whose national committee has just passed a resolution solemnly declaring that Democrats are “dedicated to restructuring American society along socialist ideals,” and released a video comparing Speaker of the House Nancy Pelosi to Pussy Galore.

 

And that party still has 40 senators.

So will America follow California into ungovernability? Well, California has some special weaknesses that aren’t shared by the federal government. In particular, tax increases at the federal level don’t require a two-thirds majority, and can in some cases bypass the filibuster. So acting responsibly should be easier in Washington than in Sacramento.

 

 

But the California precedent still has me rattled. Who would have thought that America’s largest state, a state whose economy is larger than that of all but a few nations, could so easily become a banana republic?

On the other hand, the problems that plague California politics apply at the national level too.

 

“Stato di paralisi” di Paul Krugman

New York Times 24 maggio 2009

 

Si è sempre ritenuto che la California fosse il luogo nel quale si aveva in anteprima[227] la rappresentazione del futuro. Ma è ancora vero? Se è vero, Dio salvi l’America.

La recessione ha colpito il Golden State duramente. Prima, una bolla immobiliare più grande che in quasi tutti gli altri Stati[228]; poi l’esplosione, anch’essa  con effetti maggiori. Il tasso di disoccupazione in California è all’11 per cento, il quinto tra i più alti della nazione. Le entrate dello Stato soffrono in conseguenza.

Ciò che è, tuttavia, realmente allarmante a proposito della California, è l’incapacità del sistema politico di essere all’altezza della situazione.

Nonostante la recessione economica, nonostante le politiche irresponsabili che hanno raddoppiato il peso del debito statale dal momento in cui Arnold Schwarzenegger è diventato governatore, la California ha risorse umane e finanziarie immense. Essa non dovrebbe essere in una crisi finanziaria; essa non dovrebbe essere alla vigilia del taglio di essenziali servizi pubblici e della esclusione dalla assistenza sanitaria di quasi un milione di bambini. Ma è così, e ci si chiede con stupore[229] se la paralisi politica della California non prefiguri il futuro dell’intera nazione.

I semi della attuale crisi della California furono gettati più di trent’anni fa, quando gli elettori approvarono a schiacciante maggioranza la Proposizione 13, un quesito referendario che costrinse il bilancio statale in una camicia di forza. Fu fissato un tetto alle tasse sui patrimoni e la proprietà immobiliare fu protetta dai possibili incrementi negli accertamenti fiscali, anche se il valore delle abitazioni cresceva.

Il risultato fu un sistema fiscale sia iniquo che squilibrato. Iniquo, perché gli anziani proprietari di case pagano di solito tasse sul patrimonio molto minori dei loro più giovani vicini. Squilibrato, perché i limiti della tassa sui patrimoni hanno costretto la California a gravare più pesantemente degli altri Stati sulle tasse sui redditi, che cadono bruscamente in periodi di recessione.

Ancora più importante, tuttavia, è stato il fatto che la Proposizione 13 ha reso estremamente più difficile innalzare le tasse, anche in momenti di emergenza: nessuna tassa statale può essere elevata senza una maggioranza di due terzi in entrambi i rami della assemblea legislativa statale. La quale previsione ha influenzato in modo disastroso la cultura politica dello Stato.

Il fatto è che la California, dove prese inizio la trasformazione dei Repubblicani dal partito di Eisenhower al partito di Reagan, è anche il luogo dove essi hanno conosciuto l’ultima mutazione, diventando il partito di Rush Limbaugh. Nel momento in cui la congiuntura politica è diventata sfavorevole per i repubblicani, i residui componenti del Partito sono diventati anche più estremisti e sempre meno interessati alle concrete vicende del governo[230].

E mentre la crescita dell’estremismo li condannava apparentemente in permanenza ad una posizione minoritaria – il caso del signor Schwarzenegger era e resta ‘sui generis’ – il piccolo gruppo repubblicano[231] ha mantenuto un numero di seggi nella assemblea legislativa sufficiente a bloccare ogni iniziativa responsabile di fronte alla crisi fiscale.

Accadrà lo stesso alla nazione nel suo complesso?

La scorsa settimana Bill Gross della PIMCO[232], il gigantesco fondo obbligazionario, ha ammonito che il governo americano potrebbe perdere nel giro di pochi anni la valutazione AAA dei suoi titoli sul debito, grazie alle migliaia di miliardi che si stanno spendendo per il salvataggio dell’economia e delle banche. E’ davvero una circostanza possibile?

Ebbene, in un mondo provvisto di ragione l’ammonimento di Gross non avrebbe alcun senso. Le proiezioni del deficit americano possono apparire cospicue, ma sarebbe sufficiente un modesto innalzamento delle tasse per coprire la prevista crescita nel pagamento degli  interessi, e sul momento le tasse degli Americani sono assai al di sotto di quelle della gran parte dei paesi più ricchi. Le conseguenze fiscali della attuale crisi, in altre parole, dovrebbero essere gestibili.

Ma questo nell’ipotesi che si sia capaci, da un punto di vista politico, di agire responsabilmente. L’esempio della California dimostra che questo non è in nessun modo garantito. E i problemi politici che hanno tormentato per anni la California, sono diventati sempre più visibili a livello nazionale.

Per dirla nuda e cruda[233]: gli eventi recenti fanno ritenere che il Partito Repubblicano sia uscito di testa per astinenza dal potere. I pochi moderati rimasti sono stati sconfitti, sono fuggiti o sono stati cacciati via. Quello che è rimasto è un Partito la cui direzione nazionale ha appena approvato una risoluzione nella quale si proclama solennemente che i Democratici “sono intenzionati a riformare la società americana secondo ideali socialisti”, e mette in circolazione un video nel quale la speaker della Camera Nancy Pelosi è paragonata a Pussy Galore[234].

E questo Partito ha ancora 40 Senatori.

Dunque, l’America andrà dietro alla California quanto a ingovernabilità? Ebbene, la California ha alcune particolari condizioni di debolezza che non sono proprie del governo federale. In particolare, gli aumenti delle tasse al livello federale non richiedono maggioranze di due terzi, e in qualche caso possono essere approvati aggirando l’ostruzionismo. Cosicché agire con senso di responsabilità dovrebbe essere più facile a Washington che a Sacramento[235].

Tuttavia, il precedente della California mi innervosisce[236]. Chi avrebbe mai pensato che lo Stato più importante d’America[237], uno Stato con una economia che è inferiore soltanto a quella di poche nazioni, sarebbe diventato una ‘repubblica delle banane’?

D’altronde, i problemi che travagliano la politica della California sono gli stessi a livello nazionale.

 

 


 

The Big Inflation Scare By PAUL KRUGMANPublished: May 28, 2009

Suddenly it seems as if everyone is talking about inflation. Stern opinion pieces warn that hyperinflation is just around the corner. And markets may be heeding these warnings: Interest rates on long-term government bonds are up, with fear of future inflation one possible reason for the interest-rate spike.

 

 

But does the big inflation scare make any sense? Basically, no — with one caveat I’ll get to later. And I suspect that the scare is at least partly about politics rather than economics.

 

First things first. It’s important to realize that there’s no hint of inflationary pressures in the economy right now. Consumer prices are lower now than they were a year ago, and wage increases have stalled in the face of high unemployment. Deflation, not inflation, is the clear and present danger.

So if prices aren’t rising, why the inflation worries? Some claim that the Federal Reserve is printing lots of money, which must be inflationary, while others claim that budget deficits will eventually force the U.S. government to inflate away its debt.

 

 

 

The first story is just wrong. The second could be right, but isn’t.

Now, it’s true that the Fed has taken unprecedented actions lately. More specifically, it has been buying lots of debt both from the government and from the private sector, and paying for these purchases by crediting banks with extra reserves. And in ordinary times, this would be highly inflationary: banks, flush with reserves, would increase loans, which would drive up demand, which would push up prices.

 

 

But these aren’t ordinary times. Banks aren’t lending out their extra reserves. They’re just sitting on them — in effect, they’re sending the money right back to the Fed. So the Fed isn’t really printing money after all.

 

Still, don’t such actions have to be inflationary sooner or later? No. The Bank of Japan, faced with economic difficulties not too different from those we face today, purchased debt on a huge scale between 1997 and 2003. What happened to consumer prices? They fell.

All in all, much of the current inflation discussion calls to mind what happened during the early years of the Great Depression when many influential people were warning about inflation even as prices plunged. As the British economist Ralph Hawtrey wrote, “Fantastic fears of inflation were expressed. That was to cry, Fire, Fire in Noah’s Flood.” And he went on, “It is after depression and unemployment have subsided that inflation becomes dangerous.”

 

 

Is there a risk that we’ll have inflation after the economy recovers? That’s the claim of those who look at projections that federal debt may rise to more than 100 percent of G.D.P. and say that America will eventually have to inflate away that debt — that is, drive up prices so that the real value of the debt is reduced.

 

Such things have happened in the past. For example, France ultimately inflated away much of the debt it incurred while fighting World War I.

 

But more modern examples are lacking. Over the past two decades, Belgium, Canada and, of course, Japan have all gone through episodes when debt exceeded 100 percent of G.D.P. And the United States itself emerged from World War II with debt exceeding 120 percent of G.D.P. In none of these cases did governments resort to inflation to resolve their problems.

 

So is there any reason to think that inflation is coming? Some economists have argued for moderate inflation as a deliberate policy, as a way to encourage lending and reduce private debt burdens. I’m sympathetic to these arguments and made a similar case for Japan in the 1990s. But the case for inflation never made headway with Japanese policy makers then, and there’s no sign it’s getting traction with U.S. policy makers now.

 

 

All of this raises the question: If inflation isn’t a real risk, why all the claims that it is?

Well, as you may have noticed, economists sometimes disagree. And big disagreements are especially likely in weird times like the present, when many of the normal rules no longer apply.

 

 

But it’s hard to escape the sense that the current inflation fear-mongering is partly political, coming largely from economists who had no problem with deficits caused by tax cuts but suddenly became fiscal scolds when the government started spending money to rescue the economy. And their goal seems to be to bully the Obama administration into abandoning those rescue efforts.

Needless to say, the president should not let himself be bullied. The economy is still in deep trouble and needs continuing help.

 

Yes, we have a long-run budget problem, and we need to start laying the groundwork for a long-run solution. But when it comes to inflation, the only thing we have to fear is inflation fear itself.

 

Il terrore della Grande Inflazione” di Paul Krugman

New York Times 28 maggio 2009

Improvvisamente sembra che si siano messi tutti a ragionare di inflazione. Severi articoli di opinionisti mettono in guardia dalla iperinflazione che sarebbe letteralmente[238] dietro l’angolo. E può accadere che i mercati prestino ascolto a questi ammonimenti: i tassi di interesse a lungo termine sui bonds governativi sono saliti: il timore di una inflazione futura potrebbe essere la possibile spiegazione di questa punta dei tassi di interesse[239].

Ma ha un qualche senso questo terrore di una grande  inflazione? Fondamentalmente no, a parte un avvertimento che fornirò tra poco. Ho il sospetto che questo panico abbia, almeno in parte, più a che fare con la politica che con l’economia.

Ma andiamo per ordine[240].  E’ importante comprendere che per il momento non c’è alcun segno di spinte inflazionistiche nell’economia. I prezzi al consumo sono più bassi ora di quanto fossero un anno fa e la crescita dei salari è ferma[241], stanti gli alti livelli di disoccupazione. La deflazione, non l’inflazione, è il chiaro pericolo attuale.

Insomma, se i prezzi non stanno crescendo, perché aver paura dell’inflazione? Qualcuno sostiene che la Federal Reserve stia stampando molta moneta, il che non potrebbe che avere effetti inflazionistici, mentre altri sostengono che i deficits di bilancio alla fine costringeranno il governo degli Stati Uniti ad utilizzare l’inflazione allo scopo di ridurre il valore reale del proprio debito[242].

La prima spiegazione è proprio sbagliata. La seconda potrebbe essere giusta, ma non lo è.

Ora, è vero che la Fed ha assunto iniziative per le quali non c’erano precedenti. In particolare, essa ha assunto quantità di debito sia da parte del governo che del settore privato, pagandole nella forma di credito bancario proveniente da riserve straordinarie. In tempi ordinari, questo avrebbe elevati effetti inflazionistici: le banche, alimentate da queste riserve, incrementerebbero i prestiti, il che spingerebbe in alto la domanda, che a suo volta provocherebbe un innalzamento dei prezzi.

Ma questi non sono tempi ordinari. Le banche non stanno dando in prestito le loro riserve straordinarie. In sostanza, esse lo hanno soltanto fatto proprio[243] e si limitano a restituire i soldi alla Fed. In questo senso, non si può nemmeno dire che la Fed abbia emesso nuova moneta.

Tuttavia, non hanno prima o poi effetti inflazionistici, azioni del genere? Non è così: la Banca del Giappone fece fronte alle difficoltà economiche in modo non tanto diverso dal nostro, acquisendo debiti su vasta scala nel periodo tra il 1997 ed il 2003. Cosa accadde ai prezzi al consumo? Calarono.

Tutto considerato, gran parte della attuale discussione sulla inflazione richiama alla mente quello che accadde durante i primi anni della Grande Depressione, quando molte persone autorevoli mettevano in guardia dalla inflazione anche se i prezzi scendevano. Come scrisse l’economista inglese Ralph Hawtrey: “Vennero messe in giro paure le più fantasiose. C’era da piangere, fuoco dappertutto, nel mentre era in corso una alluvione biblica[244]”. E proseguiva: “E al momento in cui la depressione e la disoccupazione si placano[245], che l’inflazione diventa pericolosa”.

