Articoli sul NYT

Articoli sul New York Times, dal 20 giugno 2010 al 30 dicembre 2010

 

Now and Later

By PAUL KRUGMAN
Published: June 20, 2010

Spend now, while the economy remains depressed; save later, once it has recovered. How hard is that to understand?

Very hard, if the current state of political debate is any indication. All around the world, politicians seem determined to do the reverse. They’re eager to shortchange the economy when it needs help, even as they balk at dealing with long-run budget problems.

 

 

But maybe a clear explanation of the issues can change some minds. So let’s talk about the long and the short of budget deficits. I’ll focus on the U.S. position, but a similar story can be told for other nations.

At the moment, as you may have noticed, the U.S. government is running a large budget deficit. Much of this deficit, however, is the result of the ongoing economic crisis, which has depressed revenues and required extraordinary expenditures to rescue the financial system. As the crisis abates, things will improve. The Congressional Budget Office, in its analysis of President Obama’s budget proposals, predicts that economic recovery will reduce the annual budget deficit from about 10 percent of G.D.P. this year to about 4 percent of G.D.P. in 2014.

 

Unfortunately, that’s not enough. Even if the government’s annual borrowing were to stabilize at 4 percent of G.D.P., its total debt would continue to grow faster than its revenues. Furthermore, the budget office predicts that after bottoming out in 2014, the deficit will start rising again, largely because of rising health care costs.

So America has a long-run budget problem. Dealing with this problem will require, first and foremost, a real effort to bring health costs under control — without that, nothing will work. It will also require finding additional revenues and/or spending cuts. As an economic matter, this shouldn’t be hard — in particular, a modest value-added tax, say at a 5 percent rate, would go a long way toward closing the gap, while leaving overall U.S. taxes among the lowest in the advanced world.

 

 

But if we need to raise taxes and cut spending eventually, shouldn’t we start now? No, we shouldn’t.

 

Right now, we have a severely depressed economy — and that depressed economy is inflicting long-run damage. Every year that goes by with extremely high unemployment increases the chance that many of the long-term unemployed will never come back to the work force, and become a permanent underclass. Every year that there are five times as many people seeking work as there are job openings means that hundreds of thousands of Americans graduating from school are denied the chance to get started on their working lives. And with each passing month we drift closer to a Japanese-style deflationary trap.

 

 

Penny-pinching at a time like this isn’t just cruel; it endangers the nation’s future. And it doesn’t even do much to reduce our future debt burden, because stinting on spending now threatens the economic recovery, and with it the hope for rising revenues.

 

So now is not the time for fiscal austerity. How will we know when that time has come? The answer is that the budget deficit should become a priority when, and only when, the Federal Reserve has regained some traction over the economy, so that it can offset the negative effects of tax increases and spending cuts by reducing interest rates.

 

 

Currently, the Fed can’t do that, because the interest rates it can control are near zero, and can’t go any lower. Eventually, however, as unemployment falls — probably when it goes below 7 percent or less — the Fed will want to raise rates to head off possible inflation. At that point we can make a deal: the government starts cutting back, and the Fed holds off on rate hikes so that these cutbacks don’t tip the economy back into a slump.

 

 

But the time for such a deal is a long way off — probably two years or more. The responsible thing, then, is to spend now, while planning to save later.

As I said, many politicians seem determined to do the reverse. Many members of Congress, in particular, oppose aid to the long-term unemployed, let alone to hard-pressed state and local governments, on the grounds that we can’t afford it. In so doing, they are undermining spending at a time when we really need it, and endangering the recovery. Yet efforts to control health costs were met with cries of “death panels.”

 

 

And some of the most vocal deficit scolds in Congress are working hard to reduce taxes for the handful of lucky Americans who are heirs to multimillion-dollar estates. This would do nothing for the economy now, but it would reduce revenues by billions of dollars a year, permanently.

 

But some politicians must be sincere about being fiscally responsible. And to them I say, please get your timing right. Yes, we need to fix our long-run budget problems — but not by refusing to help our economy in its hour of need.

 

Ora e dopo, di Paul Krugman

New York Times 20 giugno.

 

Spendete ora, nel mentre l’economia è ancora depressa; risparmiate dopo, una volta che si sia ripresa. E’ così difficile da capire?

Molto difficile, se si deve giudicare dall’attuale condizione del dibattito politico. Dappertutto nel mondo, gli uomini politici sembrano determinati a fare il contrario. Essi sono ansiosi di lesinare nel momento in cui l’economia ha bisogno di aiuto, anche se si tirano indietro dinanzi a ciò che dovrebbe essere fatto con i problemi di lungo periodo dei bilanci.

Ma forse una chiara spiegazione delle questioni sul tappeto può modificare alcune opinioni. Ragioniamo, dunque, sui deficit di bilancio nel breve e lungo termine. Mi concentrerò sulla condizione degli Stati Uniti, ma una storia simile potrebbe essere raccontata per altre nazioni.

Al momento, il governo degli Stati Uniti sta gestendo un ampio deficit di bilancio. Gran parte di questo deficit, tuttavia, è il risultato della crisi economica in corso, che ha depresso le entrate e richiesto spese straordinarie per salvare il sistema finanziario. Il Congressional Budget Office, nella sua analisi delle proposte di bilancio del Presidente Obama, prevede che la ripresa economica ridurrà il deficit annuale di bilancio da circa il 10 per cento del PIL di quest’anno a circa il 4 per cento del 2014.

Sfortunatamente, questo non è sufficiente. Persino se l’indebitamento si stabilizzasse al 4 per cento del PIL, il debito totale continuerebbe a crescere più velocemente delle entrate. Per di più, l’ufficio del bilancio prevede che dopo aver raggiunto il livello più basso nel 2014, il deficit inizierà di nuovo a salire, in gran parte a causa della crescita dei costi della assistenza sanitaria.

Dunque, l’America ha un problema di bilancio di lungo periodo. Affrontare questo problema comporterà, in primo luogo, un impegno reale per riportare i costi sanitari sotto controllo, senza la qual cosa non funzionerà niente. Ci sarà anche bisogno di cercare entrate addizionali e/o di tagli alle spese. Da un punto di vista economico, questo non dovrebbe essere difficile; in particolare, un modesto incremento fiscale, diciamo di una percentuale del 5 per cento, costituirebbe un buon avvicinamento alla chiusura di tale disavanzo, pur lasciando la pressione fiscale americana tra le più basse del mondo avanzato.

Ma se abbiamo bisogno di aumentare le tasse e, alla fine, di tagliare le spese, non dovremmo partire subito? No, non dovremmo.

In questo momento, abbiamo una economia fortemente depressa, e quella economia depressa sta provocando un danno duraturo. Per ogni anno che passa con una disoccupazione estremamente elevata, cresce la probabilità che molti disoccupati di lungo periodo non tornino più al lavoro e diventino un sottoproletariato permanente. Ogni anno nel quale le molte persone che cercano lavoro sono cinque volte il numero dei posti disponibili, comporta che a centinaia di migliaia di americani diplomati e laureati venga negata la possibilità di cominciare la propria vita lavorativa. E per ogni mese che passa noi ci avviciniamo sempre di più ad una trappola deflazionistica sul modello giapponese.

Spendere il meno possibile in tempi come questi non è solo crudele; mette in pericolo il futuro della nazione. E neanche provoca un gran risultato nella riduzione del nostro fardello del debito, giacché lesinare sulla spesa in questo momento minaccia la ripresa economica, e con essa la speranza di entrate crescenti.

Dunque, non è questo il tempo della austerità fiscale. Come faremo a sapere quando sarà il tempo di agire? La risposta è che il deficit di bilancio dovrà diventare una priorità quando, e solo quando, la Federal Reserve avrà ricominciato a produrre un effetto trainante sull’economia, in modo tale che si possano bilanciare gli effetti negativi degli incrementi fiscali e dei tagli alle spese attraverso una riduzione dei tassi di interesse.

Attualmente la Fed non può farlo, giacché i tassi di interesse che essa può controllare sono prossimi a zero, e non possono scendere più in basso. In effetti, tuttavia, quando diminuirà il livello di disoccupazione – probabilmente quando esso finirà sotto il 7 per cento o meno ancora – la Fed vorrà innalzare i tassi per far ripartire una ragionevole inflazione. A quel punto si potrà fare un accordo: il governo comincerà a tagliare e la Fed si terrà alla larga da impennate nei tassi[1], in modo tale che questi tagli non risospingano l’economia in una depressione.

Ma il momento per un accordo del genere è ancora lontano, probabilmente due anni o più. Il comportamento responsabile, dunque, è spendere ora, nel mentre si programma di risparmiare successivamente.

Come ho detto, molti uomini politici appaiono determinati a fare il contrario. Molti membri del Congresso, in particolare, si oppongono agli aiuti alla disoccupazione di lungo periodo, lasciano soli gli Stati ed i governi locali in difficoltà[2],  sulla base[3] dell’argomento secondo il quale non potremmo permettercelo. Così facendo, essi erodono la spesa in un periodo nel quale ne abbiamo effettivamente bisogno, e mettono in pericolo la ripresa. Tuttavia, gli sforzi per controllare i costi della sanità sono stati accolti con le urla dei “tribunali della morte”.

E alcuni dei più vocianti censori[4] del deficit nel Congresso stanno lavorando con alacrità per ridurre le tasse ad una manciata di fortunati americani che hanno ereditato patrimoni da molti milioni di dollari. Il che non farebbe niente all’economia adesso, ma ridurrebbe le entrate per miliardi di dollari all’anno, in permanenza.

Eppure alcuni uomini politici non possono non essere sinceri a proposito della responsabilità nella gestione finanziaria. A loro io dico, scegliete per favore il momento giusto. E’ vero, abbiamo bisogno di porre un rimedio ai nostri problemi di bilancio di lungo periodo, ma non rifiutando di aiutare la nostra economia nel momento in cui ne ha bisogno.

 

 

 


 

The Renminbi Runaround

By PAUL KRUGMAN
Published: June 24, 2010

 

Last weekend China announced a change in its currency policy, a move clearly intended to head off pressure from the United States and other countries at this weekend’s G-20 summit meeting. Unfortunately, the new policy doesn’t address the real issue, which is that China has been promoting its exports at the rest of the world’s expense.

 

In fact, far from representing a step in the right direction, the Chinese announcement was an exercise in bad faith — an attempt to exploit U.S. restraint. To keep the rhetorical temperature down, the Obama administration has used diplomatic language in its efforts to persuade the Chinese government to end its bad behavior. Now the Chinese have responded by seizing on the form of American language to avoid dealing with the substance of American complaints. In short, they’re playing games.

 

 

To understand what’s going on, we need to get back to the basics of the situation.

 

China’s exchange-rate policy is neither complicated nor unprecedented, except for its sheer scale. It’s a classic example of a government keeping the foreign-currency value of its money artificially low by selling its own currency and buying foreign currency. This policy is especially effective in China’s case because there are legal restrictions on the movement of funds both into and out of the country, allowing government intervention to dominate the currency market.

 

 

And the proof that China is, in fact, keeping the value of its currency, the renminbi, artificially low is precisely the fact that the central bank is accumulating so many dollars, euros and other foreign assets — more than $2 trillion worth so far. There have been all sorts of calculations purporting to show that the renminbi isn’t really undervalued, or at least not by much. But if the renminbi isn’t deeply undervalued, why has China had to buy around $1 billion a day of foreign currency to keep it from rising?

 

 

The effect of this currency undervaluation is twofold: it makes Chinese goods artificially cheap to foreigners, while making foreign goods artificially expensive to the Chinese. That is, it’s as if China were simultaneously subsidizing its exports and placing a protective tariff on its imports.

 

This policy is very damaging at a time when much of the world economy remains deeply depressed. In normal times, you could argue that Chinese purchases of U.S. bonds, while distorting trade, were at least supplying us with cheap credit — and you could argue that it wasn’t China’s fault that we used that credit to inflate a vast, destructive housing bubble. But right now we’re awash in cheap credit; what’s lacking is sufficient demand for goods and services to generate the jobs we need. And China, by running an artificial trade surplus, is aggravating that problem.

 

 

 

This does not, by the way, mean that China gains from its currency policy. The undervalued renminbi is good for politically influential export companies. But these companies hoard cash rather than passing on the benefits to their workers, hence the recent wave of strikes. Meanwhile, the weak renminbi creates inflationary pressures and diverts a huge fraction of China’s national income into the purchase of foreign assets with a very low rate of return.

 

So where does last week’s policy announcement fit into all this? Well, China has allowed the renminbi to rise — but barely. As of Thursday, the currency was only about half a percent higher than its typical level before the announcement. And all indications are that watching the future movement of the renminbi will be like watching paint dry: Chinese officials are still making statements denying that a rise in their currency will do anything to reduce trade imbalances, and prices in the forward market, in which traders agree to exchange currencies at various points in the future, suggest a rise of only about 2 percent in the renminbi by the end of this year. This is basically a joke.

 

 

 

What the Chinese have done, they claim, to increase the “flexibility” of their exchange rate: it’s moving around more from day to day than it did in the past, sometimes up, sometimes down.

 

Of course, Chinese policy makers know perfectly well that although U.S. officials have indeed called for more currency flexibility, that was just a diplomatic euphemism for what America, and the world, wants (and has the right to demand): a much stronger renminbi. Having the currency bob up or down slightly makes no difference to the fundamentals.

So what comes next? China’s government is clearly trying to string the rest of us along, putting off action until something — it’s hard to say what — comes up.

That’s not acceptable. China needs to stop giving us the runaround and deliver real change. And if it refuses, it’s time to talk about trade sanctions.

 

La presa in giro del Renmimbi, di Paul Krugman

New York Times 24 giugno 2010

 

Lo scorso fine settimana la Cina ha annunciato un cambiamento nella sua politica valutaria, una mossa chiaramente indirizzata a prevenire la pressione degli Stati Uniti e degli altri paesi nell’incontro al vertice del G-20 di questo fine settimana. Sfortunatamente, la nuova politica non si rivolge al problema vero, che riguarda il fatto che la Cina sta sostenendo le sue esportazioni a scapito del resto del mondo.

Di fatto, lungi dal rappresentare un passo nella direzione giusta, l’annuncio cinese è stato un esercizio in malafede, un tentativo di utilizzare a proprio vantaggio l’insoddisfazione degli Stati Uniti. Al fine di tener bassi i toni del confronto, la amministrazione Obama ha usato un linguaggio diplomatico nei suoi sforzi per persuadere il governo cinese a porre fine al suo comportamento negativo. Per il momento, il governo cinese ha risposto facendo propria la forma del linguaggio americano ed evitando di misurarsi con la sostanza delle lamentele degli Stati Uniti. In poche parole, i cinesi stanno giocando.

Per comprendere cosa stia accadendo, abbiamo bisogno di fare un passo indietro agli aspetti di fondo della situazione.

La politica del tasso di cambio della Cina non è né complicata né senza precedenti, ad eccezione della sua effettiva dimensione. Si tratta di un classico esempio di un governo che tiene artificiosamente basso il valore in valuta estera della sua moneta, attraverso la vendita della propria valuta e l’acquisto di valuta estera. Questa politica è particolarmente efficace nel caso della Cina, giacchè esistono restrizioni legali al movimento dei capitali sia verso l’interno che verso l’esterno del paese, il che consente all’intervento statale di dominare il mercato valutario.

E la prova che la Cina sta, in effetti, mantenendo artificiosamente basso il valore della propria moneta, il renmimbi, consiste precisamente nel fatto che la Banca Centrale sta accumulando grandi quantità di dollari, di euro e di assets stranieri, per un valore di più di due mila miliardi di dollari, sino a questo punto. Sono stati tentati calcoli di ogni genere nell’intento di dimostrare che il renmimbi non sarebbe effettivamente sottovalutato, o almeno non di tanto. Ma se il renmimbi non fosse grandemente sottovalutato, perché la Cina dovrebbe acquistare circa un miliardo di dollari al giorno di valuta estera, se non per impedirgli di crescere?

L’effetto di questa sottovalutazione è duplice: essa rende i beni cinesi artificialmente economici per gli stranieri, nel contempo rende i prodotti stranieri artificialmente costosi per i cinesi. Ovvero, è come se la Cina contemporaneamente offrisse sussidi alle sue esportazioni e innalzasse tariffe protettive sulle sue importazioni.

Questa politica è molto dannosa in un periodo nel quale gran parte dell’economia mondiale resta profondamente depressa. In tempi normali, si potrebbe ritenere che gli acquisti cinesi di titoli di stato americani, pur distorcendo il commercio, almeno producano il risultato di offrirci credito a buon mercato – e si potrebbe sostenere che non è responsabilità della Cina se noi abbiamo utilizzato quel credito per gonfiare una bolla immobiliare vasta e distruttiva. Ma in questo momento noi siamo inondati da credito a buon mercato; quello che ci manca è una adeguata domanda di beni e servizi che produca i posti di lavoro che ci abbisognano. E la Cina, provocando un surplus commerciale artificiale, sta aggravando il problema.

Questo non significa, naturalmente, che la Cina guadagni dalla sua politica valutaria. Il renmimbi sottovalutato è un buon affare per le imprese esportatrici che hanno influenza negli ambienti politici. Ma queste imprese accumulano i guadagni anziché trasferire benefici ai loro lavoratori, come dimostra la recente ondata di scioperi. Nel frattempo, il renmimbi debole determina pressioni inflazionistiche e distoglie una parte rilevante del reddito nazionale della Cina in acquisti di assets stranieri con un tasso di guadagno molto basso.

Dunque, cosa c’entra con tutto ciò l’annunzio politico della scorsa settimana? Ebbene, la Cina ha permesso che il renmimbi risalga, ma minimamente. Come è accaduto giovedì, quando la valuta ha realizzato soltanto circa un mezzo punto in più del suo tipico livello precedente all’annuncio. E tutte le indicazioni dicono che aspettare il futuro movimento del renmimbi equivarrà ad una attesa molto noiosa[5]: i dirigenti cinesi stanno in tutti i modi facendo dichiarazioni per smentire che una risalita nella loro valuta possa ridurre in qualche modo gli squilibri commerciali, ed i prezzi nei cosiddetti mercati a termine, nei quali gli operatori si accordano per scambiare valute in determinati momenti del futuro, suggeriscono una crescita del renmimbi all’incirca di un solo 2 per cento  per la fine di quest’anno. In sostanza, si tratta di uno scherzo.

I Cinesi pretendono che ciò che hanno fatto comporti un incremento della “flessibilità” del loro tasso di cambio: vale a dire fare del movimento, giorno dopo giorno, un po’ di più che nel passato, qualche volta su, qualche volta giù.

Naturalmente, i responsabili della politica cinese sanno perfettamente che, sebbene i dirigenti americani si fossero in effetti espressi per una maggiore flessibilità monetaria, questo era soltanto un eufemismo diplomatico per ciò che l’America e il mondo vogliono (ed hanno il diritto di chiedere): un renmimbi più forte. Avere una valuta che va leggermente su è giù non fa alcuna differenza per gli aspetti fondamentali dell’economia.

Dunque, cosa ci aspetta? Il governo cinese sta chiaramente cercando di tener buoni[6] tutti noi, rinviando una azione effettiva a quando qualcosa – è difficile dire cosa – accadrà.

Questo non è accettabile. La Cina deve smettere di prenderci in giro e decidere un cambiamento reale. E se rifiuta di farlo, è tempo di discutere di sanzioni commerciali.

 

 

 

 

 


 

The Third Depression

By PAUL KRUGMAN
Published: June 27, 2010

Recessions are common; depressions are rare. As far as I can tell, there were only two eras in economic history that were widely described as “depressions” at the time: the years of deflation and instability that followed the Panic of 1873 and the years of mass unemployment that followed the financial crisis of 1929-31.

Neither the Long Depression of the 19th century nor the Great Depression of the 20th was an era of nonstop decline — on the contrary, both included periods when the economy grew. But these episodes of improvement were never enough to undo the damage from the initial slump, and were followed by relapses.

We are now, I fear, in the early stages of a third depression. It will probably look more like the Long Depression than the much more severe Great Depression. But the cost — to the world economy and, above all, to the millions of lives blighted by the absence of jobs — will nonetheless be immense.

 

And this third depression will be primarily a failure of policy. Around the world — most recently at last weekend’s deeply discouraging G-20 meeting — governments are obsessing about inflation when the real threat is deflation, preaching the need for belt-tightening when the real problem is inadequate spending.

 

 

In 2008 and 2009, it seemed as if we might have learned from history. Unlike their predecessors, who raised interest rates in the face of financial crisis, the current leaders of the Federal Reserve and the European Central Bank slashed rates and moved to support credit markets. Unlike governments of the past, which tried to balance budgets in the face of a plunging economy, today’s governments allowed deficits to rise. And better policies helped the world avoid complete collapse: the recession brought on by the financial crisis arguably ended last summer.

 

 

But future historians will tell us that this wasn’t the end of the third depression, just as the business upturn that began in 1933 wasn’t the end of the Great Depression. After all, unemployment — especially long-term unemployment — remains at levels that would have been considered catastrophic not long ago, and shows no sign of coming down rapidly. And both the United States and Europe are well on their way toward Japan-style deflationary traps.

 

 

In the face of this grim picture, you might have expected policy makers to realize that they haven’t yet done enough to promote recovery. But no: over the last few months there has been a stunning resurgence of hard-money and balanced-budget orthodoxy.

 

 

As far as rhetoric is concerned, the revival of the old-time religion is most evident in Europe, where officials seem to be getting their talking points from the collected speeches of Herbert Hoover, up to and including the claim that raising taxes and cutting spending will actually expand the economy, by improving business confidence. As a practical matter, however, America isn’t doing much better. The Fed seems aware of the deflationary risks — but what it proposes to do about these risks is, well, nothing. The Obama administration understands the dangers of premature fiscal austerity — but because Republicans and conservative Democrats in Congress won’t authorize additional aid to state governments, that austerity is coming anyway, in the form of budget cuts at the state and local levels.

 

 

 

Why the wrong turn in policy? The hard-liners often invoke the troubles facing Greece and other nations around the edges of Europe to justify their actions. And it’s true that bond investors have turned on governments with intractable deficits. But there is no evidence that short-run fiscal austerity in the face of a depressed economy reassures investors. On the contrary: Greece has agreed to harsh austerity, only to find its risk spreads growing ever wider; Ireland has imposed savage cuts in public spending, only to be treated by the markets as a worse risk than Spain, which has been far more reluctant to take the hard-liners’ medicine.

 

 

 

It’s almost as if the financial markets understand what policy makers seemingly don’t: that while long-term fiscal responsibility is important, slashing spending in the midst of a depression, which deepens that depression and paves the way for deflation, is actually self-defeating.

 

 

So I don’t think this is really about Greece, or indeed about any realistic appreciation of the tradeoffs between deficits and jobs. It is, instead, the victory of an orthodoxy that has little to do with rational analysis, whose main tenet is that imposing suffering on other people is how you show leadership in tough times.

 

And who will pay the price for this triumph of orthodoxy? The answer is, tens of millions of unemployed workers, many of whom will go jobless for years, and some of whom will never work again.

 

La terza depressione, di Paul Krugman

New York Times 27 giugno 2010

 

Le recessioni sono comuni; le depressioni sono rare. Per quanto posso dire, ci sono state solo due epoche nella storia dell’economia che furono generalmente descritte come “depressioni”: gli anni della deflazione e dell’instabilità che fecero seguito al Panico del 1873 e gli anni della disoccupazione di massa che vennero dopo la crisi finanziaria del 1929-31.

Né la Lunga Depressione del 19° secolo, né la Grande Depressione del 20° furono epoche di declino ininterrotto; al contrario, entrambe inclusero periodi di crescita economica. Ma questi episodi di miglioramento, non furono sufficienti ad annullare il danno della crisi iniziale, e furono seguiti da ricadute.

Siamo adesso, io temo, ai primi stadi di una terza depressione. Essa, probabilmente, assomiglierà più alla Lunga Depressione che non alla più dura Grande Depressione. Ma il costo – per l’economia mondiale e, soprattutto, per le milioni di vite degradate dalla mancanza di lavoro – sarà nondimeno immenso.

E questa terza depressione sarà, in primo luogo, conseguenza di un fallimento della politica. Dappertutto nel mondo – più recentemente in occasione dell’incontro profondamente scoraggiante del G20 dello scorso fine settimana – i governi sono ossessionati dall’inflazione, quando la reale minaccia è la deflazione, e predicano la necessità di stringere la cinghia, quando il problema reale è la spesa pubblica inadeguata.

Nel 2008 e nel 2009, sembrava che avremmo potuto trarre profitto dalle lezioni della storia. Diversamente dai loro predecessori, che di fronte alla crisi finanziaria avevano innalzato i tassi di interesse, i dirigenti attuali della Federal Reserve e della Banca Centrale Europea avevano tagliato i tassi e si erano mossi per sostenere i mercati creditizi. Diversamente dai governi del passato, che dinanzi al crollo dell’economia avevano provato a riequilibrare i bilanci, i governi di oggi hanno consentito al deficit di crescere. E quelle migliori politiche hanno aiutato il mondo ad evitare un completo collasso: la recessione prodotta dalla crisi finanziaria probabilmente ha avuto termine la scorsa estate.

Ma gli storici del futuro ci diranno che quella non è stata la fine della terza depressione, esattamente come la ripresa degli affari che ebbe inizio nel 1933 non fu la fine della Grande Depressione. In fin dei conti, la disoccupazione – specialmente la disoccupazione di lungo periodo – resta a livelli che sarebbero stati considerati catastrofici sino a non molto tempo fa, e non mostra alcun segno di rapida discesa. E sia gli Stati Uniti che l’Europa sono ben instradati nella direzione di una trappola deflazionistica del genere di quella giapponese.

Di fronte a questo quadro sconfortante, ci si sarebbe aspettati che i responsabili politici comprendessero che non avevano fatto abbastanza per promuovere la ripresa. Invece no: negli ultimi pochi mesi si è assistito ad una stupefacente rinascita delle ortodossie della severità moneteria e del riequilibrio dei bilanci.

A giudicare dalla abbondanza della retorica, il ritorno di questa vecchia religione è massimamente evidente in Europa, dove i dirigenti sembrano aver mutuato i loro argomenti di conversazione dai discorsi scelti di Herbert Hoover[7], inclusa la pretesa che la crescita delle tasse e i tagli alla spesa pubblica comporteranno effettivamente una espansione dell’economia, migliorando la fiducia degli uomini d’affari.  Da un punto di vista pratico, tuttavia, l’America non sta facendo molto di più. La Fed sembra consapevole dei rischi deflazionistici, ma ciò che propone di fare a proposito di questi rischi, in sostanza, equivale a niente. La amministrazione Obama comprende i pericoli di una prematura austerità finanziaria – ma poiché i Repubblicani ed i Democratici conservatori non autorizzeranno alcun aiuto ulteriore ai governi degli Stati, quella austerità in ogni caso sta arrivando, nella forma di tagli ai bilanci ai livelli statali e locali[8].

Perché questa svolta sbagliata della politica? I custodi severi dell’ortodossia invocano di solito i guai dinanzi ai quali si trovano la Grecia e le altre nazioni ai margini dell’Europa, per giustificare le loro azioni. Ed è vero che gli investitori nei bonds hanno eccitato l’attenzione dei governi con deficit ingestibili. Ma non c’è alcuna evidenza che una austerità nella gestione finanziaria di breve periodo di fronte all’economia depressa riassicuri gli investitori. Al contrario: la Grecia ha condiviso una austerità feroce, solo per scoprire che il suo rischio si espande con una crescita sempre più ampia; l’Irlanda ha imposto tagli selvaggi alla spesa pubblica, ed alla fine è stata trattata dai mercati come un rischio peggiore della Spagna, che è stata assai più riluttante nell’assumere la medicina dei custodi dell’ortodossia.

E’ quasi come se i mercati finanziari capissero quello che i responsabili politici sembrano non capire: che mentre la responsabilità finanziaria è importante nel lungo periodo, ridurre drasticamente la spesa nel mezzo di una depressione, scelta che approfondisce la depressione e prepara la strada alla deflazione, equivale a farsi del male.

Dunque io non penso che tutto ciò abbia a che fare effettivamente con la Grecia, o per davvero con un qualche realistica valutazione dei rapporti tra deficit e posti di lavoro. Si tratta, piuttosto, della vittoria di una ortodossia che ha poco a che fare con l’analisi razionale, il cui principale assunto consiste nel ritenere che imporre sofferenze agli altri in tempi di crisi è il modo in cui si dimostra capacità di direzione.

E chi pagherà il prezzo di questo trionfo dell’ortodossia? La risposta è: decine di milioni di lavoratori disoccupati, molti dei quali resteranno senza lavoro per anni, e alcuni dei quali non lavoreranno più.  

 

 

 


 

Myths of Austerity

By PAUL KRUGMAN
Published: July 1, 2010

When I was young and naïve, I believed that important people took positions based on careful consideration of the options. Now I know better. Much of what Serious People believe rests on prejudices, not analysis. And these prejudices are subject to fads and fashions.

Which brings me to the subject of today’s column. For the last few months, I and others have watched, with amazement and horror, the emergence of a consensus in policy circles in favor of immediate fiscal austerity. That is, somehow it has become conventional wisdom that now is the time to slash spending, despite the fact that the world’s major economies remain deeply depressed.

 

 

This conventional wisdom isn’t based on either evidence or careful analysis. Instead, it rests on what we might charitably call sheer speculation, and less charitably call figments of the policy elite’s imagination — specifically, on belief in what I’ve come to think of as the invisible bond vigilante and the confidence fairy.

 

Bond vigilantes are investors who pull the plug on governments they perceive as unable or unwilling to pay their debts. Now there’s no question that countries can suffer crises of confidence (see Greece, debt of). But what the advocates of austerity claim is that (a) the bond vigilantes are about to attack America, and (b) spending anything more on stimulus will set them off.

 

 

 

What reason do we have to believe that any of this is true? Yes, America has long-run budget problems, but what we do on stimulus over the next couple of years has almost no bearing on our ability to deal with these long-run problems. As Douglas Elmendorf, the director of the Congressional Budget Office, recently put it, “There is no intrinsic contradiction between providing additional fiscal stimulus today, while the unemployment rate is high and many factories and offices are underused, and imposing fiscal restraint several years from now, when output and employment will probably be close to their potential.”

 

 

Nonetheless, every few months we’re told that the bond vigilantes have arrived, and we must impose austerity now now now to appease them. Three months ago, a slight uptick in long-term interest rates was greeted with near hysteria: “Debt Fears Send Rates Up,” was the headline at The Wall Street Journal, although there was no actual evidence of such fears, and Alan Greenspan pronounced the rise a “canary in the mine.”

 

 

Since then, long-term rates have plunged again. Far from fleeing U.S. government debt, investors evidently see it as their safest bet in a stumbling economy. Yet the advocates of austerity still assure us that bond vigilantes will attack any day now if we don’t slash spending immediately.

 

 

 

But don’t worry: spending cuts may hurt, but the confidence fairy will take away the pain. “The idea that austerity measures could trigger stagnation is incorrect,” declared Jean-Claude Trichet, the president of the European Central Bank, in a recent interview. Why? Because “confidence-inspiring policies will foster and not hamper economic recovery.”

 

What’s the evidence for the belief that fiscal contraction is actually expansionary, because it improves confidence? (By the way, this is precisely the doctrine expounded by Herbert Hoover in 1932.) Well, there have been historical cases of spending cuts and tax increases followed by economic growth. But as far as I can tell, every one of those examples proves, on closer examination, to be a case in which the negative effects of austerity were offset by other factors, factors not likely to be relevant today. For example, Ireland’s era of austerity-with-growth in the 1980s depended on a drastic move from trade deficit to trade surplus, which isn’t a strategy everyone can pursue at the same time.

 

 

 

And current examples of austerity are anything but encouraging. Ireland has been a good soldier in this crisis, grimly implementing savage spending cuts. Its reward has been a Depression-level slump — and financial markets continue to treat it as a serious default risk. Other good soldiers, like Latvia and Estonia, have done even worse — and all three nations have, believe it or not, had worse slumps in output and employment than Iceland, which was forced by the sheer scale of its financial crisis to adopt less orthodox policies.

 

So the next time you hear serious-sounding people explaining the need for fiscal austerity, try to parse their argument. Almost surely, you’ll discover that what sounds like hardheaded realism actually rests on a foundation of fantasy, on the belief that invisible vigilantes will punish us if we’re bad and the confidence fairy will reward us if we’re good. And real-world policy — policy that will blight the lives of millions of working families — is being built on that foundation.

 

Miti dell’austerità, di Paul Krugman

New York Times 1 luglio 2010

 

Quando ero giovane ed ingenuo, credevo che le persone importanti prendessero posizione sulla base di una accurata valutazione delle diverse opzioni. Ora ne so di più. Molto di quello che credono le Persone Serie si basa su pregiudizi, non su analisi. E questi pregiudizi sono soggetti ai capricci ed alle mode.

La quale considerazione mi porta al tema dell’articolo di oggi. Negli ultimi mesi[9] io ed altri abbiamo assistito, con stupore e raccapriccio, all’emergere di un consenso, nei circoli della politica, per una immediata austerità finanziaria. Vale a dire che, in qualche modo, è diventato giudizio comune[10] che adesso sarebbe venuto il momento di ridurre drasticamente la spesa pubblica, nonostante il fatto che le principali economie mondiali restino profondamente depresse.

Questo diffuso pregiudizio non è basato né su una qualche evidenza, né su una analisi accurata. Si fonda piuttosto su qualcosa che potremmo chiamare con indulgenza una pura teoria, e con meno indulgenza come un parto della immaginazione politica dei gruppi dominanti; in particolare, affidandosi a qualcosa che sono arrivato a immaginare come l’invisibile custode delle obbligazioni e come la fata turchina della fiducia in se stessi[11].

I custodi delle obbligazioni sono investitori che staccano la spina[12] agli stati privi di capacità o di voglia di onorare i propri debiti. Ora, non c’è alcun dubbio che i paesi possono finire in sofferenza per crisi di fiducia (vedi il debito della Grecia[13]). Ma quello che i sostenitori dell’austerità pretendono è che: a) i custodi delle obbligazioni siano prossimi ad una offensiva contro l’America; b) spendere qualcosa di più per il sostegno all’economia li farebbe scattare[14]all’istante.

Quale ragione abbiamo per credere che in questo ci sia qualcosa di vero? E’ vero, l’America ha problemi di bilancio a lungo termine, ma quello che stiamo facendo con il sostegno all’economia non incide quasi per niente sulla nostra capacità di misurarci con questi problemi di lungo periodo. Come Douglas Elmendorf, il direttore del Congressional Budget Office, ha di recente sottolineato: “Non c’è alcuna intrinseca contraddizione tra la previsione attuale di un sostegno finanziario aggiuntivo, nel mentre il tasso di disoccupazione è elevato e molti fattori e servizi sono sottoutilizzati, ed una stretta alla imposizione fiscale tra qualche anno, quando il prodotto e l’occupazione saranno probabilmente vicini alle loro potenzialità”.

Cionondimeno, con la frequenza di pochi mesi, ci viene detto che il custodi delle obbligazioni sono arrivati e che è necessario imporre l’austerità senza perdere un istante, al fine di tranquillizzarli. Tre mesi fa, un lieve incremento dei tassi di interesse a lungo termine è stato accolto quasi con isteria: “Le paure del debito fanno salire i tassi”, era il titolo di testa di The Wall Street Journal, sebbene non ci fosse alcuna effettiva prova di paure del genere, ed Alan Greenspan definì l’aumento come un “canarino nella miniera[15]”.

Da allora, i tassi a lungo termine sono calati nuovamente. Lungi dal fuggire dal debito statale americano, evidentemente gli investitori lo considerano come la scommessa più sicura in una economia periclitante. Tuttavia, i sostenitori dell’austerità tornano ad assicurarci che i custodi delle obbligazioni, prima o poi, attaccheranno nuovamente se non si procederà subito ad una riduzione drastica della spesa.

Ma non c’è da preoccuparsi: i tagli alla spesa possono far male, ma la fata turchina della fiducia in se stessi ci toglierà dai guai. “L’idea che le misure di austerità possano innescare una stagnazione non è corretta” ha dichiarato, in una recente intervista, Jean-Claude Trichet, presidente della Banca Centrale Europea. Come mai? Perché “le politiche che ispirano fiducia favoriranno e non ostacoleranno la ripresa economica”.

Quale è la prova per la convinzione che una stretta finanziaria abbia, nelle condizioni attuali, effetti espansivi, in quanto migliorerebbe la fiducia (la qual cosa, per inciso, fu precisamente la teoria esposta da Herbert Hoover nel 1932)?  Ebbene, ci sono stati casi nei quali i tagli alle spese e gli incrementi fiscali sono stati seguiti da una crescita economica. Ma, per quanto posso dirvi, ognuno di questi esempi si dimostra, ad un esame più ravvicinato, come un caso nel quale gli effetti negativi dell’austerità sono stati bilanciati da altri fattori, fattori che non è probabile abbiano effetto oggi. Per esempio, l’epoca della austerità accompagnata da crescita nell’Irlanda degli anni 80, dipese da un repentino spostamento da un deficit commerciale ad un surplus commerciale, e quella non è una strategia che si possa facilmente replicare[16].

E gli esempi di austerità in corso sono tutto meno che incoraggianti. L’Irlanda è stata un buon soldato in questa crisi, accumulando in modo accanito selvaggi tagli alla spesa. E’ stata ricompensata da una caduta delle dimensioni di una depressione e i mercati finanziari continuano a trattarla come un caso di serio rischio di default. Altri buoni soldati, come la Lettonia e l’Estonia, hanno fatto persino peggio, e tutte e tre le nazioni, lo si creda o no, registrano cadute nella produzione e nell’occupazione peggiori dell’Islanda, che è stata costretta dalla vastità[17] della sua crisi finanziaria ad adottare politiche meno ortodosse.

Dunque, la prossima volta che ascoltate persone apparentemente affidabili[18] che spiegano la necessità dell’austerità finanziaria, sottoponete ad una analisi logica[19] i loro argomenti. Quasi sicuramente scoprirete che quello che sembra un pratico realismo, effettivamente si basa su fondamenta fantastiche, sulla convinzione che i custodi invisibili ci puniranno se siamo cattivi e che la fata turchina ci ricompenserà se siamo buoni. Ed è su queste basi che si sta costruendo la politica del mondo reale, quella politica che porterà al degrado le vite di milioni di famiglie di lavoratori.

 

 


 

Punishing the Jobless

By PAUL KRUGMAN
Published: July 4, 2010

There was a time when everyone took it for granted that unemployment insurance, which normally terminates after 26 weeks, would be extended in times of persistent joblessness. It was, most people agreed, the decent thing to do.

But that was then. Today, American workers face the worst job market since the Great Depression, with five job seekers for every job opening, with the average spell of unemployment now at 35 weeks. Yet the Senate went home for the holiday weekend without extending benefits. How was that possible?

 

 

The answer is that we’re facing a coalition of the heartless, the clueless and the confused. Nothing can be done about the first group, and probably not much about the second. But maybe it’s possible to clear up some of the confusion.

By the heartless, I mean Republicans who have made the cynical calculation that blocking anything President Obama tries to do — including, or perhaps especially, anything that might alleviate the nation’s economic pain — improves their chances in the midterm elections. Don’t pretend to be shocked: you know they’re out there, and make up a large share of the G.O.P. caucus.

 

By the clueless I mean people like Sharron Angle, the Republican candidate for senator from Nevada, who has repeatedly insisted that the unemployed are deliberately choosing to stay jobless, so that they can keep collecting benefits. A sample remark: “You can make more money on unemployment than you can going down and getting one of those jobs that is an honest job but it doesn’t pay as much. We’ve put in so much entitlement into our government that we really have spoiled our citizenry.”

 

 

Now, I don’t have the impression that unemployed Americans are spoiled; desperate seems more like it. One doubts, however, that any amount of evidence could change Ms. Angle’s view of the world — and there are, unfortunately, a lot of people in our political class just like her.

 

But there are also, one hopes, at least a few political players who are honestly misinformed about what unemployment benefits do — who believe, for example, that Senator Jon Kyl, Republican of Arizona, was making sense when he declared that extending benefits would make unemployment worse, because “continuing to pay people unemployment compensation is a disincentive for them to seek new work.” So let’s talk about why that belief is dead wrong.

 

 

Do unemployment benefits reduce the incentive to seek work? Yes: workers receiving unemployment benefits aren’t quite as desperate as workers without benefits, and are likely to be slightly more choosy about accepting new jobs. The operative word here is “slightly”: recent economic research suggests that the effect of unemployment benefits on worker behavior is much weaker than was previously believed. Still, it’s a real effect when the economy is doing well.