C’è allora il rischio che avremo inflazione dopo la ripresa dell’economia? E’ questo l’argomento di coloro che, sulla base di proiezioni che danno il debito federale[246] in crescita oltre il 100 per cento del PIL, affermano che alla fine l’America dovrà ridurre quel debito affidandosi all’inflazione, ovvero, spingendo in alto i prezzi in modo che il valore reale del debito si riduca.

Nel passato sono accadute cose del genere. Ad esempio, la Francia alla fine erose con l’inflazione gran parte del debito che si era procurata combattendo la Seconda Guerra Mondiale.

Non ci sono, però, esempi del genere in epoca contemporanea. Nel corso degli ultimi due decenni, il Belgio, il Canada e, naturalmente, il Giappone sono tutti passati attraverso periodi nei quali il debito ha superato il 100 per cento del PIL. Gli stessi Stati Uniti  riemersero dalla Seconda Guerra Mondiale con un debito che eccedeva il 120 per cento del PIL. In nessuno di quei casi i governi ricorsero all’inflazione per risolvere i propri problemi.

C’è dunque una qualche ragione per pensare che possa aver luogo un processo infazionistico? Alcuni economisti si sono espressi a favore di una moderata inflazione, una maniera per incoraggiare il credito e ridurre il peso del debito privato. Sono anch’io dello stesso avviso[247], ed ho fatto l’esempio della analogia con il Giappone negli anni 90. Ma in quegli anni l’eventualità dell’inflazione non ebbe alcun credito tra gli uomini di governo giapponesi, né c’è alcun segno che stia acquistando credito tra gli uomini di governo americani[248] di oggi.

Cio detto, si pone un problema: se l’inflazione non è un problema reale, perché tutto questo clamore?

Ebbene, come avrete notato, gli economisti non vanno sempre d’accordo. E i maggiori disaccordi sono particolarmente probabili in tempi strani[249] come quello presente, nei quali molte delle regole normali non sono più utilizzabili.

Ma non si sfugge alla sensazione che l’attuale allarmismo inflazionistico[250] abbia in parte a che fare con la politica, provenendo in gran parte da quegli economisti che non avevano alcun problema con i tagli alle tasse, ma sono diventati improvvisamente censori della spesa pubblica[251], nel momento in cui il governo l’ha incrementata per mettere in salvo l’economia. Il loro obbiettivo è probabile che sia quello di impressionare[252] Obama affinchè metta da parte quegli sforzi.

Non c’è bisogno di dire che il Presidente non dovrebbe farsi impressionare. L’economia ha ancora guai profondi così come ha ancora bisogno di aiuto.

E’ vero: abbiamo un problema di bilancio di lungo periodo e dobbiamo predisporre i lavori preparatori [253] per una soluzione di lungo periodo. Ma se si parla di inflazione, l’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura dell’inflazione stessa. 

 

 

 


 

Reagan Did It By PAUL KRUGMANPublished: May 31, 2009

“This bill is the most important legislation for financial institutions in the last 50 years. It provides a long-term solution for troubled thrift institutions. … All in all, I think we hit the jackpot.” So declared Ronald Reagan in 1982, as he signed the Garn-St. Germain Depository Institutions Act.

 

 

Skip to next paragraphHe was, as it happened, wrong about solving the problems of the thrifts. On the contrary, the bill turned the modest-sized troubles of savings-and-loan institutions into an utter catastrophe. But he was right about the legislation’s significance. And as for that jackpot — well, it finally came more than 25 years later, in the form of the worst economic crisis since the Great Depression.

 

 

For the more one looks into the origins of the current disaster, the clearer it becomes that the key wrong turn — the turn that made crisis inevitable — took place in the early 1980s, during the Reagan years.

Attacks on Reaganomics usually focus on rising inequality and fiscal irresponsibility. Indeed, Reagan ushered in an era in which a small minority grew vastly rich, while working families saw only meager gains. He also broke with longstanding rules of fiscal prudence.

 

 

On the latter point: traditionally, the U.S. government ran significant budget deficits only in times of war or economic emergency. Federal debt as a percentage of G.D.P. fell steadily from the end of World War II until 1980. But indebtedness began rising under Reagan; it fell again in the Clinton years, but resumed its rise under the Bush administration, leaving us ill prepared for the emergency now upon us.

 

The increase in public debt was, however, dwarfed by the rise in private debt, made possible by financial deregulation. The change in America’s financial rules was Reagan’s biggest legacy. And it’s the gift that keeps on taking.

 

 

The immediate effect of Garn-St. Germain, as I said, was to turn the thrifts from a problem into a catastrophe. The S.& L. crisis has been written out of the Reagan hagiography, but the fact is that deregulation in effect gave the industry — whose deposits were federally insured — a license to gamble with taxpayers’ money, at best, or simply to loot it, at worst. By the time the government closed the books on the affair, taxpayers had lost $130 billion, back when that was a lot of money.

 

 

But there was also a longer-term effect. Reagan-era legislative changes essentially ended New Deal restrictions on mortgage lending — restrictions that, in particular, limited the ability of families to buy homes without putting a significant amount of money down.

 

These restrictions were put in place in the 1930s by political leaders who had just experienced a terrible financial crisis, and were trying to prevent another. But by 1980 the memory of the Depression had faded. Government, declared Reagan, is the problem, not the solution; the magic of the marketplace must be set free. And so the precautionary rules were scrapped.

 

Together with looser lending standards for other kinds of consumer credit, this led to a radical change in American behavior.

 

We weren’t always a nation of big debts and low savings: in the 1970s Americans saved almost 10 percent of their income, slightly more than in the 1960s. It was only after the Reagan deregulation that thrift gradually disappeared from the American way of life, culminating in the near-zero savings rate that prevailed on the eve of the great crisis. Household debt was only 60 percent of income when Reagan took office, about the same as it was during the Kennedy administration. By 2007 it was up to 119 percent.

 

 

All this, we were assured, was a good thing: sure, Americans were piling up debt, and they weren’t putting aside any of their income, but their finances looked fine once you took into account the rising values of their houses and their stock portfolios. Oops.

 

Now, the proximate causes of today’s economic crisis lie in events that took place long after Reagan left office — in the global savings glut created by surpluses in China and elsewhere, and in the giant housing bubble that savings glut helped inflate.

 

But it was the explosion of debt over the previous quarter-century that made the U.S. economy so vulnerable. Overstretched borrowers were bound to start defaulting in large numbers once the housing bubble burst and unemployment began to rise.

 

These defaults in turn wreaked havoc with a financial system that — also mainly thanks to Reagan-era deregulation — took on too much risk with too little capital.

 

 

There’s plenty of blame to go around these days. But the prime villains behind the mess we’re in were Reagan and his circle of advisers — men who forgot the lessons of America’s last great financial crisis, and condemned the rest of us to repeat it.

 

“Le colpe di Reagan[254]” di Paul Krugman

New York Times 31 maggio 2009

 

“Questa proposta è il più importante atto legislativo che abbia riguardato le isituzioni finanziarie nel corso degli ultimi 50 anni. Essa fornisce una soluzione a lungo termine per gli istituti di risparmio che rischiano il dissesto …Tutto sommato, penso che sia come se avessimo vinto alla lotteria[255]”. Così ebbe a dire Ronald Reagan nel 1982, nel momento in cui appose la firma sulla Garn-St. Germain Depository Institutions Act[256].

Egli aveva torto, come si dimostrò, a proposito della soluzione dei problemi dei risparmi. Al contrario, la legge trasformò i guai di modeste dimensioni degli istituti di risparmio e prestito in una completa catastrofe. Ma aveva ragione a proposito della significatività di quell’atto legislativo. Quanto alla lotteria, ebbene, il risultato è arrivato con 25 anni di ritardo, nella forma della peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione.

Più che uno riflette sulle origini del disastro in corso, più diventa chiaro che quello che non ha girato nel verso giusto e che ha reso la crisi inevitabile[257], prese piede agli inizi degli anni 80, durante gli anni di Reagan.

Le critiche alla politica economica di Reagan di solito si concentrano sulla crescita delle diseguaglianze e sulla irresponsabilità finanziaria. In effetti, Reagan inaugurò un’epoca nella quale una piccola minoranza diventò immensamente ricca, mentre le famiglie dei lavoratori conobbero solo magri guadagni. Inoltre, egli ruppe con una tradizione consolidata di regole di prudenza finanziaria[258].

A proposito di quest’ultimo aspetto: tradizionalmente, i governi americani avevano gestito deficit di bilancio soltanto nei periodi di guerra o di emergenza economica. Il debito federale in rapporto al PIL diminuì costantemente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sino al 1980. L’indebitamento cominciò a crescere con Reagan; calò negli anni di Clinton, ma riprese a crescere sotto la amministrazione Bush, causando l’attuale inadeguatezza nel fronteggiare l’emergenza in corso[259].

La crescita del debito pubblico, tuttavia, fu una piccola cosa al confronto con quella del debito privato [260], reso possibile dalla deregolamentazione finanziaria. Il cambiamento nelle regole finanziarie dell’America fu il principale lascito di Reagan. E questo è il regalo che continuiamo a sopportare[261].

L’effetto immediato della Garn-St Germain fu, come ho detto, quello di trasformare la questione dei risparmi da un problema in una catastrofe. La “crisi dei risparmi e dei prestiti[262]” è stata annoverata[263] tra gli episodi della agiografia reaganiana. Ma il fatto è che la deregolamentazione dette all’industria – i cui depositi furono assicurati al livello federale – la licenza, nel migliore dei casi, di giocare d’azzardo con i soldi dei contribuenti, oppure, nel peggiore dei casi, di depredarli. Quando il governo chiuse la contabilità[264] di questa vicenda, i contribuenti ci avevano rimesso 130 miliardi di dollari, che per quei tempi erano un bel po’ di denaro.

 

Ma ci fu anche un effetto a più lungo termine. I cambiamenti legislativi dell’epoca di Reagan nella sostanza interruppero le restrizioni del New Deal sulla concessione dei mutui, restrizioni che, in particolare, limitavano la possibilità per le famiglie di acquistare abitazioni senza investirvi una significativa somma di tasca propria.

Queste restrizioni erano state messe in atto nel corso degli anni 30 da parte di uomini politici che avevano appena fatto esperienza di una drammatica crisi finanziaria, e cercavano di prevenirne una seconda. Ma nel 1980 la memoria della Depressione era svanita. Il governo è il problema, aveva dichiarato Reagan, non la soluzione; la magia del mercato doveva agire in libertà. Fu così che le regole cautelative furono liquidate.

Assieme ai criteri più permissivi nella concessione di credito per varie categorie di consumatori, questo comportò un radicale mutamento nel comportamento degli americani.

Noi non eravamo sempre stati una nazione di grandi debiti e di poco risparmio; negli anni 70 gli americani risparmiarono quasi il 10 per cento del loro reddito, una quota leggermente superiore di quella degli anni 60. Fu solo a seguito della deregolamentazione di Reagan che il risparmio gradualmente scomparve dal modo di vita degli americani, culminando in un tasso di rispermio prossimo a zero che caratterizzò il periodo della grande crisi. Il debito delle famiglie era soltanto il 60 per cento del reddito al momento in cui Reagan assunse il suo incarico,  pressappoco il medesimo che nel periodo della amministrazione Kennedy. Ma nel 2007 era salito al 119 per cento.

Venimmo assicurati che tutto questo era sacrosanto: certo, gli Americani accumulavano debito e non mettevano da parte niente del loro reddito, ma le loro finanze sembravano in ottima salute, se solo si considerava i valori crescenti delle loro case e dei loro portafogli azionari. Et voilà![265]

E’ vero che le cause più vicine della crisi odierna sono consistite in eventi molto successivi al periodo in cui Reagan lasciò il suo incarico, nell’eccesso di risparmio globale che venne provocato dai surplus in Cina ed altrove, e nella gigantesca bolla immobiliare che quell’eccesso di risparmio contribuì ad alimentare.

Ma è stata l’esplosione del debito nei precedenti venticinque anni che ha reso l’economia americana così vulnerabile.  Debitori superesposti sono stati costretti in gran numero a diventare morosi nel momento in cui la bolla immobiliare è scoppiata e la disoccupazione ha cominciato a crescere.

Queste morosità, a loro volta, hanno scombussolato[266] un sistema finanziario che, anche e soprattutto grazie alla deregolamentazione dell’epoca di Reagan, aveva preso l’abitudine di prendere troppi rischi con capitali inadeguati.

Ci sono una quantità di colpe addebitabili ai giorni nostri. Ma i primi lestofanti[267] del disastro nel quale ci troviamo furono Reagan ed il suo cerchio di consiglieri, uomini che vollero ignorare le lezioni dell’ultima grande crisi finanziaria e che ci hanno condannati a ripeterla.

 

 

 

 


 

Keeping Them Honest By PAUL KRUGMANPublished: June 5, 2009

“I appreciate your efforts, and look forward to working with you so that the Congress can complete health care reform by October.” So declared President Obama in a letter this week to Senators Max Baucus and Edward Kennedy. The big health care push is officially on.

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But the devil is in the details. Health reform will fail unless we get serious cost control — and we won’t get that kind of control unless we fundamentally change the way the insurance industry, in particular, behaves. So let me offer Congress two pieces of advice:

 

1) Don’t trust the insurance industry.

2) Don’t trust the insurance industry.

 

The Democratic strategy for health reform is based on a political judgment: the belief that the public will be more willing to accept reform, less easily Harry-and-Louised, if those who already have health coverage from private insurers are allowed to keep it.

 

 

But how can we have fundamental reform of what Mr. Obama calls a “broken system” if the current players stay in place? The answer is supposed to lie in a combination of regulation and competition.

 

It’s a sign of the way the political winds are blowing that insurers aren’t opposing new regulations. Indeed, the president of America’s Health Insurance Plans, the industry lobby known as AHIP, has explicitly accepted the need for “much more aggressive regulation of insurance.”

 

What’s still not settled, however, is whether regulation will be supplemented by competition, in the form of a public plan that Americans can buy into as an alternative to private insurance.

 

Now nobody is proposing that Americans be forced to get their insurance from the government. The “public option,” if it materializes, will be just that — an option Americans can choose. And the reason for providing this option was clearly laid out in Mr. Obama’s letter: It will give Americans “a better range of choices, make the health care market more competitive, and keep the insurance companies honest.”

 

Those last five words are crucial because history shows that the insurance companies will do nothing to reform themselves unless forced to do so.

 

Consider the seemingly trivial matter of making it easier for doctors to deal with multiple insurance companies.

Back in 1993, the political strategist (and former Times columnist) William Kristol, in a now-famous memo, urged Republican members of Congress to oppose any significant health care reform. But even he acknowledged that some things needed fixing, calling for, among other things, “a simplified, uniform insurance form.”

 

 

Fast forward to the present. A few days ago, major players in the health industry laid out what they intend to do to slow the growth in health care costs. Topping the list of AHIP’s proposals was “administrative simplification.” Providers, the lobby conceded, face “administrative challenges” because of the fact that each insurer has its own distinct telephone numbers, fax numbers, codes, claim forms and administrative procedures. “Standardizing administrative transactions,” AHIP asserted, “will be a watershed event.”

 

Think about it. The insurance industry’s idea of a cutting-edge, cost-saving reform is to do what William Kristol — William Kristol! — thought it should have done 15 years ago.

 

How could the industry spend 15 years failing to make even the most obvious reforms? The answer is simple: Americans seeking health coverage had nowhere else to go. And the purpose of the public option is to make sure that the industry doesn’t waste another 15 years — by giving Americans an alternative if private insurers fall down on the job.

Be warned, however. The insurance industry will do everything it can to avoid being held accountable.

 

At first the insurance lobby’s foot soldiers in Congress tried to shout down the public option with the old slogans: private enterprise good, government bad.

At this point, however, they’re trying to kill the public option in more subtle ways. The most recent ruse is the proposal for a “trigger” — the public option will only become available if private insurers fail to meet certain performance criteria. The idea, of course, is to choose those criteria to ensure that the trigger is never pulled.

 

 

And here’s the thing. Without an effective public option, the Obama health care reform will be simply a national version of the health care reform in Massachusetts: a system that is a lot better than nothing but has done little to address the fundamental problem of a fragmented system, and as a result has done little to control rising health care costs.

 

 

Right now the health insurers are promising to deliver major cost savings. But history shows that such promises can’t be trusted. As President Obama said in his letter, we need a serious, real public option to keep the insurance companies honest.

 

“Facciamo in modo che diventino onesti[268]” di Paul Krugman

New York Times 5 giugno 2009

“Apprezzo i vostri sforzi e non vedo l’ora di collaborare con voi in modo che il Congresso possa completare la riforma della assistenza sanitaria entro il mese di ottobre”. Questo è quanto ha dichiarato il Presidente Obama in una lettera di questa settimana ai Senatori Max Baucus ed Edward Kennedy. L’iniziativa per una grande riforma sanitaria ha ufficialmente preso le mosse.

Ma il diavolo si nasconde nei dettagli. La riforma sanitaria è destinata a fallire se non si ottiene un rigoroso controllo dei costi, e non avremo un controllo del genere se anzitutto non cambieranno i comportamenti, in particolare del settore delle assicurazioni. Dunque, mi sia consentito di offrire al Congresso  due modestissimi consigli[269]:

1) non fidatevi delle imprese assicuratrici;

2) non fidatevi delle imprese assicuratrici.

La strategia dei Democratici per la riforma sanitaria si basa su un ragionamento politico: la convinzione che la gente sarà più propensa ad accettare la riforma, ovvero sarà meno facilmente preda di una propaganda del tipo “Harry-and-Louise[270], se sarà consentito a coloro che già hanno una copertura assistenziale presso assicurazioni private di mantenerla.

Ma come potremo giungere ad una riforma fondamentale di quello che Obama ha definito “un sistema a pezzi”, se ogni attuale attore resterà al suo posto? La risposta si può supporre che stia in una combinazione di regole e di competizione.

E’ un segno dei tempi[271], il fatto che gli assicuratori non si oppongano a nuove regole. Di fatto, il presidente di America’s Health Insurance Plans [272], la lobby del settore anche nota come AHIP, ha esplicitamente riconosciuto la necessità di “regole molto più aggressive per le assicurazioni”.

Quello che, tuttavia, non è stato ancora definito è se la regolamentazione sarà rafforzata dalla competizione, nella forma di un programma pubblico che gli Americani possano acquistare in alternativa alla assicurazione privata.

Ora, nessuno sta proponendo che gli Americani siano costretti a ricevere la loro assicurazione dal governo. La “opzione pubblica”, se si materializzasse, sarebbe solo questo: una opportunità che gli Americani possono scegliere. E la ragione per la quale è giusto prevedere questa possibilità era chiaramente esposta nella lettera di Obama: essa darebbe agli Americani “una migliore varietà di scelte, renderebbe il mercato della assistenza sanitaria più competitivo e favorirebbe un comportamento onesto tra le imprese assicuratrici”.

Questi ultimi cinque anni sono stati preziosi al fine di comprendere che le compagnie assicuratrici non faranno niente per riformare se stesse se non ci saranno costrette.

Consideriamo la questione apparentemente secondaria[273] della possibilità di rendere più semplice ai  medici fare accordi con una pluralità di compagnie assicuratrici.

Nel passato 1993, l’analista politico (e vecchio columnist di Time) William Kristol, in un promemoria che divenne famoso[274], faceva pressioni sui membri repubblicani del Congresso perché si opponessero ad ogni riforma significativa della assistenza  sanitaria. Eppure, anche lui riconosceva che qualcosa andava cambiato, e si pronunciava, tra le altre cose, per un “contratti di assicurazione semplificati ed uniformi”.

E arriviamo rapidamente all’oggi. Pochi giorni fa i maggiori protagonisti del settore sanitario hanno messo in chiaro quali siano i loro propositi per rallentare la crescita dei costi della assistenza sanitaria. In cima alla lista delle proposte della AHIP compariva la “semplificazione amministrativa”. I fornitori della assistenza, ha ammesso la lobby, sono dinanzi a “sfide amministrative”, dato che che ogni assicuratore ha i propri numeri di telefono e di fax, i propri codici, la proprie modalità di richiesta e le proprie procedure amministrative. “Standardizzare i rapporti amministrativi”, asserisce l’ AHIP, “sarà un evento discriminante”.

Riflettiamoci. L’ultima pensata del settore assicurativo per una riforma all’avanguardia nella riduzione dei costi [275] consiste nel fare quello che William Kristol – William Kristol! – riteneva potesse essere fatto 15 anni fa.

Come hanno potuto le assicurazioni stare 15 anni senza riuscire a produrre neppure il più ovvio dei cambiamenti? La risposta è semplice: gli americani che cercano una copertura assicurativa non hanno alcuna alternativa. E l’idea dell’ “opzione pubblica” serve a fare in modo che il settore non butti via altri 15 anni, offrendo agli americani una alternativa nel caso in cui gli assicuratori privati non sappiano fare il loro lavoro.

Occorre stare in guardia, tuttavia. Il settore assicurativo farà tutto quello che è in suo potere al fine di evitare di essere costretto ad un comportamento responsabile.

Tanto per cominciare, le fanterie della lobby[276] nel Congresso hanno cercato di sovrastare[277] la opzione pubblica con le tradizionali parole d’ordine: l’impresa privata è buona, il governo è cattivo.

Ma a questo punto essi stanno provando a far fuori l’opzione pubblica con metodi più sottili. L’astuzia più recente è consistita nella proposta di una “clausola di innesco[278]”: la opzione pubblica diventerà disponibile solo alla condizione che le assicurazioni private non sappiano uniformarsi a determinati criteri e prestazioni. L’idea, ovviamente, è quella di selezionare questi criteri in modo tale che l’ “innesco” non entri mai in funzione.

E qua sta il punto. Senza un’effettiva opzione pubblica la riforma della assistenza sanitaria di Obama sarà una semplice versione, su scala nazionale, della riforma sanitaria del Massachusetts: un sistema che è molto meglio di niente, ma che ha risolto in minima parte il problema fondamentale della frammentazione del sistema, e come risultato non ha prodotto un miglioramento nel controllo della crescita dei costi della assistenza sanitaria.

Adesso, le compagnie assicuratrici promettono di realizzare importanti risparmi nei costi. Ma la storia dimostra che non si può credere a queste promesse. Come ha detto il Presidente Obama, abbiamo bisogno di una seria opzione pubblica per costringere le imprese assicuratrici a comportarsi onestamente.

 

 

 

 

 

 


 

Gordon the Unlucky By PAUL KRUGMANPublished: June 7, 2009

LONDON

Skip to next paragraphWhat would have happened if hanging chads and the Supreme Court hadn’t denied Al Gore the White House in 2000? Many things would clearly have been different over the next eight years.

 

But one thing would probably have been the same: There would have been a huge housing bubble and a financial crisis when the bubble burst. And if Democrats had been in power when the bad news arrived, they would have taken the blame, even though things would surely have been as bad or worse under Republican rule.

 

 

You now understand the essentials of the current political situation in Britain.

 

For much of the past 30 years, politics and policy here and in America have moved in tandem. We had Reagan; they had Thatcher. We had the Garn-St. Germain Act of 1982, which dismantled New Deal-era banking regulation; they had the Big Bang of 1986, which deregulated London’s financial industry. Both nations had an explosion of household debt and saw their financial systems become increasingly unsound.

 

In both countries, the conservatives who pushed through deregulation lost power in the 1990s. In each case, however, the new leaders were as infatuated with “innovative” finance as their predecessors were. Robert Rubin, in his years as the Treasury secretary, and Gordon Brown, in his years as the chancellor of the Exchequer, preached the same gospel.

But where America’s conservative movement — better organized and far more ruthless than its British counterpart — managed to claw its way back to power at the beginning of this decade, in Britain, the Labor Party continued to rule right through the bubble years. Mr. Brown eventually became prime minister. And so the Bush bust in America is the Brown bust here.

Do Mr. Brown and his party really deserve blame for the crisis here? Yes and no.

Mr. Brown bought fully into the dogma that the market knows best, that less regulation is more. In 2005 he called for “trust in the responsible company, the engaged employee and the educated consumer” and insisted that regulation should have “not just a light touch but a limited touch.” It might as well have been Alan Greenspan speaking.

 

 

There’s no question that this zeal for deregulation set Britain up for a fall. Consider the counterexample of Canada — a mostly English-speaking country, every bit as much in the American cultural orbit as Britain, but one where Reagan/Thatcher-type financial deregulation never took hold. Sure enough, Canadian banks have been a pillar of stability in the crisis.

 

 

 

But here’s the thing. While Mr. Brown and his party may deserve to be punished, their political opponents don’t deserve to be rewarded.

After all, would a Conservative government have been any less in the thrall of free-market fundamentalism, any more willing to rein in runaway finance, over the past decade? Of course not.

And Mr. Brown’s response to the crisis — a burst of activism to make up for his past passivity — makes sense, whereas that of his opponents does not.

 

The Brown government has moved aggressively to shore up troubled banks. This has potentially put taxpayers on the hook for large future bills, but the financial situation has stabilized. Mr. Brown has backed the Bank of England, which, like the Federal Reserve, has engaged in unconventional moves to free up credit. And he has shown himself willing to run large budget deficits now, even while scheduling substantial tax increases for the future.

 

All of this seems to be working. Leading indicators have turned (slightly) positive, suggesting that Britain, whose competitiveness has benefited from the devaluation of the pound, will begin an economic recovery well before the rest of Europe.

Meanwhile, David Cameron, the Conservative leader, has had little to offer other than to raise the red flag of fiscal panic and demand that the British government tighten its belt immediately.

 

Now, many commentators have raised the alarm about Britain’s fiscal outlook, and one rating agency has warned that the country may lose its AAA status (although the others disagree). But markets don’t seem unduly worried: the interest rate on long-term British debt is only slightly higher than that on German debt, not what you’d expect from a country doomed to bankruptcy.

 

 

Still, if an election were held today, Mr. Brown and his party would lose badly. They were in power when the bad stuff happened, and the buck — or in this case, I guess, the quid — stops at No. 10 Downing Street.

 

 

It’s a sobering prospect. If I were a member of the Obama administration’s economic team — a team whose top members were as enthusiastic about the wonders of modern finance as their British counterparts — I’d be looking across the Atlantic and muttering, “There but for the disgrace of Bush v. Gore go I.”

 

“Gordon lo sfortunato” di Paul Krugman

New York Times 7 giugno 2009

 

Londra.

Che cosa sarebbe successo se le schede elettorali mal perforate[279] e la Corte Suprema non avessero negato la Casa Bianca ad Al Gore nel 2000? Molte cose negli ultimi otto anni sarebbero chiaramente andate in modo diverso.

Eppure, una cosa sarebbe stata probabilmente simile: ci sarebbe stata comunque una vasta bolla immobiliare, al momento della sua esplosione, una crisi finanziaria. E se i Democratici fossero stati al potere al momento dell’arrivo di quella brutta notizia, se ne sarebbero presi la colpa, per quanto gli eventi non avrebbero probabilmente preso una piega così negativa, o tantomeno peggiore, quanto sotto la direzione repubblicana.