 

 

But it’s an effect that is completely irrelevant to our current situation. When the economy is booming, and lack of sufficient willing workers is limiting growth, generous unemployment benefits may keep employment lower than it would have been otherwise. But as you may have noticed, right now the economy isn’t booming — again, there are five unemployed workers for every job opening. Cutting off benefits to the unemployed will make them even more desperate for work — but they can’t take jobs that aren’t there.

 

Wait: there’s more. One main reason there aren’t enough jobs right now is weak consumer demand. Helping the unemployed, by putting money in the pockets of people who badly need it, helps support consumer spending. That’s why the Congressional Budget Office rates aid to the unemployed as a highly cost-effective form of economic stimulus. And unlike, say, large infrastructure projects, aid to the unemployed creates jobs quickly — while allowing that aid to lapse, which is what is happening right now, is a recipe for even weaker job growth, not in the distant future but over the next few months.

 

 

 

But won’t extending unemployment benefits worsen the budget deficit? Yes, slightly — but as I and others have been arguing at length, penny-pinching in the midst of a severely depressed economy is no way to deal with our long-run budget problems. And penny-pinching at the expense of the unemployed is cruel as well as misguided.

 

So, is there any chance that these arguments will get through? Not, I fear, to Republicans: “It is difficult to get a man to understand something,” said Upton Sinclair, “when his salary” — or, in this case, his hope of retaking Congress — “depends upon his not understanding it.” But there are also centrist Democrats who have bought into the arguments against helping the unemployed. It’s up to them to step back, realize that they have been misled — and do the right thing by passing extended benefits.

 

La punizione dei disoccupati, di Paul Krugman

New York Times 4 luglio 2010

C’era un tempo nel quale tutti consideravano sicuro che l’indennità di disoccupazione, che normalmente termina dopo 26 settimane, sarebbe stata prolungata, in un epoca di disoccupazione persistente. Questa sarebbe stata, secondo l’opinione di gran parte delle persone, la cosa dignitosa da fare.

Ma questo avveniva un tempo. Oggi i lavoratori americani fanno i conti con il peggior mercato del lavoro dai tempi della Grande Depressione, con un rapporto di cinque ad uno tra chi cerca lavoro ed i posti disponibili, con un periodo medio di disoccupazione che è adesso a 35 settimane. Ciononostante, il Senato si è sciolto per il fine settimana festivo rifiutando di prolungare l’indennità. Come è stato possibile?

La risposta è che dobbiamo fronteggiare una coalizione di persone senza pietà, incapaci e confuse. Non si può far niente con i primi e probabilmente non si può far molto neanche con i secondi. Ma forse è possibile un qualche chiarimento con i confusi.

Tra coloro che sono senza pietà, considero i Repubblicani, che hanno fatto il cinico calcolo secondo il quale bloccando ogni iniziativa del Presidente Obama – inclusa, o forse in particolare, ogni cosa che possa mitigare le sofferenze economiche del paese – migliorano le loro possibilità nelle elezioni di medio termine. Non facciamo finta di esserne sorpresi[20]: si sa che essi esistono[21] e che sono una larga fetta[22] del gruppo dirigente del G.O.P.

Per gli incapaci, mi riferisco a persone come Sharron Angle, la candidata repubblicana del Nevada al Senato che ha più volte affermato che i disoccupati starebbero deliberatamente scegliendo di restare senza lavoro, in modo da ottenere i benefici fiscali[23]. Un esempio del suo modo di ragionare[24]: “Si può fare più soldi con la disoccupazione che andandosene in giro[25] e mettendosi a fare uno di quei lavori che, pur essendo lavori onesti, sono poco pagati. Abbiamo ficcato tanti di quei diritti nel nostro Stato[26], che abbiamo letteralmente viziato[27] la nostra cittadinanza”.

Ora, io non ho l’impressione che gli americani disoccupati siano viziati; disperati sembrerebbe un’espressione più adatta. Si deve dubitare, tuttavia, che il peso di una qualsiasi dimostrazione[28] cambierebbe mai la concezione del mondo della Signora Angle, ed esistono, sfortunatamente, una quantità di persone, nella nostra classe politica, del tutto simili a lei.

Ma ci sono anche, si può sperare, almeno una piccola quantità di operatori politici che sono in buona fede disinformati su cosa comportino i benefici di disoccupazione – che credono, ad esempio, quello a cui intendeva riferirsi il Senatore Jon Kyl, repubblicano dell’Arkansas, quando ha dichiarato che l’estensione di tali benefici avrebbe reso la disoccupazione anche più grave, giacché “continuare a pagare alla gente il sussidio di disoccupazione è un disincentivo per loro a cercarsi nuovi lavori”. Vediamo, dunque, perché questa convinzione è completamente infondata.

I sussidi di disoccupazione riducono l’incentivo a cercare lavoro? Si: i lavoratori che ricevono l’indennità di disoccupazione non sono altrettanto disperati dei lavoratori senza sussidi, ed è probabile che siano leggermente più esigenti nell’accettare nuovi lavori. La parola chiave è “leggermente”: recenti ricerche economiche suggeriscono che l’effetto delle indennità di disoccupazione sul comportamento di un lavoratore è molto più debole di quanto si ritenesse in precedenza. Tuttavia, si tratta di un effetto reale, quando l’economia procede positivamente.

Ma un tale effetto è del tutto irrilevante nella situazione attuale. Quando l’economia è in forte crescita e la mancanza di una adeguata buona volontà dei lavoratori è un limite allo sviluppo, generosi sussidi di disoccupazione possono ridurre l’impiego rispetto a quanto avverrebbe in altro modo. Ma come può darsi che sappiate, in questo momento l’economia non è in forte crescita; ripetiamo che vi sono cinque lavoratori disoccupati per ogni posto di lavoro che si rende disponibile. Tagliare i sussidi ai disoccupati li renderà ancora più disperati per il lavoro, ma essi non possono accettare impieghi che non ci sono.

Aspettate: c’è di più. Una principale ragione per la quale non ci sono sufficienti posti di lavoro in questo momento è la debole domanda di consumi. Aiutando i disoccupati, mettendo soldi in tasca alla gente che ne ha un estremo bisogno[29], si offre un sostegno alla spesa per i consumi. Quella è la ragione per la quale il Congressional Budget Office stima l’aiuto ai disoccupati come una forma di sostegno all’economia altamente efficace in rapporto ai costi. Al contrario, sempre a questo proposito, se vasti progetti infrastrutturali aiutano i disoccupati con la creazione di impieghi rapidi, permettere che quella forma di aiuto vada in scadenza, che è quanto sta succedendo adesso, è una ricetta per una crescita dell’occupazione ancora più debole, non in un lontano futuro ma nei prossimi mesi.

Ma, l’estensione dei sussidi di disoccupazione non aggraverà il deficit di bilancio? Si, leggermente; ma, come il sottoscritto ed altri vengono sostenendo da tempo, lesinare le spese nel mezzo di una economia fortemente depressa non è un modo per confrontarsi con i problemi del bilancio nel lungo periodo. E lesinare  le spese per i disoccupati è crudele oltre che fuorviante.

Dunque, c’è una qualche possibilità che questi argomenti arrivino a destinazione[30]? Temo di no, nel caso dei Repubblicani; “E’ difficile mettere un individuo nella condizione di intendere qualcosa”, disse Upton Sinclair, “se il suo stipendio” – o, in questo caso, la sua speranza di riconquistare un posto al Congresso – “dipende dal fatto che non la capisca”. Ma ci sono anche i Democratici di centro, che hanno fatto propri gli argomenti contro il sostegno ai disoccupati. Sono loro[31] che dovrebbero fare un passo indietro e capire di aver frainteso, sono loro che dovrebbero fare la cosa giusta approvando un prolungamento delle indennità.

 

 

 

Pity the Poor C.E.O.’s

By PAUL KRUGMAN

Published: July 8, 2010

Job creation has been disappointing, but first-quarter corporate profits were up 44 percent from a year earlier. Consumers are nervous, but the Dow, which was below 8,000 on the day President Obama was inaugurated, is now over 10,000. In a rational universe, American business would be very happy with Mr. Obama.

 

But no. All the buzz lately is that the Obama administration is “antibusiness.” And there are widespread claims that fears about taxes, regulation and budget deficits are holding down business spending and blocking economic recovery.

 

How much truth is there to these claims? None. Business spending is indeed low, but no lower than one would have expected given widespread overcapacity and weak consumer spending. Business leaders are feeling unloved, but giving them a group hug won’t cure what ails the economy.

 

Ask the Obama-is-scaring-business crowd for some actual evidence supporting their claim, and they’ll tell you that business spending on plant and equipment is at its lowest level, as a share of G.D.P., in 40 years. What they don’t mention is the fact that business investment always falls sharply when the economy is depressed. After all, why should businesses expand their production capacity when they’re not selling enough to use the capacity they already have? And in case you haven’t noticed, we still have a deeply depressed economy.

 

 

 

Historically, there has been a close relationship between the level of business investment and the “output gap,” the difference between the economy’s actual output and its long-run trend — which means that there’s nothing surprising about low investment now, given the fact that the output gap is hugely negative. If anything, it’s surprising how well business investment has been holding up.

Alternatively, we can look directly at measures of unused business capacity. Capacity utilization in industry is up over the past year, but still far below historical norms. Vacancy rates at industrial and retail properties are at historic highs. Again, given that businesses have plenty of idle structures and machines, why should they be building or buying even more?

 

 

 

So where’s the evidence that an antibusiness climate is depressing spending? The answer, supposedly, is that this is what you hear when you talk to entrepreneurs. But don’t believe it. Yes, when you talk to business people they complain about taxes, regulations and the deficit; they always do. But the Obama’s-socialist-policies-are-wrecking-the-economy chorus isn’t coming from businesses; it’s coming from business lobbyists, which isn’t at all the same thing. Read the report on the U.S. Chamber of Commerce in the latest Washington Monthly: peddling scare stories about what Democrats are up to is a large part of what organizations like the chamber do for a living.

 

 

Or read through the latest survey of small business trends by the National Federation for Independent Business, an advocacy group. The commentary at the front of the report is largely a diatribe against government — “Washington is applying leeches and performing blood-letting as a cure” — and you might naïvely imagine that this diatribe reflects what the surveyed businesses said. But while a few businesses declared that the political climate was deterring expansion, they were vastly outnumbered by those citing a poor economy.

 

 

The charts at the back of the report, showing trends in business perceptions of their “most important problem,” are even more revealing. It turns out that business is less concerned about taxes and regulation than during the 1990s, an era of booming investment. Concerns about poor sales, on the other hand, have surged. The weak economy, not fear about government actions, is what’s holding investment down.

 

So why are we hearing so much about the alleged harm being inflicted by an antibusiness climate? For the most part it’s the same old, same old: lobbyists trying to bully Washington into cutting taxes and dismantling regulations, while extracting bigger fees from their clients along the way.

 

Beyond that, business leaders are, as I said, feeling unloved: the financial crisis, health insurance scandals, and the catastrophe in the Gulf of Mexico have taken a toll on their reputation. Somehow, however, rather than blaming their peers for bad behavior, C.E.O.’s blame Mr. Obama for “demonizing” business — by which they apparently mean speaking frankly about the culpability of the guilty parties.

 

 

Well, C.E.O.’s are people, too — but soothing their hurt feelings isn’t a priority right now, and it has nothing at all to do with promoting economic recovery. If we want stronger business spending, we need to give businesses a reason to spend. And to do that, the government needs to start doing more, not less, to promote overall economic recovery.

 

Compassione per i poveri amministratori delegati[32], di Paul Krugman

New York Times 8 luglio 2010

La creazione di posti di lavoro è stata deludente, ma i profitti di impresa del primo trimestre sono saliti del 44 per cento dagli inizi dell’anno. I consumatori sono inquieti, ma l’indice Dow, che era sotto quota 8.000 il giorno in cui fu inaugurata la presidenza Obama, ora è sopra 10.000. In un mondo razionale, gli uomini d’affari[33] americani dovrebbero essere molto grati ad Obama.

Invece non è così. Tutto il recente chiacchiericcio[34] è relativo al fatto che la amministrazione Obama sarebbe “contro gli affari”. E ci sono lamentele diffuse secondo le quali i timori per le tasse, per le regolamentazioni e per i deficit di bilancio terrebbero ferma la spesa delle imprese e impedirebbero la ripresa economica.

Quanto c’è di vero in queste lamentele? Proprio niente. La spesa delle imprese è in effetti bassa, ma non più bassa di quanto ci si sarebbe aspettati, considerata la generale sovracapacità produttiva e la debole spesa per consumi. I dirigenti del mondo degli affari non si sentono amati[35], ma stringerli tutti in un affettuoso abbraccio non curerà i mali dell’economia.

Chiedete alla folla degli “Obama-sta-spaventando-gli-affari” una qualche prova a sostegno delle loro lamentele, e vi diranno che la spesa delle imprese per impianti e attrezzature è al suo livello più basso, in percentuale sul PIL, da 40 anni. Quello che non vi diranno è che gli investimenti delle imprese cadono sempre bruscamente quando l’economia è depressa. Dopo tutto, perché gli uomini d’affari dovrebbero espandere la loro capacità produttiva, nel momento in cui non riescono a vendere abbastanza da utilizzare la capacità che già possiedono? E, se per ipotesi non ve l’avessero riferito, noi abbiamo ancora un’economia profondamente depressa.

Nelle serie storiche, si è in presenza di una stretta connessione tra i livelli degli investimenti delle imprese e il “divario della produzione[36]” (la differenza, cioè, tra la produzione attuale dell’economia e le sue tendenze di lungo periodo), il che significa che non c’è niente di sorprendente nei bassi investimenti attuali, considerato il fatto che il “divario della produzione” è ampiamente negativo. Semmai, è sorprendente come gli investimenti abbiano retto.

In alternativa, si può guardare direttamente ai dati della produttività inutilizzata delle imprese. La utilizzazione dei fattori produttivi nell’industria è superiore a quella dell’anno passato, ma assai inferiore rispetto alle serie storiche. I tassi di non utilizzo nell’industria e nelle attività di vendita al minuto sono a livelli storicamente elevati. Di nuovo: considerato che gli uomini d’affari sono al massimo del non utilizzo delle strutture e dei macchinari, perché dovrebbero costruirne od acquistarne di più ancora?

Dov’è, dunque, la prova che un clima ostile agli affari starebbe deprimendo la spesa? La risposta, suppongo, vada cercata in quello che si sente dire quando si parla con gli imprenditori. Ma non c’è da crederci. E’ vero, quando si parla con uomini d’affari essi si lamentano della tasse, dei regolamenti e del deficit: lo fanno sempre. Ma il coro dei “le politiche-socialiste-di-Obama-stanno-demolendo-l’economia” non viene dagli uomini d’affari: viene dalle lobbies delle imprese, che non sono affatto la stessa cosa. Si legga il rapporto della Camera di Commercio degli Stati Uniti sull’ultimo numero della Washington Monthly: mettere in giro storie su quello che i Democratici starebbero per fare è una parte importante di quello che organizzazioni come le Camere fanno per vivere.

Oppure si dia un’occhiata all’ultimo sondaggio sulle tendenze delle piccole imprese a cura della National Federation for Independent Business, un gruppo di pressione. Il commento nella presentazione del rapporto è in gran parte un atto di accusa[37] contro il Governo – “Washington sta applicando sanguisughe e utilizzando salassi come cure” – e voi ingenuamente potreste immaginare che tale polemica rifletta quanto è stato detto dagli uomini di affari oggetto dell’indagine. Ma, mentre un numero modesto di imprenditori ha dichiarato che il clima politico ha funzionato come deterrente all’espansione, un numero di gran lunga superiore ha messo in evidenza la debolezza della situazione economica.

Le pagine della parte finale del rapporto, che mostrano le tendenze nella percezione da parte delle imprese dei loro “problemi fondamentali”, sono ancora più rivelatrici. Emerge che le imprese sono meno preoccupate dalle tasse e dai regolamenti di quanto non lo fossero durante gli anni 90, un epoca di boom degli investimenti. Di contro, sono cresciute le preoccupazioni sui modesti volumi delle vendite. Quello che tiene bassi gli investimenti è l’economia debole, non la paura per le iniziative del governo.

Perché dunque si sente tanto parlare dei presunti danni che sarebbero provocati da un clima ostile alle imprese? In gran parte si tratta della solita vecchia storia: i lobbisti cercano di fare i prepotenti con Washington per ottenere sgravi fiscali e smantellare le regole, nel mentre, strada facendo, spremono onorari sempre più elevati dai loro clienti.

Oltre a ciò, i dirigenti delle imprese, come ho detto, non si sentono amati: la crisi finanziaria, gli scandali delle assicurazioni sanitarie e la catastrofe del Golfo del Messico, hanno provocato gravi perdite alla loro reputazione. In qualche modo, tuttavia, anziché incolpare i loro colleghi per le cattive condotte, i dirigenti delle imprese danno la responsabilità ad Obama di un clima di ‘demonizzazione’ degli affari – con il che essi, a quanto sembra, intendono mettere senza infingimenti in stato di accusa i partiti responsabili.

Ebbene, i dirigenti delle imprese sono anch’essi parte del popolo, ma placare la loro sensibilità ferita non è in questo momento prioritario e non ha niente a che fare con la promozione di una ripresa dell’economia. Se essi vogliono una spesa più forte da parte delle imprese, noi dobbiamo dare alle imprese una ragione per spendere. E per farlo, il governo ha bisogno di cominciare a fare di più, non di meno, per promuovere una generale ripresa dell’economia.

 

 

The Feckless Fed

By PAUL KRUGMAN
Published: July 11, 2010

Back in 2002, a professor turned Federal Reserve official by the name of Ben Bernanke gave a widely quoted speech titled “Deflation: Making Sure ‘It’ Doesn’t Happen Here.” Like other economists, myself included, Mr. Bernanke was deeply disturbed by Japan’s stubborn, seemingly incurable deflation, which in turn was “associated with years of painfully slow growth, rising joblessness, and apparently intractable financial problems.” This sort of thing wasn’t supposed to happen to an advanced nation with sophisticated policy makers. Could something similar happen to the United States?

 

Not to worry, said Mr. Bernanke: the Fed had the tools required to head off an American version of the Japan syndrome, and it would use them if necessary.

 

Today, Mr. Bernanke is the Fed’s chairman — and his 2002 speech reads like famous last words. We aren’t literally suffering deflation (yet). But inflation is far below the Fed’s preferred rate of 1.7 to 2 percent, and trending steadily lower; it’s a good bet that by some measures we’ll be seeing deflation by sometime next year. Meanwhile, we already have painfully slow growth, very high joblessness, and intractable financial problems. And what is the Fed’s response? It’s debating — with ponderous slowness — whether maybe, possibly, it should consider trying to do something about the situation, one of these days.

 

 

The Fed’s fecklessness is, to be sure, not unique. It has been astonishing and infuriating, as the economic crisis has unfolded, to watch America’s political class defining normalcy down. As recently as two years ago, anyone predicting the current state of affairs (not only is unemployment disastrously high, but most forecasts say that it will stay very high for years) would have been dismissed as a crazy alarmist. Now that the nightmare has become reality, however — and yes, it is a nightmare for millions of Americans — Washington seems to feel absolutely no sense of urgency. Are hopes being destroyed, small businesses being driven into bankruptcy, lives being blighted? Never mind, let’s talk about the evils of budget deficits.

 

 

Still, one might have hoped that the Fed would be different. For one thing, the Fed, unlike the Obama administration, retains considerable freedom of action. It doesn’t need 60 votes in the Senate; the outer limits of its policies aren’t determined by the views of senators from Nebraska and Maine. Beyond that, the Fed was supposed to be intellectually prepared for this situation. Mr. Bernanke has thought long and hard about how to avoid a Japanese-style economic trap, and the Fed’s researchers have been obsessed for years with the same question.

 

But here we are, visibly sliding toward deflation — and the Fed is standing pat.

 

What should it be doing? Conventional monetary policy, in which the Fed drives down short-term interest rates by buying short-term U.S. government debt, has reached its limit: those short-term rates are already near zero, and can’t go significantly lower. (Investors won’t buy bonds that yield negative interest, since they can always hoard cash instead.) But the message of Mr. Bernanke’s 2002 speech was that there are other things the Fed can do. It can buy longer-term government debt. It can buy private-sector debt. It can try to move expectations by announcing that it will keep short-term rates low for a long time. It can raise its long-run inflation target, to help convince the private sector that borrowing is a good idea and hoarding cash a mistake.

 

 

 

 

Nobody knows how well any one of these actions would work. The point, however, is that there are things the Fed could and should be doing, but isn’t. Why not?

After all, Fed officials, like most observers, have a fairly grim view of the economy’s prospects. Not grim enough, in my view: Fed presidents, who make forecasts every time the committee that sets interest rates meets, aren’t taking the trend toward deflation sufficiently seriously. Nonetheless, even their projections show high unemployment and below-target inflation persisting at least through late 2012.

 

 

So why not try to do something about it? The closest thing I’ve seen to an explanation is a recent speech by Kevin Warsh of the Fed’s Board of Governors, in which he declared that doing what Mr. Bernanke recommended back in 2002 risked undermining the Fed’s “institutional credibility.” But how, exactly, does it serve the Fed’s credibility when it fails to confront high unemployment, while consistently missing its own inflation targets? How credible is the Bank of Japan after presiding over 15 years of deflation?

 

 

Whatever is going on, the Fed needs to rethink its priorities, fast. Mr. Bernanke’s “it” isn’t a hypothetical possibility, it’s on the verge of happening. And the Fed should be doing all it can to stop it.

 

 

L’inazione[38] della Fed, di Paul Krugman

New York Times 11 luglio 2010

 

Nel passato 2002, un professore divenuto dirigente della Federal Reserve dal nome di Ben Bernanke pronunciò un discorso che fu apprezzato da tutti dal titolo: “La deflazione: assicurarsi che “essa”[39], qua da noi, non si ripeta”. Come altri economisti, incluso il sottoscritto, Bernanke era profondamente preoccupato dalla tenace, in apparenza incurabile deflazione del Giappone, che a seconda dei casi veniva “associata con anni di lenta e penosa crescita, aumento della disoccupazione e problemi finanziari apparentemente ingestibili”. Non era stato previsto che una cosa del genere accadesse ad una nazione avanzata, dotata di operatori politici sofisticati. Sarebbe potuto accadere qualcosa del genere agli Stati Uniti?

Non vi preoccupate, disse Bernanke: la Fed ha gli strumenti necessari per impedire che abbia luogo una versione americana della sindrome giapponese, e se necessario li userà.

Oggi il signor Bernanke è il Presidente della Fed, e il suo discorso del 2002 si presta ad essere letto come ‘le ultime parole famose’. Non stiamo (ancora) soffrendo letteralmente la deflazione. Ma l’inflazione è assai al di sotto del tasso preferito dalla Fed, dall’1,7 al 2 per cento, e tende costantemente ad abbassarsi; si può scommettere[40] che, per effetto di alcuni provvedimenti, a un qualche punto del prossimo anno ci ritroveremo con la deflazione. Nel frattempo, abbiamo ancor una crescita lenta e penosa, una disoccupazione molto alta ed ingestibili problemi finanziari. E quale è la risposta della Fed? Essa sta discutendo – con impressionante lentezza – se forse, possibilmente, non si debba prendere in considerazione di provare a fare qualcosa su questa situazione, uno di questi giorni.

L’inazione della Fed non è, questo è certo, un caso unico. E’ stato stupefacente, ed ha provocato rabbia, l’osservare, nel mentre la crisi economica stava evolvendo, la classe politica americana limitarsi alle solite pratiche. Chiunque avesse previsto, non più tardi di due anni fa[41], l’attuale situazione economica (non soltanto la disoccupazione resta alta in modo disastroso, ma gran parte delle previsioni affermano che resterà molto alta per i prossimi anni) sarebbe stato considerato come un pazzo allarmista. Tuttavia, ora che l’incubo è diventato realtà – e si tratta davvero di un incubo per milioni di americani – Washington sembra assolutamente non provare alcuna sensazione di urgenza. Sono state distrutte speranze, piccole imprese sono state portate alla bancarotta, vite intere sono state degradate? Non importa, fateci parlare dei mali del deficit di bilancio.

Comunque, si poteva sperare che per la Fed sarebbe stato diverso. Da una parte, la Fed, diversamente dalla amministrazione Obama, mantiene una considerevole libertà di azione. Essa non ha bisogno dei 60 voti al Senato; i limiti esterni delle sue politiche non sono determinati dai punti di vista dei senatori del Nebraska e del Maine. Oltre a ciò, si suppone che la Fed sia intellettualmente attrezzata per una situazione del genere. Bernanke ha pensato a lungo ed intensamente su come evitare una trappola economica del genere di quella del Giappone e i ricercatori della Fed sono stati ossessionati per anni dalla stessa questione.

Ma siamo a questo punto, si scivola visibilmente verso la deflazione e la Fed se ne sta con le mani in mano[42].

Che cosa si dovrebbe fare? La politica monetaria convenzionale, nella quale la Fed spinge in basso i tassi di interesse a breve termine acquistando debito statale americano a breve termine, ha raggiunto il suo punto limite; quei tassi a breve termine sono già vicini a zero, e non possono abbassarsi in modo significativo (gli investitori non acquisteranno bonds che generano interessi negativi, dato che possono sempre accumulare contante). Ma il messaggio del discorso di Bernanke del 2002 era che ci sono altre cose che la Fed può fare. Essa può acquistare debito statale a più lungo termine. Essa può acquistare debito del settore privato. Essa può provare a determinare aspettative annunciando che terrà bassi i tassi a breve termine per un lungo periodo. Essa può accrescere il suo obbiettivo dichiarato di inflazione a lungo termine, contribuendo a convincere il settore privato che prendere prestiti è una buona idea, mentre accumulare contanti è un errore.

Nessuno sa con esattezza quanto ognuna di queste iniziative funzionerebbe. Il punto, tuttavia, è che ci sono cose che la Fed potrebbe e dovrebbe fare in questo momento, mentre non è così. Perché?

Dopo tutto i dirigenti Fed, come gran parte degli osservatori, vedono abbastanza scuro nel futuro dell’economia. Non ancora a sufficienza, per la mia opinione: i presidenti della Fed, che fanno previsioni tutte le volte che il comitato che fissa i tassi di interesse si riunisce, non stanno considerando in modo sufficientemente serio la tendenza verso la deflazione. Nondimeno, anche le loro proiezioni mostrano persistere una elevata disoccupazione ed una inflazione inferiore agli obbiettivi, almeno durante l’ultima parte del 2012.

Perché dunque non si prova a fare qualcosa a questo proposito? La cosa più attinente ad una spiegazione in cui mi sono imbattuto è stato un discorso recente di Kevin Warsh, del Consiglio dei Governatori della Fed, con il quale egli dichiarava che facendo quello che aveva raccomandato Bernanke nel 2002 si sarebbe rischiato di minare la “credibilità istituzionale” della Fed. Ma in che modo, esattamente, si serve la credibilità della Fed se non si riesce ad affrontare l’alta disoccupazione, nel mentre si mancano gli stessi suoi obbiettivi di inflazione? Quanto è credibile la Banca del Giappone, dopo aver presieduto a 15 anni di deflazione?

Qualsiasi cosa stia per succedere, la Fed ha bisogno di ripensare alle sue priorità, rapidamente. Quell’ “essa”[43] di Bernanke, riferita alla deflazione, non è una possibilità ipotetica, è sul punto di accadere. E la Fed dovrebbe fare tutto ciò che è in suo potere per fermarla.

 

 

 

 

 

Redo That Voodoo

By PAUL KRUGMAN
Published: July 15, 2010

Republicans are feeling good about the midterms — so good that they’ve started saying what they really think. This week the party’s Senate leadership stopped pretending that it cares about deficits, stating explicitly that while we can’t afford to aid the unemployed or prevent mass layoffs of schoolteachers, cost is literally no object when it comes to tax cuts for the affluent.

 

 

And that’s one reason — there are others — why you should fear the consequences if the G.O.P. actually does as well in November as it hopes.

For a while, leading Republicans posed as stern foes of federal red ink. Two weeks ago, in the official G.O.P. response to President Obama’s weekly radio address, Senator Saxby Chambliss devoted his entire time to the evils of government debt, “one of the most dangerous threats confronting America today.” He went on, “At some point we have to say ‘enough is enough.’ ”

 

 

But this past Monday Jon Kyl of Arizona, the second-ranking Republican in the Senate, was asked the obvious question: if deficits are so worrisome, what about the budgetary cost of extending the Bush tax cuts for the wealthy, which the Obama administration wants to let expire but Republicans want to make permanent? What should replace $650 billion or more in lost revenue over the next decade?

 

His answer was breathtaking: “You do need to offset the cost of increased spending. And that’s what Republicans object to. But you should never have to offset the cost of a deliberate decision to reduce tax rates on Americans.” So $30 billion in aid to the unemployed is unaffordable, but 20 times that much in tax cuts for the rich doesn’t count.

 

The next day, Mitch McConnell, the Senate minority leader, confirmed that Mr. Kyl was giving the official party line: “There’s no evidence whatsoever that the Bush tax cuts actually diminished revenue. They increased revenue, because of the vibrancy of these tax cuts in the economy. So I think what Senator Kyl was expressing was the view of virtually every Republican on that subject.”

 

 

Now there are many things one could call the Bush economy, an economy that, even before recession struck, was characterized by sluggish job growth and stagnant family incomes; “vibrant” isn’t one of them. But the real news here is the confirmation that Republicans remain committed to deep voodoo, the claim that cutting taxes actually increases revenues.

 

 

It’s not true, of course. Ronald Reagan said that his tax cuts would reduce deficits, then presided over a near-tripling of federal debt. When Bill Clinton raised taxes on top incomes, conservatives predicted economic disaster; what actually followed was an economic boom and a remarkable swing from budget deficit to surplus. Then the Bush tax cuts came along, helping turn that surplus into a persistent deficit, even before the crash.

 

But we’re talking about voodoo economics here, so perhaps it’s not surprising that belief in the magical powers of tax cuts is a zombie doctrine: no matter how many times you kill it with facts, it just keeps coming back. And despite repeated failure in practice, it is, more than ever, the official view of the G.O.P.

 

 

Why should this scare you? On paper, solving America’s long-run fiscal problems is eminently doable: stronger cost control for Medicare plus a moderate rise in taxes would get us most of the way there. And the perception that the deficit is manageable has helped keep U.S. borrowing costs low.

 

 

But if politicians who insist that the way to reduce deficits is to cut taxes, not raise them, start winning elections again, how much faith can anyone have that we’ll do what needs to be done? Yes, we can have a fiscal crisis. But if we do, it won’t be because we’ve spent too much trying to create jobs and help the unemployed. It will be because investors have looked at our politics and concluded, with justification, that we’ve turned into a banana republic.

 

 

Of course, flirting with crisis is arguably part of the plan. There has always been a sense in which voodoo economics was a cover story for the real doctrine, which was “starve the beast”: slash revenue with tax cuts, then demand spending cuts to close the resulting budget gap. The point is that starve the beast basically amounts to deliberately creating a fiscal crisis, in the belief that the crisis can be used to push through unpopular policies, like dismantling Social Security.

 

 

Anyway, we really should thank Senators Kyl and McConnell for their sudden outbursts of candor. They’ve now made it clear, in case anyone had doubts, that their previous posturing on the deficit was entirely hypocritical. If they really do have the kind of electoral win they’re expecting, they won’t try to reduce the deficit — they’ll try to make it explode by demanding even more budget-busting tax cuts.

 

Quella magia nera è da rifare, di Paul Krugman

New York Times 15 luglio 2010

I Repubblicani sono ottimisti sulle elezioni di medio termine, così ottimisti che hanno cominciato a dire quello che pensano effettivamente. Questa settimana il gruppo dirigente del Partito al Senato ha smesso di far finta di essere preoccupato del deficit, affermando esplicitamente che mentre non possiamo permetterci di aiutare i disoccupati o di evitare i licenziamenti di massa degli insegnanti, il costo è letteralmente un non problema allorquando si tratta di tagliare le tasse ai ricchi.

E questa è una ragione – ce ne sono altre – per la quale dovremmo aver paura delle conseguenze, se il GOP andasse bene come spera alle elezioni di novembre.

Per un certo periodo, i dirigenti repubblicani si sono presentati come fieri avversari del deficit federale. Due settimane orsono, nel corso della replica ufficiale al messaggio settimanale alla radio del Presidente Obama, il Senatore Saxby Chambliss ha dedicato tutto il tempo a sua disposizione ai mali del debito statale, “una delle più pericolose minacce con le quali si misura oggi l’America”. Ed ha proseguito “A un certo punto si deve pur dire ‘quando è troppo è troppo’”.

Ma lo scorso lunedì a Jon Kyl dell’Arizona, la seconda carica repubblicana al Senato, è stata posta l’ovvia domanda: se i deficit sono così proccupanti, che dire del costo di bilancio che avrebbe il prolungamento degli sgravi fiscali di Bush per i più abbienti, che la amministrazione Obama intende far terminare mentre i repubblicani vorrebbero rendere permanenti? In che modo si dovrebbero rimpiazzare i 650 miliardi di dollari e più di entrate perdute nel corso del prossimo decennio?

La sua risposta è stata stupefacente: “C’è bisogno di riequilibrare il costo accresciuto della spesa pubblica. E’ a quegli incrementi che i Repubblicani sono contrari. Invece non si dovrebbero in alcun modo riequilibrare i costi di una formale decisione di ridurre le quote fiscali agli Americani”. Dunque, 30 miliardi di dollari di aiuti ai disoccupati sono insostenibili, ma venti volte quella somma in sgravi fiscali per i ricchi non conta.

Il giorno successivo, Mitch McConnel, il dirigente della minoranza al Senato, ha confermato che Kyl aveva espresso la linea ufficiale del Partito: “Non c’è alcuna prova di sorta che gli sgravi fiscali di Bush abbiano effettivamente diminuito le entrate. Essi hanno incrementato le entrate, per l’effetto tonificante[44] di quei tagli fiscali sull’economia. Dunque, io penso che quanto ha affermato il Senatore Kyl sia il punto di vista virtuale di ogni repubblicano su quella questione”.

Ora, ci sono molti aggettivi che potrebbero essere usati per definire l’economia di Bush, un’economia che, anche prima che la recessione colpisse, era stata caratterizzata da una stentata crescita dell’occupazione e da redditi familiari stagnanti; “tonificante” non è uno di quelli. Ma, in questo caso, la vera notizia riguarda la conferma che i Repubblicani continuano ad essere impegnati in pratiche di misteriosa magia nera[45], con la pretesa che i tagli fiscali provochino per davvero incrementi nelle entrate.

Ovviamente non è così. Ronald Reagan disse che i suoi tagli alle tasse avrebbero ridotto i deficit e si trovò a gestire un debito federale quasi triplicato. Quando Bill Clinton aumentò le tasse sui redditi alti, i conservatori pronosticarono un disastro economico: ciò che effettivamente seguì fu un boom economico ed una impressionante virata da un deficit ad un surplus di bilancio. Poi vennero tutto in un colpo[46] gli sgravi fiscali di Bush, che contribuirono a modificare quel surplus in un deficit permanente, anche prima del crollo.

Ma si sta parlando di pratiche di politica economica da magia nera, cosicché forse non sorprende che la fiducia sui poteri magici dei tagli fiscali faccia parte di una dottrina ‘zombie’: non conta quante volte la si ammazza con l’evidenza dei fatti, essa continua esattamente a tornare al suo posto. E, a dispetto dei ripetuti fallimenti nella pratica, essa è più che mai il punto di vista ufficiale del GOP.

Perché dovreste impressionarvi? Sulla carta, risolvere i problemi fiscali di lungo periodo dell’America è fondamentalmente fattibile: un più forte controllo dei costi di Medicare in aggiunta ad un modesto incremento delle tasse, ci farebbe fare buona parte del percorso. E la percezione che il deficit sia gestibile ha contribuito a spingere in basso il costo degli interessi sul prestito negli Stati Uniti.

Ma se ricominciano a vincere le elezioni gli uomini politici che insistono che il modo di ridurre il deficit è quello di ridurre le tasse, anziché rialzarle, quanta fiducia potrà avere ciascuno sul fatto che faremo quello che è necessario fare? E’ vero, possiamo avere una crisi fiscale. Ma se l’avremo, non sarà perché abbiamo speso troppo nel cercar di creare posti di lavoro e nell’aiutare i disoccupati. Sarà perché gli investitori avranno prestato attenzione alle nostre politiche e saranno arrivati alla conclusione che ci stiamo trasformando in una repubblica delle banane.

Naturalmente, si può ipotizzare che giocare con la crisi sia una parte del progetto. In un certo senso, l’economia della magia nera è sempre stata la facciata di una reale teoria[47], denominata dell’ “affamare la bestia[48]”: far cadere le entrate attraverso i tagli fiscali, successivamente chiedere tagli alla spesa pubblica in modo da coprire i conseguenti buchi nel bilancio. Il fatto è che ‘affamare la bestia’ corrisponde fondamentalmente a provocare deliberatamente una crisi fiscale, nella fiducia che tali crisi possa essere utilizzata per far approvare politiche antipopolari, quali lo smantellamento della Sicurezza Sociale.

In ogni modo, noi dovremmo davvero ringraziare i Senatori Kyl e McConnell per i loro improvvisi scatti di sincerità[49]. A questo punto essi hanno messo in chiaro, nel caso in cui qualcuno avesse avuto dei dubbi, che il loro precedente atteggiarsi a proposito del deficit era del tutto ipocrita. Se essi avessero quel genere di vittoria elettorale che si aspettano, non cercheranno di ridurre il deficit; cercheranno di farlo esplodere, attraverso la richiesta di sgravi fiscali anche più grandi, tali da far saltare il bilancio[50].

 

The Pundit Delusion

By PAUL KRUGMAN
Published: July 18, 2010

The latest hot political topic is the “Obama paradox” — the supposedly mysterious disconnect between the president’s achievements and his numbers. The line goes like this: The administration has had multiple big victories in Congress, most notably on health reform, yet President Obama’s approval rating is weak. What follows is speculation about what’s holding his numbers down: He’s too liberal for a center-right nation. No, he’s too intellectual, too Mr. Spock, for voters who want more passion. And so on.

 

 

But the only real puzzle here is the persistence of the pundit delusion, the belief that the stuff of daily political reporting — who won the news cycle, who had the snappiest comeback — actually matters.

 

This delusion is, of course, most prevalent among pundits themselves, but it’s also widespread among political operatives. And I’d argue that susceptibility to the pundit delusion is part of the Obama administration’s problem.

What political scientists, as opposed to pundits, tell us is that it really is the economy, stupid. Today, Ronald Reagan is often credited with godlike political skills — but in the summer of 1982, when the U.S. economy was performing badly, his approval rating was only 42 percent.

 

 

My Princeton colleague Larry Bartels sums it up as follows: “Objective economic conditions — not clever television ads, debate performances, or the other ephemera of day-to-day campaigning — are the single most important influence upon an incumbent president’s prospects for re-election.” If the economy is improving strongly in the months before an election, incumbents do well; if it’s stagnating or retrogressing, they do badly.

 

 

Now, the fact that “ephemera” don’t matter seems reassuring, suggesting that voters aren’t swayed by cheap tricks. Unfortunately, however, the evidence suggests that issues don’t matter either, in part because voters are often deeply ill informed.

 

Suppose, for example, that you believed claims that voters are more concerned about the budget deficit than they are about jobs. (That’s not actually true, but never mind.) Even so, how much credit would you expect Democrats to get for reducing the deficit?

 

None. In 1996 voters were asked whether the deficit had gone up or down under Bill Clinton. It had, in fact, plunged — but a plurality of voters, and a majority of Republicans, said that it had risen.

There’s no point berating voters for their ignorance: people have bills to pay and children to raise, and most don’t spend their free time studying fact sheets. Instead, they react to what they see in their own lives and the lives of people they know. Given the realities of a bleak employment picture, Americans are unhappy — and they’re set to punish those in office.

What should Mr. Obama have done? Some political analysts, like Charlie Cook, say that he made a mistake by pursuing health reform, that he should have focused on the economy. As far as I can tell, however, these analysts aren’t talking about pursuing different policies — they’re saying that he should have talked more about the subject. But what matters is actual economic results.

 

 

The best way for Mr. Obama to have avoided an electoral setback this fall would have been enacting a stimulus that matched the scale of the economic crisis. Obviously, he didn’t do that. Maybe he couldn’t have passed an adequate-sized plan, but the fact is that he didn’t even try. True, senior economic officials reportedly downplayed the need for a really big effort, in effect overruling their staff; but it’s also clear that political advisers believed that a smaller package would get more friendly headlines, and that the administration would look better if it won its first big Congressional test.

 

 

 

 

In short, it looks as if the administration itself was taken in by the pundit delusion, focusing on how its policies would play in the news rather than on their actual impact on the economy.