In questo modo si spiega anche l’essenziale della attuale situazione politica in Inghilterra.

Per gran parte degli ultimi 30 anni, i fatti politici e le strategie si sono mosse in tandem, in quel paese ed in America. Noi abbiamo avuto Reagan; loro hanno avuto la Thatcher. Noi abbiamo avuto la legge “Garn-St. Germain” del 1982, che smantellò il complesso delle regole bancarie del New Deal, loro ebbero il Big Bang  del 1986, che deregolamentò il sistema finanziario londinese. Entrambi i paesi hanno conosciuto una esplosione dei debiti delle famiglie ed hanno visto i rispettivi sistemi finanziari diventare sempre più instabili.

In entrambi i paesi i conservatori, che avevano imposto la deregolamentazione, persero il potere attorno agli anni 90. Ma in entrambi i casi, i leaders che gli succedettero erano appassionati di finanza “innovativa” come i loro predecessori. Robert Rubin, in quegli anni Segretario al Tesoro, e Gordon Brown, in quegli anni Cancelliere dello Scacchiere, predicavano lo stesso vangelo[280].

Ma, mentre in America il movimento conservatore – meglio organizzato ed assai più determinato[281] dei suoi omologhi inglesi – riuscì a riconquistare il potere agli inizi di questo decennio, il Labour Party continuò a governare nel bel mezzo degli anni della bolla e, alla fine, Brown divenne Primo Ministro. Cosicchè il disastro di Bush in America è stato il disastro di Brown in Gran Bretagna.

Brown ed il suo Partito, portano davvero la colpa della crisi nel loro paese? Si e no.

Il Signor Brown sposò per intero il dogma secondo il quale il mercato è onnisciente[282] e una minore regolamentazione è la soluzione migliore. Nel 2005 egli si espresse per la “fiducia nella responsabilità dell’impresa, nel dipendente motivato e nel consumatore educato[283]” e sottolineò che la regolamentazione avrebbe dovuto avere “non solo un tocco leggero, ma anche un effetto circoscritto[284]”. Alan Greenspan si sarebbe espresso nello stesso modo.

Non ci può essere dubbio sul fatto che questo zelo per la deregolamentazione abbia predisposto l’Inghilterra ad una caduta. Si consideri l’esempio opposto del Canada – un paese a larga maggioranza di lingua inglese, in ogni sua componente altrettanto attratto nell’orbita culturale americana che l’Inghilterra[285] – ma nel quale la deregolamentazione sul tipo del modello Reagan/Thatcher non ha mai fatto presa. E’ abbastanza chiaro che le banche canadesi sono state un pilastro di stabilità, nel corso della crisi.

Ma qua è il punto. Se Brown ed il suo partito meritano di essere puniti, i suoi oppositori politici non meritano certo di essere premiati.

Dopotutto, nel decennio passato un governo di conservatori sarebbe stato meno dipendente[286] dal fondamentalismo del libero-mercato, o più scrupoloso nel tenere le redini[287] della finanza in libera uscita? Non sembra proprio.

E la risposta di Brown alla crisi – una fiammata di attivismo al fine di rimediare alla precedente passività – ha un senso, mentre quello che fanno i suoi avversari non ce l’ha.

Il governo Brown si è mosso con determinazione per puntellare le banche in difficoltà. Questo ha messo i contribuenti nell’obbligo di dover pagare un conto salato nel futuro, ma ha stabilizzato la situazione finanziaria. Brown ha assecondato la Banca di Inghilterra, che, come la Federal Reserve, si è impegnata in procedure non convenzionali per rimettere in moto il credito. Ed egli si è mostrato capace, nelle condizioni attuali,  di governare un cospicuo deficit di bilancio, anche mettendo nel conto sostanziali incrementi fiscali nel futuro.

Tutto questo sembra che stia producendo i suoi effetti. I principali indicatori sono tornati ad essere (leggermente) positivi, dando l’impressione che in Inghilterra, che ha tratto beneficio dalla svalutazione della sterlina, la ripresa avrà inizio ben prima che nel resto dell’Europa.

Nel frattempo, David Cameron, il leader dei conservatori, ha avuto poco da offrire, se non agitare la bandiera rossa del panico fiscale e chiedere che il governo inglese si impegni nell’immediato a stringere la cintola.

Intanto, molti commentatori hanno fatto salire l’allarme a proposito della prospettiva finanziaria della Gran Bretagna, ed una agenzia di rating ha ammonito che il paese potrebbe perdere la attuale valutazione “AAA” (anche se altre agenzie sono in disaccordo). Ma i mercati non sembrano eccessivamente preoccupati: il tasso di interesse sul debito inglese a lungo termine è solo leggermente più elevato di quello sul debito tedesco, dunque non quello che vi aspettereste da un paese destinato alla bancarotta.

Nondimeno, se si fossero tenute le elezioni oggi, Brown ed il suo partito avrebbero perso malamente. Essi erano al potere quando è avvenuto il disastro, e il fardello non potrebbe che cadere sul numero 10 di Downing Street[288].

E’ una prospettiva preoccupante. Se io fossi un membro della squadra di esperti in economia della amministrazione Obama – una squadra i cui principali componenti erano altrettanto entusiasti delle meraviglie della finanza contemporanea dei loro omologhi inglesi – darei uno sguardo sull’altra sponda dell’Atlantico e mormorerei sottovoce: “E’ solo per la storia disgraziata tra Al Gore e Bush, che io sono a questo posto”.

 

 

 


 

The Big Hate By PAUL KRUGMANPublished: June 11, 2009

Back in April, there was a huge fuss over an internal report by the Department of Homeland Security warning that current conditions resemble those in the early 1990s — a time marked by an upsurge of right-wing extremism that culminated in the Oklahoma City bombing.

Skip to next paragraphConservatives were outraged. The chairman of the Republican National Committee denounced the report as an attempt to “segment out conservatives in this country who have a different philosophy or view from this administration” and label them as terrorists.

But with the murder of Dr. George Tiller by an anti-abortion fanatic, closely followed by a shooting by a white supremacist at the United States Holocaust Memorial Museum, the analysis looks prescient.

 

There is, however, one important thing that the D.H.S. report didn’t say: Today, as in the early years of the Clinton administration but to an even greater extent, right-wing extremism is being systematically fed by the conservative media and political establishment.

 

Now, for the most part, the likes of Fox News and the R.N.C. haven’t directly incited violence, despite Bill O’Reilly’s declarations that “some” called Dr. Tiller “Tiller the Baby Killer,” that he had “blood on his hands,” and that he was a “guy operating a death mill.” But they have gone out of their way to provide a platform for conspiracy theories and apocalyptic rhetoric, just as they did the last time a Democrat held the White House.

 

 

 

And at this point, whatever dividing line there was between mainstream conservatism and the black-helicopter crowd seems to have been virtually erased.

Exhibit A for the mainstreaming of right-wing extremism is Fox News’s new star, Glenn Beck. Here we have a network where, like it or not, millions of Americans get their news — and it gives daily airtime to a commentator who, among other things, warned viewers that the Federal Emergency Management Agency might be building concentration camps as part of the Obama administration’s “totalitarian” agenda (although he eventually conceded that nothing of the kind was happening).

 

 

 

But let’s not neglect the print news media. In the Bush years, The Washington Times became an important media player because it was widely regarded as the Bush administration’s house organ. Earlier this week, the newspaper saw fit to run an opinion piece declaring that President Obama “not only identifies with Muslims, but actually may still be one himself,” and that in any case he has “aligned himself” with the radical Muslim Brotherhood.

 

 

And then there’s Rush Limbaugh. His rants today aren’t very different from his rants in 1993. But he occupies a different position in the scheme of things. Remember, during the Bush years Mr. Limbaugh became very much a political insider. Indeed, according to a recent Gallup survey, 10 percent of Republicans now consider him the “main person who speaks for the Republican Party today,” putting him in a three-way tie with Dick Cheney and Newt Gingrich. So when Mr. Limbaugh peddles conspiracy theories — suggesting, for example, that fears over swine flu were being hyped “to get people to respond to government orders” — that’s a case of the conservative media establishment joining hands with the lunatic fringe.

 

 

 

 

It’s not surprising, then, that politicians are doing the same thing. The R.N.C. says that “the Democratic Party is dedicated to restructuring American society along socialist ideals.” And when Jon Voight, the actor, told the audience at a Republican fund-raiser this week that the president is a “false prophet” and that “we and we alone are the right frame of mind to free this nation from this Obama oppression,” Mitch McConnell, the Senate minority leader, thanked him, saying that he “really enjoyed” the remarks.

 

Credit where credit is due. Some figures in the conservative media have refused to go along with the big hate — people like Fox’s Shepard Smith and Catherine Herridge, who debunked the attacks on that Homeland Security report two months ago. But this doesn’t change the broad picture, which is that supposedly respectable news organizations and political figures are giving aid and comfort to dangerous extremism.

 

What will the consequences be? Nobody knows, of course, although the analysts at Homeland Security fretted that things may turn out even worse than in the 1990s — that thanks, in part, to the election of an African-American president, “the threat posed by lone wolves and small terrorist cells is more pronounced than in past years.”

 

And that’s a threat to take seriously. Yes, the worst terrorist attack in our history was perpetrated by a foreign conspiracy. But the second worst, the Oklahoma City bombing, was perpetrated by an all-American lunatic. Politicians and media organizations wind up such people at their, and our, peril.

 

“Il grande odio” di Paul Krugman

New York Times 11 giugno 2009

 

Lo scorso aprile, ha creato un vasto scalpore un rapporto interno del Dipartimento della Sicurezza Nazionale[289], che mettava in guardia sulla somiglianza tra la situazione attuale e quella dei primi anni 90, un periodo segnato da una ondata dell’estremismo di destra che culminò nell’attentato di Oklahoma City[290].

I conservatori si sono indignati. Il Presidente del Republican National Committee  ha denunciato il rapporto come un tentativo di “isolare i conservatori di questo paese, che hanno una filosofia e punti di vista diversi da quelli della amministrazione”, etichettandoli come terroristi.

Ma, con l’assassinio del dottor George Tiller da parte di una fanatico antiabortista, seguito dopo poco da una sparatoria da parte di un sostenitore della supremazia dei bianchi contro il United States Holocaust Memorial Museum, quella analisi è è sembrata preveggente.

C’è tuttavia, un aspetto importante del quale il rapporto del D.H.S. non parla: oggi, come nei primi anni della amministrazione Clinton, ma in misura maggiore, l’estremismo di destra è alimentato sistematicamente dai giornali conservatori e dal sistema politico.

Occorre dire che, in gran parte, i media del genere di Fox News e R.N.C. non hanno direttamente incitato alla violenza, malgrado le dichiarazioni di Bill O’Reilly secondo le quali “qualcuno” chiamava “Tiller the Baby Killer[291] il dottor Tiller, il quale aveva effettivamente le “mani sporche di sangue” ed  era “un soggetto che operava dentro una fabbrica della morte”. E tuttavia, quei media sono certamente usciti di strada quando hanno alimentato un clima adatto a teorie cospirative e ad una retorica apocalittica, esattamente come fecero nell’ultima occasione nella quale un democratico fu ospite della Casa Bianca.

E a questo punto, qualsiasi sia il discrimine tra il comune conservatorismo e i seguaci de “l’elicottero nero[292]”, esso sembra in pratica cancellato.

Consideriamo Glenn Beck, la nuova star di Fox News, come il “Reperto n. 1[293]”  del comune estremismo di destra. Abbiamo qua una trasmissione dalla quale, piaccia o no, milioni di americani traggono le loro informazioni, e che mette a disposizione lo spazio televisivo ad un commentatore che, tra le altre cose, ha messo in guardia i telespettatori a proposito della Federal Emergency Management Agency[294], che a suo avviso potrebbe costruire campi di concentramento nell’ambito di un programma “totalitario” della amministrazione Obama (pur ammettendo che niente del genere sta al momento avvenendo).

Ma non dobbiamo dimenticare gli organi di informazione della carta stampata. Durante gli anni di Bush, The Washington Times  divenne un importante soggetto mediatico, perché veniva generalmente considerato come espressione diretta[295] della amministrazione Bush. Agli inizi di questa settimana, il giornale ha ritenuto fosse il caso[296] di mettere in circolazione un articolo di opinione secondo il quale il Presidente Obama “non solo si identifica con i Musulmani, ma potrebbe essere uno di loro”, e che in ogni caso egli sarebbe apertamente schierato con l’organizzazione radicale Muslim Brotherhood [297].

C’è poi il caso di Rush Limbaugh. I suoi monologhi[298] di oggi non sono molto diversi da quelli del 1993. Sennonché, egli oggi occupa una posizione differente nell’organigramma[299]. Ricorderete che durante gli anni di Bush egli divenne un personaggio molto addentro alle cose della politica[300]. In effetti, secondo un recente sondaggio Gallup, il 10 per cento dei repubblicani adesso lo considera come “uno dei principali personaggi che parlano per conto del Partito Repubblicano”, ponendolo in terza posizione, alla pari con Dick Cheney e Newt Gingrich. In tal modo, quando egli rivende[301] le sue teorie sulla cospirazione – suggerendo, per esempio, che le paure sulla febbre suina siano state orchestrate[302] “al fine di ottenere che la gente si assuefaccia agli ordini del governo” – il suo diventa un esempio di come il potere mediatico conservatore e la frangia degli estremisti forsennati si tengano a braccetto[303].

Non è sorprendente, allora, che gli uomini politici facciano lo stesso. La R.N.C. afferma che “il Partito Democratico si è dedicato ad una ristrutturazione della società americana secondo gli ideali socialisti”. E quando Jon Voigt, l’attore, si è rivolto la scorsa settimana agli spettatori di una iniziativa repubblicana di raccolta di fondi, sostenendo che il Presidente è “un falso profeta” e che “noi e noi soli abbiamo lo stato d’animo giusto[304] per liberare il nostro paese da questa tirannia di Obama[305]”, Mitch McConnell, il leader della minoranza al Senato, lo ha ringraziato, affermando di “essere davvero rallegrato” per il suo discorso.

Ad onore del merito[306], alcune personalità nei media di orientamento conservatore si sono rifiutate di assecondare quel clima di grande odio: è stato il caso di Shepard Smith e Catherine Herridge, della Fox, che hanno ridicolizzato gli attacchi di due mesi fa sul rapporto della Homeland Security. Ma questo non muta il quadro generale, per il quale settori dell’informazione che si supponevano rispettabili e personalità della politica stanno dando sostegno e copertura ad un estremismo pericoloso.

Quali potranno essere le conseguenze? Nessuno lo sa, naturalmente, sebbene gli analisti di Homeland Security avanzano la preoccupazione che le conseguenze possano risultare persino peggiori che quelle degli anno 90. Ovvero: grazie, in parte, alla elezione di un Presidente Afro-Americano “la minaccia costituita da persone sbandate[307] e da piccole cellule terroristiche è ancor più pronunciata che negli anni passati”.

Ed è una minaccia da prendere sul serio. E’ vero, il più grave attacco terroristico nella nostra storia è stato provocato da una cospirazione straniera. Ma il secondo in ordine di gravità, la bomba di Oklahoma City, fu perpetrato da un pazzo interamente americano. Politici e settori dei media eccitano[308] individui del genere a loro, e a nostro, rischio e pericolo.

 

 


 

Stay the Course By PAUL KRUGMANPublished: June 14, 2009

The debate over economic policy has taken a predictable yet ominous turn: the crisis seems to be easing, and a chorus of critics is already demanding that the Federal Reserve and the Obama administration abandon their rescue efforts. For those who know their history, it’s déjà vu all over again — literally.

Skip to next paragraph For this is the third time in history that a major economy has found itself in a liquidity trap, a situation in which interest-rate cuts, the conventional way to perk up the economy, have reached their limit. When this happens, unconventional measures are the only way to fight recession.

 

Yet such unconventional measures make the conventionally minded uncomfortable, and they keep pushing for a return to normalcy. In previous liquidity-trap episodes, policy makers gave in to these pressures far too soon, plunging the economy back into crisis. And if the critics have their way, we’ll do the same thing this time.

 

 

The first example of policy in a liquidity trap comes from the 1930s. The U.S. economy grew rapidly from 1933 to 1937, helped along by New Deal policies. America, however, remained well short of full employment.

Yet policy makers stopped worrying about depression and started worrying about inflation. The Federal Reserve tightened monetary policy, while F.D.R. tried to balance the federal budget. Sure enough, the economy slumped again, and full recovery had to wait for World War II.

 

 

The second example is Japan in the 1990s. After slumping early in the decade, Japan experienced a partial recovery, with the economy growing almost 3 percent in 1996. Policy makers responded by shifting their focus to the budget deficit, raising taxes and cutting spending. Japan proceeded to slide back into recession.

 

And here we go again.

On one side, the inflation worriers are harassing the Fed. The latest example: Arthur Laffer, he of the curve, warns that the Fed’s policies will cause devastating inflation. He recommends, among other things, possibly raising banks’ reserve requirements, which happens to be exactly what the Fed did in 1936 and 1937 — a move that none other than Milton Friedman condemned as helping to strangle economic recovery.

 

Meanwhile, there are demands from several directions that President Obama’s fiscal stimulus plan be canceled.

 

Some, especially in Europe, argue that stimulus isn’t needed, because the economy is already turning around.

 

Others claim that government borrowing is driving up interest rates, and that this will derail recovery.

 

And Republicans, providing a bit of comic relief, are saying that the stimulus has failed, because the enabling legislation was passed four months ago — wow, four whole months! — yet unemployment is still rising. This suggests an interesting comparison with the economic record of Ronald Reagan, whose 1981 tax cut was followed by no less than 16 months of rising unemployment.

 

O.K., time for some reality checks.

 

First of all, while stock markets have been celebrating the economy’s “green shoots,” the fact is that unemployment is very high and still rising. That is, we’re not even experiencing the kind of growth that led to the big mistakes of 1937 and 1997. It’s way too soon to declare victory.

 

What about the claim that the Fed is risking inflation? It isn’t. Mr. Laffer seems panicked by a rapid rise in the monetary base, the sum of currency in circulation and the reserves of banks. But a rising monetary base isn’t inflationary when you’re in a liquidity trap. America’s monetary base doubled between 1929 and 1939; prices fell 19 percent. Japan’s monetary base rose 85 percent between 1997 and 2003; deflation continued apace.

 

 

 

Well then, what about all that government borrowing? All it’s doing is offsetting a plunge in private borrowing — total borrowing is down, not up. Indeed, if the government weren’t running a big deficit right now, the economy would probably be well on its way to a full-fledged depression.

 

Oh, and investors’ growing confidence that we’ll manage to avoid a full-fledged depression — not the pressure of government borrowing — explains the recent rise in long-term interest rates. These rates, by the way, are still low by historical standards. They’re just not as low as they were at the peak of the panic, earlier this year.

 

To sum up: A few months ago the U.S. economy was in danger of falling into depression. Aggressive monetary policy and deficit spending have, for the time being, averted that danger. And suddenly critics are demanding that we call the whole thing off, and revert to business as usual.

 

Those demands should be ignored. It’s much too soon to give up on policies that have, at most, pulled us a few inches back from the edge of the abyss.

 

“Mantenere la rotta” di Paul Krugman

New York Times 14 giugno 2009

 

Il dibattito sulla politica economica ha preso una piega prevedibile e tuttavia minacciosa: la crisi sembra stia rallentando e un coro di critici già chiede che la Federal Reserve e la amministrazione Obama abbandonino i loro sforzi di salvataggio. Per coloro che conoscono la storia, si tratta ancora una volta letteralmente di un completo deja vu[309].

E’ la terza volta nella storia che, da quel punto di vista, una delle maggiori economie si è trovata invischiata in una crisi di liquidità, una situazione nella quale il taglio dei tassi di interesse, ovvero il modo convenzionale per ravvivare le economie, ha raggiunto il suo punto limite. Quando questo accade, le misure non convenzionali sono l’unica maniera per combattere la recessione.

Tuttavia, queste misure non convenzionali risultano sconfortanti per le mentalità convenzionali,  e queste ultime premono in continuazione[310] per un ritorno alla normalità. Nei precedenti episodi di ‘trappole’ della liquidità, gli operatori politici si arresero[311] a queste pressioni sin troppo rapidamente, riprecipitando le economie nella crisi. E se i critici l’avranno vinta[312], ci capiterà lo stesso in questa occasione.

Il primo esempio di una trappola della liquidità ci viene dagli anni 30. L’economia statunitense crebbe rapidamente, dal 1933 al 1937. L’America, tuttavia, rimase assai distante dal pieno impiego.

Malgrado ciò, gli uomini politici smisero di preoccuparsi per la depressione e cominciarono a preoccuparsi per l’inflazione. La Federal Reserve operò una stretta sulla politica monetaria, nel mentre Franklin Delano Roosvelt cercò di riequilibrare il bilancio federale. Come si voleva dimostrare[313], l’economia crollò nuovamente, e per una piena ripresa si dovette aspettare la Seconda Guerra mondiale.

Il secondo esempio è il Giappone degli anni 90. Dopo la depressione dell’inizio del decennio, il Giappone conobbe una parziale ripresa, con una crescita dell’economia di quasi il 3 per cento nel 1996. Gli uomini politici risposero spostando la loro attenzione sul deficit di bilancio, sull’innalzamento delle tasse e sui tagli alla spesa. Il Giappone tornò a scivolare[314] nella depressione.

E siamo un’altra volta a questo punto.

Da una parte, i campioni della lotta all’inflazione perseguitano[315] la Fed. L’ultimo esempio: Arthur Laffer, quello della ‘curva’[316], ammonisce che le politiche della Fed provocheranno un’inflazione devastante. Egli raccomanda, sopra ogni altra cosa, che possibilmente vengano accresciuti i fondi di riserva delle banche, che, guarda caso, sarebbe esattamente[317] quello che fece la Fed negli anni 1936 e 1937; una mossa che niente meno che Milton Friedman condannò come un contributo allo strangolamento della ripresa economica.

Nel frattempo, si avanzano istanze da varie direzioni affinché il programma di sostegno finanziario del Presidente Obama venga cancellato.

Alcuni, specialmente in Europa, ipotizzano che il programma di sostegno non sia necessario, dato che l’economia già sarebbe ad una svolta.

Altri lamentano che il ricorso all’indebitamento da parte del governo[318] farebbe crescere i tassi di interesse, con il che si avrebbe un deragliamento della ripresa economica.

E i Repubblicani, aggiungendo una nota di comicità[319], stanno sostenendo che il programma di sostegno è fallito, perché dalla legge di delega[320] sono passati quattro mesi (oddio, quattro interi mesi!), e purtuttavia la disoccupazione sta ancora crescendo. La qual cosa suggerisce un confronto interessante con la prestazione economica[321] di Ronald Reagan, i cui tagli fiscali del 1981 furono seguiti dalla bellezza di sedici mesi[322] di disoccupazione crescente.

Bene, facciamo una pausa per un qualche riscontro con la realtà[323].

Prima di tutto, nel mentre i mercati azionari stanno celebrando i cosiddetti segni di ripresa[324], la realtà è che la disoccupazione è molto alta e sta ancora crescendo. In altri termini, noi non siamo neanche alle prese con quel tipo di crescita che condusse ai grandi abbagli del 1937 e del 1997. E’ troppo presto per cantare vittoria.

Che cosa si può dire della pretesa per la quale la Fed starebbe rischiando l’inflazione? Non è così. Il signor Laffer sembra preso dal panico per la rapida crescita della base monetaria, che è data dalla somma del capitale circolante e delle riserve bancarie. Ma una base monetaria che cresce, non provoca effetti inflazionistici, quando si è alle prese con la trappola della liquidità. La base monetaria dell’America raddoppiò tra il 1929 ed il  1939; i prezzi caddero del 19 per cento. La base monetaria giapponese crebbe dell’85 per cento tra il 1997 ed il 2003; la deflazione proseguì con rapidità.

E che cosa dire di tutto quell’indebitamento del governo? Tutto quello che si sta mettendo in atto è un riequilibrio rispetto alla caduta dell’indebitamento privato: l’indebitamento totale è in calo, non è in crescita. Difatti, se a questo punto il governo non avesse messo in atto un cospicuo deficit, l’economia probabilmente avrebbe per suo conto preso la strada di una completa depressione[325].

Inoltre, è la fiducia crescente tra gli investitori che si sta operando per evitare una completa depressione – e non le pressioni sull’indebitamento governativo – che spiega la recente crescita dei tassi di interesse a lungo termine. Questi tassi, tra parentesi, sono ancora bassi per gli standards storici. Semplicemente, essi non sono così bassi come erano al culmine del panico, agli inizi dell’anno.

In conclusione: pochi mesi fa l’economia americana era dinanzi al pericolo di precipitare nella depressione. Una politica monetaria aggressiva e la spesa pubblica in deficit, hanno scongiurato il pericolo. Ora, di colpo, coloro che criticano chiedono che si cancelli l’intera operazione e che si torni ai soliti affari.

Si tratta di richieste che dovrebbero essere ignorate. E’ davvero troppo presto per venir fuori da politiche che, nel migliore dei casi, ci hanno tirato indietro di un soffio dall’orlo dell’abisso[326].

 

 



[1] racial backlash. Lett. “contraccolpo, forte reazione negativa razziale”. Il riferimento concerne la posizione assunta dai repubblicani al momento delle estensione della legislazione dei diritti civili. Nel corso dell’articolo, viene spiegata questa genesi.

[2] expertise. Non si tratta semplicemente di “esperienza”, intesa come la dote derivante dall’aver fatto la stessa cosa (lavoro, disciplina) in passato; si tratta di “abilità derivante dal possesso di speciali conoscenze”

[3] La frase è molto discorsiva ed una conseguenza è il ripetuto ricorso alla congiunzione  “and”.

[4] ATMs. Automated Teller Machine, in Italia Bancomat.

[5] Shovel-ready = lett. “pronti per il badile”

[6] the final price tag. Lett. “iol cartellino del prezzo finale”.

[7] “To jump-start” significa lett. “far partire con un salto”, ovvero  “dare un impulso, far partire con i cavi di batteria”. Uso una traduzione (“dare una scossa”) che consente in qualche modo di mantenere il senso della successiva “metafora”.

[8] “To bite back” significa “rispondere per le rime, seccamente”. Probabilmente il “back” è implicito, ma il verbo è stato preferito a “to answer” perché è più indicativo di una risposta franca.

[9] Medicaid è il programma sanitario pubblico di assistenza alle persone indigenti.

[10] Tra i significati di “to run” c’è “mantenere” oppure “gestire”.

[11] wait for proof. Lett. “attendere per prova”.