Republicans, by the way, seem less susceptible to this delusion. Since Mr. Obama took office, they have engaged in relentless obstruction, obviously unworried about how their actions would look or be reported. And it’s working: by blocking Democratic efforts to alleviate the economy’s woes, the G.O.P. is helping its chances of a big victory in November.

 

 

 

Can Mr. Obama do anything in the time that remains? Midterm elections, where turnout is crucial, aren’t quite like presidential elections, where the economy is all. Mr. Obama’s best hope at this point is to close the “enthusiasm gap” by taking strong stands that motivate Democrats to come out and vote. But I don’t expect to see that happen.

 

 

What I expect, instead, if and when the midterms go badly, is that the usual suspects will say that it was because Mr. Obama was too liberal — when his real mistake was doing too little to create jobs.

 

La mania[51] degli esperti, di Paul Krugman

New York Times 18 luglio

 

L’argomento politico popolare più recente è il “paradosso di Obama: la supposta misteriosa non corrispondenza tra i successi del Presidente e i suoi numeri. Il filo del ragionamento procede in questo modo: la amministrazione ha ottenuto molteplici vittorie nel Congresso, la più rilevante sulla riforma sanitaria, tuttavia la precentuali dei consensi del Presidente Obama è bassa. Ne conseguono teorie a proposito di ciò che terrebbe bassi i suoi numeri: egli è troppo liberal per una nazione di centro-destra. Anzi, è troppo intellettualistico, assomiglia troppo al Signor Spock[52], per elettori che vogliono più passione. E così via.

Ma l’unica cosa che effettivamente lascia perplessi, in questo caso, è la pervicace idea fissa degli esperti, la loro convinzione che il materiale dei resoconti politici giornalieri – chi ha prevalso nel ciclo delle notizie, chi ha avuto il ritorno più alla moda[53] – sia effettivamente ciò che conta.

Questa illusione è, naturalmente, soprattutto prevalente tra gli esperti stessi, ma è diffusa anche tra gli operatori politici. Ed io avanzerei l’ipotesi che la dipendenza dalla fissazione degli esperti sia una parte del problema della amministrazione Obama.

Quello che gli scienziati della politica ci dicono, diversamente dagli esperti, è che “si tratta dell’economia, stupidi![54]”. Al giorno d’oggi, Ronald Reagan viene spesso accreditato di doti politiche straordinarie[55], ma nell’estate del 1982, quando l’economia americana conosceva pessime prestazioni, la sua percentuale di consensi era soltanto del 42 per cento.

Il mio collega di Princeton Larry Bartels riassume il tutto con le parole seguenti: “La situazione economica reale – non la pubblicità intelligente alla televisione, o i risultati dei dibattiti o altri aspetti effimeri della campagna politica quotidiana – costituisce l’unico fattore davvero importante che influisce sulle prospettive della rielezione di un presidente in carica”. Se l’economia, nei mesi precedenti ad una elezione, sta chiaramente migliorando, coloro che sono in carica vanno bene; se è stagnante o sta peggiorando, vanno male.

Ora, il fatto che gli aspetti effimeri non contino sembra rassicurante, perché suggerisce che gli elettori non siano influenzati da trucchi a buon mercato. Sfortunatamente, tuttavia, l’evidenza dei fatti ci dice che neanche i grandi temi contano, perché gli elettori sono spesso profondamente male informati.

Supponiamo, ad esempio, che voi crediate alle dichiarazioni secondo le quali gli elettori sarebbero più preoccupati del deficit di bilancio che dei posti di lavoro (la qualcosa non è effettivamente vera, ma non importa). Anche così, quanto credito vi aspettereste che venga ai Democratici da una riduzione del deficit?

Nessuno. Nel 1996 fu chiesto agli elettori se il deficit fosse salito o sceso con Bill Clinton. Esso era, in effetti, crollato, ma un buon numero di elettori, e la maggioranza dei repubblicani, affermarono che era cresciuto.

Non c’è motivo di rimproverare gli elettori per la loro ignoranza: la gente ha i conti da pagare e i figli da crescere, e i più non spendono il loro tempo libero studiando le note informative. Invece, reagiscono a quello che vedono nella propria esistenza e nelle vite delle persone che conoscono.  Considerata la realtà del desolante quadro della occupazione, gli Americani sono scontenti e pronti a punire quelli che sono in carica.

 Cosa dovrebbe aver fatto Obama? Alcuni analisti politici, come Charlie Cook, dicono che ha fatto lo sbaglio di proporsi la riforma sanitaria, che avrebbe dovuto concentrarsi sull’economia. Per quello che posso dire io, tuttavia, questi analisti non stanno parlando di perseguire diverse politiche, stanno piuttosto dicendo che egli avrebbe dovuto maggiormente parlare di un tema anziché di un altro. Ma quello che conta sono i risultati economici effettivi.

Il modo migliore in cui Obama avrebbe evitato un ridimensionamento elettorale in questo autunno sarebbe stato quello di promuovere un programma di sostegno che avesse dimensioni comparabili alla crisi economica. Come è chiaro, non l’ha fatto. Può darsi che non sarebbe riuscito a far approvare un programma di dimensioni adeguate, ma il fatto è che non ci ha neppure provato. E’ vero, i dirigenti del settore economico più alti in carica hanno ripetutamente minimizzato la necessità di uno sforzo realmente grosso, in pratica prevalendo sui loro collaboratori; ma è anche vero che i consiglieri politici ritenevano che un pacchetto più modesto avrebbe provocato commenti giornalistici più amichevoli, e che la amministrazione avrebbe visto di buon occhio una vittoria nella occasione della sua prima grande prova al Congresso.

In poche parole, sembra che la stessa amministrazione sia presa dalla idea fissa degli esperti, concentrandosi su come le proprie politiche saranno accolte nei notiziari, piuttosto che sul loro effettivo impatto sull’economia.

I Repubblicani, a tale proposito, sembrano meno dipendenti da questa mania. Dal momento in cui Obama è entrato in carica, essi si sono impegnati in un ostruzionismo senza tregua, chiaramente poco preoccupati di come le loro iniziative sarebbero apparse e dei resoconti che avrebbero provocato. E sta funzionando: bloccando gli sforzi dei Democratici di alleviare le disgrazie dell’economia, il GOP sta aumentando le sue possibilità di ottenere una grande vittoria in novembre.

Può fare qualcosa Obama, nel tempo che rimane? Le elezioni di medio termine, nelle quali la affluenza[56] è cruciale, non sono identiche[57] alle elezioni presidenziali, nelle quali l’economia è tutto. La maggiore speranza di Obama, a questo punto, è quella di ridurre il “difetto di entusiasmo” attraverso prese di posizione forti che motivino i Democratici ad uscir fuori e votare. Ma non mi aspetto che accada.

Quello che mi aspetto, piuttosto, se e al momento in cui le elezioni di medio termine andassero male, è che i ‘soliti ignoti’[58] dicano che è stato a causa del fatto che Obama è troppo liberal, mentre il suo errore è stato di aver fatto troppo poco per creare occasioni di lavoro.

 

 

 

Addicted to Bush

By PAUL KRUGMAN
Published: July 22, 2010

For a couple of years, it was the love that dared not speak his name. In 2008, Republican candidates hardly ever mentioned the president still sitting in the White House. After the election, the G.O.P. did its best to shout down all talk about how we got into the mess we’re in, insisting that we needed to look forward, not back. And many in the news media played along, acting as if it was somehow uncouth for Democrats even to mention the Bush era and its legacy.

 

 

The truth, however, is that the only problem Republicans ever had with George W. Bush was his low approval rating. They always loved his policies and his governing style — and they want them back. In recent weeks, G.O.P. leaders have come out for a complete return to the Bush agenda, including tax breaks for the rich and financial deregulation. They’ve even resurrected the plan to cut future Social Security benefits.

 

 

But they have a problem: how can they embrace President Bush’s policies, given his record? After all, Mr. Bush’s two signature initiatives were tax cuts and the invasion of Iraq; both, in the eyes of the public, were abject failures. Tax cuts never yielded the promised prosperity, but along with other policies — especially the unfunded war in Iraq — they converted a budget surplus into a persistent deficit. Meanwhile, the W.M.D. we invaded Iraq to eliminate turned out not to exist, and by 2008 a majority of the public believed not just that the invasion was a mistake but that the Bush administration deliberately misled the nation into war. What’s a Republican to do?

 

 

 

You know the answer. There’s now a concerted effort under way to rehabilitate Mr. Bush’s image on at least three fronts: the economy, the deficit and the war.

On the economy: Last week Mitch McConnell, the Senate minority leader, declared that “there’s no evidence whatsoever that the Bush tax cuts actually diminished revenue. They increased revenue, because of the vibrancy of these tax cuts in the economy.” So now the word is that the Bush-era economy was characterized by “vibrancy.”

 

I guess it depends on the meaning of the word “vibrant.” The actual record of the Bush years was (i) two and half years of declining employment, followed by (ii) four and a half years of modest job growth, at a pace significantly below the eight-year average under Bill Clinton, followed by (iii) a year of economic catastrophe. In 2007, at the height of the “Bush boom,” such as it was, median household income, adjusted for inflation, was still lower than it had been in 2000.

 

But the Bush apologists hope that you won’t remember all that. And they also have a theory, which I’ve been hearing more and more — namely, that President Obama, though not yet in office or even elected, caused the 2008 slump. You see, people were worried in advance about his future policies, and that’s what caused the economy to tank. Seriously.

On the deficit: Republicans are now claiming that the Bush administration was actually a paragon of fiscal responsibility, and that the deficit is Mr. Obama’s fault. “The last year of the Bush administration,” said Mr. McConnell recently, “the deficit as a percentage of gross domestic product was 3.2 percent, well within the range of what most economists think is manageable. A year and a half later, it’s almost 10 percent.”

 

But that 3.2 percent figure, it turns out, is for fiscal 2008 — which wasn’t the last year of the Bush administration, because it ended in September of 2008. In other words, it ended just as the failure of Lehman Brothers — on Mr. Bush’s watch — was triggering a broad financial and economic collapse. This collapse caused the deficit to soar: By the first quarter of 2009 — with only a trickle of stimulus funds flowing — federal borrowing had already reached almost 9 percent of G.D.P. To some of us, this says that the economic crisis that began under Mr. Bush is responsible for the great bulk of our current deficit. But the Republican Party is having none of it.

 

 

Finally, on the war: For most Americans, the whole debate about the war is old if painful news — but not for those obsessed with refurbishing the Bush image. Karl Rove now claims that his biggest mistake was letting Democrats get away with the “shameful” claim that the Bush administration hyped the case for invading Iraq. Let the whitewashing begin!

 

 

Again, Republicans aren’t trying to rescue George W. Bush’s reputation for sentimental reasons; they’re trying to clear the way for a return to Bush policies. And this carries a message for anyone hoping that the next time Republicans are in power, they’ll behave differently. If you believe that they’ve learned something — say, about fiscal prudence or the importance of effective regulation — you’re kidding yourself. You might as well face it: they’re addicted to Bush.

 

Dipendenti da Bush, di Paul Krugman

New York Times 22 luglio 2010

 

Per un paio d’anni, per carità cristiana si è evitato di pronunciare[59] il suo nome. Nel corso del 2008, i candidati repubblicani raramente citarono il Presidente che ancora era in carica alla Casa Bianca. Dopo le elezioni, il GOP fece del suo meglio per zittire tutti quelli che parlavano di come fossimo finiti nel disastro in cui siamo, insistendo che avevamo bisogno di guardare in avanti, non indietro. E molti, nei notiziari dei giornali, stettero al gioco, comportandosi come se fosse una villania per i Democratici persino fare menzione dell’epoca di Bush e della sua eredità.

La verità, tuttavia, è che l’unico problema che i Repubblicani hanno mai avuto con George W. Bush è stata la sua percentuale di approvazione delle leggi. Essi hanno sempre amato le sue politiche e il suo stile di governo, ed è lì che vogliono tornare. Nelle recenti settimane, i dirigenti del GOP sono venuti allo scoperto esprimendosi per un completo ritorno alla agenda di Bush, inclusi gli sgravi fiscali ai ricchi e la deregolamentazione finanziaria. Hanno persino resuscitato il progetto dei tagli ai contributi futuri della Sicurezza Sociale.

Sennonché hanno un problema: come possono sposare le politiche del Presidente Bush, considerati i suoi primati? Dopo tutto le due iniziative che ebbero la firma di Bush furono gli sgravi fiscali e la guerra in Iraq; entrambi, agli occhi del pubblico, furono squallidi fallimenti. I tagli alle tasse non provocarono la prosperità annunciata, ma assieme alle altre politiche – particolarmente la guerra fuori-bilancio[60] in Iraq – trasformarono un surplus di bilancio in un deficit persistente. Nel frattempo, è venuto fuori che le armi di distruzione di massa[61] che dovevamo eliminare con l’invasione dell’Iraq non esistevano, e dal 2008 una maggioranza dei cittadini ritiene che l’invasione non fu solo un errore, ma che l’amministrazione Bush portò deliberatamente la nazione alla guerra con l’inganno. Cosa possono fare i Repubblicani?

Conoscete la risposta. E’ in atto in questo momento una iniziativa coordinata per riabilitare Bush in almeno tre direzioni: l’economia, il deficit e la guerra.

Su lato dell’economia: la scorsa settimana Mitch McConnell, il dirigente repubblicano al Senato, ha dichiarato che “non c’è prova di sorta che i tagli fiscali di Bush abbiano diminuito le entrate. Essi le hanno aumentate, per effetto della profonda risonanza di questi sgravi sull’economia”. E così, adesso il termine di moda è che l’economia, nell’epoca di Bush, era caratterizzata da “risonanza”.

Suppongo che dipenda dal significato che si attribuisce alla parola “risonante”. L’effettivo primato degli anni di Bush fu: a) due anni e mezzo di occupazione declinante, seguita da b) quattro anni e mezzo di modesta crescita dei posti di lavoro, ad un ritmo significativamente inferiore a quello medio degli otto anni di Bill Clinton, seguito da c) un anno di catastrofe economica. Nel 2007, al punto più alto del “Bush boom”, come fu definito, il reddito medio di una famiglia, corretto per l’inflazione, era ancora più basso di quanto fosse stato nel 2000.

Ma gli apologeti di Bush sperano, dopotutto, che non ve ne ricorderete. Ed hanno anche una teoria, che ho sentito affermare sempre più frequentemente: precisamente, che il Presidente Obama, sebbene non ancora in carica o appena eletto, provocò il crollo del 2008. Sapete, la gente era preoccupata in anticipo delle sue politiche future, e fu questo che fece crollare l’economia[62]. Sul serio.

A proposito del deficit: i Repubblicani ora pretendono che la amministrazione Bush fosse effettivamente un esempio di responsabilità finanziaria, e che il deficit sia stato una responsabilità di Obama. “L’ultimo anno della amministrazione Bush”, ha detto di recente il signor McConnell, “il deficit in termini di percentuale del prodotto interno lordo fu del 3,2 per cento, del tutto nei limiti di quello che gli economisti giudicano gestibile. Un anno e mezzo dopo, è quasi al 10 per cento.”

Ma il 3,2 per cento, per quanto risulta, si riferisce all’anno finanziario 2008, che non fu l’ultimo anno della amministrazione Bush, giacché essa terminò nel Settembre del 2008. In altre parole, essa terminò proprio quando il fallimento di Lehman Brothers – sotto la sorveglianza del signor Bush – scatenò un collasso finanziario ed economico generale. Questo collasso provocò la salita del deficit: nel primo trimestre del 2009 – nel mentre era in circolazione solo un rivolo dei fondi del programma di sostegno – il prestito federale aveva già raggiunto quasi il 9 per cento del PIL. Per un bel po’ di persone, questo significa che la crisi economica che ebbe inizio con Bush è responsabile della maggior parte del deficit attuale. Ma il Partito Repubblicano non lo tollera[63].

Infine, a proposito della guerra: per una gran parte degli americani l’intero dibattito sulla guerra è una notizia vecchia per quanto dolorosa, ma non per coloro che sono ossessionati dal rimettere a nuovo l’immagine di Bush. Karl Rove adesso pretende che il suo più grande errore sia stato quello di consentire ai Democratici di farla franca con la “vergognosa” dichiarazione secondo la quale la amministrazione Bush aveva fatto un gran chiasso[64] al fine di invadere l’Iraq. Stendiamo un velo pietoso[65]!

Infine, i Repubblicani non stanno cercando di salvare la reputazione di George W. Bush per ragioni affettive; essi stanno cercando di sgombrare la strada per un ritorno alle politiche di Bush. E questo costituisce un messaggio per tutti coloro che sperano che la prossima volta che i Repubblicani saranno al potere, si comporteranno diversamente. Se credete che abbiano imparato qualcosa – ad esempio, a proposito della prudenza finanziaria o della importanza di una regolamentazione effettiva –  vi prendete in giro da soli. Potreste piuttosto guardare le cose in faccia: essi sono dipendenti da Bush.

 

Who Cooked the Planet?

By PAUL KRUGMAN
Published: July 25, 2010

Never say that the gods lack a sense of humor. I bet they’re still chuckling on Olympus over the decision to make the first half of 2010 — the year in which all hope of action to limit climate change died — the hottest such stretch on record.

 

Of course, you can’t infer trends in global temperatures from one year’s experience. But ignoring that fact has long been one of the favorite tricks of climate-change deniers: they point to an unusually warm year in the past, and say “See, the planet has been cooling, not warming, since 1998!” Actually, 2005, not 1998, was the warmest year to date — but the point is that the record-breaking temperatures we’re currently experiencing have made a nonsense argument even more nonsensical; at this point it doesn’t work even on its own terms.

 

 

But will any of the deniers say “O.K., I guess I was wrong,” and support climate action? No. And the planet will continue to cook.

 

So why didn’t climate-change legislation get through the Senate? Let’s talk first about what didn’t cause the failure, because there have been many attempts to blame the wrong people.

 

First of all, we didn’t fail to act because of legitimate doubts about the science. Every piece of valid evidence — long-term temperature averages that smooth out year-to-year fluctuations, Arctic sea ice volume, melting of glaciers, the ratio of record highs to record lows — points to a continuing, and quite possibly accelerating, rise in global temperatures.

 

Nor is this evidence tainted by scientific misbehavior. You’ve probably heard about the accusations leveled against climate researchers — allegations of fabricated data, the supposedly damning e-mail messages of “Climategate,” and so on. What you may not have heard, because it has received much less publicity, is that every one of these supposed scandals was eventually unmasked as a fraud concocted by opponents of climate action, then bought into by many in the news media. You don’t believe such things can happen? Think Shirley Sherrod.

 

Did reasonable concerns about the economic impact of climate legislation block action? No. It has always been funny, in a gallows humor sort of way, to watch conservatives who laud the limitless power and flexibility of markets turn around and insist that the economy would collapse if we were to put a price on carbon. All serious estimates suggest that we could phase in limits on greenhouse gas emissions with at most a small impact on the economy’s growth rate.

 

 

So it wasn’t the science, the scientists, or the economics that killed action on climate change. What was it?

The answer is, the usual suspects: greed and cowardice.

If you want to understand opposition to climate action, follow the money. The economy as a whole wouldn’t be significantly hurt if we put a price on carbon, but certain industries — above all, the coal and oil industries — would. And those industries have mounted a huge disinformation campaign to protect their bottom lines.

 

 

Look at the scientists who question the consensus on climate change; look at the organizations pushing fake scandals; look at the think tanks claiming that any effort to limit emissions would cripple the economy. Again and again, you’ll find that they’re on the receiving end of a pipeline of funding that starts with big energy companies, like Exxon Mobil, which has spent tens of millions of dollars promoting climate-change denial, or Koch Industries, which has been sponsoring anti-environmental organizations for two decades.

 

 

Or look at the politicians who have been most vociferously opposed to climate action. Where do they get much of their campaign money? You already know the answer.

 

By itself, however, greed wouldn’t have triumphed. It needed the aid of cowardice — above all, the cowardice of politicians who know how big a threat global warming poses, who supported action in the past, but who deserted their posts at the crucial moment.

 

There are a number of such climate cowards, but let me single out one in particular: Senator John McCain.

There was a time when Mr. McCain was considered a friend of the environment. Back in 2003 he burnished his maverick image by co-sponsoring legislation that would have created a cap-and-trade system for greenhouse gas emissions. He reaffirmed support for such a system during his presidential campaign, and things might look very different now if he had continued to back climate action once his opponent was in the White House. But he didn’t — and it’s hard to see his switch as anything other than the act of a man willing to sacrifice his principles, and humanity’s future, for the sake of a few years added to his political career.

 

 

Alas, Mr. McCain wasn’t alone; and there will be no climate bill. Greed, aided by cowardice, has triumphed. And the whole world will pay the price.

 

Chi ha cotto il Pianeta? di Paul Krugman

New York Times 25 luglio 2010

 

Non si dica che agli Dei manca lo spirito. Scommetterei che sull’Olimpo ancora se la ridono a proposito della decisione di fare della prima metà del 2010 – l’anno nel quale è morta ogni speranza di una legge[66] per contenere il cambiamento del clima – un periodo di tempo da primato, quanto a caldo.

Naturalmente, non si può dedurre tendenze nelle temperature globali sulla base dell’esperienza di un anno. Ma ignorare quest’ultima circostanza è stato a lungo uno dei trucchi favoriti da parte dei ‘negazionisti’ del cambiamento climatico: essi scelgono un anno insolitamente caldo nel passato e affermano “Vedete, il pianeta si sta raffreddando e non riscaldando, a partire dal 1998!” Effettivamente, è stato il 2005 e non il 1998, l’anno più caldo sino ad oggi – ma il fatto è che le temperature da primato che stiamo attualmente sperimentando hanno fatto diventare un argomento inconsistente persino più assurdo: a questo punto esso non sta in piedi nemmeno nei suoi stessi termini.

 Ma, dirà mai qualche ‘negazionista’: “Va bene, ammetto che avevo torto”, e sosterrà le misure di tutela del clima? No. E il pianeta continuerà a cuocere.

Perché, dunque, la legislazione sul cambiamento climatico non ha ottenuto l’approvazione del Senato? Lasciatemi dire, anzitutto, quella che non è stata la causa del fallimento, giacché ci sono molti tentativi di dar la colpa alle persone sbagliate.

In primo luogo, noi non abbiamo mancato di agire a causa dei dubbi legittimi da parte della scienza. Ogni pezzo di prova indiscutibile – dalla temperatura media di lungo periodo che livella[67] le fluttuazioni annuali, ai volumi di ghiaccio nel mare Artico, alla fusione dei ghiacciai, al rapporto delle temperature elevate da primato rispetto a quelle basse da primato – sottolinea una crescita continua, e se possibile accelerata, delle temperature globali.

Né questa evidenza è scalfita dai comportamenti scorretti degli scienziati. Avrete probabilmente sentito delle accuse rivolte ai ricercatori del clima – i sospetti di manipolazione dei dati, i messaggi e-mail che si è ipotizzato fornissero le prove di un “climagate”, e così via. Quello che non avete sentito dire, perché ha ricevuto molta minore pubblicità, è che ognuno di questi supposti scandali si è effettivamente rivelato[68] come una frode confezionata dagli oppositori della legislazione sul clima, successivamente fatta propria da molti nelle notizie dei media. Non credete che possano accadere cose del genere? Pensate a Shirley Sherrod.[69]

Hanno bloccato la legislazione sul clima, le ragionevoli preoccupazioni relative al suo impatto economico? No. E’ sempre stato divertente, un sorta di umorismo macabro[70], osservare i conservatori che elogiano il potere illimitato e la flessibilità dei mercati, cambiare tutto a un tratto registro[71] e ripetere che l’economia andrebbe al collasso se si decidesse di mettere un prezzo all’anidride carbonica[72]. Tutte le stime serie ci dicono che potremmo introdurre limiti nella emissione di gas serra, tuttalpiù con un piccolo impatto sul tasso di crescita delle’economia.

Dunque, non è stata la scienza, né egli scienziati, né l’economia che hanno ucciso la legislazione sul cambiamento climatico. Cosa è stato?

La risposta è “i soliti ignoti[73]”: la grettezza e la viltà.

Se volete capire l’opposizione alla legislazione sul clima, seguite l’andamento dei soldi. L’economia nel suo complesso non avrebbe avuto alcun danno significativo, se si fosse messo un prezzo alle emissioni di anidride carbonica, ma alcune industrie – soprattutto quelle del carbone e del petrolio – avrebbero avuto conseguenze. E queste industrie hanno montato una ampia campagna di disinformazione per difendere i loro profitti.

Guardate agli scienziati che mettono in dubbio il consenso sul cambiamento del clima; guardate alle associazioni che fanno pressioni su falsi scandali; guardate agli addetti ai lavori che pretendono che ogni azione per limitare le emissioni danneggerebbe l’economia. In tutti quei casi e in altri ancora, troverete che essi si trovano allo sbocco di una conduttura di finanziamenti che trae origine dalle grandi imprese dell’energia, come la Exxon Mobil, che ha speso decine di milioni di dollari per favorire la negazione del cambiamento climatico, o la Koch Industries, che ha sponsorizzato associazioni antiambientaliste per due decenni.

Oppure, guardate agli uomini politici che si sono opposti con maggior clamore alla legislazione sul clima. Dove hanno trovato gran parte dei loro fondi elettorali? Conoscete già la risposta.

 Da sola, tuttavia, la grettezza non avrebbe trionfato. Essa ha avuto bisogno del contributo della viltà: la viltà, soprattutto, degli uomini politici che sanno quanto sia grande la minaccia rappresentata dal riscaldamento globale, che nel passato hanno dato sostegno alla legislazione, ma che hanno disertato i loro posti al momento cruciale.

Sono numerosi i casi di tali ‘codardi del clima’, ma consentitemi di sceglierne uno in particolare: il Senatore John McCain.

Ci fu un tempo nel quale il signor McCain era considerato un amico dell’ambiente. Nel passato 2003, egli tirò a lucido la sua immagine di persona indipendente partecipando alla sponsorizzazione di una legislazione che avrebbe dato vita ad un sistema “cap and trade” per le emissioni dei gas serra. Egli riaffermò il sostegno ad un sistema del genere durante la sua campagna presidenziale, e le cose sarebbero apparse molto diverse se egli avesse continuato a sostenere la legislazione sul clima, oggi che il suo oppositore di un tempo si trova alla Casa Bianca. Ma egli non l’ha fatto, ed è difficile considerare il suo cambiamento come qualcosa di diverso dalla iniziativa di un uomo che è disposto a sacrificare i suoi principi, e il futuro dell’umanità, per il vantaggio di qualche anno in più nella sua carriera politica.

Sfortunatamente, il signor McCain non è rimasto solo; e non ci sarà alcuna legge sul clima. La grettezza, aiutata dalla viltà, ha trionfato. E il mondo intero ne pagherà il prezzo.

 

 

Curbing Your Enthusiasm

By PAUL KRUGMAN
Published: July 29, 2010

Why does the Obama administration keep looking for love in all the wrong places? Why does it go out of its way to alienate its friends, while wooing people who will never waver in their hatred?

These questions were inspired by the ongoing suspense over whether President Obama will do the obviously right thing and nominate Elizabeth Warren to lead the new consumer financial protection agency. But the Warren affair is only the latest chapter in an ongoing saga.

 

Mr. Obama rode into office on a vast wave of progressive enthusiasm. This enthusiasm was bound to be followed by disappointment, and not just because the president was always more centrist and conventional than his fervent supporters imagined. Given the facts of politics, and above all the difficulty of getting anything done in the face of lock step Republican opposition, he wasn’t going to be the transformational figure some envisioned.

 

 

 

And Mr. Obama has delivered in important ways. Above all, he managed (with a lot of help from Nancy Pelosi) to enact a health reform that, imperfect as it is, will greatly improve Americans’ lives — unless a Republican Congress manages to sabotage its implementation.

 

But progressive disillusionment isn’t just a matter of sky-high expectations meeting prosaic reality. Threatened filibusters didn’t force Mr. Obama to waffle on torture; to escalate in Afghanistan; to choose, with exquisitely bad timing, to loosen the rules on offshore drilling early this year.

 

Then there are the appointments. Yes, the administration needed experienced hands. But did all the senior members of the economics team have to be protégés of Robert Rubin, the apostle of financial deregulation? Was it necessary to install Ken Salazar at the Interior Department over the objections of environmentalists who feared, rightly, that his ties to extractive industries would make him slow to clean up a corrupt agency?

 

And where’s this administration’s Frances Perkins? As F.D.R.’s labor secretary, Perkins, a longtime crusader for workers’ rights, served as a symbol of the New Deal’s commitment to change. I have nothing against Hilda Solis, the current labor secretary — but neither she nor any other senior figure in the administration is a progressive with enough independent stature to play that kind of role.

 

 

What explains Mr. Obama’s consistent snubbing of those who made him what he is? Does he fear that his enemies would use any support for progressive people or ideas as an excuse to denounce him as a left-wing extremist? Well, as you may have noticed, they don’t need such excuses: He’s been portrayed as a socialist because he enacted Mitt Romney’s health-care plan, as a virulent foe of business because he’s been known to mention that corporations sometimes behave badly.

 

The point is that Mr. Obama’s attempts to avoid confrontation have been counterproductive. His opponents remain filled with a passionate intensity, while his supporters, having received no respect, lack all conviction. And in a midterm election, where turnout is crucial, the “enthusiasm gap” between Republicans and Democrats could spell catastrophe for the Obama agenda.

Which brings me back to Ms. Warren.

 

The debate over financial reform, in which the G.O.P. has taken the side of the bad guys, should be a political winner for Democrats. Much of the reform, however, is deeply technical: “Maintain the requirement that derivatives be traded on public exchanges!” doesn’t fit on a placard.

 

 

But protecting consumers, ensuring that they aren’t the victims of predatory financial practices, is something voters can relate to. And choosing a high-profile consumer advocate to lead the agency providing that protection — someone whose scholarship and advocacy were largely responsible for the agency’s creation — is the natural move, both substantively and politically. Meanwhile, the alternative — disappointing supporters yet again by choosing some little-known technocrat — seems like an obvious error.

 

 

So why is this issue still up in the air? Yes, Republicans might well try to filibuster a Warren appointment, but that’s a fight the administration should welcome.

 

O.K., I don’t really know what’s going on. But I worry that Mr. Obama is still wrapped up in his dream of transcending partisanship, while his aides dislike the idea of having to deal with strong, independent voices. And the end result of this game-playing is an administration that seems determined to alienate its friends.

Just to be clear, progressives would be foolish to sit out this election: Mr. Obama may not be the politician of their dreams, but his enemies are definitely the stuff of their nightmares. But Mr. Obama has a responsibility, too. He can’t expect strong support from people his administration keeps ignoring and insulting.

 

Moderate gli entusiasmi, di Paul Krugman

New York Times 29 luglio 2010

 

Perché la amministrazione Obama continua a cercare simpatia in tutti i posti sbagliati? Perché si prende il disturbo[74] di alienarsi gli amici, nel mentre fa la corte a individui che non avranno mai esitazione nel loro rancore?

Queste domande sono state ispirate dalla continua suspense a proposito del fatto se il Presidente Obama prenderà la decisione giusta ed ovvia di nominare  Elisabeth Warren a capo della nuova agenzia di protezione dell’utente del sistema finanziario. Ma l’affare della Warren è solo l’ultimo capitolo di una saga permanente.

Obama è stato condotto alla presidenza sulla grande ondata dell’entusiasmo dei progressisti. A questo entusiasmo è seguito per forza un clima di delusione[75], e non solo perché il presidente si è comportato spesso in modi più moderati e convenzionali di quanto i suoi ferventi sostenitori avessero immaginato. Date le condizioni politiche, e soprattutto data la difficoltà a concludere alcunché[76] di fronte all’opposizione a ranghi compatti[77] dei repubblicani, egli non era destinato ad essere quella personalità di radicale cambiamento che qualcuno si era immaginato.

E Obama ha preso decisioni importanti. Soprattutto, è riuscito a gestire (con un bel po’ di aiuto da parte di Nancy Pelosi) la approvazione di una riforma sanitaria che, con le sue imperfezioni, migliorerà sensibilmente la vita degli Americani, a meno che un Congresso repubblicano non operi per sabotare la sua messa in pratica.

Ma la delusione di progressisti non è soltanto una faccenda di attese spettacolari che si misurano con una realtà prosaica. La minaccia dell’ostruzionismo non ha costretto Obama ad esitare sulla tortura; ad intensificare l’impegno in Afghanistan; a scegliere, con una scelta di tempi studiatamente sbagliata, di ammorbidire le regole sulle perforazioni oceaniche agli inizi di quest’anno.

Poi c’è la questione delle nomine. E’ vero, la amministrazione aveva bisogno di mani esperte. Ma i componenti anziani della squadra degli economisti dovevano essere tutti dei pupilli di Robert Rubin, l’apostolo della deregolamentazione finanziaria? Era indispensabile collocare Ken Salazar al Dipartimento degli Interni nonostante le obiezioni degli ambientalisti, che temevano, a giusta ragione, che i suoi legami con l’industria estrattiva lo avrebbe reso esitante nel far pulizia di una agenzia corrotta?

E dov’è il Frances Perkins di questa amministrazione? Come Segretario al Lavoro di Franklin Delano Roosvelt, Perkins, un combattente di lunga data per i diritti dei lavoratori, ebbe una funzione di simbolo della volontà di cambiamento del New Deal. Io non ho niente contro Hilda Solis, la attuale Segretaria al Lavoro, ma né lei né alcuna altra figura di spicco in questa amministrazione sono progressisti di statura talmente indipendente da giocare un ruolo del genere.

Cos’è che spiega lo sgarbo evidente da parte di Obama nei confronti di coloro che lo hanno messo al suo posto? Egli teme che i suoi nemici avrebbero utilizzato ogni scelta a favore di idee e persone progressiste, come scuse per denunciarlo come un estremista di sinistra? Bene, come avete potuto rendervi conto, essi non avevano bisogno di pretesti del genere: è stato ritratto come un socialista per aver deliberato un programma di assistenza sanitaria analogo a quello di Mitt Romney[78], come un virulento nemico delle imprese, perché ha saputo ricordare che i grandi complessi talvolta si comportano male.

Il fatto è che i tentativi di Obama di evitare i conflitti sono stati controproducenti. I suoi oppositori rimangono pieni di intenso livore, mantre i suoi sostenitori, non avendo ricevuto considerazione, perdono ogni entusiasmo. E nelle elezioni di medio termine, il cui risultato è cruciale, la differenza di entusiasmo tra Repubblicani e Democratici potrebbe essere disastrosa per l’agenda di Obama.

Il che mi riconduce alla questione della signora Warren.

Il dibattito sulla riforma del sistema finanziario, nel quale il GOP ha fatto la figura del cattivo soggetto, doveva essere una vittoria politica per i Democratici. Gran parte della riforma, tuttavia, è profondamente tecnica: “Mantenere il requisito per il quale i derivati siano scambiati attraverso aste pubbliche”, non è propriamente un concetto che si mette su un manifesto.

Ma proteggere gli utenti, assicurare che essi non diventino vittime di pratiche finanziarie predatorie, è qualcosa che gli elettori possono intendere. E scegliere un avvocato di alto profilo dei consumatori alla guida della agenzia che deve fornire tale protezione – qualcuno la cui formazione e la cui capacità di iniziativa[79] diano ampia fiducia[80] nella costituzione della agenzia – sarebbe stata la mossa naturale, sia nella sostanza che nella forma politica. Di contro, l’altra scelta – deludendo ancora una volta i propri sostenitori con la scelta di un qualsiasi tecnocrate poco conosciuto – appare un errore evidente.

Perché allora questo tema circola ancora nell’aria? E’ vero, i Repubblicani potrebbero certamente fare ostruzionismo alla nomina della Warren, ma questo è uno scontro che l’amministrazione dovrebbe considerare benvenuto.

Ammetto di non sapere precisamente cosa stia succedendo. Ma temo che Obama sia ancora interamente preso dal suo sogno di superare le contrapposizioni partitiche, mentre ai suoi collaboratori non piace l’idea di stabilire accordi con voci forti e indipendenti. E il risultato finale di questo gioco è che l’amministrazione appare determinata a scontentare i suoi amici,

Per essere chiari, i progressisti sarebbero matti se disertassero queste elezioni: Obama può darsi che non sia il politico dei loro sogni, ma i suoi nemici sono senza scampo materia da incubo. Ma anche Obama ha le sue responsabilità. Egli non può aspettarsi un forte sostegno da gente che la sua amministrazione continua a trascurare e a offendere.

 

 

Defining Prosperity Down

By PAUL KRUGMAN
Published: August 1, 2010

I’m starting to have a sick feeling about prospects for American workers — but not, or not entirely, for the reasons you might think.

Yes, growth is slowing, and the odds are that unemployment will rise, not fall, in the months ahead. That’s bad. But what’s worse is the growing evidence that our governing elite just doesn’t care — that a once-unthinkable level of economic distress is in the process of becoming the new normal.

 

And I worry that those in power, rather than taking responsibility for job creation, will soon declare that high unemployment is “structural,” a permanent part of the economic landscape — and that by condemning large numbers of Americans to long-term joblessness, they’ll turn that excuse into dismal reality.

 

Not long ago, anyone predicting that one in six American workers would soon be unemployed or underemployed, and that the average unemployed worker would have been jobless for 35 weeks, would have been dismissed as outlandishly pessimistic — in part because if anything like that happened, policy makers would surely be pulling out all the stops on behalf of job creation.

 

But now it has happened, and what do we see?

 

First, we see Congress sitting on its hands, with Republicans and conservative Democrats refusing to spend anything to create jobs, and unwilling even to mitigate the suffering of the jobless.

We’re told that we can’t afford to help the unemployed — that we must get budget deficits down immediately or the “bond vigilantes” will send U.S. borrowing costs sky-high. Some of us have tried to point out that those bond vigilantes are, as far as anyone can tell, figments of the deficit hawks’ imagination — far from fleeing U.S. debt, investors have been buying it eagerly, driving interest rates to historic lows. But the fearmongers are unmoved: fighting deficits, they insist, must take priority over everything else — everything else, that is, except tax cuts for the rich, which must be extended, no matter how much red ink they create.

 

 

The point is that a large part of Congress — large enough to block any action on jobs — cares a lot about taxes on the richest 1 percent of the population, but very little about the plight of Americans who can’t find work.

 

Well, if Congress won’t act, what about the Federal Reserve? The Fed, after all, is supposed to pursue two goals: full employment and price stability, usually defined in practice as an inflation rate of about 2 percent. Since unemployment is very high and inflation well below target, you might expect the Fed to be taking aggressive action to boost the economy. But it isn’t.

 

 

It’s true that the Fed has already pushed one pedal to the metal: short-term interest rates, its usual policy tool, are near zero. Still, Ben Bernanke, the Fed chairman, has assured us that he has other options, like holding more mortgage-backed securities and promising to keep short-term rates low. And a large body of research suggests that the Fed could boost the economy by committing to an inflation target higher than 2 percent.

 

 

But the Fed hasn’t done any of these things. Instead, some officials are defining success down.

 

For example, last week Richard Fisher, president of the Federal Reserve Bank of Dallas, argued that the Fed bears no responsibility for the economy’s weakness, which he attributed to business uncertainty about future regulations — a view that’s popular in conservative circles, but completely at odds with all the actual evidence. In effect, he responded to the Fed’s failure to achieve one of its two main goals by taking down the goalpost.

He then moved the other goalpost, defining the Fed’s aim not as roughly 2 percent inflation, but rather as that of “keeping inflation extremely low and stable.”

 

In short, it’s all good. And I predict — having seen this movie before, in Japan — that if and when prices start falling, when below-target inflation becomes deflation, some Fed officials will explain that that’s O.K., too.

 

What lies down this path? Here’s what I consider all too likely: Two years from now unemployment will still be extremely high, quite possibly higher than it is now. But instead of taking responsibility for fixing the situation, politicians and Fed officials alike will declare that high unemployment is structural, beyond their control. And as I said, over time these excuses may turn into a self-fulfilling prophecy, as the long-term unemployed lose their skills and their connections with the work force, and become unemployable.

 

 

I’d like to imagine that public outrage will prevent this outcome. But while Americans are indeed angry, their anger is unfocused. And so I worry that our governing elite, which just isn’t all that into the unemployed, will allow the jobs slump to go on and on and on.

 

Abbassare la definizione di prosperità, di Paul Krugman

New York Times 1 agosto 2010

Comincio ad avere una sensazione sgradevole sulle prospettive dei lavoratori americani, ma non, o non soltanto, per le ragioni che potete immaginare.

E’ vero, la crescita sta rallentando ed è probabile che la disoccupazione salirà, anziché scendere, nei prossimi mesi. Questo è negativo. Ma ciò che è peggio è la dimostrazione crescente che la nostra classe dirigente semplicemente non se ne cura: un livello una volta impensabile di difficoltà economiche è sulla strada di divenire la nuova condizione normale.

Ed io temo che coloro che hanno il potere, anziché darsi il compito di creare nuovi posti di lavoro, arriveranno presto a dichiarare che l’alta disoccupazione è “strutturale”, una condizione permanente dell’orizzonte economico, e che, condannando un largo numero di americani ad una disoccupazione di lungo periodo, faranno diventare quella giustificazione una triste condizione oggettiva[81].

Non molto tempo fa, se qualcuno avesse previsto che un lavoratore americano su sei sarebbe in breve tempo finito disoccupato o sottoccupato, sarebbe stato liquidato come un pessimista stravagante, anche perché se qualcosa del genere fosse successo gli operatori politici avrebbero sicuramente usato tutte le risorse disponibili[82] in nome della creazione di posti di lavoro.

 

Ma, ora che ciò sta accadendo, a cosa si assiste?

In primo luogo, ad un Congresso che se ne sta con le mani in mano[83], con i Repubblicani ed i Democratici conservatori che si rifiutano di investire alcunchè per creare posti di lavoro, ed hanno poco voglia persino di alleviare le sofferenze dei disoccupati.

Ci viene detto che non possiamo permetterci di aiutare i disoccupati, che dobbiamo abbassare immediatamente i deficit di bilancio, altrimenti i “custodi dei bonds” faranno salire alle stelle il costo del debito statunitense. Alcuni di noi hanno cercato di far notare che questi “custodi dei bonds” non sono niente altro che creature della immaginazione dei ‘falchi’ del deficit – lungi dal rifuggire il debito degli Stati Uniti, gli investitori l’hanno acquistato con ogni premura, portando i tassi di interesse ai punti più bassi della storia. Ma i seminatori di paura sono irremovibili: combattere i deficit, insistono, deve diventare prioritario su tutto il resto – o meglio, su tutto il resto con l’eccezione degli sgravi fiscali ai ricchi, nel qual caso non contano gli sbilanci che si determinano.

Il fatto è che una ampia parte del Congresso – ampia abbastanza da bloccare ogni iniziativa sui posti di lavoro – si preoccupa molto delle tasse dell’1 per cento più ricco della popolazione, ma molto poco della condizione difficile degli americani che non possono trovare occupazione.

Ebbene, se il Congresso non assumerà iniziative, cosa può fare la Federal Reserve? La Fed, dopo tutto, si suppone che persegua due obbiettivi: la piena occupazione e la stabilità dei prezzi, che usualmente viene in pratica definita ad un tasso di inflazione attorno al 2 per cento. Sinché la disoccupazione è molto alta e l’inflazione è ben al di sotto del tasso programmato, ci si può aspettare che la Fed  voglia assumere iniziative energiche per risollevare l’economia. Ma non è così.

E’ vero che la Fed ha già spinto al massimo sull’acceleratore[84]: i tassi di interesse a breve termine, lo strumento consueto della sua politica, sono prossimi a zero. Tuttavia, Ben Bernanke ha assicurato di avere ulteriori possibilità, quali l’acquisto di maggiori quantità di titoli collegati ai mutui per la casa e la promessa di mantenere bassi i tassi a breve termine. E una gran parte di ricercatori suggerisce che la Fed potrebbe sostenere l’economia impegnandosi per una inflazione programmata superiore al 2 per cento.

 Ma la Fed non ha fatto alcuna di queste scelte. Piuttosto, alcuni dirigenti stanno abbassando la soglia della definizione del successo[85].

Per esempio, la scorsa settimana Richard Fisher, presidente della Federal Reserve Bank di Dallas, ha sostenuto che la Fed non ha responsabilità per la debolezza dell’economia, che egli ha attribuito all’incertezza delle imprese sui regolamenti futuri – un punto di vista che è diffuso negli ambienti conservatori, ma completamente in contrasto con l’effettiva evidenza dei fatti. In sostanza, egli ha risposto al mancato raggiungimento di uno dei due obbiettivi della Fed proponendo di arretrare un palo della porta[86].

Successivamente, egli ha spostato anche l’altro palo, definendo come obbiettivo della Fed non una inflazione attorno al 2 per cento, ma piuttosto quello di “mantenere l’inflazione estremamente bassa e stabile”.

In breve, va tutto bene. Ed io prevedo – avendo visto questo film in precedenza in Giappone – che se e quando i prezzi cominceranno a cadere, quando l’inflazione al di sotto del tasso programmato diventerà deflazione, qualche dirigente della Fed ci spiegherà che, anche in quel caso, è tutto a posto.

Cosa si delinea per questa strada? Ecco quanto io considero anche troppo probabile: di qua a due anni la disoccupazione sarà ancora estremamente elevata, se possibile ancora più alta di adesso. Ma invece di dedurne un impegno per una correzione della situazione, uomini politici e dirigenti della Fed di concerto dichiareranno che l’alta disoccupazione è strutturale, che va oltre le loro possibilità di controllo. E, come ho detto, col tempo queste giustificazioni si potranno trasformare in profezie che si auto-avverano, quando i disoccupati di lungo periodo avrenno perso le loro attitudini ed i loro collegamenti con il mondo del lavoro, e saranno diventati inoccupabili.

Mi piacerebbe immaginare che  l’indignazione pubblica prevenisse un risultato del genere. Ma se gli americani sono effettivamente arrabbiati, la loro rabbia è pittosto confusa[87]. E così io temo che i nostri gruppi dirigenti, che propriamente non si appassionano al tema dei disoccupati, lasceranno che la caduta dei posti di lavoro vada avanti.

 

The Flimflam Man

By PAUL KRUGMAN
Published: August 5, 2010

One depressing aspect of American politics is the susceptibility of the political and media establishment to charlatans. You might have thought, given past experience, that D.C. insiders would be on their guard against conservatives with grandiose plans. But no: as long as someone on the right claims to have bold new proposals, he’s hailed as an innovative thinker. And nobody checks his arithmetic.

 

 

Which brings me to the innovative thinker du jour: Representative Paul Ryan of Wisconsin.

Mr. Ryan has become the Republican Party’s poster child for new ideas thanks to his “Roadmap for America’s Future,” a plan for a major overhaul of federal spending and taxes. News media coverage has been overwhelmingly favorable; on Monday, The Washington Post put a glowing profile of Mr. Ryan on its front page, portraying him as the G.O.P.’s fiscal conscience. He’s often described with phrases like “intellectually audacious.”

But it’s the audacity of dopes. Mr. Ryan isn’t offering fresh food for thought; he’s serving up leftovers from the 1990s, drenched in flimflam sauce.

Mr. Ryan’s plan calls for steep cuts in both spending and taxes. He’d have you believe that the combined effect would be much lower budget deficits, and, according to that Washington Post report, he speaks about deficits “in apocalyptic terms.” And The Post also tells us that his plan would, indeed, sharply reduce the flow of red ink: “The Congressional Budget Office has estimated that Rep. Paul Ryan’s plan would cut the budget deficit in half by 2020.”

 

 

But the budget office has done no such thing. At Mr. Ryan’s request, it produced an estimate of the budget effects of his proposed spending cuts — period. It didn’t address the revenue losses from his tax cuts.

The nonpartisan Tax Policy Center has, however, stepped into the breach. Its numbers indicate that the Ryan plan would reduce revenue by almost $4 trillion over the next decade. If you add these revenue losses to the numbers The Post cites, you get a much larger deficit in 2020, roughly $1.3 trillion.

And that’s about the same as the budget office’s estimate of the 2020 deficit under the Obama administration’s plans. That is, Mr. Ryan may speak about the deficit in apocalyptic terms, but even if you believe that his proposed spending cuts are feasible — which you shouldn’t — the Roadmap wouldn’t reduce the deficit. All it would do is cut benefits for the middle class while slashing taxes on the rich.

 

 

And I do mean slash. The Tax Policy Center finds that the Ryan plan would cut taxes on the richest 1 percent of the population in half, giving them 117 percent of the plan’s total tax cuts. That’s not a misprint. Even as it slashed taxes at the top, the plan would raise taxes for 95 percent of the population.

 

 

Finally, let’s talk about those spending cuts. In its first decade, most of the alleged savings in the Ryan plan come from assuming zero dollar growth in domestic discretionary spending, which includes everything from energy policy to education to the court system. This would amount to a 25 percent cut once you adjust for inflation and population growth. How would such a severe cut be achieved? What specific programs would be slashed? Mr. Ryan doesn’t say.

 

 

After 2020, the main alleged saving would come from sharp cuts in Medicare, achieved by dismantling Medicare as we know it, and instead giving seniors vouchers and telling them to buy their own insurance. Does this sound familiar? It should. It’s the same plan Newt Gingrich tried to sell in 1995.

 

 

And we already know, from experience with the Medicare Advantage program, that a voucher system would have higher, not lower, costs than our current system. The only way the Ryan plan could save money would be by making those vouchers too small to pay for adequate coverage. Wealthy older Americans would be able to supplement their vouchers, and get the care they need; everyone else would be out in the cold.

 

In practice, that probably wouldn’t happen: older Americans would be outraged — and they vote. But this means that the supposed budget savings from the Ryan plan are a sham.

So why have so many in Washington, especially in the news media, been taken in by this flimflam? It’s not just inability to do the math, although that’s part of it. There’s also the unwillingness of self-styled centrists to face up to the realities of the modern Republican Party; they want to pretend, in the teeth of overwhelming evidence, that there are still people in the G.O.P. making sense. And last but not least, there’s deference to power — the G.O.P. is a resurgent political force, so one mustn’t point out that its intellectual heroes have no clothes.

 

But they don’t. The Ryan plan is a fraud that makes no useful contribution to the debate over America’s fiscal future.

 

Il venditore di fumo[88], di Paul Krugman

New York Times 5 agosto 2010

 

Uno degli aspetti più sconfortanti della politica americana è l’arrendevolezza[89] dei gruppi dirigenti politici e mediatici ai ciarlatani. Si poteva ritenere, data l’esperienza passata, che gli addetti ai lavori a Washington[90] sarebbero stati bene in guardia nei confronti dei conservatori con progetti grandiosi. Ma non è così: appena qualcuno dalla destra pretende di avere nuove proposte coraggiose, viene salutato come un pensatore innovativo. E nessuno si cura di verificare i suoi conti[91].

Il che mi porta al pensatore innovativo di oggi: il rappresentante al Congresso Paul Ryan del Wisconsin.

Il Signor Ryan è diventato il ragazzo prodigio[92] del Partito Repubblicano quanto a nuove idee,  grazie  al suo “Percorso per un futuro dell’America”, un programma per una importante revisione della spesa federale e delle tasse. La reazione dei notiziari è stata nettamente favorevole: lunedi, il Washington Post ha pubblicato un entusiastico profilo del Signor Ryan sulla pagina di apertura, presentandolo come la coscienza fiscale del G.O.P. E’ stato frequentemente descritto con espressioni quali “intellettualmente audace”.

Ma si tratta dell’audacia degli ignoranti[93]. Ryan non ci offre cibo fresco per il pensiero: ci serve avanzi degli anni 90, conditi con una salsa di fandonie.

Il progetto del signor Ryan propone tagli esorbitanti sia della spesa che delle tasse. Egli vorrebbe farvi credere che l’effetto combinato sarebbero deficit di bilancio molto più bassi, e, secondo il servizio del Washington Post, egli parla dei deficit “in termini apocalittici”. The Post ci dice anche che il suo programma comporterebbe, difatti, una brusca riduzione dell’ammontare del deficit: “Il Congressional Budget Office ha stimato che il progetto dell’on. Ryan taglierebbe della metà il deficit di bilancio entro il 2020”.

Ma il Budget Office non ha fatto niente del genere. Su richiesta del signor Ryan, esso ha prodotto una stima degli effetti sul bilancio del suo proposto periodo di tagli alla spesa. Esso non si è affatto occupato delle riduzioni di entrate conseguenti ai suoi sgravi fiscali.

Tuttavia, l’indipendente Tax Policy Center è andato oltre[94]. I suoi numeri indicano che Ryan ridurrebbe le entrate per quasi 4 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio. Se si aggiungono queste perdite di entrate ai numeri che cita The Post, si ha nel 2020 un deficit molto più ampio, attorno a 1.300 miliardi di dollari.

Si tratta grosso modo dello stesso deficit che il Budget Office stima per il 2020 per effetto dei programmi della amministrazione Obama. Ovvero, il signor Ryan può parlare del deficit in termini apocalittici, ma anche ammesso che le sue proposte di tagli alla spesa siano fattibili – e non dovreste ammetterlo – il suo “Percorso” non ridurrebbe il deficit. Tutto ciò che produrrebbe sarebbe un taglio ai benefici per la classe media, nel mentre ridurrebbe drasticamente le tasse per i ricchi.

E intendo davvero una riduzione drastica. Il Tax Policy Center calcola che il progetto di Ryan dimezzerebbe le tasse all’1 per cento più ricco della popolazione, assegnando a costoro il 117 per cento degli sgravi fiscali totali del programma. Non si tratta di un errore di stampa. Anche se lo sgravio fiscale fosse della massima entità, il progetto innalzerebbe le tasse per il 95 per cento della popolazione.

Infine, occupiamoci di quei tagli alle spese. Per il suo primo decennio, gran parte dei pretesi risparmi del progetto di Ryan deriverebbero dalla ipotesi di un crescita di zero dollari nelle spese discrezionali interne, la quale definizione include ogni aspetto, dalla politica energetica all’educazione, alla giustizia. Questo dato corrisponderebbe ad un taglio del 25 per cento, una volta corretto per effetto dell’inflazione e della crescita della popolazione. Come si potrebbe ottenere un taglio così severo? Quali specifici programmi verrebbero ridotti in modo così drastico? Il signor Ryan non lo dice.

Dopo il 2020, il principale preteso risparmio deriverebbe da forti tagli su Medicare, ottenuti attraverso lo smantellamento del Medicare che noi conosciamo, al suo posto prevedendo di dare agli anziani dei “buoni” e dicendo loro di acquistarsi una propria assicurazione. E’ una proposta che avete già sentita? Dovreste. Si tratta dello stesso programma che Newt Gingrich provò a rivendere nel 1995.

E sappiamo già, per l’esperienza fatta con il programma Medicare Avantage, che un sistema di “buoni” avrebbe costi più alti, e non più bassi, del sistema attuale. L’unico modo nel quale il progetto di Ryan farebbe risparmiare denaro sarebbe quello di rendere tali “buoni” troppo esigui per poter pagare una adeguata copertura assicurativa. Gli americani anziani ricchi sarebbero nelle condizioni di integrare i loro “buoni”, ed avrebbero l’assistenza di cui hanno bisogno; tutti gli altri fuori al freddo!

In pratica, tutto ciò probabilmente non avrebbe luogo: sarebbe un insulto per gli americani anziani, ed essi votano. Ma questo significa che i pretesi risparmi di bilancio del programma di Ryan sono un’impostura.

Perché, dunque, in così tanti a Washington, specialmente nei media, sono stati ingannati da questa fandonia? Non si tratta soltanto di inettitudine nel fare i conti, sebbene questa sia una parte del problema. Si tratta anche della non volontà da parte dei sedicenti centristi di guardare in faccia le realtà del moderno Partito Repubblicano: essi hanno la pretesa, a dispetto[95] di una schiacciante evidenza, che ci siano ancora persone di buon senso nel G.O.P. E, da ultimo ma non per ultimo, c’è la deferenza al potere: il G.O.P. è una forza politica che sta rinascendo, cosicchè non si deve far notare che i suoi campioni sono nudi.

Eppure lo sono[96].  Il progetto Ryan è un inganno che non dà alcun contributo utile al dibattito sul futuro della finanza pubblica americana. 

 

America Goes Dark

By PAUL KRUGMAN
Published: August 8, 2010

The lights are going out all over America — literally. Colorado Springs has made headlines with its desperate attempt to save money by turning off a third of its streetlights, but similar things are either happening or being contemplated across the nation, from Philadelphia to Fresno.

 

Meanwhile, a country that once amazed the world with its visionary investments in transportation, from the Erie Canal to the Interstate Highway System, is now in the process of unpaving itself: in a number of states, local governments are breaking up roads they can no longer afford to maintain, and returning them to gravel.

 

And a nation that once prized education — that was among the first to provide basic schooling to all its children — is now cutting back. Teachers are being laid off; programs are being canceled; in Hawaii, the school year itself is being drastically shortened. And all signs point to even more cuts ahead.

 

 

We’re told that we have no choice, that basic government functions — essential services that have been provided for generations — are no longer affordable. And it’s true that state and local governments, hit hard by the recession, are cash-strapped. But they wouldn’t be quite as cash-strapped if their politicians were willing to consider at least some tax increases.

 

And the federal government, which can sell inflation-protected long-term bonds at an interest rate of only 1.04 percent, isn’t cash-strapped at all. It could and should be offering aid to local governments, to protect the future of our infrastructure and our children.

 

But Washington is providing only a trickle of help, and even that grudgingly. We must place priority on reducing the deficit, say Republicans and “centrist” Democrats. And then, virtually in the next breath, they declare that we must preserve tax cuts for the very affluent, at a budget cost of $700 billion over the next decade.

 

In effect, a large part of our political class is showing its priorities: given the choice between asking the richest 2 percent or so of Americans to go back to paying the tax rates they paid during the Clinton-era boom, or allowing the nation’s foundations to crumble — literally in the case of roads, figuratively in the case of education — they’re choosing the latter.

 

It’s a disastrous choice in both the short run and the long run.

In the short run, those state and local cutbacks are a major drag on the economy, perpetuating devastatingly high unemployment.

It’s crucial to keep state and local government in mind when you hear people ranting about runaway government spending under President Obama. Yes, the federal government is spending more, although not as much as you might think. But state and local governments are cutting back. And if you add them together, it turns out that the only big spending increases have been in safety-net programs like unemployment insurance, which have soared in cost thanks to the severity of the slump.

 

That is, for all the talk of a failed stimulus, if you look at government spending as a whole you see hardly any stimulus at all. And with federal spending now trailing off, while big state and local cutbacks continue, we’re going into reverse.

 

 

But isn’t keeping taxes for the affluent low also a form of stimulus? Not so you’d notice. When we save a schoolteacher’s job, that unambiguously aids employment; when we give millionaires more money instead, there’s a good chance that most of that money will just sit idle.

 

And what about the economy’s future? Everything we know about economic growth says that a well-educated population and high-quality infrastructure are crucial. Emerging nations are making huge efforts to upgrade their roads, their ports and their schools. Yet in America we’re going backward.

How did we get to this point? It’s the logical consequence of three decades of antigovernment rhetoric, rhetoric that has convinced many voters that a dollar collected in taxes is always a dollar wasted, that the public sector can’t do anything right.

The antigovernment campaign has always been phrased in terms of opposition to waste and fraud — to checks sent to welfare queens driving Cadillacs, to vast armies of bureaucrats uselessly pushing paper around. But those were myths, of course; there was never remotely as much waste and fraud as the right claimed. And now that the campaign has reached fruition, we’re seeing what was actually in the firing line: services that everyone except the very rich need, services that government must provide or nobody will, like lighted streets, drivable roads and decent schooling for the public as a whole.

 

 

 

So the end result of the long campaign against government is that we’ve taken a disastrously wrong turn. America is now on the unlit, unpaved road to nowhere.

 

L’America va al buio, di Paul Krugman

New York Times 8 agosto 2010

 

Le luci si stanno spengendo dappertutto in America, letteralmente. Colorado Springs ha riempito i titoli dei giornali con il suo tentativo disperato di risparmiare fondi spengendo un terzo della illuminazione stradale, ma cose simili stanna accadendo o sono in corso di valutazione in tutto il paese, da Filadelfia a Fresno.

Nel frattempo, un paese che un tempo stupiva il mondo per i suoi investimenti visionari nel settore dei trasporti, dal Canale Erie all’Interstate Highway System[97], ha in corso un processo di rimozione degli asfalti: in vari Stati, i governi locali stanno smantellando strade delle quali non possono permettersi di curare la manutenzione, riportandole alla ghiaia.

Ed una nazione che un tempo aveva il primato dell’istruzione – che fu tra le prime a fornire la scuola di base a tutti i bambini – ora sta riducendo la spesa. Gli insegnanti stanno per essere licenziati; i programmi stanno per essere cancellati; alle Hawaii, lo stesso anno scolastico sta per essere drasticamente ridotto. E tutti i segnali annunciano tagli persino maggiori per l’avvenire.

Ci è stato detto che non abbiamo scelta, che le funzioni di base della amministrazione pubblica – quei servizi essenziali che sono stati forniti per generazioni – non sono più sostenibili. Ed è vero che i governi statali e locali, colpiti duramente dalla recessione, hanno i bilanci in rosso. Ma essi non sarebbero così disastrati se i loro uomini politici avessero voluto prendere in considerazione almeno alcuni incrementi fiscali.

E il governo federale, che può collocare obbligazioni a lungo termine protette dalla inflazione ad un tasso di interesse del solo 1,04 per cento, non è in fin dei conti così in rosso. Esso potrebbe e dovrebbe aver offerto aiuto ai governi locali, per proteggere il futuro delle nostre infrastrutture e dei nostri figli.

Ma Washington sta fornendo soltanto un rivolo di aiuto, ed anche quello con parsimonia. Dobbiamo dare priorità alla riduzione del deficit, dicono i Repubblicani ed i “centristi” Democratici. E poi, quasi un attimo dopo[98], dichiarano che dobbiamo conservare gli sgravi fiscali per i ceti più abbienti, con un costo di 700 miliardi di dollari nel prossimo decennio.

In sostanza, una larga parte della nostra classe politica sta mettendo in evidenza le sue priorità: dinanzi alla scelta tra il chiedere al circa due per cento più ricco della popolazione di tornare a pagare le aliquote fiscali che pagava durante il boom dell’epoca di Clinton, oppure di consentire che le fondamenta del paese si sgretolino – alla lettera, nel caso delle strade, figurativamente in quello dell’istruzione – essi scelgono quest’ultima soluzione.

Si tratta di una scelta disastrosa, nell’immediato come nel lungo termine.

Nell’immediato, questi tagli dei governi statali e locali sono un importante impedimento all’economia, che perpetua una devastante elevata disoccupazione.

E’ di decisiva importanza tenere a mente i governi statali e locali, quando si sentono individui che blaterano della perdita di controllo della spesa pubblica sotto il Presidente Obama. E’ vero, il governo federale sta spendendo di più, sebbene non così tanto quanto si pensa. Ma gli Stati ed i governi locali stanno tagliando le spese. E se voi li sommate, emerge che l’unico grande incremento di spesa ha avuto luogo nei programmi per le reti della sicurezza sociale quali l’indennità di disoccupazione, i cui costi sono saliti alle stelle per effetto della gravità della crisi.

Cioè, dopo tutto il gran parlare del fallimento della misure di sostegno, se si guarda alla spesa pubblica nella sua interezza, in fin dei conti a fatica si riconosce in cosa sia consistito il sostegno. E con una spesa federale che adesso scivola via, mentre i grandi tagli degli Stati e dei governi locali proseguono, stiamo finendo nella situazione opposta.

Ma non è una forma di sostegno anche l’abbassare le tasse ai più abbienti? No, come dovreste esservi accorti. Se si salva un posto di lavoro ad un insegnante, quello è senza alcun dubbio un aiuto all’occupazione; se invece si danno più soldi ai milionari, c’è una buona probabilità che gran parte di quei soldi semplicemente gireranno a vuoto[99].

Cosa dire, infine, del futuro dell’economia? Tutto ciò che sappiamo sulla crescita dell’economia è che una popolazione bene istruita ed infrastrutture di alta qualità sono cruciali. Le nazioni emergenti stanno facendo sforzi imponenti per migliorare le loro strade, i loro porti e le loro scuole. Tuttavia, in America noi stiamo andando indietro.

Come siamo arrivati a questo punto? Esso  è la logica conseguenza di tre decenni di retorica antigovernamentale, retorica che ha convinto molti elettori che un dollaro riscosso di tasse è un dollaro sprecato, che il settore pubblico non può fare niente di buono.

La campagna antigovernamentale si è sempre espressa nei termini di una opposizione allo spreco ed alle frodi – le indennità versate alle regine della sicurezza sociale che guidano le Cadillac o agli sterminati eserciti di inutili burocrati che accumulano cartaccia. Ma questi sono miti, come è evidente: non c’è mai stato neanche lontanamente un tale spreco ed una tale frode quali la destra pretende. Ed ora che la campagna ha dato i suoi frutti[100], ci accorgiamo cosa effettivamente fosse nel mirino[101] di quella campagna: i servizi dei quali hanno bisogno tutti, ad eccezione di coloro che sono molto ricchi, i servizi che lo Stato e nessun altro deve fornire[102], come l’illuminazione delle strade, una viabilità percorribile e scuole dignitose per la comunità nel suo complesso. 

E così il risultato finale di quella lunga campagna contro le funzioni pubbliche è che abbiamo preso una piega disastrosamente sbagliata[103]. L’America si trova oggi su una strada senza illuminazione e senza asfalto, che non porta da nessuna parte.

 

 

Paralysis at the Fed

By PAUL KRUGMAN
Published: August 12, 2010

Ten years ago, one of America’s leading economists delivered a stinging critique of the Bank of Japan, Japan’s equivalent of the Federal Reserve, titled “Japanese Monetary Policy: A Case of Self-Induced Paralysis?” With only a few changes in wording, the critique applies to the Fed today.

 

At the time, the Bank of Japan faced a situation broadly similar to that facing the Fed now. The economy was deeply depressed and showed few signs of improvement, and one might have expected the bank to take forceful action. But short-term interest rates — the usual tool of monetary policy — were near zero and could go no lower. And the Bank of Japan used that fact as an excuse to do no more.

 

 

That was malfeasance, declared the eminent U.S. economist: “Far from being powerless, the Bank of Japan could achieve a great deal if it were willing to abandon its excessive caution and its defensive response to criticism.” He rebuked officials hiding “behind minor institutional or technical difficulties in order to avoid taking action.”

 

 

Who was that tough-talking economist? Ben Bernanke, now the chairman of the Federal Reserve. So why is the Bernanke Fed being just as passive now as the Bank of Japan was a decade ago?

Now, America’s current economic troubles aren’t exactly identical to those of Japan in 1999-2000: Japan was experiencing outright deflation, while we aren’t — yet. But inflation is well below the Fed’s target of around 2 percent, and it is continuing to slide. And Americans face a level of unemployment, and sheer human misery, far worse than anything Japan went through.

 

 

Yet the Fed is doing almost nothing to confront these troubles.

What could the Fed be doing? Back when, Mr. Bernanke suggested, among other things, that the Bank of Japan could get traction by buying large quantities of “nonstandard” assets — that is, assets other than the short-term government debt central banks normally hold. The Fed actually put that idea into practice during the most acute phase of the financial crisis, acquiring, in particular, large amounts of mortgage-backed securities. However, it stopped those purchases in March.

 

Since then, the economic news has grown steadily worse. And earlier this week, the Fed changed course — but barely. It now says that it will reinvest the proceeds from maturing securities in long-term government bonds. That’s a trivial change, basically the least the Fed could get away with without facing a firestorm of criticism — and far short of the major asset-purchase program the Fed should be undertaking.

 

 

Back in 2000, Mr. Bernanke also suggested that the Bank of Japan could move expectations by making announcements about its future policies. In particular, he argued that it could make private-sector borrowing more attractive by announcing that it would keep interest rates low until deflation had given way to 3 percent or 4 percent inflation — an idea originally suggested by yours truly. Since we are, if anything, in worse shape now than Japan was in 2000, an inflation target of at least 3 percent would very much be in America’s interest. But as chairman of the Fed, Mr. Bernanke has explicitly rejected any such move.

 

 

 

What’s going on here? Has Mr. Bernanke been intellectually assimilated by the Fed Borg? I prefer to believe that he’s being political, unwilling to engage in open confrontation with other Fed officials — especially those regional Fed presidents who fear inflation, even with deflation the clear and present danger, and are evidently unmoved by the plight of the unemployed.

 

And in fairness to Mr. Bernanke, discord among senior officials also makes it difficult for policy to change expectations: it would be hard to credibly commit to higher inflation if this commitment were constantly being undercut by speeches out of the Richmond or Dallas Feds. In fact, I’d argue that loose talk by some Fed officials is already having a negative economic impact. But while Mr. Bernanke doesn’t have the authority to stop that loose talk, he could make it clear that it doesn’t represent overall Fed policy.

 

 

Last, but not least, policy is suffering from an act of neglect by President Obama, who waited until his 16th month in office before offering a full slate of nominees to fill vacancies on the Federal Reserve Board. If he had filled those slots quickly — his nominees still aren’t in place — the Fed might be less passive.

 

 

But whatever the reasons, the fact is that the Fed — which is required by statute to promote “maximum employment” — isn’t doing its job. Instead, like the rest of Washington, it’s inventing reasons to dither in the face of mass unemployment. And while the Fed sits there in its self-inflicted paralysis, millions of Americans are losing their jobs, their homes and their hopes for the future.

 

Paralisi alla Fed, di Paul Krugman

New York Times 12 agosto 2010

 

Dieci anni fa, un’economista americano di spicco espresse una critica pungente alla Banca del Giappone, l’equivalente giapponese della Federal Reserve, dal titolo “Politica monetaria giapponese: un caso di paralisi autoindotta?”. Con solo poche modifiche nelle espressioni, quella critica è calzante per la Fed di oggi.

A quel tempo, la Banca del Giappone si misurava con una situazione in termini generali simile a quella con la quale si misura la Fed oggi. L’economia era profondamente depressa e mostrava pochi segni di miglioramento, ci si sarebbe aspettati che la banca centrale assumesse una iniziativa energica. Ma i tassi di interesse a breve termine – lo strumento usuale della politica monetaria –  erano prossimi a zero e non avrebbero potuto scendere ulteriormente. La Banca del Giappone utilizzò questo fatto come una scusa per non fare niente di più.

Era una condotta non corretta, dichiarò l’eminente economista americano: “Lungi dall’essere impotente, la Banca del Giappone potrebbe ottenere molto se volesse abbandonare la sua eccessiva cautela e le sue risposte difensive alle critiche”. Egli rimproverò quei dirigenti di nascondersi “dietro difficoltà istituzionali e tecniche secondarie allo scopo di evitare di assumere iniziative”.

 Chi era l’economista che si espresse in modo così severo? Ben Bernanke, oggi presidente della Federal Reserve. Perché dunque il Bernanke della Fed è sul momento esattamente passivo come la Banca del Giappone era dieci anni orsono?

Ora, gli attuali guai economici dell’America non sono esattamente gli stessi di quelli del Giappone negli anni 1999 – 2000; il Giappone si trovava in condizioni di esplicita deflazione, mentre noi non siamo a quel punto – ancora. Ma l’inflazione è assai al di sotto dell’obbiettivo del 2 per cento della Fed, e continua a scivolare. E gli americani fanno i conti con un livello di disoccupazione, e di vera e propria umana miseria, assai peggiori di quanto il Giappone non avesse sperimentato.

Tuttavia la Fed non sta facendo quasi niente per fronteggiare questi problemi.

Cosa potrebbe fare la Fed? A quel tempo il signor Bernanke suggerì, tra le altre cose, che la Banca del Giappone avrebbe provocato una spinta con l’acquisto di larghe quantità di assets ‘irregolari’, ovvero di assets  diversi da quelli a breve termine sul debito pubblico, che normalmente le  banche centrali detengono. La Fed effettivamente mise in atto quell’idea durante la fase più acuta della crisi finanziaria, in particolare acquistando ampie somme di titoli garantiti da mutui. Tuttavia, essa ha fermato tali acquisti nel mese di marzo.

 Da allora, le notizie sull’economia sono andate regolarmente peggiorando. E, agli inizi di questa settimana, la Fed ha cambiato rotta, ma  in modo irrisorio. Essa ora afferma che reinvestirà il ricavato dei titoli in scadenza in obbligazioni statali a lungo termine. Si tratta di un cambiamento modesto, in sostanza il minimo con cui la Fed avrebbe potuto caversela senza andare incontro ad una tempesta di critiche, ed assai al di sotto di quel significativo programma di acquisto di assets che la Fed dovrebbe intraprendere.

Nel passato 2000, Bernanke suggerì anche che la Banca del Giappone mettesse in moto aspettative per effetto di annunci sulle sue future politiche. In particolare, egli sostenne che si sarebbe potuto rendere molto più attrattivo il settore dei prestiti ai privati con l’annuncio che si sarebbero tenuti bassi i saggi di interesse, fino a quando la deflazione non avesse lasciato il posto ad una inflazione attorno al 3 o 4 per cento, una idea originariamente suggerita dal sottoscritto. Poiché noi siamo in una condizione semmai peggiore di quella in cui si trovava il Giappone nell’anno 2000, una inflazione programmata almeno al 3 per cento sarebbe grandemente nell’interesse del paese. Ma, come Presidente della Fed, Bernanke ha rspinto in modo esplicito ogni iniziativa del genere.

Che cosa sta accadendo? Il signor Bernanke è stato intellettualmente assimilato dai Borg[104] della Fed? Preferisco credere che lo faccia per ragioni politiche, che non abbia voglia di impegnarsi in uno scontro aperto con altri dirigenti della Fed, specialmente con quei presidenti delle Fed regionali che temono l’inflazione, persino in presenza di un pericolo chiaro ed attuale di deflazione, e che sono evidentemente irremovibili per il solo effetto della triste condizione dei disoccupati.

E per giustizia verso Bernanke, il parere discorde dei principali dirigenti della Fed rende anche difficile una politica di modifica delle aspettative: sarebbe difficile impegnarsi credibilmente per una inflazione più elevata se questo impegno viene costantemente svalutato dai discorsi provenienti dalle Fed di Richmond o di Dallas. In effetti, sarei portato a pensare che i discorsi a ruota libera di qualche dirigente della Fed abbiano già un impatto negativo sull’economia. Ma se il signor Bernanke non ha l’autorità per fermare quei discorsi in libertà, egli potrebbe mettere in chiaro che non rappresentano la politica complessiva della Fed.

Da ultimo, ma non per ultimo, la politica è in sofferenza per un atto di negligenza del Presidente Obama, che ha atteso sino al suo sedicesimo mese in carica prima di presentare una lista completa di candidati per riempire i posti vuoti nel Consiglio della Federal Reserve. Se egli avesse riempito quegli spazi rapidamente – le sue nomine non sono ancora esecutive – la Fed avrebbe potuto essere meno passiva.

Ma, quali che siano le ragioni, il fatto è che la Fed – alla quale è richiesto per statuto di promuovere “la massima occupazione” – non sta assolvendo al suo compito. Piuttosto, come tutti a Washington, essa accampa scuse per esitare dinanzi ad una disoccupazione di massa. E mentre la Fed resta bloccata nella paralisi che si è provocata da sola, milioni di americani stanno perdendo il loro lavoro, le loro case e le loro speranze per il futuro.

 

 

Attacking Social Security

By PAUL KRUGMAN
Published: August 15, 2010

Social Security turned 75 last week. It should have been a joyous occasion, a time to celebrate a program that has brought dignity and decency to the lives of older Americans.

 

But the program is under attack, with some Democrats as well as nearly all Republicans joining the assault. Rumor has it that President Obama’s deficit commission may call for deep benefit cuts, in particular a sharp rise in the retirement age.

 

Social Security’s attackers claim that they’re concerned about the program’s financial future. But their math doesn’t add up, and their hostility isn’t really about dollars and cents. Instead, it’s about ideology and posturing. And underneath it all is ignorance of or indifference to the realities of life for many Americans.

 

About that math: Legally, Social Security has its own, dedicated funding, via the payroll tax (“FICA” on your pay statement). But it’s also part of the broader federal budget. This dual accounting means that there are two ways Social Security could face financial problems. First, that dedicated funding could prove inadequate, forcing the program either to cut benefits or to turn to Congress for aid. Second, Social Security costs could prove unsupportable for the federal budget as a whole.

 

 

 

But neither of these potential problems is a clear and present danger. Social Security has been running surpluses for the last quarter-century, banking those surpluses in a special account, the so-called trust fund. The program won’t have to turn to Congress for help or cut benefits until or unless the trust fund is exhausted, which the program’s actuaries don’t expect to happen until 2037 — and there’s a significant chance, according to their estimates, that that day will never come.

 

 

Meanwhile, an aging population will eventually (over the course of the next 20 years) cause the cost of paying Social Security benefits to rise from its current 4.8 percent of G.D.P. to about 6 percent of G.D.P. To give you some perspective, that’s a significantly smaller increase than the rise in defense spending since 2001, which Washington certainly didn’t consider a crisis, or even a reason to rethink some of the Bush tax cuts.

 

So where do claims of crisis come from? To a large extent they rely on bad-faith accounting. In particular, they rely on an exercise in three-card monte in which the surpluses Social Security has been running for a quarter-century don’t count — because hey, the program doesn’t have any independent existence; it’s just part of the general federal budget — while future Social Security deficits are unacceptable — because hey, the program has to stand on its own.

 

It would be easy to dismiss this bait-and-switch as obvious nonsense, except for one thing: many influential people — including Alan Simpson, co-chairman of the president’s deficit commission — are peddling this nonsense.

 

And having invented a crisis, what do Social Security’s attackers want to do? They don’t propose cutting benefits to current retirees; invariably the plan is, instead, to cut benefits many years in the future. So think about it this way: In order to avoid the possibility of future benefit cuts, we must cut future benefits. O.K.

 

What’s really going on here? Conservatives hate Social Security for ideological reasons: its success undermines their claim that government is always the problem, never the solution. But they receive crucial support from Washington insiders, for whom a declared willingness to cut Social Security has long served as a badge of fiscal seriousness, never mind the arithmetic.

 

 

And neither wing of the anti-Social-Security coalition seems to know or care about the hardship its favorite proposals would cause.

 

The currently fashionable idea of raising the retirement age even more than it will rise under existing law — it has already gone from 65 to 66, it’s scheduled to rise to 67, but now some are proposing that it go to 70 — is usually justified with assertions that life expectancy has risen, so people can easily work later into life. But that’s only true for affluent, white-collar workers — the people who need Social Security least.

 

 

I’m not just talking about the fact that it’s a lot easier to imagine working until you’re 70 if you have a comfortable office job than if you’re engaged in manual labor. America is becoming an increasingly unequal society — and the growing disparities extend to matters of life and death. Life expectancy at age 65 has risen a lot at the top of the income distribution, but much less for lower-income workers. And remember, the retirement age is already scheduled to rise under current law.

 

So let’s beat back this unnecessary, unfair and — let’s not mince words — cruel attack on working Americans. Big cuts in Social Security should not be on the table.

 

L’offensiva contro la Sicurezza Sociale, di Paul Krugman

New York Times 15 agosto 2010

La Sicurezza Sociale ha compiuto 75 anni la scorsa settimana. Avrebbe dovuto essere una occasione gioiosa, un momento per celebrare un programma che ha portato dignità e decenza nelle vite degli anziani d’America.

Ma il programma è sotto attacco, e qualche democratico assieme a quasi tutti i repubblicani si sono coalizzati nell’assalto. Si vocifera che la commissione sul deficit del Presidente Obama potrebbe pronunciarsi per sensibili tagli alle indennità, in particolare per un brusco innalzamento dell’età pensionabile.

Coloro che attaccano la Sicurezza Sociale si pretendono preoccupati per le prospettive finanziarie del programma. Ma i loro conti non hanno senso, e la loro ostilità non riguarda effettivamente i dollari ed i centesimi. Piuttosto ha a che fare con una ideologia e con un desiderio di apparire[105]. E, sotto di esse, c’è una completa ignoranza e indifferenza verso le realtà della vita di molti americani.

A proposito dei numeri: per legge, la Sicurezza Sociale ha un suo proprio specifico fondo, attraverso una tassazione degli stipendi (denominato FICA[106] sulle vostre buste paga). Ma essa è anche ricompresa nel più complessivo bilancio federale. Questo duplice finanziamento significa che ci sono due modi nei quali la Sicurezza Sociale  potrebbe manifestare problemi finanziari. In primo luogo, quel fondo speciale dovrebbe rivelarsi inadeguato, costringendo a tagliare le indennità del programma oppure a rivolgersi al Congresso per un aiuto. In secondo luogo, i costi della Sicurezza Sociale dovrebbero rivelarsi insopportabili per il bilancio federale nel suo complesso.

Ma nessuno di questi potenziali problemi si presenta come un pericolo chiaro e attuale. La Sicurezza Sociale ha amministrato surplus per l’ultimo quarto di secolo, surplus che sono stati versati i un conto speciale, il cosiddetto fondo associativo.[107]  Non sarà necessario girare il programma al Congresso per un aiuto o per tagli alle indennità finché e senza che il fondo associativo sia esaurito, la qual cosa i calcoli attuariali del programma non si aspettano che accada sino al 2037 – e ci sono significative possibilità, secondo le loro stime, che quel giorno non debba mai arrivare.