[12] Si tratta di una sentenza del 1973 in materia di aborto, ovvero del diritto della donna a non subire restrizioni da parte degli Stati di fronte alla decisione di abortire. La sentenza stabilì che il diritto costituzionale alla “privacy” valeva anche nel caso di aborto, ma in modo pieno solo nel primo trimestre di gravidanza, con maggiori restrizioni nel secondo e con restrizioni più forti ancora nel terzo. Ne seguì un dibattito ed uno scontro di posizioni che è ancora in corso.

[13] no-bid. Lett. “nessuna-offerta”

 

[15] dead banks walking (“banche morte che camminano”, l’espressione famosa che si usa per i condannati a morte).

 

[16] are gearing up to attempt a bait-and-switch. “To gear up to” significa “prepararsi, attrezzarsi”. “Bait-and-switch” significa “tattica (commerciale) dell’adescamento”, “prodotto-civetta”.

[17] “we-are-all-at-fault, let’s-get-tough-on-ourselves boilerplate”. Lett. “abbiamo sbagliato tutti, affrontiamo con severità i nostri stessi modelli”. “Boilerplate” è un termine che ha origine nella tecnologia (superficie a lamiera, stampo) e che ha acquisito il significato generale di “modello, schema”. Combacia quasi esattamente la abusata espressione di Gino Bartali.

[18] Don’t want to see government activism vindicated. “To be vindicated”, significa “mostrarsi nel giusto”

[19] write him or her off as a dishonest flack. “Write off” significa “l’atto di cancellare da una somma un debito improprio o un attivo che ha perso valore”. “Flack” è un termine di traduzione complicata; deriva dal tedesco e si riferisce alla azione di un cannone di contraerea, successivamente ha assunto il significato figurato di “esagerato criticismo” (mi pare, una specie di “fuoco di fila”). Può darsi che la procedura di una contestazione scritta agli eccessi di critica, abbia un suo significato preciso in una procedura giuridica anglo-americana, ma non mi pare che risulterebbe comprensibile in italiano. Per questo ricorro alla traduzione impropria della “pubblicità disonesta”.

[20] Il riferimento è a Lawrence Summers. Quanto alla traduzione di “fiscal policy” come “politica di spesa”, altre volte si è notato e si noterà che il termine “fiscal” ha spesso un significato più generale, traducicibile con “finanziario, della finanza pubblica”.

[21] has shot its bolt. Lett. “ha sparato la sua freccia”.

[22] Il termine “commonwealth” – a parte i casi nei quali si riferisce alla associazione di gruppi di Stati (non solo nel sistema britannico, ma anche tra Massachusetts e Pennsylvania e tra Virginia e Kentucky) – ha il significato di “un corpo organizzata di persone sotto una medesima autorità”, oppure “del sistema politico nel quale il potere supremo consiste in un corpo di cittadini che possono eleggere i loro rappresentanti”.  In quei casi è traducibile con “sistema rappresentativo”.

[23] push.

[24] poor. Che significa anche “scadente, mediocre”.

[25] tying itself in knots. “To tie the knots” significa “convolare a giuste nozze”.

[26] emasculated. Lett. “evirato, svigorito”.

[27] more sanguine.

[28] marching orders.

[29] he must not shy away from pointing out. Lett. “egli deve non evitare di sottolineare”.

[30] flip. “Modificare, cambiare” è uno dei significati più generici di “to flip” (che significa anche “dare un colpetto, agitarsi, muoversi a scatti” e vari altri.

[31] ended up calling the tune. “To call the tune”, o “to call the shots”, significano “avere il potere decisionale”. “To call the tune” è una espressione antica, che deriva da un detto: “Those who pay the piper call the tune” (“quelli che pagano il suonatore decidono la musica”).

[32] the whole point.

[33] “the pork”, espressione utilizzata nel dibattito in questione, forse come sinonimo di un provvedimento che conteneva un po’ di tutto, onnivoro.

[34] extracted a pound of flesh: Lett. “ne hanno ricavato una libbra di carne”, Espressione abbastanza comune, desunta dallo shakespeariano “Mercante di Venezia”.

[35] mojo. Significa “potere magico” o “parola magica”.

[36] to put a postpartisan happy face on the whole thing. Lett. “di assumere una faccia felice post partigiana sull’intera cosa”.

[37] drubbing.

[38] commitment to deep voodoo.

[39] and counting. Espressione che si adopera con il senso di “qualcosa che continua a crescere, che non è ancora terminato.

[40] has bordered on the deranged. “Deranged” significa “squilibrato, sconvolto”.

[41] landed with a dull thud.

[42] back-door route.

[43] to kick the can down the road. Lett. “di dare un calcio alla lattina per la strada”. Espressione idiomatica che ha cormalmente il significato di “tirarla alle lunghe, prendere tempo”.

[44] The best significa “il meglio”, ma i successivi riferimenti  autorizzano un riferimento alle persone.

[45] to settle. Lett. “definire, risolvere”.

[46] to turn around significa “voltarsi indietro”. Ma in questo caso abbiamo “to turn this around”, ovvero “voltare qualcosa all’indietro”.

[47] Decade at Bernie’s. Lett. “decennio da Bernie”.

[48] Then reality struck. “To strike” significa, oltre che “colpire, attaccare” anche “battere, scoccare”.

[49] will snap back any day now.

[50] to boot out. Lett. “cacciar via”.

[51] they ran up so blithely. “To run up” significa “accrescere rapidamente”.

[52] Preferisco il termine “non-americano”, rispetto all’italiano sicuramente più utilizzato “anti-americano”, perché si tratta di un espressione molto frequente e non casuale. “Un-american” indica tutto ciò che è semplicemente incompatibile con la cultura ed la tradizione americana, non necessariamente ostile, ma letteralmente estraneo, ed orgogliosamente rivendicato come tale.

[53] leave the government holding the bag, lett. “lasciano che il governo tenga la borsa”.

[54] Claude Rains è un attore americano che interpretò films come Casablanca, Mondo Perduto,. Mr Smith va a Washington e Lawrence d’Arabia. In qualcuno di questi film ci deve essere la chiave della citazione.

[55] Penso che “acqua di rose” possa sostituire l’espressione americana “socialismo al limone”.

[56] Lett. “postpartisan depression” significherebbe “depressione postpartigiana”. Difficile non articolarlo un po’ di più.

[57] red ink. Lett. “inchiostro rosso”, normalmente indicativo del deficit di bilancio.

[58] American International Group, Inc. (AIG) è una grande società di assicurazioni statunitense con sede a New York. Ha inoltre un quartiere generale in Europa a Croydon, Londra (Regno Unito) e in Asia a Hong Kong (Cina). AIG è la sesta più grande compagnia del mondo secondo l’elenco stilato nel 2007 dal Forbes Global 2000. La società fa parte dell’indice Dow Jones Industrial Average dal 8 aprile del 2004. È inoltre lo sponsor ufficiale del Manchester United F.C.

[59] talking through.

[60] to muddle through.

[61] “Dwarf” significa “rimpicciolire, ridurre a dimensioni di nano”. 

[62] a new set of bells and whistles.

[63] financial hocus-pocus.

[64]wheeling and dealing”. In questo caso, è aggettivo son significato di “affarismo, intrallzzo”.

[65] “America the Tarnished”. “Tarnished” significa “macchiato, danneggiato”, specialmente in riferimento alla “reputazione”.

[66] role model. “Role” significa “ruolo, parte”.

[67] L’investment banking comprende l’intera offerta di servizi finanziari rivolti ad aziende, istituzioni pubbliche ed istituzioni finanziarie. L’attività di investment banking si basa generalmente su servizi di consulting & advisory (consulenza legale, fiscale e finanziaria) e big size deals (attività come fusioni e acquisizioni, caratterizzate da alti costi fissi), e di solito con un approccio internazionale/multimercato (il che spiega la scelta di lasciare in prevalenza la terminologia originale anglosassone).

[68] larger-than-life. Suppongo che il senso letterale di questa espressione idiomatica sia “più larghi del normale”.

[69] highflying.

[70] colorful. Lett. “colorito”.

[71] catastrophic meltdown. “Meltdown” significa “fusione” (del nocciolo nucleare, ovvero incidente disastroso).

[72] the shape. “Spettro, ombra”.

[73] or even significantly shape

[74] um.

[75] doesn’t seem to carry the punch. Lett. “è sembrato non portare il colpo”.

[76] innuendo.

[77] on the part of big-league conservative media outlets and figures. “Big-league”, in questo caso, è una aggettivo indicativo della importanza (“di prima serie, di serie A”); “outlets” sta per “punti di vendita” (“circuiti”); “figures” sta per “personaggi” (WorldReferencecom., definizione 10).

[78] The abject apologies he has extracted from Repubblican politicians who briefly dared to criticise him have been right out of Stalinist show trials.

[79] They are AstroTurf (fake grass roots) events. Questa  frase è la quintessenza della talora pazzesca inventiva del lessico americano. Andiamo in ordine. “Grass roots”, che significa letteralmente “radici di erba” è un aggettivo che sta a significare “di base, popolare”.  All’opposto, “Astroturf” (lett. “erba astrale”) è l’espressione che connota i campi di “erba sintetica”, usati in alcuni stadi. Il termine “Astroturf” è entrato nel gergo politico – fu usato per la prima volta da un Senatore del Texas – per indicare quelle pratiche attraverso le quali si organizzano campagne propagandistiche che hanno l’apparenza di movimenti popolari spontanei, ma in realtà sono fenomeni organizzati, pagati e pensati da gruppi specializzati nella strumentalizzazione dei sentimenti popolari. Tecnicamente, si tratta di solito di manifestazioni di pochi individui prezzolati, che appaiono – nei circuiti televisivi in particolare – come raduni spontanei di massa. In Inghilterra, più semplicemente, il fenomeno vine definito “rent-a-crowd” (“affitta-una-folla”). E’ chiaro che, senza la ben più antica invenzione lessicale della espressione “grass roots” (popolare), l’invenzione più recente non sarebbe comprensibile. In questa traduzione, per così dire, facciamo finta di niente e ci affidiamo al significato letterale delle due espressioni, che è in fondo significativo di ciò che conta, ovvero della differenza tra un fenomeno naturale ed un fenomeno artificiale e sintetico. Per finire, si deve anche notare che l’ “astroturfing” è addirittura diventato, negli USA ed in Australia, un fenomeno di mistificazione politica del quale si occupano alcune leggi, che lo sanzionano. 

[80] Vedi nota pag.

[81] Lett. “germogli verdi e barlumi”. “Green shoots” normalmente è tradotto con “prime sperenze”.

[82] has been  on a tear. “To be on a tear” significa “aver fretta”. Ma il tempo è un passato prossimo, e tradurre con “ha avuto fretta” non sarebbe possibile. Occorre mantenere il senso, e coniugare al passato prossimo.

[83] to sound the all clear. “All clear” (lett. “tutto chiaro, tutto a posto”) significa “via libera, finito pericolo”.

[84] Whoopee.

[85] hard number. “Hard”(“duro, difficile, rigido”), che  ha tra i suoi possibili significati anche “secco”, in questo caso dovrebbe indicare il fatto che quei numeri siano ‘fuori discussione’.

[86] “to kid” come verbo transitivo significa “prendere in giro”. Nella forma intransitiva significa “scherzare”.

[87] happened to be. Lett. “accadeva essere stato”.

[88] “Overboard” può significare “in mare, fuoribordo”, ma anche “all’estremità”, ovvero al limite di una delle due estremità di una imbarcazione.

[89] “to swing” (part, pas. “swung”) può significare “oscillare, dondolare etc.” ed anche “girare”.

[90] Gli “stress tests” sono una iniziativa di indagine del Tesoro americano, che ha lo scopo di chiarire il grado di difficoltà finanziaria dei singoli istituti di credito, ovvero la loro dipendenza da ‘assets problematici’.

[91] L’espressione idiomatica “to drop other shoe” (lett. “far cadere l’altra scarpa”) ha un significato non facilmente traducibile. Se uno deve togliersi due scarpe, finché non ha “calato” la seconda non è certo del risultato della operazione. Il far cadere la seconda scarpa, corrisponde dunque ad un aver completa contezza di qualcosa. Talora, in italiano è tradotta con “rompere il velo”, insomma: chiarire definitivamente. 

[92] “is coming apart at the seams”. Lett. “sta andando a pezzi alle giunture/cuciture”.

[93] Dont’t count your recoveries before they’re hatched. Lett. “non mettete nel conto le vostre riprese prima d’averle covate”. La frase deriva da un espressione idiomatica nella quale, a posto di “recoveries” sta “chickens” (“galline”.

Ovvero: “non mettete nel conto le vostre galline, prima di averle covate/prima che si siano schiuse le uova”). Evidentemente incomprensibile se non con una espressione corrispondente in italiano.

[94] “Erin go bragh”, come si spiega successivamente, è lo slogan in linua gaelica  traducibile con “Irlanda sino alla fine dei tempi”. C’è dunque un gioco di parole tra l’irlandese “go bragh” e l’inglese “go broke” (andare a rompersi, finire sul lastrico, restare al verde).

[95] current bind. Uno dei significati di “to bind” è “provocare una costipazione”.

[96] near-namesake

[97] the brave new world.

[98] a cool, snake-free version of coastal Florida.

[99] into a talspin.

[100] owing more tham their houses where worth.

[101] on the eve of crisis. In questo caso “on” ha il significato della preposizione “su, vicino a” (lett. “vicino all’epoca della crisi”).

[102] fiscal speaking. Per “fiscal” vedi nota ..

[103] along with.

[104]putting taxpayers even further in the hook. Lett. “mettendo i contribuenti ancora più al gancio”.

[105] not to put  too fine a  point on it. Lett. “non per porre un punto troppo sottile su ciò”.

[106] windfalls (inaspettate fortune).

[107] to release the legal memos.