Nel frattempo, la crescita della popolazione provocherà effettivamente (nel corso dei prossimi venti anni) un incremento dei costi delle indennità della Sicurezza Sociale dall’attuale 4,8 per cento a circa il 6 per cento del PIL. Per fornirvi qualche termine di confronto, si tratta di un incremento significativamente più piccolo della crescita delle spese per la difesa dall’anno 2001, che a Washington non si è considerata un segno di crisi, e neanche un motivo per rimettere in discussione alcuni degli sgravi fiscali di Bush.

Da dove vengono, dunque, quelle affermazioni di crisi? In larga misura esse dipendono da conti in malafede. In particolare, essi dipendono da una pratica del gioco delle tre carte[108] secondo la quale i surplus della Sicurezza Sociale che sono stati gestiti in un quarto di secolo non contano – perché, guarda un po’[109], il programma non ha alcuna esistenza autonoma; esso fa semplicemente parte del complessivo bilancio federale – mentre i futuri deficit della Sicurezza Sociale sarebbero inaccettabili – perché, guarda un po’, il programma deve reggersi sulle sue gambe.

Sarebbe semplice liquidare questi trucchi[110] come manifeste illogicità, se non fosse per un aspetto: molte persone influenti – incluso Alan Simpson, coadiuvante del presidente della commissione sul deficit – mettono in giro[111] queste illogicità.

Ed essendosi inventati una crisi, cosa intendono fare quelli che sono all’offensiva della Sicurezza Sociale? Essi non propongono di diminuire le indennità agli attuali pensionati: il piano consiste, invece,  nel tagliare immancabilmente i benefici per molti anni avvenire. Il ragionamento è grosso modo il seguente[112]: allo scopo di evitare la possibilità di tagliare le indennità future, dobbiamo tagliare le indennità future. Suvvia!

Che cosa sta realmente venendo al pettine? I conservatori odiano la Sicurezza Sociale per ragioni ideologiche: la sua popolarità mina la certezza che il governo sia sempre il problema e mai la soluzione. Ma essi ottengono un sostegno cruciale dagli addetti ai lavori di Washington, per i quali la esplicita volontà di tagliare la Sicurezza Sociale è stata a lungo un distintivo di scrupolo finanziario, senza badare alla aritmetica.

E nessuna di queste due componenti della coalizione ostile alla Sicurezza Sociale pare essere a conoscenza  o tentomeno preoccuparsi delle avversità che le loro proposte preferite provocherebbero.

L’idea attualmente di moda di innalzare l’età pensionabile anche oltre quanto previsto dalla legislazione attuale – essa è già salita da 65 a 66 anni, è previsto che salga a 67, ma adesso alcuni stanno proponendo che essa arrivi a 70 – è solitamente giustificata con l’argomento che la vita attesa è cresciuta, e che dunque la gente può agevolmente lavorare più a lungo. Ma questo è vero soltanto per i lavoratori più abbienti, per i “colletti bianchi”, le persone che hanno meno bisogno della Sicurezza Sociale.

Non sto solo parlando del fatto che è un bel po’ più facile immaginare di lavorare sino a 70 anni se si ha un confortevole lavoro di ufficio piuttosto di essere impegnati in lavori manuali. L’America sta diventando una società crescentemente diseguale, e le crescenti disparità arrivano a riguardare le questioni della vita e della morte. La vita che resta all’età di 65 anni è cresciuta considerevolmente ai livelli più elevati della distribuzione del reddito, ma molto meno per i lavoratori con i redditi più bassi. E, si ricordi, l’età pensionabile è già previsto che salga con la legislazione attuale.

Dunque, si respinga questo attacco non necessario, ingiusto e, senza mezzi termini, crudele ai lavoratori americani. Grandi tagli alla Sicurezza Sociale non dovrebbero nemmeno essere posti in discussione.

 

 

 

Appeasing the Bond Gods

By PAUL KRUGMAN
Published: August 19, 2010

As I look at what passes for responsible economic policy these days, there’s an analogy that keeps passing through my mind. I know it’s over the top, but here it is anyway: the policy elite — central bankers, finance ministers, politicians who pose as defenders of fiscal virtue — are acting like the priests of some ancient cult, demanding that we engage in human sacrifices to appease the anger of invisible gods.

 

Hey, I told you it was over the top. But bear with me for a minute.

Late last year the conventional wisdom on economic policy took a hard right turn. Even though the world’s major economies had barely begun to recover, even though unemployment remained disastrously high across much of America and Europe, creating jobs was no longer on the agenda. Instead, we were told, governments had to turn all their attention to reducing budget deficits.

 

Skeptics pointed out that slashing spending in a depressed economy does little to improve long-run budget prospects, and may actually make them worse by depressing economic growth. But the apostles of austerity — sometimes referred to as “austerians” — brushed aside all attempts to do the math. Never mind the numbers, they declared: immediate spending cuts were needed to ward off the “bond vigilantes,” investors who would pull the plug on spendthrift governments, driving up their borrowing costs and precipitating a crisis. Look at Greece, they said.

 

The skeptics countered that Greece is a special case, trapped by its use of the euro, which condemns it to years of deflation and stagnation whatever it does. The interest rates paid by major nations with their own currencies — not just the United States, but also Britain and Japan — showed no sign that the bond vigilantes were about to attack, or even that they existed.

 

 

Just you wait, said the austerians: the bond vigilantes may be invisible, but they must be feared all the same.

This was a strange argument even a few months ago, when the U.S. government could borrow for 10 years at less than 4 percent interest. We were being told that it was necessary to give up on job creation, to inflict suffering on millions of workers, in order to satisfy demands that investors were not, in fact, actually making, but which austerians claimed they would make in the future.

 

But the argument has become even stranger recently, as it has become clear that investors aren’t worried about deficits; they’re worried about stagnation and deflation. And they’ve been signaling that concern by driving interest rates on the debt of major economies lower, not higher. On Thursday, the rate on 10-year U.S. bonds was only 2.58 percent.

 

So how do austerians deal with the reality of interest rates that are plunging, not soaring? The latest fashion is to declare that there’s a bubble in the bond market: investors aren’t really concerned about economic weakness; they’re just getting carried away. It’s hard to convey the sheer audacity of this argument: first we were told that we must ignore economic fundamentals and instead obey the dictates of financial markets; now we’re being told to ignore what those markets are actually saying because they’re confused.

 

 

You see, then, why I find myself thinking in terms of strange and savage cults, demanding human sacrifices to appease unseen forces.

 

And, yes, we are talking about sacrifices. Anyone who doubts the suffering caused by slashing spending in a weak economy should look at the catastrophic effects of austerity programs in Greece and Ireland.

Maybe those countries had no choice in the matter — although it’s worth noting that all the suffering being imposed on their populations doesn’t seem to have done anything to improve investor confidence in their governments.

But, in America, we do have a choice. The markets aren’t demanding that we give up on job creation. On the contrary, they seem worried about the lack of action — about the fact that, as Bill Gross of the giant bond fund Pimco put it earlier this week, we’re “approaching a cul-de-sac of stimulus,” which he warns “will slow to a snail’s pace, incapable of providing sufficient job growth going forward.”

 

 

It seems almost superfluous, given all that, to mention the final insult: many of the most vocal austerians are, of course, hypocrites. Notice, in particular, how suddenly Republicans lost interest in the budget deficit when they were challenged about the cost of retaining tax cuts for the wealthy. But that won’t stop them from continuing to pose as deficit hawks whenever anyone proposes doing something to help the unemployed.

 

So here’s the question I find myself asking: What will it take to break the hold of this cruel cult on the minds of the policy elite? When, if ever, will we get back to the job of rebuilding the economy?

Placare gli Dei delle obbligazioni, di Paul Krugman

New York Times 19 agosto 2010

In questi giorni, quando mi soffermo su quella che viene presentata come una politica economica responsabile, c’è un’analogia che continua a passarmi per la mente. So che è sopra le righe, ma comunque è la seguente: l’elite politica – i banchieri centrali, i ministri delle finanze, i politici che si atteggiano a difensori della virtù finanziaria – si comportano come sacerdoti di un culto antico, chiedondoci di impegnarci in sacrifici umani per placare l’ira di Dei invisibili.

Beh, l’avevo detto che era sopra le righe. Ma sopportatemi per un minuto.

Sulla fine dello scorso anno il pregiudizio comune sulla politica economica svoltò a destra in modo brusco. Anche se le principali economie del mondo avevano appena cominciato a riprendersi, anche se la disoccupazione restava disastrosamente elevata in gran parte dell’America e dell’Europa, la creazione di lavoro uscì dall’agenda. Piuttosto, ci venne detto, i governi devono volgere la loro attenzione alla riduzione dei deficit di bilancio.

Gli scettici sottolinearono che ridurre la spesa pubblica in una economia depressa migliora di poco le prospettive di bilancio a lungo termine, mentre può rendere effettivamente peggiore la crescita della depressione economica. Ma gli apostoli dell’austerità – talvolta definiti come “la setta degli austeri[113]” –  ignorarono ogni invito a fare i conti. Non contano i numeri, dichiararono: i tagli immediati alla spesa pubblica erano necessari per respingere i “guardiani dei bonds”, ovvero gli investitori che avrebbero staccato la spina ai governi spendaccioni, spingendo in alto i loro costi sul prestito e provocando una crisi. Guardate alla Grecia, dissero.

Gli scettici replicarono che la Grecia era una caso speciale, intrappolata com’è dall’utilizzo dell’euro, che la condanna ad anni di deflazione e di stagnazione qualsiasi cosa essa faccia. I tassi di interesse pagati dalle principali nazioni con le loro proprie valute – non solo gli Stati Uniti, ma anche l’Inghilterra ed il Giappone – non mostravano alcun segno che i “guardiani dei bonds” fossero sul punto di attaccare, e neanche che esistessero.

Dovete solo aspettare, disse la setta degli austeri: i guardiani dei bonds sono forse invisibili, ma vanno temuti lo stesso.

Questo era un argomento strano persino pochi mesi fa, quando il governo degli Stati Uniti poteva prendere prestiti decennali ad un interesse inferiore al 4 per cento. Ci venne detto che era necessario smetterla con la creazione di posti di lavoro, che si doveva infliggere patimenti a milioni di lavoratori, allo scopo di soddisfare richieste che, di fatto, gli investitori non stavano in realtà facendo, ma che la setta degli austeri pretendeva avrebbero fatto in futuro.

Ma l’argomento è diventato persino più strano di recente, quando è diventato chiaro che gli investitori non sono preoccupati del deficit; essi sono preoccupati dalla stagnazione e dalla deflazione. E stanno segnalando quella preoccupazione spingendo i tassi di interesse delle principali economie più in basso, non più in alto. Giovedì, i tasso dei bonds decennali degli Stati Uniti era soltanto del 2,58 per cento.

Com’è, dunque, che la setta degli austeri fa i conti con il fatto che i tassi di interesse stanno scendendo, anziché salire alle stelle? L’ultima moda pare consista nell’affermazione secondo la quale ci sarebbe una bolla nel mercato dei bonds: gli investitori non sono realmente preoccupati della debolezza dell’economia; essi stanno soltanto dislocandosi altrove[114]. E’ difficile trasmettere la assoluta audacia di questo argomento: prima ci viene detto che dobbiamo ignorare i fondamentali dell’economia e piuttosto obbedire agli ordini dei mercati finanziari; ora ci viene detto di ignorare quello che quei mercati effettivamente segnalano perché sarebbero confusi.

Vi rendete conto, dunque, perché io mi ritrovi a pensare nei termini di culti strani e selvaggi, che domandano sacrifici umani per placare forze invisibili.

E, in effetti, proprio di sacrifici si tratta. Ognuno che abbia dubbi sulle sofferenze provocate dal crollo della spesa pubblica in economia depresse dovrebbe guardare agli effetti catastrofici dei programmi di austerità in Grecia e in Irlanda.

Può darsi che questi paesi non avessero alternative, sebbene sia degno di nota il fatto che tutte le sofferenze imposte alle loro popolazioni non sembra abbiano migliorato in alcun modo la fiducia degli investitori sui loro governi.

Ma, in America abbiamo certamente una alternativa. I mercati non ci stanno chiedendo di farla finita con la creazione di lavoro. Al contrario, essi sembrano preoccupati per una mancanza di iniziativa, per i fatto che, come ha affermato agli inizi di questa settimana Bill Gross, del gigantesco bond fund Pimco, “ci stiamo avvicinando al cul-de-sac delle misure di sostegno”, il che egli teme “avrà la lentezza di un passo di lumaca, incapace di fornire d’ora innanzi una adeguata crescita dell’occupazione”.

Sembra quasi superfluo, considerato tutto ciò, fare menzione dell’insulto finale: molti dei più vociferanti nella setta degli austeri sono, naturalmente, degli ipocriti. Si noti, in particolare, la rapidità con la quale i Repubblicani hanno perso interesse al deficit di bilancio, nel momento in cui hanno aperto la sfida del mantenimento degli sgravi fiscali per i ceti abbienti. Ma questo non impedirà loro di continuare ad atteggiarsi a falchi del deficit, ogni volta che qualcuno proporrà di fare qualcosa per aiutare i disoccupati.

Questo è dunque il tema sul quale mi interrogo: cosa ci vorrà per interrompere l’influenza di questo culto spietato nella testa dei gruppi dirigenti della politica? Quando, se mai accadrà, torneremo ad occuparci della ricostruzione dell’economia? 

 

 

 

Now That’s Rich

By PAUL KRUGMAN
Published: August 22, 2010

We need to pinch pennies these days. Don’t you know we have a budget deficit? For months that has been the word from Republicans and conservative Democrats, who have rejected every suggestion that we do more to avoid deep cuts in public services and help the ailing economy.

 

But these same politicians are eager to cut checks averaging $3 million each to the richest 120,000 people in the country.

 

What — you haven’t heard about this proposal? Actually, you have: I’m talking about demands that we make all of the Bush tax cuts, not just those for the middle class, permanent.

Some background: Back in 2001, when the first set of Bush tax cuts was rammed through Congress, the legislation was written with a peculiar provision — namely, that the whole thing would expire, with tax rates reverting to 2000 levels, on the last day of 2010.

Why the cutoff date? In part, it was used to disguise the fiscal irresponsibility of the tax cuts: lopping off that last year reduced the headline cost of the cuts, because such costs are normally calculated over a 10-year period. It also allowed the Bush administration to pass the tax cuts using reconciliation — yes, the same procedure that Republicans denounced when it was used to enact health reform — while sidestepping rules designed to prevent the use of that procedure to increase long-run budget deficits.

 

 

 

Obviously, the idea was to go back at a later date and make those tax cuts permanent. But things didn’t go according to plan. And now the witching hour is upon us.

 

So what’s the choice now? The Obama administration wants to preserve those parts of the original tax cuts that mainly benefit the middle class — which is an expensive proposition in its own right — but to let those provisions benefiting only people with very high incomes expire on schedule. Republicans, with support from some conservative Democrats, want to keep the whole thing.

 

And there’s a real chance that Republicans will get what they want. That’s a demonstration, if anyone needed one, that our political culture has become not just dysfunctional but deeply corrupt.

 

What’s at stake here? According to the nonpartisan Tax Policy Center, making all of the Bush tax cuts permanent, as opposed to following the Obama proposal, would cost the federal government $680 billion in revenue over the next 10 years. For the sake of comparison, it took months of hard negotiations to get Congressional approval for a mere $26 billion in desperately needed aid to state and local governments.

 

And where would this $680 billion go? Nearly all of it would go to the richest 1 percent of Americans, people with incomes of more than $500,000 a year. But that’s the least of it: the policy center’s estimates say that the majority of the tax cuts would go to the richest one-tenth of 1 percent. Take a group of 1,000 randomly selected Americans, and pick the one with the highest income; he’s going to get the majority of that group’s tax break. And the average tax break for those lucky few — the poorest members of the group have annual incomes of more than $2 million, and the average member makes more than $7 million a year — would be $3 million over the course of the next decade.

 

 

How can this kind of giveaway be justified at a time when politicians claim to care about budget deficits? Well, history is repeating itself. The original campaign for the Bush tax cuts relied on deception and dishonesty. In fact, my first suspicions that we were being misled into invading Iraq were based on the resemblance between the campaign for war and the campaign for tax cuts the previous year. And sure enough, that same trademark deception and dishonesty is being deployed on behalf of tax cuts for the wealthiest Americans.

 

So, for example, we’re told that it’s all about helping small business; but only a tiny fraction of small-business owners would receive any tax break at all. And how many small-business owners do you know making several million a year?

 

Or we’re told that it’s about helping the economy recover. But it’s hard to think of a less cost-effective way to help the economy than giving money to people who already have plenty, and aren’t likely to spend a windfall.

 

No, this has nothing to do with sound economic policy. Instead, as I said, it’s about a dysfunctional and corrupt political culture, in which Congress won’t take action to revive the economy, pleads poverty when it comes to protecting the jobs of schoolteachers and firefighters, but declares cost no object when it comes to sparing the already wealthy even the slightest financial inconvenience.

 

 

 

So far, the Obama administration is standing firm against this outrage. Let’s hope that it prevails in its fight. Otherwise, it will be hard not to lose all faith in America’s future.

 

Questa si che è bella![115] di Paul Krugman

New York Times 22 agosto 2010

 

Di questi giorni, dobbiamo risparmiare sui centesimi. Non sapete che abbiamo un deficit di bilancio? Da mesi è quella la parola d’ordine dei Repubblicani e dei Democratici conservatori, che hanno respinto ogni suggerimento che è stato avanzato per fare di più per evitare tagli gravi nei servizi pubblici e per aiutare l’economia ammalata.

Ma questi stessi uomini politici sono ansiosi di staccare un assegno in media di 3 milioni di dollari per ognuno dei 120 mila ricchi del paese.

Come, non avete saputo niente di questa proposta? Effettivamente, ne dovreste essere a conoscenza: mi riferisco alle proposte che si rendano permanenti tutti gli sgravi fiscali di Bush, non solo quelli per i ceti medi.

Un po’ di storia: nel passato 2001, quando il primo complesso di sgravi fiscali di Bush andò alla prova del Congresso, la legge fu scritta con una previsione insolita: cioè, l’intera questione avrebbe avuto una scadenza, con un ritorno delle percentuali di tassazione ai livelli dell’anno 2000, all’ultimo giorno del 2010.

Perché questa data di scadenza? In parte, essa venne utilizzata per mascherare l’irresponsabilità finanziaria degli sgravi fiscali: l’eliminazione di quell’ultimo anno attenuava i titoli dei giornali sul costo degli  sgravi, giacché tali costi vengono normalmente calcolati su un periodo di dieci anni. Essa consentì anche alla amministrazione Bush di far approvare ia tagli fiscali utilizzando lo strumento della ‘riconciliazione’ – si, la stessa procedura che i Repubblicani denunciarono allorchè venne usata per varare la riforma sanitaria – con il che si eludevano le regole che erano state proprio definite per prevenire un utilizzo di quella procedura in modi tali da determinare deficit di bilancio di lungo periodo.

Naturalmente, l’idea era di tornarci sopra e di rendere quei tagli fiscali permanenti. Ma le cose andarono diversamente rispetto a quel programma. E ora il momento fatidico[116] incombe su di noi. 

Qual è adesso la scelta possibile? La amministrazione Obama intende conservare quelle parti dell’originario provvedimento sugli sgravi che portano benefici ai ceti medi – la quale è già per suo conto una proposta dispendiosa – ma fare in modo che quelle previsioni che portano benefici esclusivamente alle persone con redditi molto alti si concludano nei tempi previsti. I Repubblicani, con il sostegno di qualche democratico conservatore, intendono mantenere in vita l’intera faccenda.

E c’è una reale possibilità che i Repubblicani ottengano quello che vogliono. La qual cosa dimostra, se qualcuno ne avesse avuto bisogno, che la nostra cultura politica è diventata non solo illogica, ma profondamente corrotta.

Qual è la posta in gioco? Secondo l’indipendente Tax Policy Center , rendere permanenti tutti gli sgravi fiscali di Bush, in alternativa a seguire la proposta di Obama, costerebbe al governo federale 680 miliardi di dollari nel corso dei prossimi dieci anni. Giusto per il gusto di un confronto, ci sono voluti mesi di duri negoziati per ottenere l’approvazione del Congresso per soli 26 miliardi di dollari di aiuti disperatamente indispensabili agli Stati ed ai governi locali.

E dove andrebbero questi 680 miliardi di dollari? Quasi tutti andrebbero all’uno per cento più ricco della popolazione americana, gente con redditi superiori a 500.000 dollari all’anno. Ma questo è il minimo: le stime del Tax Policy Center dicono che la maggioranza degli sgravi fiscali  andrebbe ad un decimo dei più ricchi di quell’uno per cento. Si prenda un gruppo di un migliaio di americani scelti a caso e se ne estragga quello con il reddito più elevato: egli è destinato ad ottenere la maggior parte degli sgravi fiscali dell’intero gruppo. E gli sgravi fiscali medi di questi pochi fortunati – i componenti più poveri del gruppo hanno redditi annuali superiori ai due milioni di dollari, ed un componente medio realizza più di sette milioni di reddito annuo – saranno pari a tre milioni di dollari per l’intera durata del prossimo decennio.

Come è possibile che questa specie di gratifica sia giustificata in un periodo nel quale i politici pretendono di essere preoccupati dei deficit di bilancio? Ebbene, la storia si sta ripetendo. L’originaria campagna per i tagli fiscali di Bush si basava sull’inganno e la disonestà. In effetti, i miei primi sospetti che fossimo indotti con l’inganno all’invasione dell’Iraq si basavano sulla somiglianza tra la campagna per la guerra e quella per gli sgravi fiscali dell’anno precedente. E si può star certi che inganno e disonestà con lo stesso marchio di fabbrica siano stati dispiegati per conto degli sgravi fiscali per gli americani più ricchi.

Così, ad esempio, ci è stato detto che essi sono tutti destinati all’aiuto alla piccola impresa; ma solo una frazione minuscola di proprietari di piccole imprese riceverrebe alla fine un qualche sgravio fiscale. E quanti proprietari di piccole imprese voi conoscete, con redditi di svariati milioni di dollari all’anno?

 Oppure, ci è stato detto che gli sgravi sono un contributo alla ripresa dell’economia. Ma è difficile pensare ad un modo di aiutare l’economia meno efficace dal lato dei costi, che non dando denaro a gente che ne ha già in abbondanza, e che non è probabile corra a spendere una fortuna inaspettata.

No, tutto questo non ha niente a che fare con una sana politica economica. Invece, come ho detto, ha a che fare con una cultura politica illogica e corrotta, con la la quale il Congresso non otterrà l’effetto di rivitalizzare l’economia; una cultura politica che adduce il pretesto della scarsità quando si tratta di proteggere i posti di lavoro degli insegnanti e dei pompieri, ma dichiara che i costi non sono il problema quando si tratta di risparmiare ai già ricchi anche il più modesto inconveniente finanziario[117].

Sinora, la amministrazione Obama è rimasta ferma nella opposizione ad un insulto di questo genere. Speriamo che in questa battaglia essa riesca a prevalere. Altrimenti, sarà difficile non perdere ogni fiducia sul futuro dell’America.

 

 

This Is Not a Recovery

By PAUL KRUGMAN
Published: August 26, 2010

What will Ben Bernanke, the Fed chairman, say in his big speech Friday in Jackson Hole, Wyo.? Will he hint at new steps to boost the economy? Stay tuned.

 

But we can safely predict what he and other officials will say about where we are right now: that the economy is continuing to recover, albeit more slowly than they would like. Unfortunately, that’s not true: this isn’t a recovery, in any sense that matters. And policy makers should be doing everything they can to change that fact.

 

 

The small sliver of truth in claims of continuing recovery is the fact that G.D.P. is still rising: we’re not in a classic recession, in which everything goes down. But so what?

 

 

The important question is whether growth is fast enough to bring down sky-high unemployment. We need about 2.5 percent growth just to keep unemployment from rising, and much faster growth to bring it significantly down. Yet growth is currently running somewhere between 1 and 2 percent, with a good chance that it will slow even further in the months ahead. Will the economy actually enter a double dip, with G.D.P. shrinking? Who cares? If unemployment rises for the rest of this year, which seems likely, it won’t matter whether the G.D.P. numbers are slightly positive or slightly negative.

 

 

All of this is obvious. Yet policy makers are in denial.

After its last monetary policy meeting, the Fed released a statement declaring that it “anticipates a gradual return to higher levels of resource utilization” — Fedspeak for falling unemployment. Nothing in the data supports that kind of optimism. Meanwhile, Tim Geithner, the Treasury secretary, says that “we’re on the road to recovery.” No, we aren’t.

 

Why are people who know better sugar-coating economic reality? The answer, I’m sorry to say, is that it’s all about evading responsibility.

 

In the case of the Fed, admitting that the economy isn’t recovering would put the institution under pressure to do more. And so far, at least, the Fed seems more afraid of the possible loss of face if it tries to help the economy and fails than it is of the costs to the American people if it does nothing, and settles for a recovery that isn’t.

 

In the case of the Obama administration, officials seem loath to admit that the original stimulus was too small. True, it was enough to limit the depth of the slump — a recent analysis by the Congressional Budget Office says unemployment would probably be well into double digits now without the stimulus — but it wasn’t big enough to bring unemployment down significantly.

 

 

Now, it’s arguable that even in early 2009, when President Obama was at the peak of his popularity, he couldn’t have gotten a bigger plan through the Senate. And he certainly couldn’t pass a supplemental stimulus now. So officials could, with considerable justification, place the onus for the non-recovery on Republican obstructionism. But they’ve chosen, instead, to draw smiley faces on a grim picture, convincing nobody. And the likely result in November — big gains for the obstructionists — will paralyze policy for years to come.

 

 

So what should officials be doing, aside from telling the truth about the economy?

The Fed has a number of options. It can buy more long-term and private debt; it can push down long-term interest rates by announcing its intention to keep short-term rates low; it can raise its medium-term target for inflation, making it less attractive for businesses to simply sit on their cash. Nobody can be sure how well these measures would work, but it’s better to try something that might not work than to make excuses while workers suffer.

 

 

 

The administration has less freedom of action, since it can’t get legislation past the Republican blockade. But it still has options. It can revamp its deeply unsuccessful attempt to aid troubled homeowners. It can use Fannie Mae and Freddie Mac, the government-sponsored lenders, to engineer mortgage refinancing that puts money in the hands of American families — yes, Republicans will howl, but they’re doing that anyway. It can finally get serious about confronting China over its currency manipulation: how many times do the Chinese have to promise to change their policies, then renege, before the administration decides that it’s time to act?

 

 

Which of these options should policy makers pursue? If I had my way, all of them.

 

I know what some players both at the Fed and in the administration will say: they’ll warn about the risks of doing anything unconventional. But we’ve already seen the consequences of playing it safe, and waiting for recovery to happen all by itself: it’s landed us in what looks increasingly like a permanent state of stagnation and high unemployment. It’s time to admit that what we have now isn’t a recovery, and do whatever we can to change that situation.

 

Questa non è una ripresa, di Paul Krugman

New York Times 26 agosto 2010

 

Che cosa dirà Ben Bernnke, il Prsidente della Fed, nel suo atteso discorso di venerdì a Jackson Hole, nel Wyoming? Alluderà a nuovi passi per far crescere l’economia? Restiamo sintonizzati.

Ma possiamo con certezza prevedere che lui, come gli altri dirigenti, si occuperanno del punto in cui ci troviamo: che l’economia sta continuando a progredire, per quanto più lentamente di quanto desidererebbero. Purtroppo non è vero: questa non è una ripresa, qualsiasi significato si voglia attribuire a quel termine[118]. E gli uomini politici dovrebbero fare tutto quanto è nelle loro possibilità per modificare questo dato di fatto.

Il piccolo frammento di verità in queste pretese di una ripresa in atto consiste nel fatto che il PIL sta ancora crescendo: non siamo in una recessione classica, nella quale ogni aspetto della situazione è in regressione. Ma allora di cosa si tratta?

La domanda cruciale è se la crescita sia sufficientemente veloce da riportare in basso una disoccupazione salita alle stelle. Noi abbiamo bisogno di una crescita attorno al 2,5 per cento solo per impedire alla disoccupazione di salire ancora, e di una crescita molto più rapida per abbassare la disoccupazione in modo significativo. Tuttavia la crescita sta attualmente procedendo circa tra l’uno ed il due per cento, con una buona possibilità che essa addirittura rallenti ulteriormente nei prossimi mesi. Entrerà davvero l’economia in una situazione di duplice ricaduta[119], con il PIL che si restringe? A chi può interessare? Se la disoccupazione crescerà nel resto dell’anno, la qual cosa sembra probabile, non sarà importante se le cifre del PIL saranno leggermente positive o leggermente negative.

Queste considerazioni sono ovvie. Tuttavia, i politici fanno finta di non vederle[120].

Dopo il suo ultimo incontro sulla politica monetaria, la Fed ha rilasciato una dichiarazione nella quale si afferma che essa “prevede un ritorno graduale ad alti livelli di utilizzo delle risorse”, che nel linguaggio della Fed significa caduta della disoccupazione. Niente nei dati è a sostegno di un ottimismo del genere. Nel frattempo, Tim Geithner, il segretario al Tesoro, dice che “siamo sulla strada di una ripresa”. Invece no, non lo siamo.

Perché esistono persone che preferiscono addolcire la realtà dell’economia[121]? La risposta, mi dispiace dirlo, è che questo ha interamente a che fare con l’evasione dalle proprie responsabilità.

Nel caso della Fed, ammettere che l’economia non si sta riprendendo, significherebbe esporre l’istituzione alla richiesta di fare di più. E, almeno sino a questo punto, la Fed sembra aver più paura della possibile perdita della faccia se cerca di sostenere l’economia e non ci riesce, che non dei costi che la mancanza di ogni iniziativa provocherebbe agli americani, e dunque si accontenta di una ripresa che non c’è.

Nel caso della amministrazione Obama, i dirigenti sembrano restii ad ammettere che l’originario programma di sostegno fosse troppo piccolo. E’ vero, esso è stato sufficiente a limitare la profondità della caduta – una recente analisi del Congressional Budget Office dice che la disoccupazione sarebbe oggi a due cifre senza le misure di sostegno ma non è stato grande abbastanza da ridurre la disoccupazione a livelli significativi.

Ora, si può ipotizzare che ancora agli inizi del 2009, quando il Presidente Obama era al punto più alto della sua popolarità, egli non avrebbe potuto ottenere l’approvazione di un programma più grande da parte del Senato. E con certezza egli non riuscirebbe a far approvare misure di sostegno supplementari oggi. Dunque i dirigenti potrebbero far ricadere, con plausibile giustificazione, il peso della mancata ripresa sull’ostruzionismo dei Repubblicani. Ma essi hanno scelto, invece, di fare buon viso a cattiva sorte[122], finendo con il non convincere nessuno. Ed il probabile risultato di novembre – con grandi guadagni da parte degli ostruzionisti – paralizzerà la politica per gli anni avvenire.

Cosa dovrebbero dunque fare in questo momento i dirigenti, a parte il dire la verità sull’economia?

La Fed ha un certo numero di opzioni. Può acquistare maggiori obbligazioni a lungo termine e debito privato; può spingere in basso i tassi di interesse a lungo termine con l’annuncio  della intenzione di mantenere bassi quelli a breve termine; può innalzare il suo obbiettivo di inflazione a medio termine, rendendo meno attraente per le imprese il tenersi in mano il proprio corrente. Nessuno può essere sicuro quanto queste misure produrrano di effetti positivi, ma è meglio provare qualcosa che potrebbe non funzionare, piuttosto che accampare scuse mentre chi lavora è in sofferenza.

La amministrazione ha minore libertà d’azione, dal momento che non può legiferare stante[123] l’ostruzionismo repubblicano. Ma essa ha ancora alcune possibilità. Essa può rinnovare il suo tentativo del tutto infruttuoso di sostenere i proprietari di abitazioni che sono in difficoltà. Essa può utilizzare Fannie Mae e Freddie Mac[124], gli istituti di prestito sponsorizzati dal governo, per ideare un rifinanziamento dei mutui che metta denaro nelle tasche degli americani – certamente, i Repubblicani strepiteranno, ma essi lo fanno in ogni caso. Essa, infine, può disporsi ad un serio scontro con la Cina a proposito delle sue manipolazioni valutarie: quante volte i Cinesi devono promettere un cambiamento delle loro politiche e poi smentirlo, prima che la amministrazione decida che è venuto il tempo di agire?

Quali di queste opzioni dovrebbero perseguire gli operatori politici? Se io facessi le cose a modo mio, direi tutte.

So quello che diranno alcuni protagonisti, sia alla Fed che nella amministrazione: ci metteranno in guardia dal rischio di assumere iniziative non convenzionali. Ma abbiamo già visto le conseguenze del giocare sul sicuro e dell’attendere che la ripresa arrivi per conto suo: quelle scelte ci hanno sbarcato in qualcosa che assomiglia sempre di più ad una permanente condizione di stagnazione e di elevata disoccupazione. E’ tempo di riconoscere che quella che abbiamo dinanzi non è una ripresa, e di fare tutto quello che possiamo per cambiare la situazione.

 

 

It’s Witch-Hunt Season

By PAUL KRUGMAN
Published: August 29, 2010

The last time a Democrat sat in the White House, he faced a nonstop witch hunt by his political opponents. Prominent figures on the right accused Bill and Hillary Clinton of everything from drug smuggling to murder. And once Republicans took control of Congress, they subjected the Clinton administration to unrelenting harassment — at one point taking 140 hours of sworn testimony over accusations that the White House had misused its Christmas card list.

 

 

Now it’s happening again — except that this time it’s even worse. Let’s turn the floor over to Rush Limbaugh: “Imam Hussein Obama,” he recently declared, is “probably the best anti-American president we’ve ever had.”

 

To get a sense of how much it matters when people like Mr. Limbaugh talk like this, bear in mind that he’s an utterly mainstream figure within the Republican Party; bear in mind, too, that unless something changes the political dynamics, Republicans will soon control at least one house of Congress. This is going to be very, very ugly.

 

 

So where is this rage coming from? Why is it flourishing? What will it do to America?

 

Anyone who remembered the 1990s could have predicted something like the current political craziness. What we learned from the Clinton years is that a significant number of Americans just don’t consider government by liberals — even very moderate liberals — legitimate. Mr. Obama’s election would have enraged those people even if he were white. Of course, the fact that he isn’t, and has an alien-sounding name, adds to the rage.

By the way, I’m not talking about the rage of the excluded and the dispossessed: Tea Partiers are relatively affluent, and nobody is angrier these days than the very, very rich. Wall Street has turned on Mr. Obama with a vengeance: last month Steve Schwarzman, the billionaire chairman of the Blackstone Group, the private equity giant, compared proposals to end tax loopholes for hedge fund managers with the Nazi invasion of Poland.

 

 

And powerful forces are promoting and exploiting this rage. Jane Mayer’s new article in The New Yorker about the superrich Koch brothers and their war against Mr. Obama has generated much-justified attention, but as Ms. Mayer herself points out, only the scale of their effort is new: billionaires like Richard Mellon Scaife waged a similar war against Bill Clinton.

 

 

Meanwhile, the right-wing media are replaying their greatest hits. In the 1990s, Mr. Limbaugh used innuendo to feed anti-Clinton mythology, notably the insinuation that Hillary Clinton was complicit in the death of Vince Foster. Now, as we’ve just seen, he’s doing his best to insinuate that Mr. Obama is a Muslim. Again, though, there’s an extra level of craziness this time around: Mr. Limbaugh is the same as he always was, but now seems tame compared with Glenn Beck.

 

And where, in all of this, are the responsible Republicans, leaders who will stand up and say that some partisans are going too far? Nowhere to be found.

 

To take a prime example: the hysteria over the proposed Islamic center in lower Manhattan almost makes one long for the days when former President George W. Bush tried to soothe religious hatred, declaring Islam a religion of peace. There were good reasons for his position: there are a billion Muslims in the world, and America can’t afford to make all of them its enemies.

But here’s the thing: Mr. Bush is still around, as are many of his former officials. Where are the statements, from the former president or those in his inner circle, preaching tolerance and denouncing anti-Islam hysteria? On this issue, as on many others, the G.O.P. establishment is offering a nearly uniform profile in cowardice.

 

 

So what will happen if, as expected, Republicans win control of the House? We already know part of the answer: Politico reports that they’re gearing up for a repeat performance of the 1990s, with a “wave of committee investigations” — several of them over supposed scandals that we already know are completely phony. We can expect the G.O.P. to play chicken over the federal budget, too; I’d put even odds on a 1995-type government shutdown sometime over the next couple of years.

 

 

 

It will be an ugly scene, and it will be dangerous, too. The 1990s were a time of peace and prosperity; this is a time of neither. In particular, we’re still suffering the after-effects of the worst economic crisis since the 1930s, and we can’t afford to have a federal government paralyzed by an opposition with no interest in helping the president govern. But that’s what we’re likely to get.

 

If I were President Obama, I’d be doing all I could to head off this prospect, offering some major new initiatives on the economic front in particular, if only to shake up the political dynamic. But my guess is that the president will continue to play it safe, all the way into catastrophe.

 

E’ una stagione di caccia alle streghe, di Paul Krugman

New York Times 29 agosto 2010

L’ultima volta che un Democratico sedette alla Casa Bianca, fece i conti con una interminabile caccia alle streghe da parte dei suoi oppositori. Principali personalità della destra accusarono Bill e Hillary Clinton di ogni genere di nefandezze, dal contrabbando di droga all’assassinio. E una volta che i Repubblicani presero il controllo del Congresso, assoggettarono l’amministrazione Clinton ad una persecuzione senza tregua – in un caso imposero 140 ore di testimonianze giurate a proposito di accuse secondo le quali la Casa Bianca aveva abusato della sua lista delle cartoline di Natale.

Ora sta accadendo di nuovo, sennonché questa volta è anche peggio. Lasciamo la parola a Rush Limbaugh: “L’Imam Hussein Obama”, ha dichiarato di recente, è “probabilmente il presidente più antiamericano che abbiamo mai avuto”.

Per capire quanto sia importante il fatto che persone come il signor Limbaugh parlino in questo modo, tenete a mente che egli è un personaggio che esprime pienamente l’indirizzo principale all’interno del Partito Repubblicano; tenete anche a mente che, se qualcosa non cambia nelle dinamiche della politica, i Repubblicani avranno presto il controllo almeno di un ramo del Congresso. Tutto questo comincia ad essere molto, molto sgradevole.

Da dove viene, dunque, questo livore? Perché si sta diffondendo? Cosa porterà all’America?

Chiunque ricordi gli anni 90, avrebbe potuto prevedere qualcosa di simile alla attuale follia. Quello che abbiamo imparato negli anni di Clinton è che un numero significativo di americani semplicemente non considerano legittimi i governi dei liberals, anche di quelli molto moderati. L’elezione di Obama avrebbe fatto infuriare costoro anche se fosse stato un bianco. Naturalmente, il fatto che non lo sia e che abbia un nome che suona un po’ forestiero, aumenta la rabbia.

Per inciso, io non sto parlando della rabbia degli esclusi e di quelli che sono stati spodestati: i componenti del Tea Party sono relativamente benestanti, e di questi tempi nessuno è più arrabbiato di chi è davvero molto ricco. Wall Street si è rivoltata contro Obama senza alcun senso del limite[125]: lo scorso mese Steve Schwarzman, il presidente miliardario di Blackstone Group, ha paragonato le proposte per interrompere le scappatoie fiscali nei confronti dei dirigenti degli edge funds all’invasione nazista della Polonia.

Inoltre, forze potenti stanno promuovendo e sfruttando questa rabbia. Un nuovo articolo di Jane Mayer su The New Yorker a proposito dei ricchissimi fratelli Koch e della loro guerra contro Obama ha provocato un interesse molto giustificato, ma come sottolinea la stessa signora Mayer, soltanto la dimensione di questo sforzo è nuova: miliardari come Richard Mellon Scaife scatenarono una guerra simile contro Clinton.

Nel frattempo, i media della destra hanno rimesso in circolazione il loro armamentario più clamoroso. Negli anni 90, il signor Limbaugh faceva uso di allusioni per alimentare una mitologia anticlintoniana, in particolare l’insinuazione che Hillary Clinton fosse complice nella morte di Vince Foster[126]. Ora, come abbiamo appena visto, fa del suo meglio per insinuare che Obama sia un musulmano. Tuttavia, di questi tempi si assiste anche a forme ulteriori di follia: il signor Limbaugh è lo stesso che è sempre stato, ma confrontato a Glenn Beck pare quasi in individuo sottomesso.

E dove sono, in mezzo a costoro, i repubblicani responsabili, i dirigenti che dovrebbero alzarsi in piedi ed affermare che alcuni faziosi stanno andando troppo oltre? Non ce n’è traccia.

Per fare un primo esempio: l’isteria sulla proposta di un centro islamico nella bassa Manhattan fa quasi venire la nostalgia dei giorni nei quali il precedente Presidente Bush cercava di placare l’odio religioso, definendo L’Islam una religione di pace. C’erano buone ragioni per una posizione del genere: c’è un miliardo di musulmani nel mondo, e l’America non può permettersi di considerarli tutti come suoi nemici.

Ma qua è il punto: il signor Bush è ancora in circolazione, così come molti suoi precedenti dirigenti. Dove sono le dichiarazioni di invito alla tolleranza e di denuncia dell’isteria antiislamica, da parte del passato Presidente o di coloro che facevano parte del suo gruppo ristretto? Sotto questo aspetto, come per molti altri, il gruppo dirigente del GOP sta offrendo uno spettacolo  praticamente uniforme di viltà.

Dunque, cosa accadrà se i Repubblicani, come ci si aspetta, prenderanno il controllo della Camera? Una parte della risposta già la conosciamo: la rivista Politico fornisce la notizia che essi si stanno attrezzando per una ripetizione delle prestazioni degli anni 90, con una “ondata di commissioni di indagine”, parecchie delle quali relative a supposti scandali che essi sanno in partenza essere del tutto fasulli. Possiamo anche aspettarci che il GOP ricominci a fare i suoi giochi azzardati[127] con il bilancio federale; io riterrei persino probabile, in qualche momento nel corso dei prossimi due anni, una sostanziale chiusura delle funzioni di governo del genere di quella del 1995[128].

 

Sarà una brutta scena, ed anche pericolosa. Gli anni 90 furono un periodo di pace e di prosperità: di questi tempi non abbiamo né l’una né l’altra. In particolare, stiamo ancora soffrendo dei postumi della peggiore crisi economica dagli anni 30, e non possiamo permetterci di avere un governo federale paralizzato da una opposizione che non ha alcun interesse ad aiutare il governo del presidente. Ma questo è quello che con ogni probabilità ci aspetta.

Se io fossi il Presidente Obama, farei tutto il possibile per scongiurare questa prospettiva, in particolare mettendo in campo alcune nuove importanti iniziative sul fronte dell’economia, se non altro per dare una scossa alle dinamiche della politica. Ma suppongo che il Presidente continuerà a giocare sul sicuro, andando diritto verso la catastrofe[129].

 

 

 

 

The Real Story

By PAUL KRUGMAN
Published: September 2, 2010

Next week, President Obama is scheduled to propose new measures to boost the economy. I hope they’re bold and substantive, since the Republicans will oppose him regardless — if he came out for motherhood, the G.O.P. would declare motherhood un-American. So he should put them on the spot for standing in the way of real action.

 

 

But let’s put politics aside and talk about what we’ve actually learned about economic policy over the past 20 months.

 

When Mr. Obama first proposed $800 billion in fiscal stimulus, there were two groups of critics. Both argued that unemployment would stay high — but for very different reasons.

 

One group — the group that got almost all the attention — declared that the stimulus was much too large, and would lead to disaster. If you were, say, reading The Wall Street Journal’s opinion pages in early 2009, you would have been repeatedly informed that the Obama plan would lead to skyrocketing interest rates and soaring inflation.

 

The other group, which included yours truly, warned that the plan was much too small given the economic forecasts then available. As I pointed out in February 2009, the Congressional Budget Office was predicting a $2.9 trillion hole in the economy over the next two years; an $800 billion program, partly consisting of tax cuts that would have happened anyway, just wasn’t up to the task of filling that hole.

 

Critics in the second camp were particularly worried about what would happen this year, since the stimulus would have its maximum effect on growth in late 2009 then gradually fade out. Last year, many of us were already warning that the economy might stall in the second half of 2010.

 

 

 

So what actually happened? The administration’s optimistic forecast was wrong, but which group of pessimists was right about the reasons for that error?

 

Start with interest rates. Those who said the stimulus was too big predicted sharply rising rates. When rates rose in early 2009, The Wall Street Journal published an editorial titled “The Bond Vigilantes: The disciplinarians of U.S. policy makers return.” The editorial declared that it was all about fear of deficits, and concluded, “When in doubt, bet on the markets.”

 

But those who said the stimulus was too small argued that temporary deficits weren’t a problem as long as the economy remained depressed; we were awash in savings with nowhere to go. Interest rates, we said, would fluctuate with optimism or pessimism about future growth, not with government borrowing.

 

When in doubt, bet on the markets. The 10-year bond rate was over 3.7 percent when The Journal published that editorial; it’s under 2.7 percent now.

What about inflation? Amid the inflation hysteria of early 2009, the inadequate-stimulus critics pointed out that inflation always falls during sustained periods of high unemployment, and that this time should be no different. Sure enough, key measures of inflation have fallen from more than 2 percent before the economic crisis to 1 percent or less now, and Japanese-style deflation is looking like a real possibility.

 

 

Meanwhile, the timing of recent economic growth strongly supports the notion that stimulus does, indeed, boost the economy: growth accelerated last year, as the stimulus reached its predicted peak impact, but has fallen off — just as some of us feared — as the stimulus has faded.

 

Oh, and don’t tell me that Germany proves that austerity, not stimulus, is the way to go. Germany actually did quite a lot of stimulus — the austerity is all in the future. Also, it never had a housing bubble that burst. And with all that, German G.D.P. is still further below its precrisis peak than American G.D.P. True, Germany has done better in terms of employment — but that’s because strong unions and government policy have prevented American-style mass layoffs.

 

 

 

The actual lessons of 2009-2010, then, are that scare stories about stimulus are wrong, and that stimulus works when it is applied. But it wasn’t applied on a sufficient scale. And we need another round.

 

I know that getting that round is unlikely: Republicans and conservative Democrats won’t stand for it. And if, as expected, the G.O.P. wins big in November, this will be widely regarded as a vindication of the anti-stimulus position. Mr. Obama, we’ll be told, moved too far to the left, and his Keynesian economic doctrine was proved wrong.

 

 

But politics determines who has the power, not who has the truth. The economic theory behind the Obama stimulus has passed the test of recent events with flying colors; unfortunately, Mr. Obama, for whatever reason — yes, I’m aware that there were political constraints — initially offered a plan that was much too cautious given the scale of the economy’s problems.

So, as I said, here’s hoping that Mr. Obama goes big next week. If he does, he’ll have the facts on his side.

 

La storia vera, di Paul Krugman

New York Times 2 settembre 2010

 

E’ previsto che la prossima settimana il Presidente Obama proponga nuove misure per  stimolare l’economia. Io mi auguro che siano misure coraggiose e sostanziali, dato che i Repubblicani gli si opporranno senza alcun riguardo: se egli se ne venisse fuori con qualcosa a favore della maternità, i Repubblicani dichiarerebbero la maternità non-americana. Dunque egli li dovrebbe mettere alle strette, per questa loro scelta di ostacolare ogni iniziativa.

Ma lasciamo da parte la politica e parliamo pittosto di cosa abbiamo effettivamente imparato, quanto a politica economica, nel corso degli ultimi 20 mesi.

Quando Obama propose inizialmente 800 miliardi di dollari di misure finanziarie di sostegno, c’erano due gruppi di critici. Entrambi sostenevano che la disoccupazione sarebbe rimasta elevata, ma per ragioni molto diverse.

Un gruppo – quello che ottenne quasi tutta l’attenzione – affermò che lo stimolo era troppo ampio, e che avrebbe portato al disastro. Se voi aveste letto, ad esempio, le pagine dei commenti di The Wall Street Journal agli inizi del 2009, sareste stati messi al corrente che il programma di Obama avrebbe condotto alle stelle i tassi di interesse ed avrebbe acceso l’inflazione.

L’altro gruppo, che includeva il sottoscritto, metteva in guardia sul fatto che il programma, date le previsioni economiche allora disponibili, fosse troppo modesto. Come sottolineai nel febbraio del 2009, il Congressional Budget Office stava prevedendo un buco di 2.900 miliardi di dollari nei prossimi due anni: un programma da 800 miliardi di dollari, in parte costituito di sgravi fiscali che ci sarebbero stati in ogni modo, non era proprio all’altezza del compito di colmare quel vuoto.

I critici del secondo gruppo erano particolarmente preoccupati di cosa sarebbe successo in quest’anno, dato che lo stimolo avrebbe avuto il suo massimo effetto sulla crescita nell’ultima parte del 2009, dopodiché si sarebbe gradualmente affievolito. Nel corso dell’ultimo anno, molti di noi stavano già mettendo in guardia dal rischio che l’economia potesse entrare in stallo nella seconda metà del 2010.

Dunque, cosa è effettivamente accaduto? Le previsioni ottimistiche della amministrazione erano sbagliate, ma quale gruppo dei pessimisti aveva ragione a proposito delle cause di tale sbaglio?

Cominciamo con i tassi di interesse. Coloro che sostenevano che lo stimolo fosse troppo grande, prevedevano che i tassi si sarebbero innalzati bruscamente. Allorché i tassi salirono agli inizi del 2009, The Wall Street Journal pubblicò un editoriale dal titolo “I Guardiani dei Bonds: il ritorno di coloro che impongono la disciplina ai politici americani”. L’editoriale affermava che tutto nasceva dalla paura del deficit, e concludeva “Quando si è nel dubbio, si scommette sui mercati”.

Ma coloro che sostenevano che lo stimolo fosse troppo piccolo affermavano che deficit temporanei non sarebbero stati un problema per tutto il periodo in cui l’economia fosse rimasta depressa: noi eravamo inondati da risparmi che non sapevano dove andare. I tassi di interesse, dicevamo, avrebbero fluttuato secondo l’ottimismo o il pessimismo sulla futura crescita, non a causa dell’indebitamento statale.

Quando sei nel dubbio, scommetti sui mercati. Il tasso sui bonds decennali era sopra il 3,7 per cento al momento in cui The Journal pubblicò quell’editoriale; ora è sotto il 2,7 per cento.

Che dire dell’inflazione? Nel bel mezzo dell’isteria inflazionistica degli inizi del 2009, i critici dell’inadeguatezza dello stimolo insistettero sul fatto che l’inflazione è sempre in discesa durante prolungati periodi di alta disoccupazione, e che non sarebbe stato diverso in questa occasione. Infatti, i dati principali relativi all’inflazione sono caduti da più del 2 per cento del periodo precedente alla crisi economica all’uno per cento o meno ancora di oggi, e una deflazione sul modello del Giappone appare una possibilità effettiva.

Nel frattempo, la cronistoria della recente crescita dell’economia conferma nettamente la nozione secondo la quale le misure di stimolo, effettivamente, sostengono l’economia: la crescita ha accelerato l’anno passato, quando lo stimolo raggiunse il suo previsto effetto culminante, ma è ricaduta, proprio come alcuni di noi temevano, nel momento in cui lo stimolo si è rarefatto.

Oh, e non mi si dica che la Germania dimostra che l’austerità e non lo stimolo, è la strada da prendere. In questo momento la Germania sta mettendo in campo misure di sostegno di discrete dimensioni, l’austerità la riserva al futuro. Inoltre, essa non ha mai avuto lo scoppio di una bolla immobiliare. E con tutto ciò, il PIL tedesco è ancora più al di sotto del suo livello più alto precedente alla crisi di quanto non lo sia il PIL americano. La verità è che la Germania ha fatto meglio in termini di occupazione; ma ciò è accaduto per effetto di sindacati forti e di una politica del governo che ha prevenuto licenziamenti di massa del genere di quelli americani.

Gli insegnamenti reali del periodo 2009-2010, dunque, sono che le storie terribili sullo stimolo sono prive di fondamento, e che lo stimolo quando è messo in atto produce i suoi effetti. Il punto è che non è stato messo in atto  in una dimensione adeguata. E abbiamo bisogno di un secondo giro.

So che ottenere il nulla-osta a questo secondo giro non è probabile: i Repubblicani ed i Democratici conservatori non lo sosterranno. E se, come ci si aspetta, il GOP vincerà le elezioni di novembre, questa sarà dai più considerata come una conferma della posizione contraria allo stimolo. Obama, si dirà, si è collocato troppo a sinistra, e la sua dottrina economica keynesiana si è mostrata sbagliata.

Ma la politica stabilisce chi ha il potere, non chi ha la verità. La teoria economica che sorregge le misure di sostegno di Obama ha passato a pieni voti la prova degli eventi recenti: sfortunatamente, Obama, per una qualche ragione – è vero, sono consapevole che  ci sono stati impedimenti politici oggettivi – ha inizialmente offerto un programma che era troppo timido, stante la dimensione dei problemi dell’economia.

Dunque, come ho detto, ora si tratta di sperare che Obama punti in alto. Se lo farà, avrà i fatti dalla sua parte.

 

 

 

 

1938 in 2010

By PAUL KRUGMAN
Published: September 5, 2010

Here’s the situation: The U.S. economy has been crippled by a financial crisis. The president’s policies have limited the damage, but they were too cautious, and unemployment remains disastrously high. More action is clearly needed. Yet the public has soured on government activism, and seems poised to deal Democrats a severe defeat in the midterm elections.

 

The president in question is Franklin Delano Roosevelt; the year is 1938. Within a few years, of course, the Great Depression was over. But it’s both instructive and discouraging to look at the state of America circa 1938 — instructive because the nature of the recovery that followed refutes the arguments dominating today’s public debate, discouraging because it’s hard to see anything like the miracle of the 1940s happening again.

Now, we weren’t supposed to find ourselves replaying the late 1930s. President Obama’s economists promised not to repeat the mistakes of 1937, when F.D.R. pulled back fiscal stimulus too soon. But by making his program too small and too short-lived, Mr. Obama did just that: the stimulus raised growth while it lasted, but it made only a small dent in unemployment — and now it’s fading out.

 

 

And just as some of us feared, the inadequacy of the administration’s initial economic plan has landed it — and the nation — in a political trap. More stimulus is desperately needed, but in the public’s eyes the failure of the initial program to deliver a convincing recovery has discredited government action to create jobs.

 

 

In short, welcome to 1938.

The story of 1937, of F.D.R.’s disastrous decision to heed those who said that it was time to slash the deficit, is well known. What’s less well known is the extent to which the public drew the wrong conclusions from the recession that followed: far from calling for a resumption of New Deal programs, voters lost faith in fiscal expansion.

 

 

Consider Gallup polling from March 1938. Asked whether government spending should be increased to fight the slump, 63 percent of those polled said no. Asked whether it would be better to increase spending or to cut business taxes, only 15 percent favored spending; 63 percent favored tax cuts. And the 1938 election was a disaster for the Democrats, who lost 70 seats in the House and seven in the Senate.

 

 

Then came the war.

From an economic point of view World War II was, above all, a burst of deficit-financed government spending, on a scale that would never have been approved otherwise. Over the course of the war the federal government borrowed an amount equal to roughly twice the value of G.D.P. in 1940 — the equivalent of roughly $30 trillion today.

 

 

Had anyone proposed spending even a fraction that much before the war, people would have said the same things they’re saying today. They would have warned about crushing debt and runaway inflation. They would also have said, rightly, that the Depression was in large part caused by excess debt — and then have declared that it was impossible to fix this problem by issuing even more debt.

But guess what? Deficit spending created an economic boom — and the boom laid the foundation for long-run prosperity. Overall debt in the economy — public plus private — actually fell as a percentage of G.D.P., thanks to economic growth and, yes, some inflation, which reduced the real value of outstanding debts. And after the war, thanks to the improved financial position of the private sector, the economy was able to thrive without continuing deficits.

 

 

The economic moral is clear: when the economy is deeply depressed, the usual rules don’t apply. Austerity is self-defeating: when everyone tries to pay down debt at the same time, the result is depression and deflation, and debt problems grow even worse. And conversely, it is possible — indeed, necessary — for the nation as a whole to spend its way out of debt: a temporary surge of deficit spending, on a sufficient scale, can cure problems brought on by past excesses.

 

But the story of 1938 also shows how hard it is to apply these insights. Even under F.D.R., there was never the political will to do what was needed to end the Great Depression; its eventual resolution came essentially by accident.

 

I had hoped that we would do better this time. But it turns out that politicians and economists alike have spent decades unlearning the lessons of the 1930s, and are determined to repeat all the old mistakes. And it’s slightly sickening to realize that the big winners in the midterm elections are likely to be the very people who first got us into this mess, then did everything in their power to block action to get us out.

 

 

But always remember: this slump can be cured. All it will take is a little bit of intellectual clarity, and a lot of political will. Here’s hoping we find those virtues in the not too distant future.

 

Il 1938 nel 2010, di Paul Krugman

New York Times 5 settembre 2010

 

La situazione è la seguente: l’economia americana è stata danneggiata da una crisi finanziaria. Le politiche del Presidente hanno limitato il danno, ma sono state troppo caute e la disoccupazione resta disastrosamente elevata. E’ chiaramente necessaria una ulteriore iniziativa. Tuttavia l’opinione pubblica è diventata diffidente verso l’attivismo governativo, e sembra sul punto di provocare ai democratici una severa sconfitta nelle elezioni di medio termine.

Il Presidente in questione è Franklin Delano Roosvelt; l’anno è il 1938. In pochi anni, come si sa, la Grande Depressione fu superata. Ma è sia istruttivo che scoraggiante  riandare alle condizioni dell’America attorno al 1938: istruttivo, perchè la natura della ripresa che seguì è una confutazione degli argomenti che dominano il dibattito odierno; scoraggiante, perchè è difficile immaginare che qualcosa di simile al miracolo del 1940 si ripeta di nuovo.

Ora, noi non avevamo immaginato di ritrovarci a ripetere gli ultimi anni 30. Gli economisti del Presidente Obama avevano promesso di non ripetere gli errori del 1937, quando Roosvelt ritirò il programma di sostegno finanziario troppo presto. Ma varando un programma troppo piccolo e di durata troppo breve, Obama ha fatto esattamente questo: lo stimolo ha sospinto la crescita finché è durato, ma ha intaccato solo minimamente la disoccupazione, ed ora sta svanendo.

E proprio come alcuni di noi avevano timore che accadesse, l’inadeguatezza del programma iniziale della amministrazione l’ha messa – assieme alla nazione intera – in una trappola politica. Uno stimolo maggiore è disperatamente necessario, ma agli occhi dell’opinione pubblica il fallimento del programma originario nel provocare una ripresa convincente ha portato discredito sulle iniziative del governo per creare occupazione.

In breve, benevenuti nel 1938.

La storia del 1937, a proposito della disastrosa decisione di prestare ascolto a coloro che sostenevano che fosse venuto il tempo di ridurre drasticamente il deficit, è ben nota. Ciò che è meno noto è la dimensione nella quale l’opinione pubblica tirò le conclusioni sbagliate dalla recessione che ne seguì: lungi dal chiedere un ritorno ai programmi del New Deal, gli elettori avevano perso fiducia nella espansione della spesa pubblica.

Si considerino i sondaggi Gallup a partire dal marzo 1938. Alla domanda se si dovesse incrementare la spesa pubblica per combattere la depressione, il 63 per cento degli intervistati rispose negativamente. Alla domanda se sarebbe stato meglio incrementare la spesa o tagliare le tasse sulle imprese, solo il 15 per cento rispose a favore degli incrementi di spesa; il 63 per cento era a favore dei tagli fiscali. E le elezioni del 1938 furono un disastro per i Democratici, che persero 70 seggi alla Camera e sette al Senato.

Poi venne la guerra.

Da un punto di vista economico la Seconda Guerra Mondiale fu, soprattutto, una esplosione di spesa pubblica finanziata in deficit, di una dimensione che non sarebbe mai stato possibile approvare altrimenti. Nel corso della guerra il governo federale prese in prestito una somma grosso modo eguale al doppio del valore del PIL nel 1940: l’equivalente di circa tranta mila miliardi di dollari al giorno d’oggi.

Se qualcuno avesse proposto di spendere persino una piccola parte di quella somma molto prima della guerra, la gente avrebbe detto le stesse cose che sta dicendo ai giorni nostri. Essi avrebbero anche detto, giustamente, che la Depressione era stata in larga parte provocata dal debito eccessivo e dunque avrebbero sostenuto che fosse impossibile mettere riparo a questo problema  consentendo un debito ancora più grande.

Eppure, indovinate cosa avvenne? La spesa pubblica in deficit creò un boom economico, ed il boom mise le fondamenta di una prosperità di lungo periodo. Il debito complessivo dell’economia – quello pubblico più quello privato – in effetti diminuì in percentuale al PIL, grazie alla crescita economica e, proprio così, grazie a una certa inflazione, che ridusse il valore reale dei debiti pregressi. E dopo la guerra, grazie alla migliorata condizione finanziaria del settore privato, l’economia fu capace di prosperare senza la prosecuzione dei deficit.

La morale economica è chiara: quando l’economia è profondamente depressa, non si applicano le regole tradizionali. L’austerità equivale a farsi del male: quando tutti cercano di abbassare i propri debiti contemporaneamente, il risultato è la depressione e la deflazione, ed i problemi del debito divengono persino peggiori. E di converso, è possibile – in effetti, è necessario –  per la nazione nel suo complesso mettere a frutto la sua via d’uscita dal debito[130]: una crescita temporanea della spesa pubblica in deficit, nelle dimensioni adeguate, può curare i problemi procati dagli eccessi del passato.

Ma la storia del 1938 mostra anche quanto sia difficile mettere in pratica queste idee. Persino sotto Roosvelt non ci fu mai la volontà politica di fare quello che era indispensabile per far finire la Grande Depressione; la soluzione finale fu provocata sostanzialmente da un accidente della storia.

Avevo sperato che avremmo fatto meglio in questa occasione. Ma è accaduto che gli uomini politci e gli economisti, in modi non dissimili, hanno speso decenni nel disimparare le lezioni degli anni 30, e sono determinati a ripetere tutti i vecchi sbagli. Ed è leggermente disgustoso constatare che i grandi vincitori delle elezioni di medio termine è probabile che siano proprio quelle persone che ci hanno portato al disastro, allorché hanno fatto tutto quello che potevano per impedire le iniziative per venirne fuori.

Ma ricordiamoci sempre: questa crisi può essere curata. Tutto quello che ci vorrà è un po’ di onestà intellettuale ed un bel po’ di volontà politica. Al momento possiamo sperare che troveremo quelle virtù in un futuro non troppo lontano.

 

 

 

Things Could Be Worse

By PAUL KRUGMAN
Published: September 9, 2010

TOKYO

 

 “Japan’s problems now are the same as they were in the 1990s, when you were writing about them. It’s depressing.” So declared one economist I spoke to here. “But the Japanese don’t seem all that depressed,” objected another. Both were right — and the conversation crystallized some thoughts I’ve been having about Japan’s situation, and ours.

A decade ago, Japan was a byword for failed economic policies: years after its real estate bubble burst, it was still suffering from chronic deflation and slow growth. Then America had its own bubble, bust and crisis. And these days, Japan’s record doesn’t look that bad to an American eye.

 

Why not? For all its flaws, Japanese policy limited and contained the damage from a financial bust. And the question in America now is whether we’ll do the same — or whether we will take a hard right turn into economic disaster.

In the 1990s, Japan conducted a dress rehearsal for the crisis that struck much of the world in 2008. Runaway banks fueled a bubble in land prices; when the bubble burst, these banks were severely weakened, as were the balance sheets of everyone who had borrowed in the belief that land prices would stay high. The result was protracted economic weakness.

 

 

And the policy response was too little, too late. The Bank of Japan cut interest rates and took other steps to pump up spending, but it was always behind the curve and persistent deflation took hold. The government propped up employment with public works programs, but its efforts were never focused enough to start a self-sustaining recovery. Banks were kept afloat, but were slow to face up to bad debts and resume lending. The result of inadequate policy was an economy that remains depressed to this day.

 

Yet the picture is grayish rather than pitch black. Japan’s economy may be depressed, but it’s not in a depression. The employment picture has been troubled, with a growing number of “freeters” living from temporary job to temporary job. But thanks to those government job-creation plans, the country isn’t suffering mass unemployment. Debt has risen, but despite constant warnings of imminent crisis — and even downgrades from rating agencies back in 2002 — the government is still able to borrow, long term, at an interest rate of only 1.1 percent.

 

 

In short, Japan’s performance has been disappointing but not disastrous. And given the policy agenda of America’s right, that’s a performance we may wish we’d managed to match.

 

 

Like their Japanese counterparts, American policy makers initially responded to a burst bubble and a financial crisis with half-measures. I’ve lamented that fact, but at this point it’s water under the bridge. The question is: What happens now?

Republican obstruction means that the best we can hope for in the near future are palliative measures — modest additional spending like the infrastructure program President Obama proposed this week, aid to state and local governments to help them avoid severe further cutbacks, aid to the unemployed to reduce hardship and maintain spending power.

 

Even with such measures, we’ll be lucky to do as well as Japan did at limiting the human and economic cost of the economy’s financial woes. But it’s by no means certain that we’ll do even that much. If the Republicans go beyond obstruction to actually setting policy — which they might if they win big in November — we’ll be on our way to economic performance that makes Japan look like the promised land.

 

It’s hard to overstate how destructive the economic ideas offered earlier this week by John Boehner, the House minority leader, would be if put into practice. Basically, he proposes two things: large tax cuts for the wealthy that would increase the budget deficit while doing little to support the economy, and sharp spending cuts that would depress the economy while doing little to improve budget prospects. Fewer jobs and bigger deficits — the perfect combination.

 

 

More broadly, if Republicans regain power, they will surely do what they did during the Bush years: they won’t seriously try to address the economy’s troubles; they’ll just use those troubles as an excuse to push the usual agenda, including Social Security privatization. They’ll also surely try to repeal health reform, which would be another twofer, reducing economic security even as it increases long-term deficits.

 

 

So I find myself almost envying the Japanese. Yes, their performance has been disappointing. But things could have been worse. And the case Democrats now need to make — the case the president finally began to make in Cleveland this week — is that if Republicans regain power, things will indeed be worse. Americans, understandably, are disappointed over, frustrated with and angry about the state of the economy; but disappointment is better than disaster.

 

La situazione potrebbe essere peggiore, di Paul Krugman

New York Times 9 settembre 2010

TOKIO

 

“I problemi del Giappone sono oggi gli stessi del 1990, quando scrivevi su quei temi. E’ un paese depresso”. Questo afferma un economista con il quale ho parlato qua. “Ma i giapponesi non sembrano tutti così depressi”, obietta un altro. Hanno tutti e due ragione, e la conversazione sintetizza alcuni pensieri che avevo avuto sulla situazione del Giappone e sulla nostra.

Un decennio fa, il Giappone era una conseguenza di mancate politiche economiche: anni dopo lo scoppio della sua bolla immobiliare, era ancora in sofferenza per una deflazione cronica ed una crescita lenta. Successivamente, l’America ebbe la sua bolla, il relativo scoppio e la crisi. Di questi tempi, il record del Giappone non appare così negativo all’occhio di un americano.

Perché no? Con tutti i suoi difetti, la politica giapponese ha limitato e contenuto il danno provocato dalla crisi finanziaria. E di questi tempi il problema in America è se noi riusciremo a fare lo stesso, o se la situazione prenderà davvero la piega di un disastro economico.

Negli anni 90, il Giappone fece l’esperienza di una prova generale[131] della crisi nella quale si è impantanato gran parte del mondo nel 2008. Banche incontrollate alimentarono una bolla dei prezzi dei terreni: quando la bolla scoppiò, queste banche si trovarono seriamente indebolite, così come finirono in quella condizione i libri contabili di tutti coloro che avevano ricevuto prestiti nella convinzione che i prezzi dei terreni sarebbero rimasti alti. Il risultato fu il protrarsi della debolezza economica.

La risposta della politica fu troppo piccola ed arrivò troppo tardi. La Banca del Giappone tagliò i tassi di interesse e fece altri passi per  gonfiare la spesa, ma essa era sempre in ritardo[132] e prese piede una deflazione persistente. Il governo sostenne l’occupazione con programmi di opere pubbliche, ma i suoi sforzi non risultarono sufficientemente concentrati in modo tale da far partire una ripresa autosostenuta. Le banche vennero tenute a galla, ma furono lente nell’ammettere i cattivi debiti e nel far riprendere il credito. Il risultato di una politica inadeguata fu un economia che è rimasta depressa sino ad oggi.

Il quadro, tuttavia, è più grigiastro che non di un nero assoluto. L’economia del Giappone può essere depressa, ma non è in una depressione. Il quadro dell’occupazione è stato problematico, con un numero crescente di “freeters” [133] che vivono passando da un impiego temporaneo all’altro. Ma grazie a quei programmi governativi di creazione di posti di lavoro, il paese non sta sopportando una disoccupazione di massa. Il debito è cresciuto, ma a dispetto dei costanti ammonimenti su una crisi imminente – e nonostante i declassamenti da parte delle agenzie di rating nel passato 2002 – il governo è ancora nelle condizioni di prendere prestiti a lungo termine ad un tasso di interesse soltanto dell’1,1 per cento.

In breve, la performance del Giappone è stata deludente ma non disastrosa. E, in considerazione dei propositi politici della destra americana, si tratta di una performance che dovremmo sperare di poter imitare[134].

Come i loro omologhi giapponesi, gli uomini politici americani hanno inizialmente risposto allo scoppio della bolla ed alla crisi finanziaria con mezze misure. E’ un aspetto del quale mi sono lamentato, ma ormai è acqua passata. Il problema è: ora cosa accade?

L’ostruzionismo repubblicano significa che  il massimo che possiamo sperare per il prossimo futuro sono misure palliative – una modesta spesa aggiuntiva come il programma di infrastrutture che il Presidente Obama ha proposto questa settimana, un aiuto agli Stati ed ai governi locali per aiutarli ad evitare ulteriori gravi tagli alle spese, un aiuto ai disoccupati per ridurre le loro sofferenze e mantenere il potere di acquisto.

Anche con misure del genere, noi saremo fortunati se riusciremo a far bene come il Giappone nella limitazione del costo umano ed economico dei guai finanziari dell’economia. Ma non è in alcun modo certo che riusciremo a fare altrettanto. Se i Repubblicani andranno verso un effettivo irrigidimento politico oltre l’ostruzionismo – cosa che potrebbero fare se vincessero con grande margine in novembre – noi finiremo per nostro conto in una prestazione economica che renderà il Giappone simile alla terra promessa.

E’ difficile esagerare il potenziale distruttivo delle idee economiche offerte agli inizi di questa settimana da John Boehner, il leader della minoranza alla Camera, una volta che venissero messe in pratica. Fondamentalmente, egli propone due cose: ampi sgravi fiscali per i più ricchi che accrescerebbero il deficit di bilancio con un minimo effetto di sostegno all’economia, e drastici tagli di spesa che deprimerebbero l’economia nel mentre migliorerebbero di poco le prospettive del bilancio.  Minori posti di lavoro e deficit più grandi: la combinazione perfetta.

Più in generale, se i Repubblicani guadagnano maggiore potere, essi faranno certamente quello che fecero durante gli anni di Bush: essi non cercheranno seriamente di affrontare i problemi dell’economia; useranno piuttosto quei problemi come un pretesto per far avanzare i loro tradizionali propositi, inclusa la privatizzazione del sistema pensionistico. Sicuramente, proveranno anche ad abrogare la riforma sanitaria, la qualcosa sarebbe anch’essa come prendere due piccioni con una fava[135], riducendo la sicurezza economica e al tempo stesso accrescendo i deficit di lungo periodo.

Mi ritrovo, dunque, quasi ad invidiare i giapponesi. E’ vero, le loro prestazioni sono state deludenti. Ma le cose potrebbero prendere una piega peggiore. E l’idea che i Democratici devono portare avanti – l’idea che finalmente il Presidente Obama ha portato avanti questa settimana a Cleveland – è che se i Repubblicani riguadagneranno potere, le cose diventerebbero davvero peggiori. Gli americani, comprensibilmente, sono delusi, frustrati ed arrabbiati per lo stato dell’economia; ma la delusione è meglio che un disastro.    

 

 

 

 

 

China, Japan, America

By PAUL KRUGMAN
Published: September 12, 2010

Last week Japan’s minister of finance declared that he and his colleagues wanted a discussion with China about the latter’s purchases of Japanese bonds, to “examine its intention” — diplomat-speak for “Stop it right now.” The news made me want to bang my head against the wall in frustration.

 

 

You see, senior American policy figures have repeatedly balked at doing anything about Chinese currency manipulation, at least in part out of fear that the Chinese would stop buying our bonds. Yet in the current environment, Chinese purchases of our bonds don’t help us — they hurt us. The Japanese understand that. Why don’t we?

Some background: If discussion of Chinese currency policy seems confusing, it’s only because many people don’t want to face up to the stark, simple reality — namely, that China is deliberately keeping its currency artificially weak.

 

The consequences of this policy are also stark and simple: in effect, China is taxing imports while subsidizing exports, feeding a huge trade surplus. You may see claims that China’s trade surplus has nothing to do with its currency policy; if so, that would be a first in world economic history. An undervalued currency always promotes trade surpluses, and China is no different.

 

And in a depressed world economy, any country running an artificial trade surplus is depriving other nations of much-needed sales and jobs. Again, anyone who asserts otherwise is claiming that China is somehow exempt from the economic logic that has always applied to everyone else.

So what should we be doing? U.S. officials have tried to reason with their Chinese counterparts, arguing that a stronger currency would be in China’s own interest. They’re right about that: an undervalued currency promotes inflation, erodes the real wages of Chinese workers and squanders Chinese resources. But while currency manipulation is bad for China as a whole, it’s good for politically influential Chinese companies — many of them state-owned. And so the currency manipulation goes on.

 

Time and again, U.S. officials have announced progress on the currency issue; each time, it turns out that they’ve been had. Back in June, Timothy Geithner, the Treasury secretary, praised China’s announcement that it would move to a more flexible exchange rate. Since then, the renminbi has risen a grand total of 1, that’s right, 1 percent against the dollar — with much of the rise taking place in just the past few days, ahead of planned Congressional hearings on the currency issue. And since the dollar has fallen against other major currencies, China’s artificial cost advantage has actually increased.

 

Clearly, nothing will happen until or unless the United States shows that it’s willing to do what it normally does when another country subsidizes its exports: impose a temporary tariff that offsets the subsidy. So why has such action never been on the table?

 

One answer, as I’ve already suggested, is fear of what would happen if the Chinese stopped buying American bonds. But this fear is completely misplaced: in a world awash with excess savings, we don’t need China’s money — especially because the Federal Reserve could and should buy up any bonds the Chinese sell.

 

It’s true that the dollar would fall if China decided to dump some American holdings. But this would actually help the U.S. economy, making our exports more competitive. Ask the Japanese, who want China to stop buying their bonds because those purchases are driving up the yen.

 

Aside from unjustified financial fears, there’s a more sinister cause of U.S. passivity: business fear of Chinese retaliation.

Consider a related issue: the clearly illegal subsidies China provides to its clean-energy industry. These subsidies should have led to a formal complaint from American businesses; in fact, the only organization willing to file a complaint was the steelworkers union. Why? As The Times reported, “multinational companies and trade associations in the clean energy business, as in many other industries, have been wary of filing trade cases, fearing Chinese officials’ reputation for retaliating against joint ventures in their country and potentially denying market access to any company that takes sides against China.”

 

 

 

Similar intimidation has surely helped discourage action on the currency front. So this is a good time to remember that what’s good for multinational companies is often bad for America, especially its workers.

 

So here’s the question: Will U.S. policy makers let themselves be spooked by financial phantoms and bullied by business intimidation? Will they continue to do nothing in the face of policies that benefit Chinese special interests at the expense of both Chinese and American workers? Or will they finally, finally act? Stay tuned.

 

Cina, Giappone, America, di Paul Krugman

New York Times 12 settembre 2010

 

La scorsa settimana il Ministro delle Finanze del Giappone ha dichiarato che lui ed i suoi colleghi desideravano avere una discussione con la Cina a proposito degli ultimi acquisti di bonds giapponesi, per “esaminare le sue intenzioni”, che altro non è se non  l’espressione diplomatica per dire “fermatevi immediatamente”. La notizia mi ha messo voglia di sbattere la testa contro un muro per la frustrazione.

Come sapete, figure chiave della politica americana si sono ripetutamente tirate indietro dall’assumere una qualsiasi iniziativa sul tema della manipolazione valutaria cinese, almeno in parte per la paura che la Cina avrebbe sospeso gli acquisti dei nostri bonds. Tuttavia, nel presente contesto, gli acquisti dei nostri bonds da parte dei Cinesi non ci aiutano, bensì ci danneggiano. I Giapponesi lo capiscono. Perché noi no?

Facciamo un passo indietro: se la discussione sulla politica valutaria cinese sembra confusa, questo dipende solo dal fatto che molte persone non vogliono guardare in faccia la realtà nuda e cruda, ovvero che la Cina sta intenzionalmente e artificiosamente mantenendo debole la propria valuta.

Anche le conseguenze di questa politica sono nude e crude: in effetti, la Cina sta tassando le importazioni e al tempo stesso concede sussidi alle esportazioni, alimentando un vasto surplus commerciale. Si danno molte affermazioni secondo le quali il surplus commerciale cinese non avrebbe niente a che fare con la sua politica valutaria: se è così, sarebbe la prima volta nella storia. Una moneta sottovalutata produce sempre surplus commerciali, e la Cina non è un caso diverso.

Nell’economia mondiale depressa, ogni paese che tiene in piedi un surplus commerciale artificiale, sottrae alle altre nazioni possibilità di vendere e di creare lavoro. Anche qua, chiunque dica una cosa diversa pretende che la Cina sia in qualche modo esente dalla logica economica che si è sempre applicata a tutti gli altri.

Dunque, che cosa si dovrebbe fare? I dirigenti statunitensi hanno provato a ragionare con le loro controparti cinesi, sostenendo che una valuta più forte sarebbe nell’interesse della stessa Cina. L’argomento è giusto: una moneta sottovalutata promuove l’inflazione, erode i salari reali dei lavoratori e dilapida le risorse della Cina. Ma se la manipolazione valutaria è dannosa per la Cina nel suo complesso, essa favorisce le imprese cinesi che hanno maggiore influenza politica, molte delle quali di proprietà dello Stato. E così la manipolazione valutaria va avanti.

Di tanto in tanto, i dirigenti americani annunciano progressi sul tema valutario: contemporaneamente, viene fuori che quei progressi si sono già consumati. Lo scorso giugno, Timothy Geithner, il Segretario al Tesoro, lodò l’annuncio cinese secondo il quale quel paese si sarebbe mosso verso un tasso di cambio maggiormente flessibile. Da quel momento, il renmimbi è salito di un complessivo grandioso 1 per cento, con una gran parte della crescita che ha avuto luogo proprio pochi giorni fa, a fronte delle programmate audizioni da parte del Congresso sul tema valutario. E dal momento che il dollaro è caduto a confronto delle altre principali valute, il vantaggio competitivo artificiale cinese si è effettivamente accresciuto.

E’ chiaro che non accadrà niente finché e senza che gli Stati Uniti mostrino che intendono fare quello che normalmente si fa quando un altro paese sovvenziona le proprie esportazioni: imporre una tariffa provvisoria che riequilibri tali sussidi. Perché, dunque, una iniziativa del genere non è mai stata messa sul tavolo?

Una risposta, come ho già suggerito, è la paura di quanto potrebbe accadere se i Cinesi smettessero di acquistare bonds americani. Ma questa paura è completamente fuori luogo: in un mondo inondato da un eccesso di risparmio, noi non abbiamo bisogno del denaro della Cina, in particolar modo perché la Federal Reserve potrebbe e dovrebbe acquistare tutti i bonds che la Cina mettesse in vendita.

E’ vero che il dollaro potrebbe cadere se la Cina decidesse di scaricare una parte dei titoli americani in suo possesso. Ma questo di fatto aiuterebbe l’economia americana, rendendo le nostre esportazioni più competitive. Chiedetelo ai giapponesi, che vogliono che la Cina smetta di acquistare i loro bonds perché questi acquisti stanno spingendo in alto lo yen.

A parte le ingiustificate paure finanziarie, c’è una causa più sinistra della paura degli Stati Uniti: la paura delle imprese per una rappresaglia cinese.

Prendiamo ad esempio una questione collegata: le sovvenzioni chiaramente illegali che la Cina fornisce alla sua industria della energia pulita. Questi sussidi dovrebbero aver provocato una rimostranza formale da parte delle imprese americane: di fatto, la solo organizzazione che ha presentato un reclamo è stato il sindacato dei lavoratori siderurgici. Perché? Come ha informato The Times “imprese multinazionali ed associazioni commerciali nel settore delle energie pulite, come in molti altri settori industriali, sono state caute nell’aprire contenziosi commerciali, nel timore della cattiva fama dei dirigenti cinesi nel promuovere rappresaglie a danno delle joint ventures nel loro paese, nonché del rischio di potenziali dinieghi all’eccesso al mercato per le imprese che prendono posizione contro la Cina”.