[108] No prosecutions.

[109] out there.

[110] is more than a collection of policies. “Policy”, oltre che “politica” o “polizza”, con riferimento agli individui ha anche il significato di “abitudine”, nel senso di “ comportamento consueto”, oppure di “accortezza, furberia, astuzia”. Arcaicamente, ha anche il significato di “trucco, stratagemma”.

[111] had sometimes done an imperfect job of upholding those ideals. Lett. “hanno qualche volta fatto un uso imperfetto del sostegno (riferimento) a questi ideali”.

[112] everything our nation stands for.

[113] laws aren’t supposed to be enforced only when convenient. Lett. “le leggi non sono supposte di essere rispettate solo quando conveniente”.

[114] accountability.

[115] wouldn’t be called away from his efforts.

[116] and not get in the way. Lett. “get in the way” significa  “stare in mezzo, essere di ostacolo”.

[117] any Congressional investigations. Lett. “a qualsiasi indagine congressuale”

[118] an ugly scene.

[119] prefers visions of uplift to confrontation. “Uplift” significa “sollevamento, spinta in su” (“to uplift” significa anche in amricano “metter su di morale”).

[120] not to be cynical. Secondo WordReference English Definition, “cynical” esprime due possibili concetti: 1)  “quando si è convinti del peggio sulla natura umana e sulle motivazioni degli individui”; 2) “quando si ha una sarcastica sfiducia sul disinteresse altrui”. “Essere cinici”, in italiano, mi pare che coinvolga il giudizio sulla persona che professa il cinismo. In questo caso è preferibile “sarcastico”.

[121] we should forget the whole era. Lett. “dovremmo dimenticare l’intera era”.

[122] if appropriate.

[123] took credit.

[124] Let me count the ways.

[125] let alone enough. Lett. “figurarsi abbastanza”.

[126] humongous.

[127] Si tratta di un modello di vendita truffaldino, consistente nel promettere alle vittime forti guadagni, alla condizione che esse reclutino una catena di ulteriori clienti. La tecnica prende il nome da Charles Ponzi, un immigrato italiano in USA che divenne noto per avere applicato una simile truffa su larga scala nei confronti della comunità di immigrati prima e poi in tutta la nazione. Ponzi non fu il primo ad usare questa tecnica, ma ebbe tanto successo da legarvi il suo nome coinvolgendo 40.000 persone e raccogliendo oltre 15 milioni di dollari.

[128] overdraft protection. Probabilmente il termine “protection” deriva dal fatto che lo “scoperto di conto” (“overdraft”) è divenuto conveniente dal momento in cui, in caso di un rimborso (o di un ‘rientro’) rapido, si evitano gli inconvenienti di alti tassi di interesse su quello che sostanzialmente è un prestito istantaneo.

[129] Ovvero, concessi a soggetti che non offrono garanzie primarie.

[130] every bit. Lett. “in ogni pezzo”.

[131] welfare. Vedi nota pag.

[132] Troubled Asset Relief Program. Ovvero il Programma di soccorso per gli ‘assets’ problematici posseduti dal  settore finanziario, a seguito della crisi.

[133] American International Group, una grande società statunitense  nel settore assicurativo con sede a New York, colpita fortemente dalla ‘crisi dei subprime’.

[134] Federal Deposit Insurance Corporation, una impresa statale creata nel 1933 per garantire i depositi bancari a fronte di una crisi degli istituti di credito. 

[135] given all that tax-payer money on the line. Lett. “dato tutto questo denaro dei contribuenti in serio pericolo (on the line)”.

[136] wheeler-dealers.

[137] So it’s eat, drink and be merry, for tomorrow you may be regulated.

[138] the economy’s nose-dive may be leveling off. Lett. “la caduta in picchiata dell’economia forse si sta stabilizzando”.

[139] nothing more than few stern speeches. Lett. “niente di più di qualche discorso severo”.

[140] carry through.

[141] the reign of junk science.

[142] vedi nota pag.

[143] card-carrying economist. Significa” economista tesserato, patentato etc.”.

[144] I cringe.

[145] as long as it’s implemented gradually.

[146] auctioned off. Lett. “venduti all’asta”.

[147] Rispettivamente, “Agenzia per la Protezione Ambientale” (EPA. Organismo statale federale) e “Gruppo diPrevisione delle Emissioni e di analisi delle politiche”.  

[148] fresh water.

[149] can cope with.

[150] predicament.

[151] business investment. Il termine non mi pare di così ovvia traduzione, come potrebbe sembrare a prima vista (come quello successivo, “businesses”, che traduco con “i settori produttivi”). Se si assume il significato più generico di “affare”, con il quale solitamente si traduce il termine “business” in italiano, il risultato è pleonastico (quali investimenti non sono mirati ad una finalità “affaristica”?) Il significato riferito ad “ogni attività che provvede ai beni ed ai servizi che riguardano aspetti commerciali, industriali e finanziari” ha un senso maggiore, e può essere tradotto con “produttivo”, nel senso di “tutto ciò che attiene al ciclo di un prodotto economico”. Del resto, l’intera frase successiva autorizza questa scelta. 

[152] excess capacity.

[153] Congress were to mandate. “Were” è la terza persona plurale del congiuntivo presente di “to be” (plurale, in quanto “Congress” è nome collettivo). In questo caso “to be” ha il significato di “happen, occur, take place” (vedi WordReference, English definition, 13). “To mandate”, in questo caso, significa “to make mandatory”, ovvero “rendere obbligatorio”.

[154] equipment and facilities.

[155] Givebacks. Nel dizionario Merriam-Webster: “a previous gain (as an increase in wages or benefits) given back to management by workers (as in a labor contract)”. Ovvero: “una restituzione di un precedente diritto (come una crescita del salario o una gratifica) da parte dei lavoratori alla azienda (secondo il contratto di lavoro)”.

[156] Il “leverage”, o rapporto di indebitamento, è un indice utilizzato in finanza per misurare il rapporto tra il capitale proprio e quello di terzi negli impieghi di una azienda. Un indice di indebitamento maggiore, consente alcuni vantaggi, sia perché il capitale da debito, soprattutto nei debiti a lungo termine, è meno costoso del capitale di rschio, sia perché gli interessi passivi possono essere usati nei bilanci per diminuire l’utile ante imposta, e dunque per diminuire le stesse imposte ed aumentare il valore dell’azienda. Naturalmente, a certi livelli un elevato rapporto di indebitamento è indicativo di una cattiva condizione. Il “deleverage” è la azione opposta, consistente nei ridurre la componente del debito negli impieghi.

[157] they’re chasing a moving target.

[158] green shoots. Lett. “germogli verdi”, normalmente nel significato di “buone aspettative, segni di ripresa”.

[159] may be leveling off.

[160] Credit where credit is due. Lett. “il credito (il riconoscimento) dove il credito è atteso (è meritato)”.

[161] Stressing the positive.To stress ha il significato principale di” insistere”, “mettere l’accento”.

[162] Hooray. Significa “hurrah”, “evviva”.

[163] much-hyped. Lett. “molto pubblicizzate”.

[164] came as an anticlimax.

[165] I won’t weigh in on the debate. Lett. “Non dirò la mia opinione (to weigh in)  sul dibattito”.

[166] to muddle through. “Farcela alla ben’e meglio”.

[167] to fill the gap.

[168] Sono due “public companies”, ovvero imprese che godono del sostegno statale, nel settore finanziario.

[169] instead of the other way around. Lett. “piuttosto che in giro nell’altro modo”.

[170] the muddle-through strategy. Vedi nota 6 alla pagina precedente.

[171] are able to capture.

[172] a heads-we-win-tails-they-lose situation. Lett. “una situazione del genere ‘croce-vincono-loro-testa-perdiamo-noi” (ancora più letteralmente “teste-vincono-loro-code-perdiamo-noi”, che è il modo dire equivalente in americano).

[173] reportedly.

[174] a top pick.Lett. “una scelta al massimo livello”.

[175] excited.

[176] Sarebbe “medico-industriale”, ma “medical” sta per assicurativo – ovvero la componente responsabile della concreta organizzazione sanitaria – mentre “industrial” sta per farmaceutico .

[177] sketching out a plan.

[178] er. Interiezione usata per esprimere esitazione.

[179] Il testo orginale è: “Republicans, after all, still donounce research into which medical procedures are effective and which are not a dastardly plot to deprive Americans of their freedom to choose”. Lett. “I Repubblicani, dopo tutto,ancora denunciano la ricerca di quali siano le procedure mediche più efficaci e di come non siano un complotto ignobile per privarli della loro liberta di scegliere”. 

[180] to hang tough in the bargaining ahead. Lett. “di afferrarsi forte  nella contrattazione più in avanti”.

[181] give in.

[182] is a tremendously good omen. (Omen significa “presagio”).

[183] I still won’t count my health care chickens until they’re hatched. Lett. “Io non metterò ancora nel conto i miei polli della assistenza sanitaria, finchè non saranno covati”. Proverbio americano equivalente.

[184] Junk  science. Lett. “La scienza delle cianfrusaglie, poco sana, spazzatura”, (“junk food” è il “cibo spazzatura”).

[185] with the limits growing steadily tighter over time.

[186] And the trend seems set to continue. Lett. “E la tendenza sembbra assestata a proseguire”.

[187] letting China match the West’s past profligacy.

[188] is an emissions hog. “Hog” significa “maiale”, ma anche “persona che si comporta con ingordigia, come un maiale”.

[189] huge scope.

[190] will also be morally empowered.

[191] Thay will complain bitterly. Lett. “Essi si lamentaranno amaramente”.

[192] The Bushies and his allies in Congress. Per “allies in Congress” vedi nota …

[193] Somewhat uneasy.

[194] Staking out. Lett. “picchettare, delimitare”.

[195] Much trickier. “Trick” è un sostantivo, generalmente, che significa “inganno, fregatura etc.”.

[196] How much it’s willing to bend. Lett. “quanto ha la volontà di piegarsi”.

[197] Representatives.

[198] The “cap” in “cap and trade”.

[199] The usual suspects. Lett. “I soliti/consueti sospetti”. In italiano, un po’ di ironia può venire dall’utilizzo del titolo del famoso film di Mario Monicelli del 1958, che ottenne l’Oscar come migliore film straniero.

[200] , yada yada. Anche “yadda yadda”, ha il significato di “eccetera/ e così via/ e piacevolezze del genere…”. 

[201] Whose language. Secondo WR.com “language” ha anche il significato di “testo”, nel caso di un canzone popolare o

di una commedia musicale.

[202] On its behalf. Lett. “per suo conto”.

[203] Lega degli Elettori per la Tutela Ambientale.

[204] Fondo per la Difesa dell’Ambiente.

[205] Not to put too fine a point on it. Lett. “Non per sottolineare (to pu a point on it) troppo sottile”.

[206] with the right connections. Lett. “con le connessioni giuste”.

[207] as opposed to letting factory owners with the right connections off the hook. Lett. “e al contrario di consentire ai proprietari delle industrie con i giusti collegamenti di sganciarsi”. L’espressione “to let someone off the hook” significa “consentire a qualcuno di non fare quello che dovrebbe”.

[208] So if you had your heart set on a clean program. Lett. “se il vostro cuore fosse posto a favore di un onesto programma”.

[209] without major political payoffs. Lett. “senza importanti compensi politici”.

[210] by all accounts.

[211] Denial. Lett. “negazione”. Un’altra soluzione possibile, volendo accentuare la responsabilità politico morale di coloro che negano l’esistenza del problema del cambiamento climatico,  sarebbe tradurre con “negazionismo”, termine usato normalmente per le posizioni di gruppi nazisteggianti a proposito dell’Olocausto. Ma in inglese esiste il termine “denialism”, effettivamente usato in quel caso.

[212] Blu double cross. Lett. “Doppio gioco azzurro”. Si tratta di un gioco di parole: “cross” significa “croce, incrocio”, e nell’articolo si fa un riferimento ad una associazione “Croce Azzurra”, una società operante nel settore della assistenza sanitaria e molto attiva nel contrastare la legislazione di riforma. “Double cross” significa, invece, “doppio gioco”. Da qui il titolo sul “doppio gioco azzurro”, mentre il riferimento alla “Croce azzurra” viene perso..

[213] The medical-industrial complex. Lett. “il complesso medico-industriale”. Considerato che una attività lobbistica nel settore ha una lunga storia, penso si possa  più chiaramente attribuire il termine “medical” alla componente delle assicurazioni, ovvero alla componente organizzativa, ed il termine “industrial” alla componente dell’industria farmaceutica.

[214] “To be under way” significa “essere in corso”.

[215] Will Mr Obama gloss over ..? “Gloss over”, lett., “sorvolare, glissare”.

[216] Stand in the way.

[217] The fact sheet.

[218] And, um, hope. “Um” è una interiezione, traducibile con “mmh”, o con “bene”, o meglio con “speriamo bene”. Il senso, nella traduzione, viene espresso con la aggiunta di “ormai consueto”, indicativa di una certa condizione di scetticismo.

[219] Point-scoring. Il corrispondente verbo ha il significato di “prendere vantaggio su altri per effetto di argomenti capziosi”.

[220] For a major smear campaign.

[221] Lett. “Croce Azzurra Protezione Azzurra”.Vedi anche la nota 1 alla pagina precedente.

[222] The Post.

[223] Storyboards. Termine entrato anche nel vocabolario italiano (Devoto-Oli, 2008) che appunto indica una serie di bozzetti e di didascalie che insieme compongono, nel prodotto finito, la produzione audiovisiva.

[224] They read. “To read”, oltre che “leggere” può significare “leggersi, prestarsi alla lettura, farsi leggere, esprimere”.