Una tale intimidazione ha sicuramente scoraggiato l’iniziativa sul fronte valutario. E’ dunque una buona occasione per ricordare che ciò che è vantaggioso per le imprese multinazionali è spesso negativo per l’America, in special modo per i suoi lavoratori.

Il problema, dunque, è tutto qua: gli uomini politici americani accetteranno di essere spaventati da fantasmi finanziari e  di essere trattati con prepotenza attraverso intimidazioni alle nostre imprese? Continueranno a non far nulla di fronte alle politiche che favoriscono gli interessi particolari cinesi, a spese dei lavoratori sia cinesi che americani? Oppure, davvero in ultima istanza, vorranno agire? Restate collegati.

       

 

 

 

The Tax-Cut Racket

By PAUL KRUGMAN
Published: September 16, 2010

 

“Nice middle class you got here,” said Mitch McConnell, the Senate minority leader. “It would be a shame if something happened to it.”

O.K., he didn’t actually say that. But he might as well have, because that’s what the current confrontation over taxes amounts to. Mr. McConnell, who was self-righteously denouncing the budget deficit just the other day, now wants to blow that deficit up with big tax cuts for the rich. But he doesn’t have the votes. So he’s trying to get what he wants by pointing a gun at the heads of middle-class families, threatening to force a jump in their taxes unless he gets paid off with hugely expensive tax breaks for the wealthy.

 

Most discussion of the tax fight focuses either on the economics or on the politics — both of which suggest that Democrats should hang tough, for their own sakes as well as that of the country. But there’s an even bigger issue here — namely, the question of what constitutes acceptable behavior in American political life. Politics ain’t beanbag, but there’s a difference between playing hardball and engaging in outright extortion, which is what Mr. McConnell is now doing. And if he succeeds, it will set a disastrous precedent.

 

How did we get to this point? The proximate answer lies in the tactics the Bush administration used to push through tax cuts. The deeper answer lies in the radicalization of the Republican Party, its transformation into a movement willing to put the economy and the nation at risk for the sake of partisan victory.

 

So, about those tax cuts: back in 2001, the Bush administration bundled huge tax cuts for wealthy Americans with much smaller tax cuts for the middle class, then pretended that it was mainly offering tax breaks to ordinary families. Meanwhile, it circumvented Senate rules intended to prevent irresponsible fiscal actions — rules that would have forced it to find spending cuts to offset its $1.3 trillion tax cut — by putting an expiration date of Dec. 31, 2010, on the whole bill. And the witching hour is now upon us. If Congress doesn’t act, the Bush tax cuts will turn into a pumpkin at the end of this year, with tax rates reverting to Clinton-era levels.

 

In response, President Obama is proposing legislation that would keep tax rates essentially unchanged for 98 percent of Americans but allow rates on the richest 2 percent to rise. But Republicans are threatening to block that legislation, effectively raising taxes on the middle class, unless they get tax breaks for their wealthy friends.

 

That’s an extraordinary step. Almost everyone agrees that raising taxes on the middle class in the middle of an economic slump is a bad idea, unless the effects are offset by other job-creation programs — and Republicans are blocking those, too. So the G.O.P. is, in effect, threatening to plunge the U.S. economy back into recession unless Democrats pay up.

What kind of political party would engage in that kind of brinksmanship? The answer is the same kind of party that shut down the federal government in 1995 in an attempt to force President Bill Clinton to accept steep cuts in Medicare, and is actively discussing doing the same to Mr. Obama. So, as I said, the deeper explanation of the tax-cut fight is that it’s ultimately about a radicalized Republican Party, which accepts no limits on partisanship.

 

 

 

So should Democrats give in?

On the economics, the answer is a clear no. Right now, fears about budget deficits are overblown — but that doesn’t mean that we should completely ignore deficit concerns. And the G.O.P. plan would add hugely to the deficit — about $700 billion over the next decade — while doing little to help the economy. On any kind of cost-benefit analysis, this is an idea not worth considering.

 

And, by the way, a compromise solution — temporary tax breaks for the rich — is no better; it would cost less, but it would also do even less for the economy.

On the politics, the answer is also a clear no. Polls show that a majority of Americans are opposed to maintaining tax breaks for the rich. Beyond that, this is no time for Democrats to play it safe: if the midterm election were held today, they would lose badly. They need to highlight their differences with the G.O.P. — and it’s hard to think of a better place for them to take a stand than on the issue of big giveaways to Wall Street and corporate C.E.O.’s.

But what’s even more important is the principle of the thing. Threats to punish innocent bystanders unless your political rivals give you what you want have no legitimate place in democratic politics. Giving in to such threats would be an economic and political mistake, but more important, it would be morally wrong — and it would encourage more such threats in the future.

It’s time for Democrats to take a stand, and say no to G.O.P. blackmail.

 

Il racket degli sgravi fiscali, di Paul Krugman

New York Times 16 settembre 2010

 

 

“Sarebbe un peccato se succedesse qualcosa alla bella middle class che abbiamo avuto sin qua”, ha detto Mitch McConnell, leader della minoranza al Senato.

Per la verità, non si è proprio espresso così. Ma avrebbe potuto, perché quello è il succo della partita aperta sulle tasse. Il signor McConnell, che solo l’altro giorno denunciava con toni moralistici il deficit di bilancio, ora vuole far esplodere quel deficit con grandi tagli fiscali ai ricchi. Ma non ha abbastanza voti. Così cerca di ottenere quello che vuole puntando la pistola alla tempia delle famiglie della middle class, minacciando di costringere ad un rialzo delle loro tasse se non sarà ripagato con sgravi fiscali assai costosi per i più ricchi.

La parte principale del dibattito della battaglia sul fisco si focalizza sia sugli aspetti economici che su quelli politici, ed entrambi gli aspetti suggeriscono che i Democratici dovrebbero rimaner fermi sulle loro posizioni, per il loro bene come per quello del paese. Ma in tutto questo è implicito un tema persino più grande, né più né meno la questione di quale sia il limite di un comportamento accettabile nella vita politica americana. Nello scontro politico non si usano i cuscini[136], ma c’è differenza tra una campagna pretestuosa[137] ed una vera e propria estorsione, quale quella che è in atto da parte del signor McConnell. Se egli avrà successo, sarà un precedente disastroso.

Come si è arrivati a questo punto? La risposta più immediata consiste nelle tattiche che la amministrazione Bush utilizzò per far approvare i tagli fiscali. La risposta più profonda consiste nella radicalizzazione del Partito Repubblicano, nella sua trasformazione in un movimento che non esita a mettere a rischio l’economia ed il paese intero a favore di una vittoria di parte.

Per quanto riguarda gli aspetti dei tagli fiscali: nel passato 2001, la amministrazione Bush mise assieme grandi sgravi fiscali per gli americani ricchi con più piccole riduzioni per i ceti medi, presentando il tutto fondamentalmente come una offerta di agevolazioni fiscali alle famiglie ordinarie. Contemporaneamente, essa aggirò le regole del Senato che sono rivolte a prevenire iniziative finanziarie non responsabili – regole che la avrebbero costretta a riequilibrare con tagli alle spese una riduzione delle tasse pari a 1.300 miliardi di dollari – stabilendo una efficacia a termine dell’intero provvedimento per il 31 dicembre del 2010. E ora siamo vicini al momento magico[138]. Se il Congresso non legifera, i tagli fiscali di Bush perderanno la loro efficacia[139] alla fine dell’anno e si tornerà ad aliquote fiscali ai livelli dell’epoca di Clinton.

In risposta a ciò, il Presidente Obama propone che la legislazione mantenga immutate le aliquote fiscali per il 98 per cento degli Americani, ma consenta una crescita delle aliquote per il 2 per cento della popolazione più ricca. Sennonché i Repubblicani stanno minacciando di bloccare quella legislazione, di fatto aumentando le tasse sui ceti medi, se non otterranno le agevolazioni fiscali per i loro amici ricchi.

E’ un passaggio straordinario. Quasi tutti concordano sul fatto che aumentare le tasse sui ceti medi nel mezzo di una crisi economica sia una cattiva idea, a meno che gli effetti non siano compensati da ulteriori programmi di creazione di posti di lavoro – e i Repubblicani stanno bloccando anche questi. In questo modo, in effetti, il GOP sta minacciando di riprecipitare l’economia degli Stati Uniti nella recessione, se i Democratici non saldano il conto.

Quale mai partito politico potrebbe permettersi un avventurismo[140] di questo genere? La risposta è: lo stesso genere di partito che bloccò il funzionamento del governo federale nel 1995, nel tentativo di costringere il Presidente Bill Clinton ad accettare tagli esorbitanti su Medicair, e che sta discutendo animatamente di ripetere la stessa cosa con il Presidente Obama. Dunque, come ho detto, la spiegazione più profonda della battaglia sugli sgravi fiscali ha essenzialmente a che fare con la radicalizzazione del partito repubblicano, che non riconosce alcun limite nel suo comportamento di parte.

I Democratici dovrebbero, dunque, arrendersi?

Dal punto di vista economico, la risposta è chiaramente no. In questo momento, le paure per i deficit di bilancio sono fuori stagione[141], ma questo non significa che dobbiamo completamente ignorare le preoccupazioni di bilancio. E il programma del GOP andrebbe ad aggiungersi pesantemente al deficit – circa 700 miliardi di dollari nel corso del prossimo decennio – nel mentre fornirebbe un aiuto modesto all’economia. Ad una qualsiasi analisi costi-benefici, si tratta di una idea che non merita alcuna considerazione.

E, di conseguenza, una soluzione di compromesso – agevolazioni fiscali temporanee per i ricchi – non è migliore: essa costerebbe di meno, ma gioverebbe anche di meno all’economia.

Anche dal punto di vista politico la risposta è chiaramente negativa. I sondaggi dimostrano che la maggioranza degli americani si oppone a mantenere gli sgravi fiscali ai ricchi. Oltre a ciò, i Democratici non hanno più tempo per  giocare sul sicuro: se le elezioni di medio termine si tenessero oggi,  essi subirebbero un pesante sconfitta. Essi hanno bisogno di mettere in luce le loro differenze con il GOP – ed è difficile pensare ad un migliore argomento sul quale prendere posizione, che non quello delle gratifiche a Wall Street ed ai dirigenti delle grandi imprese.

Ma l’aspetto di principio della vicenda è anche più importante. Le minaccia di punire gli spettatori innocenti se il rivale politico non concede quello che si pretende, non ha alcuna collocazione legittima nella politica democratica. Arrendersi a minacce del genere sarebbe un errore economico e politico, ma più importante ancora, sarebbe moralmente sbagliato, ed incoraggerebbe nel futuro ulteriori minacce del genere.

E’ tempo per i Democratici di prendere posizione e di rinviare al mittente il ricatto repubblicano.

 

 

 

 

 

The Angry Rich

By PAUL KRUGMAN
Published: September 19, 2010

Anger is sweeping America. True, this white-hot rage is a minority phenomenon, not something that characterizes most of our fellow citizens. But the angry minority is angry indeed, consisting of people who feel that things to which they are entitled are being taken away. And they’re out for revenge.

No, I’m not talking about the Tea Partiers. I’m talking about the rich.

These are terrible times for many people in this country. Poverty, especially acute poverty, has soared in the economic slump; millions of people have lost their homes. Young people can’t find jobs; laid-off 50-somethings fear that they’ll never work again.

Yet if you want to find real political rage — the kind of rage that makes people compare President Obama to Hitler, or accuse him of treason — you won’t find it among these suffering Americans. You’ll find it instead among the very privileged, people who don’t have to worry about losing their jobs, their homes, or their health insurance, but who are outraged, outraged, at the thought of paying modestly higher taxes.

The rage of the rich has been building ever since Mr. Obama took office. At first, however, it was largely confined to Wall Street. Thus when New York magazine published an article titled “The Wail Of the 1%,” it was talking about financial wheeler-dealers whose firms had been bailed out with taxpayer funds, but were furious at suggestions that the price of these bailouts should include temporary limits on bonuses. When the billionaire Stephen Schwarzman compared an Obama proposal to the Nazi invasion of Poland, the proposal in question would have closed a tax loophole that specifically benefits fund managers like him.

Now, however, as decision time looms for the fate of the Bush tax cuts — will top tax rates go back to Clinton-era levels? — the rage of the rich has broadened, and also in some ways changed its character.

For one thing, craziness has gone mainstream. It’s one thing when a billionaire rants at a dinner event. It’s another when Forbes magazine runs a cover story alleging that the president of the United States is deliberately trying to bring America down as part of his Kenyan, “anticolonialist” agenda, that “the U.S. is being ruled according to the dreams of a Luo tribesman of the 1950s.” When it comes to defending the interests of the rich, it seems, the normal rules of civilized (and rational) discourse no longer apply.

 

At the same time, self-pity among the privileged has become acceptable, even fashionable.

Tax-cut advocates used to pretend that they were mainly concerned about helping typical American families. Even tax breaks for the rich were justified in terms of trickle-down economics, the claim that lower taxes at the top would make the economy stronger for everyone.

These days, however, tax-cutters are hardly even trying to make the trickle-down case. Yes, Republicans are pushing the line that raising taxes at the top would hurt small businesses, but their hearts don’t really seem in it. Instead, it has become common to hear vehement denials that people making $400,000 or $500,000 a year are rich. I mean, look at the expenses of people in that income class — the property taxes they have to pay on their expensive houses, the cost of sending their kids to elite private schools, and so on. Why, they can barely make ends meet.

 

 

 

And among the undeniably rich, a belligerent sense of entitlement has taken hold: it’s their money, and they have the right to keep it. “Taxes are what we pay for civilized society,” said Oliver Wendell Holmes — but that was a long time ago.

 

The spectacle of high-income Americans, the world’s luckiest people, wallowing in self-pity and self-righteousness would be funny, except for one thing: they may well get their way. Never mind the $700 billion price tag for extending the high-end tax breaks: virtually all Republicans and some Democrats are rushing to the aid of the oppressed affluent.

You see, the rich are different from you and me: they have more influence. It’s partly a matter of campaign contributions, but it’s also a matter of social pressure, since politicians spend a lot of time hanging out with the wealthy. So when the rich face the prospect of paying an extra 3 or 4 percent of their income in taxes, politicians feel their pain — feel it much more acutely, it’s clear, than they feel the pain of families who are losing their jobs, their houses, and their hopes.

 

 

And when the tax fight is over, one way or another, you can be sure that the people currently defending the incomes of the elite will go back to demanding cuts in Social Security and aid to the unemployed. America must make hard choices, they’ll say; we all have to be willing to make sacrifices.

But when they say “we,” they mean “you.” Sacrifice is for the little people.

 

La rabbia dei ricchi, di Paul Krugman

New York Times 19 settembre 2010

La rabbia sta spazzando l’America. In verità, questa furia eccitata è un fenomeno di minoranze e non qualcosa che caratterizza la gran parte dei nostri concittadini. Ma la minoranza arrabbiata è arrabbiata davvero, è fatta di persone che sentono che le cose a cui hanno diritto gli vengono portate via. E sono in cerca di una rivincita.

Non sto parlando dei componenti del Tea Party. Sto parlando dei ricchi.

In questo paese, questi sono tempi terribili per molte persone. La povertà, soprattutto l’estrema povertà, è schizzata alle stelle nella recessione economica: milioni di persone hanno perso la loro abitazione. I giovani non riescono a trovare lavoro; i licenziati che hanno una cinquantina d’anni hanno paura di non poter più lavorare.

Tuttavia, se volete cercare la vera rabbia politica – quel genere di rabbia che porta la gente a paragonare Obama ad Hitler, o ad accusarlo di tradimento – non la troverete tra questi americani che soffrono. La troverete invece tra coloro che godono di tutti i privilegi, gente che non ha paura di perdere il lavoro, la casa, la assicurazione sanitaria, ma che si sente offesa, proprio offesa, al pensiero di pagare un po’ di tasse in più.

La rabbia dei ricchi è montata sin dal momento in cui Obama è entrato in carica. All’inizio, tuttavia, era soprattutto confinata a Wall Street. Allora, quando il New York Magazine pubblicò un articolo dal titolo “Il lamento dell’1%”, si parlava di esperti operatori finanziari le cui imprese erano state messe in salvo con i soldi dei contribuenti, ma che erano furiosi all’idea che il prezzo di quei salvataggi dovesse includere limiti temporanei alle loro gratifiche. Quando il miliardario Stephen Schwarzman paragonò la proposta di Obama all’invasione nazista della Polonia, la proposta in questione avrebbe impedito una scappatoia fiscale della quale beneficiavano in particolare operatori finanziari  come lui.

Al momento attuale, tuttavia, nel mentre si profila una decisione sul destino degli sgravi fiscali di Bush – le aliquote fiscali torneranno ai livelli dell’epoca di Clinton? – la rabbia dei ricchi si è estesa ed ha anche mutato in qualche modo il suo carattere.

Da una parte, la follia è diventata la corrente principale. Una cosa è quando un miliardario inveisce nel corso di una cena organizzata. Altra cosa è quando la rivista Forbes pubblica in copertina la notizia secondo la quale il Presidente degli Stati Uniti starebbe cercando deliberatamente di affondare l’America nell’ambito di una sua kenyota agenda “anticolonialista”, e che “gli Stati Uniti sono governati in coerenza con i sogni di un esponente della tribù dei Luo[142] degli anni 50”. A quanto sembra, quando si tratta di difendere gli interessi dei ricchi, le normali consuetudini del dibattito civile (e razionale) non si applicano più.

Nello stesso tempo, l’autocommiserazione tra i privilegiati è diventata accettabile, è addirittura di moda.

I sostenitori dei tagli fiscali pretendono di apparire soprattutto preoccupati della difesa della famiglia media americana. Persino gli sgravi fiscali per i ricchi sono stati giustificati con la teoria delle loro ricadute economiche[143], ovvero con la pretesa secondo la quale tasse più basse per quelli che stanno in alto rendono l’economia più robusta per tutti.

Di questi tempi, tuttavia, i sostenitori degli sgravi fanno fatica persino a provare ad avanzare esempi di queste ricadute. E’ vero, i Repubblicani sostengono l’argomento secondo il quale alzare le tasse ai più ricchi finirebbe col colpire le piccole imprese, ma nel loro intimo non sembra che il punto sia questo. Piuttosto, si cominciano a sentire con frequenza vibranti reazioni all’idea che individui che realizzano 400.000 o 500.000 dollari all’anno siano ricchi. Voglio dire, provate a guardare alle spese delle persone che sono in queste categorie di reddito – le tasse di proprietà che devono pagare per le loro costose abitazioni, il costo delle scuole private di élite per i loro figli, e così via. Diamine[144], è gente che riesce appena a sbarcare il lunario[145]!

E tra coloro che sono innegabilmente ricchi, ha preso piede una bellicosa sensazione di essere nel proprio diritto: sono soldi loro, sono loro che hanno diritto di farne uso. “Le tasse sono quello che paghiamo per una società civilizzata”, aveva detto Oliver Wendell Holmes. Ma questo avveniva molto tempo fa.

Lo spettacolo degli americani con i redditi più alti, la popolazione più fortunata del mondo, che si crogiolano nella autocommiserazione e nell’ipocrisia sarebbe divertente, se non fosse per un aspetto: essi possono ben ottenere quello che vogliono. Non contano i 700 miliardi di dollari di costo finale degli sgravi fiscali per la fascia più alta: virtualmente tutti i Repubblicani ed alcuni Democratici si stanno precipitando al soccorso dei benestanti oppressi.

Come vi sarete resi conto, i ricchi sono diversi da voi e da me: hanno maggiore influenza. In parte è una faccenda di contributi elettorali, ma è anche una questione di pressione sociale, dal momento che gli uomini politici spendono un bel po’ del loro tempo nel frequentare i ricchi. Così, quando i ricchi devono far fronte alla possibilità di dover pagare una aggiunta del 3 o 4 per cento del loro reddito in tasse, i politici entrano facilmente in sintonia con le loro pene, c’entrano in modo assai più vivo, è chiaro, che non quanto devono condividere le pene di coloro che stanno perdendo il lavoro, la casa e le speranze.

E quando lo scontro sulle tasse sarà alle nostre spalle, in un modo o nell’altro, potete star certi che coloro che oggi difendono i redditi dell’élite, torneranno a chiedere i tagli alla Sicurezza Sociale ed ai sussidi di disoccupazione. Diranno che l’America deve fare scelte difficili, che dobbiamo tutti prepararci a fare sacrifici.

Ma quando dicono “noi”, essi intendono “voi”. I sacrifici sono per la gente comune.

      

 

 

 

 

 

Downhill With the G.O.P.

By PAUL KRUGMAN
Published: September 23, 2010

 

Once upon a time, a Latin American political party promised to help motorists save money on gasoline. How? By building highways that ran only downhill.

I’ve always liked that story, but the truth is that the party received hardly any votes. And that means that the joke is really on us. For these days one of America’s two great political parties routinely makes equally nonsensical promises. Never mind the war on terror, the party’s main concern seems to be the war on arithmetic. And this party has a better than even chance of retaking at least one house of Congress this November.

 

Banana republic, here we come.

On Thursday, House Republicans released their “Pledge to America,” supposedly outlining their policy agenda. In essence, what they say is, “Deficits are a terrible thing. Let’s make them much bigger.” The document repeatedly condemns federal debt — 16 times, by my count. But the main substantive policy proposal is to make the Bush tax cuts permanent, which independent estimates say would add about $3.7 trillion to the debt over the next decade — about $700 billion more than the Obama administration’s tax proposals.

 

True, the document talks about the need to cut spending. But as far as I can see, there’s only one specific cut proposed — canceling the rest of the Troubled Asset Relief Program, which Republicans claim (implausibly) would save $16 billion. That’s less than half of 1 percent of the budget cost of those tax cuts. As for the rest, everything must be cut, in ways not specified — “except for common-sense exceptions for seniors, veterans, and our troops.” In other words, Social Security, Medicare and the defense budget are off-limits.

 

 

So what’s left? Howard Gleckman of the nonpartisan Tax Policy Center has done the math. As he points out, the only way to balance the budget by 2020, while simultaneously (a) making the Bush tax cuts permanent and (b) protecting all the programs Republicans say they won’t cut, is to completely abolish the rest of the federal government: “No more national parks, no more Small Business Administration loans, no more export subsidies, no more N.I.H. No more Medicaid (one-third of its budget pays for long-term care for our parents and others with disabilities). No more child health or child nutrition programs. No more highway construction. No more homeland security. Oh, and no more Congress.”

 

The “pledge,” then, is nonsense. But isn’t that true of all political platforms? The answer is, not to anything like the same extent. Many independent analysts believe that the Obama administration’s long-run budget projections are somewhat too optimistic — but, if so, it’s a matter of technical details. Neither President Obama nor any other leading Democrat, as far as I can recall, has ever claimed that up is down, that you can sharply reduce revenue, protect all the programs voters like, and still balance the budget.

And the G.O.P. itself used to make more sense than it does now. Ronald Reagan’s claim that cutting taxes would actually increase revenue was wishful thinking, but at least he had some kind of theory behind his proposals. When former President George W. Bush campaigned for big tax cuts in 2000, he claimed that these cuts were affordable given (unrealistic) projections of future budget surpluses. Now, however, Republicans aren’t even pretending that their numbers add up.

 

So how did we get to the point where one of our two major political parties isn’t even trying to make sense?

 

The answer isn’t a secret. The late Irving Kristol, one of the intellectual godfathers of modern conservatism, once wrote frankly about why he threw his support behind tax cuts that would worsen the budget deficit: his task, as he saw it, was to create a Republican majority, “so political effectiveness was the priority, not the accounting deficiencies of government.” In short, say whatever it takes to gain power. That’s a philosophy that now, more than ever, holds sway in the movement Kristol helped shape.

 

And what happens once the movement achieves the power it seeks? The answer, presumably, is that it turns to its real, not-so-secret agenda, which mainly involves privatizing and dismantling Medicare and Social Security.

 

Realistically, though, Republicans aren’t going to have the power to enact their true agenda any time soon — if ever. Remember, the Bush administration’s attack on Social Security was a fiasco, despite its large majority in Congress — and it actually increased Medicare spending.

 

So the clear and present danger isn’t that the G.O.P. will be able to achieve its long-run goals. It is, rather, that Republicans will gain just enough power to make the country ungovernable, unable to address its fiscal problems or anything else in a serious way.

 

As I said, banana republic, here we come.

 

In discesa col Partito Repubblicano, di Paul Krugman

New York Times 23 settembre 2010

 

C’era una volta un partito politico latinoamericano che aveva promesso di aiutare gli automobilisti a risparmiare soldi  sulla benzina. Come? Costruendo autostrade che corressero solo in discesa.

Mi è sempre piaciuta questa storia, ma le verità è che quel partito ottenne appena pochi voti. In questi giorni, uno dei due grandi partiti politici americani avanza ordinariamente promesse altrettanto insensate. Non si tratta tanto della guerra sul terrorismo, la principale preoccupazione di quel partito sembra essere la guerra con la matematica. E, questo novembre, esso ha la migliore possibilità di riacquistare il controllo almeno di uno dei due rami del Congresso.

Repubblica delle banane, siamo in arrivo.

Giovedì, i Repubblicani della Camera hanno reso nota la loro “Promessa all’America”, che si suppone tracci i contorni delle loro agenda politica. In sostanza, quello che dicono è: “Il deficit è una cosa terribile. Lasciateci fare in modo che diventi molto più grande”. Il documento condanna ripetutamente il debito federale – 16 volte, secondo i miei conti. Ma la proposta politica maggiormente di spicco è quella di rendere i tagli fiscali di Bush permanenti, il che, secondo stime indipendenti, farebbe crescere di 3.700 miliardi di dollari il debito nel corso del prossimo decennio; circa 700 miliardi in più delle proposte fiscali della Amministrazione Obama.

E’ vero, il documento parla della necessità di tagli alla spesa pubblica. Ma, per quanto posso capire, c’è un solo taglio specificamente proposto: la cancellazione di quanto resta del Programma per il soccorso ai beni economici in crisi, che i Repubblicani stimano (poco verosimilmente) farebbe risparmiare 16 miliardi. In termini di onere per il bilancio, questo sarebbe meno della metà dell’1 per cento di quegli sgravi fiscali. Per il resto, ogni cosa si prevede che possa essere tagliata in modi che non vengono specificati, “salvo le eccezioni prevedibili per gli anziani, i veterani e le nostre truppe”. In altre parole, la Sicurezza Sociale, Medicare ed il budget per la difesa sono a rischio.

Cosa abbiamo dimenticato, dunque? Howard Gleckman, dell’indipendente Tax Policy Center, ha fatto i conti. Come egli sottolinea, l’unico modo per mettere in equilibrio il bilancio entro il 2020, nel mentre contemporaneamente (a) si rendono permanenti gli sgravi fiscali di Bush e (b) si proteggono tutti i programmi che i Repubblicani dicono che non taglieranno, è la abolizione completa della parte restante del governo federale: “Niente più parchi nazionali, mutui federali alla piccola impresa, sussidi all’esportazione, Istituti nazionali di ricerca sanitaria. Niente più Medicaid (un terzo dei suoi bilanci paga le cure a lungo termine dei vostri genitori e di tutti coloro che hanno handicaps). Niente più costruzione di autostrade. Niente più difesa nazionale. Oh … e niente più Congresso”.

La “promessa” è dunque priva di senso. Ma non è così per tutte le piattaforme politiche? La risposta è, non per tutte nella stessa misura. Molti analisti indipendenti ritengono che le proiezioni di bilancio a lungo termine della Amministrazione Obama siano un po’ troppo ottimistiche; ma se così fosse, sarebbe una questione di dettagli tecnici. Né il Presidente Obama, né alcun altro dirigente democratico, per quanto possa ricordare, hanno mai sostenuto che si possa friggere con l’acqua[146], ovvero che si possa drasticamente ridurre le entrate, proteggere i programmi di gradimento degli elettori, e anche rimettere in sesto il bilancio.

E lo stesso GOP era abituato a proposte più sensate di quelle attuali. La pretesa di Ronald Reagan per la quale tagliare le tasse avrebbe effettivamente incrementato le entrate era una mera petizione di principio[147], ma nelle sue proposte c’era almeno un ragionamento teorico di qualche genere. Quando nel 2000 il precedente Presidente George W. Bush faceva la propaganda elettorale per grandi tagli fiscali, egli sosteneva che quei tagli erano sostenibili sulla base di previsioni (irrealistiche) di avanzi di amministrazione futuri. Ora, invece, i Repubblicani non hanno neanche più la pretesa che i loro numeri abbiano alcun senso.

E dunque, come si fa ad arrivare ad una qualche sostanza se uno dei due maggiori partiti politici neanche cerca più di affermare cose sensate?

La risposta non è un mistero. L’ultimo Irving Kristol, uno degli intellettuali padrini del conservatorismo moderno, una volta scrisse con franchezza le ragioni per le quali dava il suo sostegno ai tagli fiscali che avrebbero peggiorato i deficit di bilancio: il suo obbiettivo, per come la vedeva, era  che dar vita ad una maggioranza repubblicana “così efficace politicamente fosse la priorità, più che le difficoltà contabili del governo”. In poche parole, si può dire tutto quello che serve a guadagnare potere. Questa è la filosofia che ai nostri giorni, più che mai, ha preso piede[148] nel movimento che Kristol contribuì a modellare.

E cosa accade, una volta che quel movimento ottiene il potere che cerca? La risposta, presumibilmente, è che esso ritorna alla sua reale agenda, peraltro non ignota, la quale principalmente riguarda la privatizzazione e lo smantellamento di Medicare e della Sicurezza Sociale.

Realisticamente, tuttavia, se anche vincessero, i Repubblicani non sono nelle condizioni di avere un tale potere da mettere in atto i loro veri propositi in breve tempo. Si ricordi che l’attacco alla Sicurezza sociale da parte della Amministrazione Bush fu un fiasco, a dispetto della sua ampia maggioranza in Congresso, e che essa effettivamente aumentò la spesa pubblica su Medicare.

Dunque, il pericolo vero ed attuale non consiste nel fatto che il GOP sarà nelle condizioni di ottenere i suoi obbiettivi di lungo termine. Esso consiste, piuttosto, nel fatto che i Repubblicani guadagneranno un potere sufficiente  a rendere il paese ingovernabile, incapace di risolvere in modo serio i suoi problemi di finanza pubblica come ogni altro problema.

Come ho detto, repubblica delle banane, siamo in arrivo.

  

      

 

 

 

Structure of Excuses

By PAUL KRUGMAN
Published: September 26, 2010

What can be done about mass unemployment? All the wise heads agree: there are no quick or easy answers. There is work to be done, but workers aren’t ready to do it — they’re in the wrong places, or they have the wrong skills. Our problems are “structural,” and will take many years to solve.

But don’t bother asking for evidence that justifies this bleak view. There isn’t any. On the contrary, all the facts suggest that high unemployment in America is the result of inadequate demand — full stop. Saying that there are no easy answers sounds wise, but it’s actually foolish: our unemployment crisis could be cured very quickly if we had the intellectual clarity and political will to act.

In other words, structural unemployment is a fake problem, which mainly serves as an excuse for not pursuing real solutions.

 

Who are these wise heads I’m talking about? The most widely quoted figure is Narayana Kocherlakota, the president of the Federal Reserve Bank of Minneapolis, who has attracted a lot of attention by insisting that dealing with high unemployment isn’t a Fed responsibility: “Firms have jobs, but can’t find appropriate workers. The workers want to work, but can’t find appropriate jobs,” he asserts, concluding that “It is hard to see how the Fed can do much to cure this problem.”

 

Now, the Minneapolis Fed is known for its conservative outlook, and claims that unemployment is mainly structural do tend to come from the right of the political spectrum. But some people on the other side of the aisle say similar things. For example, former President Bill Clinton recently told an interviewer that unemployment remained high because “people don’t have the job skills for the jobs that are open.”

 

Well, I’d respectfully suggest that Mr. Clinton talk to researchers at the Roosevelt Institute and the Economic Policy Institute, both of which have recently released important reports completely debunking claims of a surge in structural unemployment.

After all, what should we be seeing if statements like those of Mr. Kocherlakota or Mr. Clinton were true? The answer is, there should be significant labor shortages somewhere in America — major industries that are trying to expand but are having trouble hiring, major classes of workers who find their skills in great demand, major parts of the country with low unemployment even as the rest of the nation suffers.

 

None of these things exist. Job openings have plunged in every major sector, while the number of workers forced into part-time employment in almost all industries has soared. Unemployment has surged in every major occupational category. Only three states, with a combined population not much larger than that of Brooklyn, have unemployment rates below 5 percent.

 

Oh, and where are these firms that “can’t find appropriate workers”? The National Federation of Independent Business has been surveying small businesses for many years, asking them to name their most important problem; the percentage citing problems with labor quality is now at an all-time low, reflecting the reality that these days even highly skilled workers are desperate for employment.

So all the evidence contradicts the claim that we’re mainly suffering from structural unemployment. Why, then, has this claim become so popular?

Part of the answer is that this is what always happens during periods of high unemployment — in part because pundits and analysts believe that declaring the problem deeply rooted, with no easy answers, makes them sound serious.

I’ve been looking at what self-proclaimed experts were saying about unemployment during the Great Depression; it was almost identical to what Very Serious People are saying now. Unemployment cannot be brought down rapidly, declared one 1935 analysis, because the work force is “unadaptable and untrained. It cannot respond to the opportunities which industry may offer.” A few years later, a large defense buildup finally provided a fiscal stimulus adequate to the economy’s needs — and suddenly industry was eager to employ those “unadaptable and untrained” workers.

 

But now, as then, powerful forces are ideologically opposed to the whole idea of government action on a sufficient scale to jump-start the economy. And that, fundamentally, is why claims that we face huge structural problems have been proliferating: they offer a reason to do nothing about the mass unemployment that is crippling our economy and our society.

 

So what you need to know is that there is no evidence whatsoever to back these claims. We aren’t suffering from a shortage of needed skills; we’re suffering from a lack of policy resolve. As I said, structural unemployment isn’t a real problem, it’s an excuse — a reason not to act on America’s problems at a time when action is desperately needed.

 

Strutturali sono le scuse, di Paul Krugman

New York Times 26 settembre 2010

Cosa può essere fatto per la disoccupazione di massa? Tutti i saggi sono d’accordo: non ci sono risposte rapide o facili. C’è lavoro da fare, ma i lavoratori non sono preparati per quel lavoro – sono nei posti sbagliati o hanno le professionalità sbagliate. I nostri problemi sono “strutturali” e ci vorranno molti anni per risolverli.

Ma non date fastidio nel chiedere le prove che giustifichino questo punto di vista desolante. Non ci sono. Al contrario, tutti i fatti ci dicono che l’alta disoccupazione è in America il risultato di una domanda insufficiente – punto e basta. Affermare che non ci sono risposte facili sembra saggio, ma è in effetti una sciocchezza: la nostra crisi occupazionale potrebbe essere curata molto rapidamente, se avessimo l’onestà intellettuale e la volontà politica di agire.

In altre parole, la disoccupazione strutturale è un falso problema, che fondamentalmente serve da scusa per non operare per soluzioni effettive.

Chi sono questi saggi dei quali sto parlando? Il personaggio più diffusamente riconosciuto è Narayana Kocherlakota,  il Presidente della Federal Reserve Bank di Minneapolis, che ha provocato molto interesse per aver insistentemente sostenuto che non è responsabilità della Federal Reserve fare i conti con l’elevata disoccupazione: “le imprese hanno lavoro, ma non riescono a trovare lavoratori adatti. I lavoratori cercano lavoro, ma non trovano lavori adatti”, sostiene, per concludere che “è difficile pensare che la Fed possa fare granché per curare questo problema”.

Ora, la Fed di Minneapolis è conosciuta per la sua mentalità conservatrice, e la pretesa che la disoccupazione sia fondamentalmente strutturale è una opinione che proviene in effetti dalla destra dello schieramento politico. Ma ci sono persone che sostengono cose simili dall’altra parte dello schieramento. Ad esempio, il precedente Presidente Bill Clinton ha di recente affermato in una intervista che la disoccupazione rimane elevata perché “la gente non ha professionalità adatte ai lavori che sono disponibili”.

Bene, io vorrei rispettosamente suggerire al signor Clinton di parlare con i ricercatori del Roosevelt Institute e del Economic Policy Institute, entrambi i quali hanno di recente pubblicato importanti rapporti che demistificano completamente la pretesa di una crescita della disoccupazione strutturale.

In fin dei conti, a cosa si dovrebbe assistere se le affermazioni del signor Kocherlakota e di Clinton fossero vere? La risposta è, dovrebbero manifestarsi significative scarsità di lavoro qua e là in America; industrie importanti che provano ad espandersi ma hanno difficoltà ad assumere, importanti categorie di lavoratori che incontrano una grande domanda per le loro professionalità, la maggior parte del paese con una disoccupazione bassa, anche se il resto della nazione sarebbe in sofferenza.

Non sta avvenendo niente del genere. Le disponibilità di lavoro sono crollate in tutti i settori più importanti, mentre il numero dei lavoratori che è costretto a lavori a tempo parziale è aumentato in ogni principale categoria occupazionale. Solo tre Stati, che hanno assieme una popolazione non molto maggiore di quella di Brooklyn, hanno un tasso di disoccupazione inferiore al 5 per cento.

E dove sono, infine, queste imprese che “non possono trovare lavoratori adatti”? La National Federation of Independent Business tiene sotto osservazione le piccole imprese da molti anni, chiedendo ad esse di indicare il loro problema più grave: la percentuale che indica problemi con la qualità del lavoro è oggi la più bassa di tutti i tempi, il che riflette una realtà per la quale in questi giorni anche i lavoratori ad elevata professionalità sono disperati per l’occupazione.

Dunque, ogni prova contraddice la pretesa per la quale staremmo principalmente soffrendo di una disoccupazione strutturale. Perché, allora, questa pretesa è diventata così popolare?

La risposta in parte dipende dal fatto che questo è quanto accade in periodi di elevata disoccupazione; in parte dipende dal fatto che gli esperti e gli analisti ritengono che dichiarare che il problema ha radici profonde e risposte non facili, li faccia apparire più seri.

Sono andato a vedere che cosa affermavano i sedicenti esperti durante la Grande Depressione: era quasi identico a quello che dicono oggi le Persone Molto Serie. La disoccupazione non può essere abbattuta rapidamente, dichiarava una analisi del 1935, perché la forza di lavoro è “inutilizzabile e non addestrata. Essa non può rispondere alle opportunità offerte dall’industria”. Pochi anni dopo, un grande incremento delle attività connesse con la difesa alla fine fornì lo stimolo finanziario adeguato di cui l’economia aveva bisogno, e improvvisamente l’industria divenne avida di quei lavoratori “inutilizzabili e non addestrati”.

 Ma ora come allora, forze potenti si oppongono ideologicamente alla stessa idea di una azione di governo di dimensioni tali da innescare una ripresa economica. E questa, fondamentalmente, è la ragione per la quale la pretesa di dover fronteggiare vasti problemi strutturali si sta diffondendo: essa fornisce un motivo per non far niente per una disoccupazione di massa che sta provocando un danno duraturo alla nostra economia ed alla nostra società.

Dunque, quello che si deve sapere è che non esiste alcuna prova di sorta che giustifichi queste pretese. Non siamo in sofferenza per una scarsità di professionalità di cui ci sarebbe bisogno; siamo in sofferenza per una mancanza di risolutezza politica. Come ho detto, la disoccupazione strutturale non è un problema reale, è una scusa, una ragione per non agire sui problemi dell’America in un tempo nel quale agire è disperatamente necessario.  

 

 

 

 

Taking On China

By PAUL KRUGMAN
Published: September 30, 2010

 

Serious people were appalled by Wednesday’s vote in the House of Representatives, where a huge bipartisan majority approved legislation, sponsored by Representative Sander Levin, that would potentially pave the way for sanctions against China over its currency policy. As a substantive matter, the bill was very mild; nonetheless, there were dire warnings of trade war and global economic disruption. Better, said respectable opinion, to pursue quiet diplomacy.

 

But serious people, who have been wrong about so many things since this crisis began — remember how budget deficits were going to lead to skyrocketing interest rates and soaring inflation? — are wrong on this issue, too. Diplomacy on China’s currency has gone nowhere, and will continue going nowhere unless backed by the threat of retaliation. The hype about trade war is unjustified — and, anyway, there are worse things than trade conflict. In a time of mass unemployment, made worse by China’s predatory currency policy, the possibility of a few new tariffs should be way down on our list of worries.

 

 

Let’s step back and look at the current state of the world.

Major advanced economies are still reeling from the effects of a burst housing bubble and the financial crisis that followed. Consumer spending is depressed, and firms see no point in expanding when they aren’t selling enough to use the capacity they have. The recession may be officially over, but unemployment is extremely high and shows no sign of returning to normal levels.