[225] HMO = Health Maintenance Organization. Gruppo  assicurativo che dà diritto ai suoi assistiti di accedere ad ospedali, cliniche e singoli specialisti.

[226] Stakeholders.

[227] California, it has  long been claimed ,is where the future happens first. Lett. “La California, si è a lungo rivendicato, è laddove il futuro accade la prima volta”.

[228] The housing bubble was bigger than almost anywhere else. Lett. “ La bolla immobiliare è stata più grande che quasi dappertutto altrove”.

[229] And you have to wonder, Lett. “E vi meravigliate, vi stupite”.

[230] Ever less interested in the actual business of governing. Lett. “sempre meno interessati all’effettivo affare del governare”.

[231] Republican rump. Il termine “rump” (“groppa, parte posteriore, culatta, codrione etc.”) ha anche il significato di “piccolo gruppo residuo”, che forse deriva dalla espressione “the Rump Parliament”, espressione con la quale venne designato il Parlamento britannico al momento delle espulsione – dal “Long Parliament” – dei Presbiteriani ordinata da Cromwell nel 1648 (lett. “il Parlamento mozzo, la parte residua del Parlemento”).

[232] PIMCO sta per “Pacific Investment Menagement Company” ed è il più grande Fondo obbligazionario americano. Bill Gross e un suo fondatore.

[233] To be blunt. Lett. “per essere diretti”.

[234] Pussy Galore è il nome di un personaggio femminile di un film di James Bond,dove recita la parte di ‘tirapiedi’ del cattivo Goldfinger, salvo diventare ‘bondiana’ sulla fine. Ma è anche una volgarità, nel senso che lett. “Pussy Galore” si tradurrebbe con “fica (pussy) in abbondanza (galore)”. 

[235] Sacramento (circa 400.000 abitanti)  – e non San Francisco(circa 800.000)  o Los Angeles (circa 3.900.000) – nel settentrione interno della California, è la capitale dello Stato.

[236] Has me rattled.

[237] America’s largest state. “Large”, oltre che “largo, vasto etc.”, può significare anche “alto, robusto etc.”. In questo caso, il superlativo assoluto non può essere riferito alla dimensione territoriale.

[238] Just. “Proprio, esattamente”.

[239] Interest-rate spike.

[240] First things first. Lett. “Dapprima le prime cose”.

[241] And wage increases have stalled. Lett. “E gli incrementi salariali si sono spenti/ sono stati procrastinati”.

[242] To inflate away its debt. E’ un concetto non traducibile in italiano direttamente con un verbo; significa “erodere, ridurre per effetto dell’inflazione”. In altri termini, il valore reale del debito, alla fine, potrà essere ridotto solo contando sull’effetto dell’inflazione sul debito stesso. 

[243] They’re just sitting on them.Lett. “ci stanno soltanto sedute sopra”.

[244] It was to cry, Fire, Fire in Noah’s flood. Lett. “era da piangere. Fuoco, fuoco nell’alluvione di Noè”. 

[245] Have subsided.

[246] Federal debt. Non so se abbia significato il fatto che ci si riferisca al solo debito federale, anziché a quello ‘nazionale’, ovvero dell’intero settore pubblico (una percentuale del 100 per cento del PIL pare in effetti un po’ elevata, se riferita solo al primo).

[247] I’m sympathetic to these arguments.

[248] Policy makers. Traduco con “uomini di governo”, mentre si potrebbe tradurre con “uomini politci” od “operatori politici”, perché mi pare che si sia una implicita accentuazione del “produrre fatti”. Del resto, come si legge successivamente, il pericolo dell’inflazione “è” un argomento di uso politico, pur essendo effettualmente infondato.

[249] Weird times. Lett. “tempi bizzarri, misteriosi”.

[250] Inflation fear-mongering. “To monger” è l’atto di vendere oggetti “di luogo in luogo”. Lett., dunque, sarebbe “diffusori, seminatori di paura”.( “Warmongering” significa “bellicismo).

[251] Fiscal scolds. Lett. “coloro che sgridano (per ragioni) fiscali, finanziarie, di spesa pubblica”.

[252] To bully. Lett. “fare il bullo, fare il prepotente”.

[253] We need to start laying the groundwork. Lett. “abbiano bisogno di cominciare a stendere il lavoro preparatorio”.

[254] Reagan did it. Lett. “Lo fece Reagan”.

[255] All in all, I think we hit the jackpot.

[256] La Legge sulle Istituzioni di Deposito proposta dai memebri del Congresso Garn e St. Germain. Le “Depository Institutions” sono istituti finanziari americani, del genere delle casse di risparmio o delle banche commerciali, che possono accettare depositi monetari dai loro clienti (mentre non possono farlo, ovvero sono ‘non.depository institutions’, quegli istituti che, ad esempio, concedono mutui. Chi ha la licenza per dare soldi in prestito, non può accettare depositi).

[257] … the key wrong turn – the turn that made crisis inevitable .. Lett.”… il giro sbagliato della chiave – giro che ha reso la crisi inevitabile ..”.  

[258] Fiscal prudence. Nel linguaggio politico americano, frequentemente “fiscal” ha il significato più generale di “finanziario, attinente alla finanza pubblica, attinente alla spesa pubblica”.

[259] Leaving us ill prepared for the emergency now upon us. Lett. “lasciandoci mal preparati per l’emergenza ora sopra di noi”.

[260] Dwarfed by the rise in private debt. Lett. “fu rimpicciolita dalla crescita  del debito privato”.

[261] And it’s the gift that keeps on taking. “To take” (“prendere, portare etc,”) significa anche “sopportare”.

[262] S&L crisis. Ovvero “Savings-and-loans crisis”.

[263] Written out. “To write out” letteralmente significa  “trascrivere, scrivere per esteso, compilare”.  

[264] Closed the books. “Keep  books” significa “tenere la contabilità”.

[265] “Oops”. In un forum su WordReference.comdell’anno 2006  c’è una buffa e lunga discussione su come tradurre “oops”. In questo caso, direi che la soluzione più adatta sarebbe un “oplà”, nel senso di “ecco fatto!”. Ma forse il francesismo aggiunge un po’ di  ironia.

[266] These defaults in turn wreacked havoc with. “To wreack havoc with something” significa “scombussolare qualcosa”.

[267] Prime villains. “Villain” significa “furfante, malvagio, ‘il’ cattivo”.

[268] Keep them honest. Lett. “Teniamoli onesti” (“facciamo in modo che ..”, “costringiamoli a ..”).

[269] Two pieces of advice. Lett. “due pezzetti di consiglio”.

[270] Less easily Harry-and-Louised. “Harry e Louise” fu una inserzione pubblicitaria che andò in onda sulle televisioni americane, ininterrottamente dal settembre del 1993 al settembre del 1994, su iniziativa della più importante lobby del settore assicurativo sanitario, per contrastare i propositi di riforma sanitaria del Presidente Clinton. In questo caso il termine è curiosamente trasformato in un participio passato di un verbo (Louised, per così dire, è il participio di Louise), con il significato di “subire un trattamento alla ‘Herry e Louise’”.

[271] It’s a sign of the way the political winds are blowing. Lett. “E’ un segno del modo in cui i venti della poltica stanno soffiando”.

[272] Programmi dell’Assicurazione Sanitaria Americana.

[273] Seemengly trivial.

[274] Now-famous memo. Il termine “now-famous” è piuttosto singolare. Non appare su vari dizionari consultati, ma in un ‘forum’ su WordReference.com dell’ottobre del 2007 viene discusso tra alcuni esperti. Il risultato è che “now-famous” non significa “oggi famoso” (che, nel contesto, non avrebbe senso), ma non significa neppure “allora famoso” (“now” nelle storie e nei racconti ha anche il significato di “allora”). Significa, piuttosto, “che da allora divenne famoso”.

[275] The insurance industry’s idea of a cutting-edge, cost-saving reform. “Cutting-edge” è un termine idiomatico che, come aggettivo, è traducibile con “all’avanguardia”, (lett. “tagliare la lama”, ovvero “affilare, affinare” etc.).

[276] Lobby’s foot soldiers.

[277] Tried to shout down. “to shout down” significa “far tacere con il clamore”.

[278] “trigger”. Grilletto, innesco”. “To trigger” significa “scatenare etc.”.

[279] Hanging chads. Lett. “coriandoli penzolanti”. E’ l’espressione che venne usata in riferimento alle elezioni presidenziali del 2000, quando un certo numero di schede automatizzate risultarono non ben perforate dalle relative macchinette della Florida e vennero di conseguenza negati ad Al Gore un certo numero di voti, che sarebbero stati decisivi per la sua elezione.

[280] Preached the same gospel.

[281] Ruthless, “spietato”.

[282] The market knows best.

[283] Trust in responsible company, engaged employee and educated consumer.

[284] “not just a light touch but a limited touch”.

[285] Every bit as much in the American cultural orbit as Britain.

[286] Any less in the thrall of.

[287] Any more willing to rein.

[288] And the buck – or, in this case, I guess the quid – stops at No.  10 Downing Street. L’espressione “the buck stops at”, significa “l’ultima parola spetta, la risponsabilità ricade, il fardello tocca etc.”. Ma si tratta di una espressione idiomatica intraducibile alla lettera, dove il significato originario di “buck” è “dollaro” (letteralmente sarebbe “il dollaro si ferma a ..”). Per questo resta anche intraducibile l’espressione tra lineette (“ – or, in this case, I guess, the quid – “) che letteralmente significherebbe: “ – o, in questo caso, suppongo, la sterlina – “.

[289] Department of Homeland Security

[290] L’attentato di Oklahoma City fu un attacco terroristico che ebbe luogo il 19 aprile del 1995 contro un edificio federale, nel centro della città. Morirono 168 persone e ne rimasero ferite oltre 800. Si ritiene che fosse stato usato un camion contenente 2.300  kg di esplosivo fatto in casa, con del fertilizzante utilizzato in agricoltura e del nitrometano, combustibile facilmente infiammabile. L’esplosione fu così forte, da essere udita sino a 60 chilometri di distanza. Oltre al bersaglio, furono distrutti anche gli edifici circostanti. Fu riconosciuto colpevole Timothy MaVeigh, ex veterano della guerra del Golfo. Fu giustiziato l’11 giugno del 2001, tramite iniezione letale.

[291] “Tiller l’assassino di neonati”.

[292] “Black helicopter” è una espressione con la quale si definiscono i seguaci di teorie cospirative di destra, e deriva da una interpretazione simbolica dell’uso che viene fatto, negli ambienti militari, di macchine del genere per azioni di pattugliamento.Una versione più sofisticata e probabilmente più pericolosa delle nostre ronde.

[293] Exhibit A.

[294] Una specie di Protezione Civile” federale.

[295] House organ.

[296] Saw fit to.

[297] Fratellanza Musulmana.

[298] Rants. “Lunghe declamazioni”.

[299] Scheme of things.

[300] Very much political insider.

[301] Peddles. “To peddle” significa “Vendere porta a porta, vendere in giro, girare con la mercanzia”. Ovvero: un “vendere” occasionale e sciatto.

[302] Where hyped. “To hype” significa “fare pubblicità”.

[303] Joining hands.

[304] The right frame of mind.

[305] Obama oppression.

[306] Credit where credit is due. Lett. “il credito dove il credito è atteso”. Credo che si tratti in effetti di una espressione di provenienza finanziaria, diventata in questo caso  una espressione idiomatica del genere “dare pane al pane e vino al vino”, ovvero, piu letteralmente, nella traduzione proposta.

[307] Lone wolves. Lett. “lupi solitari”.

[308] Wind up. Significa “operare una carica a molla”.

[309] Deja vu all over again. Lett. “un deja vu dall’inizio, da capo”.

[310] And they keep pushing.

[311] Gave in.

[312] Have their way.

[313] Sure enough. Lett. “abbastanza sicuro”, ha il significato di un rafforzativo “e infatti, e guarda caso, e guarda un po’”.

[314] Proceeded to slide back.

[315] Are harassing.

[316]  Arthur Laffer è un economista americano, sostenitore dell’economia dell’offerta, che divenne famoso nel periodo della amministrazione Reagan. Conosciuto principalmente per la cosiddetta “curva di Laffer”, ovvero per la tesi per la quale se la pressione fiscale è troppo alta, le entrate fiscali calano in conseguenza dei disincnetivi ad aumentare la attività lavorativa. Leggenda vuole che Laffer incontrasse Reagan in un ristorante e, disegnando su un tovagliola la sua ‘curva’, lo convincesse della bontà della sua teoria.

[317] Which happens to be exactly. Lett. “la qual cosa accade essere esattamente”.

[318] Government borrowing.

[319] Providing a bit of comic relief. Lett. “fornendo un pezzo di comico sollievo/ soccorso/ diversivo”.

[320] Enabling legislation. “Enabling” significa “autorizzazione”, ma “Enabling act” significa “delega del Parlamento”. In questo caso è probabile che il testo legislativo sullo “stimulus” contenesse provvedimenti delegati alla amministrazione federale.

[321] Economic record. “Record” solo nel linguaggio sportivo significa “primato”; mentre negli altri significati sta per “registrazione, memoria, testimonianza, documento, verbale, archivio, curriculum, carriera etc.”. “Prestazione” è una via di mezzo.

[322] By no less than 16 months.

[323] OK, time for some reality checks.

[324] “green shoots”. E’ tra virgolette, come è naturale, perché letteralmente significa “germogli verdi”.

[325] Fullfledged depression. Lett. “depressione completamente sviluppata/dispiegata”.

[326] Pulled us a few inches back  from the edge of the abyss.

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