The situation is quite different, however, in emerging economies. These economies have weathered the economic storm, they are fighting inflation rather than deflation, and they offer abundant investment opportunities. Naturally, capital from wealthier but depressed nations is flowing in their direction. And emerging nations could and should play an important role in helping the world economy as a whole pull out of its slump.

But China, the largest of these emerging economies, isn’t allowing this natural process to unfold. Restrictions on foreign investment limit the flow of private funds into China; meanwhile, the Chinese government is keeping the value of its currency, the renminbi, artificially low by buying huge amounts of foreign currency, in effect subsidizing its exports. And these subsidized exports are hurting employment in the rest of the world.

 

Chinese officials defend this policy with arguments that are both implausible and wildly inconsistent.

They deny that they are deliberately manipulating their exchange rate; I guess the tooth fairy purchased $2.4 trillion in foreign currency and put it on their pillows while they were sleeping. Anyway, say prominent Chinese figures, it doesn’t matter; the renminbi has nothing to do with China’s trade surplus. Yet this week China’s premier cried woe over the prospect of a stronger currency, declaring, “We cannot imagine how many Chinese factories will go bankrupt, how many Chinese workers will lose their jobs.” Well, either the renminbi’s value matters, or it doesn’t — they can’t have it both ways.

 

Meanwhile, about diplomacy: China’s government has shown no hint of helpfulness and seems to go out of its way to flaunt its contempt for U.S. negotiators. In June, the Chinese supposedly agreed to allow their currency to move toward a market-determined rate — which, if the example of economies like Brazil is any indication, would have meant a sharp rise in the renminbi’s value. But, as of Thursday, China’s currency had risen about only 2 percent against the dollar — with most of that rise taking place in just the past few weeks, clearly in anticipation of the vote on the Levin bill.

 

 

So what will the bill accomplish? It empowers U.S. officials to impose tariffs against Chinese exports subsidized by the artificially low renminbi, but it doesn’t require these officials to take action. And judging from past experience, U.S. officials will not, in fact, take action — they’ll continue to make excuses, to tout imaginary diplomatic progress, and, in general, to confirm China’s belief that they are paper tigers.

The Levin bill is, then, a signal at best — and it’s at least as much a shot across the bow of U.S. officials as it is a signal to the Chinese. But it’s a step in the right direction.

 

For the truth is that U.S. policy makers have been incredibly, infuriatingly passive in the face of China’s bad behavior — especially because taking on China is one of the few policy options for tackling unemployment available to the Obama administration, given Republican obstructionism on everything else. The Levin bill probably won’t change that passivity. But it will, at least, start to build a fire under policy makers, bringing us closer to the day when, at long last, they are ready to act.

 

Fare i conti con la Cina, di Paul Krugman

New York Times 30 settembre 2010

 

Le persone serie[149] hanno accolto con preoccupazione il voto di mercoledì alla Camera dei Rappresentanti, dove una vasta maggioranza bipartisan ha approvato una legge, proposta dal parlamentare Sander Levin, che potenzialmente aprirebbe la strada a sanzioni contro la Cina a proposito della sua politica valutaria. Da un punto di vista sostanziale, il testo è assai leggero: tuttavia, ci sono stati terribili messe in guardia per il rischio di una guerra commerciale e di un grave disordine economico globale. Meglio proseguire, così si sono espresse queste rispettabili opinioni, con una moderata diplomazia.

Ma le persone serie, che hanno avuto torto a proposito di tanti mai aspetti dal momento in cui questa crisi è cominciata – ricordate come i deficit di bilancio stavano portando alle stelle i tassi di interesse e come stavano determinando una imponente inflazione? – hanno torto anche su questa vicenda. La diplomazia a proposito della valuta cinese non ha portato da nessuna parte, e continuerà a non portare da nessuna parte sinché non sarà accompagnate dalla minaccia di ritorsioni. Questo gran chiasso sulla guerra commerciale è ingiustificato e, in ogni caso, ci sono cose peggiori di un conflitto commerciale. In un periodo di disoccupazione di massa, reso peggiore dalla politica commerciale predatoria cinese, la possibilità di poche nuove tariffe dovrebbe essere l’ultima delle nostre preoccupazioni[150].

Facciamo un passo indietro e guardiamo alla attuale condizione del mondo.

Importanti economie avanzate stanno ancora barcollando per gli effetti di una bolla immobiliare e della crisi finanziaria che ne è seguita. Le spese di consumo sono depresse, e le imprese non vedono alcun motivo per espandersi, dal momento in cui non stanno utilizzando l’intera capacità produttiva che hanno a disposizione. Può darsi che la recessione sia ufficialmente superata, ma la disoccupazione è estremamente elevata e non mostra segni di un ritorno a livelli normali.

La situazione, tuttavia, è assai diversa nelle economie emergenti. Queste economie hanno superato la crisi economica, stanno combattendo l’inflazione piuttosto della deflazione, ed offrono cospicue opportunità di investimenti. Naturalmente, il capitale delle nazioni più ricche ma depresse si dirige nella loro direzione. E le nazioni emergenti potrebbero e dovrebbero giocare un ruolo importante nell’aiutare l’economia mondiale nel suo complesso a venir fuori dalla crisi.

Ma la Cina, la più grande di queste economie emergenti, non sta consentendo che questo processo abbia luogo. Restrizioni sugli investimenti stranieri limitano il flusso dei capitali privati verso la Cina; contemporaneamente, il governo cinese sta tenendo artificiosamente bassa la sua valuta, il renmimbi, attraverso l’acquisto di imponenti quantitativi di valuta straniera, in pratica sussidiando le proprie esportazioni. E queste esportazioni che godono di sussidi provocano un danno all’occupazione nel resto del mondo.

I dirigenti cinesi difendono questa politica con argomenti che sono sia non plausibili che paurosamente inconsistenti.

Essi negano di star deliberatamente manipolando il loro tasso di cambio; si deve pensare che sia stata una fatina ad acquistare 2.400 miliardi[151] di dollari di valute straniere e a metterli sui loro guanciali mentre stavano dormendo.  In ogni caso, dicono le autorità cinesi, non è questo il punto: il renmimbi non ha niente a che fare con il surplus commerciale della Cina. Tuttavia, il premier cinese questa settimana ha pianto a disgrazia sulla prospettiva di una valuta più forte: “Noi non possiamo immaginare quante industrie cinesi finirebbero in bancarotta, quanti lavoratori cinesi perderebbero il loro lavoro”. Dunque, o il valore del renmimbi conta o non conta, non possono sostenere entrambe le cose.

Nel frattempo, a proposito della diplomazia: il governo cinese non ha mostrato alcun segno di disponibilità e sembra persino dar prova di un certo disprezzo verso i negoziatori degli Stati Uniti. In giugno, si era supposto che i cinesi fossero d’accordo a consentire alla loro valuta di muoversi verso un tasso di cambio determinato dal mercato – il che, se l’esempio di economie come il Brasile è indicativo, comporterebbe un brusco rialzo del valore del renmimbi. Ma, alla data di giovedì scorso, la valuta cinese era cresciuta nei confronti del dollaro all’incirca soltanto di un 2 per cento – e gran parte di quella crescita ha avuto luogo solo nelle ultime settimane, chiaramente nella previsione del voto sulla proposta di legge Levin.

Dunque, che cosa comporterà tale legge? Essa delega i dirigenti degli Stati Uniti ad imporre tariffe contro le esportazioni cinesi sussidiate dal renmimbi artificiosamente basso, ma non impone loro di assumere l’iniziativa. E, a giudicare dalla esperienza passata, i dirigenti statunitensi non assumeranno, nei fatti, alcuna iniziativa del genere – continueranno ad accampar scuse, a reclamizzare immaginari successi diplomatici, e, in generale, confermeranno il convincimento cinese di avere a che fare con tigri di carta.

Nella migliore delle ipotesi, la legge Levin è dunque un segnale, ed è almeno altrettanto un segnale nella direzione dei cinesi, che uno strumento a disposizione[152] dei dirigenti americani. Ma è un passo nella direzione giusta.

Perché la verità è che i responsabili politici americani sono stati incredibilmente, esasperatamente passivi nei confronti del pessimo comportamento dei cinesi, specialmente se si considera che prendersela con la Cina è rimasta una delle poche opzioni politiche per misurarsi con una disoccupazione alla portata della amministrazione Obama, stante l’ostruzionismo dei Repubblicani su ogni altra soluzione. Il testo di legge[153] di Levin probabilmente non cambierà tale passività. Ma almeno metterà un po’ di furia[154] agli operatori politici, avvicinandoci al giorno in cui, finalmente, essi si decideranno a fare qualcosa di concreto.

 

 

 

Fear and Favor

By PAUL KRUGMAN
Published: October 3, 2010

A note to Tea Party activists: This is not the movie you think it is. You probably imagine that you’re starring in “The Birth of a Nation,” but you’re actually just extras in a remake of “Citizen Kane.”

 

True, there have been some changes in the plot. In the original, Kane tried to buy high political office for himself. In the new version, he just puts politicians on his payroll.

I mean that literally. As Politico recently pointed out, every major contender for the 2012 Republican presidential nomination who isn’t currently holding office and isn’t named Mitt Romney is now a paid contributor to Fox News. Now, media moguls have often promoted the careers and campaigns of politicians they believe will serve their interests. But directly cutting checks to political favorites takes it to a whole new level of blatancy.

 

 

Arguably, this shouldn’t be surprising. Modern American conservatism is, in large part, a movement shaped by billionaires and their bank accounts, and assured paychecks for the ideologically loyal are an important part of the system. Scientists willing to deny the existence of man-made climate change, economists willing to declare that tax cuts for the rich are essential to growth, strategic thinkers willing to provide rationales for wars of choice, lawyers willing to provide defenses of torture, all can count on support from a network of organizations that may seem independent on the surface but are largely financed by a handful of ultrawealthy families.

 

 

 

 

And these organizations have long provided havens for conservative political figures not currently in office. Thus when Senator Rick Santorum was defeated in 2006, he got a new job as head of the America’s Enemies program at the Ethics and Public Policy Center, a think tank that has received funding from the usual sources: the Koch brothers, the Coors family, and so on.

 

Now Mr. Santorum is one of those paid Fox contributors contemplating a presidential run. What’s the difference?

 

Well, for one thing, Fox News seems to have decided that it no longer needs to maintain even the pretense of being nonpartisan.

Nobody who was paying attention has ever doubted that Fox is, in reality, a part of the Republican political machine; but the network — with its Orwellian slogan, “fair and balanced” — has always denied the obvious. Officially, it still does. But by hiring those G.O.P. candidates, while at the same time making million-dollar contributions to the Republican Governors Association and the rabidly anti-Obama United States Chamber of Commerce, Rupert Murdoch’s News Corporation, which owns Fox, is signaling that it no longer feels the need to make any effort to keep up appearances.

 

 

Something else has changed, too: increasingly, Fox News has gone from merely supporting Republican candidates to anointing them. Christine O’Donnell, the upset winner of the G.O.P. Senate primary in Delaware, is often described as the Tea Party candidate, but given the publicity the network gave her, she could equally well be described as the Fox News candidate. Anyway, there’s not much difference: the Tea Party movement owes much of its rise to enthusiastic Fox coverage.

 

As the Republican political analyst David Frum put it, “Republicans originally thought that Fox worked for us, and now we are discovering we work for Fox” — literally, in the case of all those non-Mitt-Romney presidential hopefuls. It was days later, by the way, that Mr. Frum was fired by the American Enterprise Institute. Conservatives criticize Fox at their peril.

So the Ministry of Propaganda has, in effect, seized control of the Politburo. What are the implications?

 

Perhaps the most important thing to realize is that when billionaires put their might behind “grass roots” right-wing action, it’s not just about ideology: it’s also about business. What the Koch brothers have bought with their huge political outlays is, above all, freedom to pollute. What Mr. Murdoch is acquiring with his expanded political role is the kind of influence that lets his media empire make its own rules.

 

Thus in Britain, a reporter at one of Mr. Murdoch’s papers, News of the World, was caught hacking into the voice mail of prominent citizens, including members of the royal family. But Scotland Yard showed little interest in getting to the bottom of the story. Now the editor who ran the paper when the hacking was taking place is chief of communications for the Conservative government — and that government is talking about slashing the budget of the BBC, which competes with the News Corporation.

 

 

So think of those paychecks to Sarah Palin and others as smart investments. After all, if you’re a media mogul, it’s always good to have friends in high places. And the most reliable friends are the ones who know they owe it all to you.

 

Paura e favori. Di Paul Krugman

New York Times 3 ottobre 2010

 

Una annotazione per gli attivisti del Tea Party: questo non è il film che voi credete. Probabilmente vi immaginate di essere protagonisti in “The Birth of a Nation[155], ma in effetti siete solo comparse in una riedizione di “Citizen Kane[156]”.

Ci sono state, in realtà, alcune modifiche nella trama. Nell’originale, Kane cercava di ottenere una importante carica politica per se stesso. Nella nuova versione, egli si limita a mettere uomini politici sul suo libro-paga.

Affermo queste cose letteralmente. Come la rivista Politico ha recentemente sottolineato, ogni principale competitore per la candidatura presidenziale repubblicana nel 2012 che non sia attualmente in carica è attualmente un collaboratore stipendiato da Fox News. Di questi tempi, i mogul dell’informazione frequentemente promuovono le carriere e le campagne elettorali dei politici che stimano potranno essere utili ai loro interessi. Ma tenere nel libro-paga gli uomini politici preferiti dà a tutto ciò un livello completamente nuovo di spudoratezza.

Non c’è dubbio che questo non dovrebbe apparire sorprendente. Il conservatorismo americano moderno è, in larga parte, un movimento modellato da miliardari e dai loro conti in banca, e gli stipendi assicurati a coloro che garantiscono una fedeltà ideologica sono una parte importante del sistema. Gli scienziati che sono disposti a negare l’esistenza di una cambiamento del clima provocato dagli uomini, gli economisti che sono disposti a dichiarare che gli sgravi fiscali ai ricchi sono essenziali per la crescita, gli esperti di strategie che sono disposti a fornire ragioni per guerre a proprio uso e consumo[157], gli avvocati che sono disposti a fornire giustificazioni alla tortura, tutti costoro possono contare sul supporto di una rete di organizzazioni che a prima vista possono sembrare indipendenti, ma sono largamente finanziate da una manciata di famiglie di super ricchi.

E queste organizzazioni hanno da lungo tempo fornito riparo a soggetti politici conservatori sul momento privi di incarico pubblico. In questo modo, quando il Senatore Rick Santorum fu sconfitto nel 2006, egli ottenne un nuovo lavoro nella direzione del programma ‘I nemici dell’America’ presso il  Ethics and Public Policy Center, un gruppo di esperti che riceveva contributi dalle fonti consuete: i fratelli Koch, la famiglia Coors, e così via.

Oggi il signor Santorum fa parte di coloro che sono stipendiati dalla Fox come collaboratori per i quali è prevista la competizione per la Presidenza. Dov’è la differenza?

Ebbene, su un aspetto. Fox News sembra aver deciso di non avere più la necessità di farsi carico anche di coloro che pretendono di non schierarsi con un partito.

Nessuno tra coloro che hanno fatto attenzione al fenomeno ha mai messo in dubbio che Fox sia, in realtà, un pezzo della organizzazione politica repubblicana; ma la rete – con il suo slogan orwelliano “giusti ed equilibrati” – ha sempre negato l’evidenza. Ufficialmente, la nega tuttora. Ma prendendo alla proprie dipendenze quei candidati del GOP, e contemporaneamente fornendo contributi di milioni di dollari alla  Republican Governors Association ed alla violentemente anti-obamiana United States Chamber of Commerce, la grande impresa mediatica di Robert Murdoch che è proprietaria della Fox, sta mettendo in chiaro di non sentire più il bisogno di fare il minimo sforzo per salvare le apparenze.

E’ cambiato anche qualcos’altro: sempre di più, Fox News è passata da un semplice sostegno ai candidati repubblicani alla loro completa consacrazione[158]. Christine O’Donnell, la vincitrice a sorpresa delle primarie per il Senato del GOP in Deleware, è spesso descritta come una candidata del Tea Party, ma considerata la pubblicità che la rete le fornisce, potrebbe essere ben altrimenti essere indicata come la candidata di Fox News. Del resto, non c’è molta differenza: il movimento del Tea Party deve molta della sua crescita alla copertura entusiastica della Fox.

Come l’analista politico repubblicano David Frum ha notato, “noi Repubblicani all’inizio pensavamo che la Fox lavorasse per noi, e ora stiamo scoprendo che siamo noi a lavorare per la Fox” – il che è vero alla lettera, nel caso di tutti coloro che non sono sostenitori della candidatura presidenziale di Mitt Romney[159]. Qualche giorno fa, di conseguenza, il signor Frum  è stato licenziato dall’American Enterprise Institute. Le critiche alla Fox da parte dei conservatori sono a loro rischio e pericolo.

Dunque, il Ministro della Propaganda ha, sul serio, preso il controllo del Politburo. Quali saranno le conseguenze?

Forse la cosa più importante da capire è che quando i miliardari mettono la loro potenza al servizio dell’azione politica della destra populista, questo non ha solo a che fare con l’ideologia: ha anche a che fare con gli affari. Ciò che i fratelli Koch hanno acquistato con le loro generose donazioni politiche è, soprattutto, la libertà di inquinare. Ciò che il signor Murdoch sta acquistando con il suo accresciuto ruolo nella politica è quel genere di influenza che consente al suo impero mediatico di dettare le proprie regole.

Così in Inghilterra, un reporter di uno dei giornali del signor Murdoch, News of The World, è stato sorpreso in azioni di pirateria informatica sulla corrispondenza di persone importanti, inclusi componenti della famiglia reale. Ma Scotland Yard ha mostrato un certo interesse, quando si è giunti alla fine della storia. Ad oggi, l’editore che gestiva il giornale al momento in cui ebbe luogo la pirateria informatica è a capo del settore della comunicazione del governo conservatore – e quel governo sta parlando di fare grandi tagli al bilancio della BBC, che è in competizione con News Corporation.

Si devono considerare dunque, questi stipendi a Sarah Palin e agli altri, alla stregua di investimenti intelligenti. Dopo tutto, se siete giganti dei media, fa sempre bene avere amici in posizioni altolocate. E gli amici più fidati sono quelli che riconoscono di dovervi tutto.  

 


 

The End of the Tunnel

By PAUL KRUGMAN

Published: October 7, 2010

The Erie Canal. Hoover Dam. The Interstate Highway System. Visionary public projects are part of the American tradition, and have been a major driver of our economic development.

And right now, by any rational calculation, would be an especially good time to improve the nation’s infrastructure. We have the need: our roads, our rail lines, our water and sewer systems are antiquated and increasingly inadequate. We have the resources: a million-and-a-half construction workers are sitting idle, and putting them to work would help the economy as a whole recover from its slump. And the price is right: with interest rates on federal debt at near-record lows, there has never been a better time to borrow for long-term investment.

But American politics these days is anything but rational. Republicans bitterly opposed even the modest infrastructure spending contained in the Obama stimulus plan. And, on Thursday, Chris Christie, the governor of New Jersey, canceled America’s most important current public works project, the long-planned and much-needed second rail tunnel under the Hudson River.

It was a destructive and incredibly foolish decision on multiple levels. But it shouldn’t have been all that surprising. We are no longer the nation that used to amaze the world with its visionary projects. We have become, instead, a nation whose politicians seem to compete over who can show the least vision, the least concern about the future and the greatest willingness to pander to short-term, narrow-minded selfishness.

So, about that tunnel: with almost 1,200 people per square mile, New Jersey is the most densely populated state in America, more densely populated than any major European nation. Add in the fact that many residents work in New York, and you have a state that can’t function without adequate public transportation. There just isn’t enough space for everyone to drive to work.

 

But right now there’s just one century-old rail tunnel linking New Jersey and New York — and it’s running close to capacity. The need for another tunnel couldn’t be more obvious.

So last year the project began. Of the $8.7 billion in planned funding, less than a third was to come from the State of New Jersey; the rest would come, in roughly equal amounts, from the independent Port Authority of New York and New Jersey and from the federal government. Even if costs were to rise substantially, as they often do on big projects, it was a very good deal for the state.

But Mr. Christie killed it anyway.

News reports suggest that his immediate goal was to shift funds to local road projects and existing rail repairs. There were, however, much better ways to raise those funds, such as an increase in the state’s relatively low gasoline taxes — and bear in mind that whatever motorists gain from low gas taxes will be at least partly undone by pain from the canceled project in the form of growing congestion and traffic delays. But, no, in modern America, no tax increase can ever be justified, for any reason.

 

 

So this was a terrible, shortsighted move from New Jersey’s point of view. But that’s not the whole cost. Canceling the tunnel was also a blow to national hopes of recovery, part of a pattern of penny-pinching that has played a large role in our continuing economic stagnation.

 

When people ask why the Obama stimulus didn’t accomplish more, one good response is to ask, what stimulus? Leaving aside the cost of financial rescues and safety-net programs like unemployment insurance, federal spending has risen only modestly — and this rise has been largely offset by cutbacks at the state and local level. Many of these cuts were forced by Congress, which has refused to approve adequate aid to the states. But as Mr. Christie is demonstrating, local politicians are also doing their part.

 

And the ideology that has led Mr. Christie to undermine his state’s future is, of course, the same ideology that has led almost all Republicans and some Democrats to stand in the way of any meaningful action to revive the nation’s economy. Worse yet, next month’s election seems likely to reward Republicans for their obstructionism.

 

So here’s how you should think about the decision to kill the tunnel: It’s a terrible thing in itself, but, beyond that, it’s a perfect symbol of how America has lost its way. By refusing to pay for essential investment, politicians are both perpetuating unemployment and sacrificing long-run growth. And why not? After all, this seems to be a winning electoral strategy. All vision of a better future seems to have been lost, replaced with a refusal to look beyond the narrowest, most shortsighted notion of self-interest.

 

I wish I could say something optimistic at this point. But at least for now, I don’t see any light at the end of this tunnel.

 

La fine del tunnel, di Paul Krugman

New York Times 7 ottobre 2010

 

Il Canale Erie[160]. La Diga Hoover[161]. Il sistema autostradale interstatale[162]. Progetti pubblici futuristici sono parte della tradizione americana, ed hanno costituito un impulso importante al nostro sviluppo economico.

Ed oggi, da ogni razionale punto di vista, sarebbe un tempo assai adatto per migliorare le infrastrutture del paese. Ne abbiamo bisogno: le nostre strade, le nostre linee ferroviarie,  i nostro sistemi idrici e delle fognature sono vecchi e sempre meno adeguati. Abbiamo le risorse: un milione e mezzo di lavoratori delle costruzioni sono fermi, metterli al lavoro contribuirebbe a far riprendere l’economia nel suo complesso dalla crisi. E il prezzo sarebbe giusto: con i tassi di interesse sul debito federale ai minimi storici del periodo recente, non ci potrebbe essere momento migliore per prendere prestiti su investimenti a lungo termine.

Ma di questi tempi gli uomini politici americani sono tutto meno che razionali. I Repubblicani si oppongono aspramente persino alla spese per infrastrutture modeste contenute nel programma di sostegno all’economia di Obama. E giovedì Chris Christie, il governatore del New Jersey, ha cancellato il più importante progetto di opera pubblica, il necessarissimo e da lungo tempo programmato secondo tunnel stradale sul fiume Hudson.

Si è tratta di una decisione distruttiva ed incredibilmente stupida da tutti i punti di vista. Eppure, non così sorprendente. Noi non siamo più la Nazione che stupiva il mondo con i suoi progetti futuristici. Siamo diventati, piuttosto, una nazione i cui uomini politici sembrano in competizione su chi mostra la visione più corta, il minimo impegno per il futuro e la massima disposizione ad assecondare un egoismo miope e meschino.

Così, a proposito di quel tunnel: con quasi 1.200 persone per miglio quadrato, il New Jersey è lo Stato più densamente popolato in America, più densamente popolato di ogni principale paese europeo. Si aggiunga a ciò il fatto che molti residenti lavorano a New York, e il risultato è quello di uno stato che non può funzionare senza un adeguato trasporto pubblico. Non c’è proprio lo spazio perché ognuno possa andare al lavoro in macchina.

Eppure in questo momento c’è solo un tunnel stradale vecchio di un secolo che collega il New Jersey e New York, e sta rapidamente esaurendo le sue potenzialità. Il bisogno di un altro tunnel non potrebbe essere più evidente.

Per questo il progetto prese le mosse l’anno passato. Degli 8,7 miliardi di dollari del finanziamento previsto, meno di un terzo doveva arrivare dallo Stato del New Jersey; il resto sarebbe venuto, in parti grosso modo uguali, dalla Autorità portuale privata[163] di New York e del New Jersey e dal governo federale. Persino nel caso che i suoi costi crescessero in modo sostanziale, come spesso accade per i grandi progetti, si sarebbe trattato di un ottimo affare per lo Stato.

Ma il signor Christie l’ha liquidato senza alcuna incertezza.

Notizie giornalistiche riferiscono che il suo obbiettivo immediato sarebbe stato quello di spostare fondi ai progetti sulla viabilità locale ed alla riparazione delle strade esistenti. C’erano, tuttavia, modi molto migliori per accrescere questi fondi, come quello di un incremento delle tasse statali piuttosto basse sui carburanti, e si tenga a mente che il vantaggio che gli automobilisti trarranno da queste basse tasse sulla benzina sarà almeno in parte cancellato dai danni della eliminazione del progetto, in termini di crescente congestione e di rallentamenti del traffico. Ma no, nell’America contemporanea, nessun incremento fiscale può essere giustificato, mai e per nessuna ragione.

Dal punto di vista del New Jersey, si è trattato di una decisione miope e disastrosa. Ma il costo non si riduce a questo. Cancellare il tunnel è stato anche un colpo alle speranze nazionali di una ripresa economica, un episodio di un modello di lesina del finanziamento pubblico[164] che ha giocato un ruolo significativo nella nostra perdurante stagnazione economica.

Quando la gente si chiede perché il programma di sostegno di Obama non abbia ottenuto un risultato maggiore, una buona risposta è ‘quale programma?’.  Se si lasciano da parte il costo dei salvataggi finanziari e dei programmi sulle reti di sicurezza sociale come l’assicurazione per la disoccupazione, la spesa federale è cresciuta solo modestamente – e questa crescita è stata ampiamente compensata dai tagli da parte degli Stati e delle istituzioni locali. Molti di questi tagli sono stati obbligati dal Congresso, che ha rifiutato di approvare aiuti adeguati agli Stati. Ma, come sta dimostrando il signor Christie, anche i politici locali stanno facendo la loro parte.

E l’ideologia che ha consentito al signor Christie di danneggiare il futuro del proprio stato è, naturalmente, la stessa ideologia che ha consentito a quasi tutti i repubblicani ed a qualche democratico di ostacolare ogni azione significativa per ravvivare l’economia della nazione. Peggio ancora, appare probabile che le elezioni del prossimo mese premino i Repubblicani per il loro ostruzionismo.

Ecco qua, dunque, che cosa si deve pensare della decisione di liquidare il tunnel: è una cosa disastrosa in sé, ma, oltre a ciò, è una rappresentazione perfetta del modo in cui l’America ha perso la sua strada. Rifiutando di finanziare investimenti essenziali, gli uomini politici stanno sia provocando una disoccupazione senza fine che sacrificando una ripresa a lungo termine. D’altronde, perché no? Questa sembra, dopo tutto, una strategia elettorale vincente. Ogni visione di un futuro migliore sembra che sia stata persa, sostituita dal rifiuto di guardare oltre il proprio naso[165], da una nozione ristretta del proprio interesse.

A questo punto, mi piacerebbe dire qualcosa di ottimistico. Ma, almeno sinora, non vedo alcuna luce in fondo al tunnel. 

 

 

 

 

Hey, Small Spender

By PAUL KRUGMAN
Published: October 10, 2010

 

Here’s the narrative you hear everywhere: President Obama has presided over a huge expansion of government, but unemployment has remained high. And this proves that government spending can’t create jobs.

Here’s what you need to know: The whole story is a myth. There never was a big expansion of government spending. In fact, that has been the key problem with economic policy in the Obama years: we never had the kind of fiscal expansion that might have created the millions of jobs we need.

 

Ask yourself: What major new federal programs have started up since Mr. Obama took office? Health care reform, for the most part, hasn’t kicked in yet, so that can’t be it. So are there giant infrastructure projects under way? No. Are there huge new benefits for low-income workers or the poor? No. Where’s all that spending we keep hearing about? It never happened.

To be fair, spending on safety-net programs, mainly unemployment insurance and Medicaid, has risen — because, in case you haven’t noticed, there has been a surge in the number of Americans without jobs and badly in need of help. And there were also substantial outlays to rescue troubled financial institutions, although it appears that the government will get most of its money back. But when people denounce big government, they usually have in mind the creation of big bureaucracies and major new programs. And that just hasn’t taken place.

 

Consider, in particular, one fact that might surprise you: The total number of government workers in America has been falling, not rising, under Mr. Obama. A small increase in federal employment was swamped by sharp declines at the state and local level — most notably, by layoffs of schoolteachers. Total government payrolls have fallen by more than 350,000 since January 2009.

 

Now, direct employment isn’t a perfect measure of the government’s size, since the government also employs workers indirectly when it buys goods and services from the private sector. And government purchases of goods and services have gone up. But adjusted for inflation, they rose only 3 percent over the last two years — a pace slower than that of the previous two years, and slower than the economy’s normal rate of growth.

So as I said, the big government expansion everyone talks about never happened. This fact, however, raises two questions. First, we know that Congress enacted a stimulus bill in early 2009; why didn’t that translate into a big rise in government spending? Second, if the expansion never happened, why does everyone think it did?

Part of the answer to the first question is that the stimulus wasn’t actually all that big compared with the size of the economy. Furthermore, it wasn’t mainly focused on increasing government spending. Of the roughly $600 billion cost of the Recovery Act in 2009 and 2010, more than 40 percent came from tax cuts, while another large chunk consisted of aid to state and local governments. Only the remainder involved direct federal spending.

And federal aid to state and local governments wasn’t enough to make up for plunging tax receipts in the face of the economic slump. So states and cities, which can’t run large deficits, were forced into drastic spending cuts, more than offsetting the modest increase at the federal level.

The answer to the second question — why there’s a widespread perception that government spending has surged, when it hasn’t — is that there has been a disinformation campaign from the right, based on the usual combination of fact-free assertions and cooked numbers. And this campaign has been effective in part because the Obama administration hasn’t offered an effective reply.

Actually, the administration has had a messaging problem on economic policy ever since its first months in office, when it went for a stimulus plan that many of us warned from the beginning was inadequate given the size of the economy’s troubles. You can argue that Mr. Obama got all he could — that a larger plan wouldn’t have made it through Congress (which is questionable), and that an inadequate stimulus was much better than none at all (which it was). But that’s not an argument the administration ever made. Instead, it has insisted throughout that its original plan was just right, a position that has become increasingly awkward as the recovery stalls.

 

 

And a side consequence of this awkward positioning is that officials can’t easily offer the obvious rebuttal to claims that big spending failed to fix the economy — namely, that thanks to the inadequate scale of the Recovery Act, big spending never happened in the first place.

 

But if they won’t say it, I will: if job-creating government spending has failed to bring down unemployment in the Obama era, it’s not because it doesn’t work; it’s because it wasn’t tried.

 

Il risultato della finanza accorta[166], di Paul Krugman

New York Times 10 ottobre 2010

 

 

Questo è quanto si sente raccontare dappertutto: il Presidente Obama ha governato una vasta espansione della spesa pubblica, ma la disoccupazione è rimasta alta. Il che prova che la spesa pubblica non può creare lavoro.

E questo è quanto dovete sapere: tutta la storia è una leggenda. Non c’è stata una grande espansione della spesa pubblica. In sostanza, quello è stato il problema cruciale della politica economica negli anni di Obama: non abbiamo mai avuto quel genere di espansione dei finanziamenti che avrebbe potuto creare i milioni di posti di lavoro di cui abbiamo bisogno.

Provate e chiedervi: quali importanti nuovi programmi federali sono partiti dal momento in cui si è insediato Obama? La riforma della assistenza sanitaria non è ancora entrata in funzione, dunque non è quello il caso. Sono in corso di esecuzione grandi progetti infrastrutturali? No. Ci sono nuovi sostanziosi sussidi per i lavoratori a basso reddito o per i poveri? No. Dov’è tutta quella spesa della quale continuiamo a sentir parlare? Non c’è mai stata.

Ad essere giusti, la spesa sui programmi della sicurezza, principalmente i sussidi di disoccupazione e Medicaid, è cresciuta, perché, nel caso non ve ne foste accorti, c’è stato un incremento del numero degli americani che sono senza lavoro e che hanno un tremendo bisogno di aiuto. E ci sono anche stati importanti esborsi per il salvataggio degli istituti finanziari in difficoltà, sebbene risulti che il governo recupererà gran parte dei suoi contributi. Ma quando la gente denuncia il ‘grande governo[167]’, di solito ha in mente la creazione di imponenti burocrazie e di nuovi programmi importanti. Il che proprio non c’è stato.

Si consideri, in particolare, un fatto che potrebbe destare sorpresa: nel periodo di Obama, il numero totale dei lavoratori statali in America è diminuito, non aumentato. Una piccola crescita di occupazione nel settore del governo federale è stata sommersa dalla forte caduta nei settori dei governi statali e locali – in modo particolare, a seguito dei licenziamenti degli insegnanti. Dal gennaio del 2009, gli stipendi del settore pubblico erano caduti di 350.000 unità.

Ora, l’occupazione diretta non è una misura perfetta delle dimensioni dello Stato nel suo complesso, dato che i governi impiegano anche indirettamente lavoratori quando acquistano beni e servizi dal settore privato. E gli acquisti governativi di beni e servizi sono saliti. Ma, corretti dall’inflazione, essi sono cresciuti soltanto del 3 per cento negli ultimi due anni – un incremento più lento di quello dei due anni precedenti e più lento del normale tasso di crescita dell’economia.

Come ho detto, la espansione dovuta al “grande governo” della quale tutti parlano non c’è mai stata. Questo fatto, tuttavia, solleva due domande. In primo luogo, noi sappiamo che il Congresso approvò una legge di sostegno all’economia nella prima parte del 2009; perché essa non si è trasformata in una grande crescita della spesa pubblica? In secondo luogo, se l’espansione non c’è mai stata, perché tutti ritengono che ci sia stata?

In parte la risposta alla prima domanda consiste nel fatto che le misure di sostegno non sono state poi così grandi, se confrontate con le dimensioni dell’economia. Inoltre, esse non si sono concentrate principalmente su una crescita della spesa statale. Di circa 600 miliardi di dollari del Recovery Act negli anni 2009 e 2010, più del 40 per cento è venuto da tagli fiscali, mentre un’altra grande porzione è consistita in aiuti ai livelli di governo locali e degli Stati. Soltanto la parte rimanente ha riguardato la vera e propria spesa federale.

E l’aiuto federale ai governi locali ed agli Stati non è stato sufficiente a compensare la caduta delle entrate fiscali dovuta alla crisi economica. In tal modo gli Stati e le città, ai quali non è consentito di gestire grandi disavanzi, sono stati costretti a drastici tagli delle spese, che hanno più che compensato la crescita modesta del livello federale.

 

La risposta alla seconda domanda – il motivo per il quale c’è una diffusa convinzione che il livello della spesa pubblica sia salito, nel mentre non è successo – è che c’è stata una campagna di disinformazione da parte della destra, basata sulla consueta combinazione di affermazioni prive di riscontro e di numeri preconfezionati[168]. E questa campagna è stata efficace in parte a causa del fatto che la amministrazione Obama non ha risposto con altrettanta efficacia.

In effetti, la amministrazione ha avuto sin dai primi mesi nei quali è entrata in carica un problema di comunicazione sulla politica economica, quando scelse un programma di sostegno sulla cui inadeguatezza, date le dimensioni dei guai dell’economia, sin dall’inizio molti di noi avevano messo in guardia. Si può ritenere che Obama fece tutto quanto era in suo potere, che un programma più ampio non avrebbe ottenuto l’approvazione del Congresso (la qual cosa è discutibile), e che un sostegno inadeguato era alla fine assai meglio che niente (il che è vero). Ma questo non è l’argomento che la amministrazione ha usato. Piuttosto, essa ha insistito in tutti i modi che il suo programma originario era del tutto giusto, posizione che è diventata sempre più scomoda dinanzi allo stallo della ripresa.

E una conseguenza collaterale di questa imbarazzante posizione è che i dirigenti della amministrazione non possono facilmente opporre la confutazione che sarebbe naturale alle pretese secondo le quali la grande spesa pubblica avrebbe fallito nel curare l’economia – che letteralmente dovrebbe consistere nell’ammettere che anzitutto la grande spesa pubblica non c’è mai stata, per effetto della dimensione inadeguata del Recovery Act.

Ma se loro non lo diranno, lo farò io: se la spesa pubblica per la creazione di posti di lavoro non è riuscita ad abbassare la disoccupazione nell’epoca di Obama, questa non è dipeso dal fatto che essa non funziona, bensì dal fatto che non si è neppure provato.

  

 

 

 

The Mortgage Morass

By PAUL KRUGMAN
Published: October 14, 2010

American officials used to lecture other countries about their economic failings and tell them that they needed to emulate the U.S. model. The Asian financial crisis of the late 1990s, in particular, led to a lot of self-satisfied moralizing. Thus, in 2000, Lawrence Summers, then the Treasury secretary, declared that the keys to avoiding financial crisis were “well-capitalized and supervised banks, effective corporate governance and bankruptcy codes, and credible means of contract enforcement.” By implication, these were things the Asians lacked but we had.

 

We didn’t.

The accounting scandals at Enron and WorldCom dispelled the myth of effective corporate governance. These days, the idea that our banks were well capitalized and supervised sounds like a sick joke. And now the mortgage mess is making nonsense of claims that we have effective contract enforcement — in fact, the question is whether our economy is governed by any kind of rule of law.

The story so far: An epic housing bust and sustained high unemployment have led to an epidemic of default, with millions of homeowners falling behind on mortgage payments. So servicers — the companies that collect payments on behalf of mortgage owners — have been foreclosing on many mortgages, seizing many homes.

 

But do they actually have the right to seize these homes? Horror stories have been proliferating, like the case of the Florida man whose home was taken even though he had no mortgage. More significantly, certain players have been ignoring the law. Courts have been approving foreclosures without requiring that mortgage servicers produce appropriate documentation; instead, they have relied on affidavits asserting that the papers are in order. And these affidavits were often produced by “robo-signers,” or low-level employees who had no idea whether their assertions were true.

Now an awful truth is becoming apparent: In many cases, the documentation doesn’t exist. In the frenzy of the bubble, much home lending was undertaken by fly-by-night companies trying to generate as much volume as possible. These loans were sold off to mortgage “trusts,” which, in turn, sliced and diced them into mortgage-backed securities. The trusts were legally required to obtain and hold the mortgage notes that specified the borrowers’ obligations. But it’s now apparent that such niceties were frequently neglected. And this means that many of the foreclosures now taking place are, in fact, illegal.

 

This is very, very bad. For one thing, it’s a near certainty that significant numbers of borrowers are being defrauded — charged fees they don’t actually owe, declared in default when, by the terms of their loan agreements, they aren’t.

Beyond that, if trusts can’t produce proof that they actually own the mortgages against which they have been selling claims, the sponsors of these trusts will face lawsuits from investors who bought these claims — claims that are now, in many cases, worth only a small fraction of their face value.

 

And who are these sponsors? Major financial institutions — the same institutions supposedly rescued by government programs last year. So the mortgage mess threatens to produce another financial crisis.

What can be done?

True to form, the Obama administration’s response has been to oppose any action that might upset the banks, like a temporary moratorium on foreclosures while some of the issues are resolved. Instead, it is asking the banks, very nicely, to behave better and clean up their act. I mean, that’s worked so well in the past, right?

 

The response from the right is, however, even worse. Republicans in Congress are lying low, but conservative commentators like those at the Wall Street Journal’s editorial page have come out dismissing the lack of proper documents as a triviality. In effect, they’re saying that if a bank says it owns your house, we should just take its word. To me, this evokes the days when noblemen felt free to take whatever they wanted, knowing that peasants had no standing in the courts. But then, I suspect that some people regard those as the good old days.

 

 

What should be happening? The excesses of the bubble years have created a legal morass, in which property rights are ill defined because nobody has proper documentation. And where no clear property rights exist, it’s the government’s job to create them.

That won’t be easy, but there are good ideas out there. For example, the Center for American Progress has proposed giving mortgage counselors and other public entities the power to modify troubled loans directly, with their judgment standing unless appealed by the mortgage servicer. This would do a lot to clarify matters and help extract us from the morass.

 

 

One thing is for sure: What we’re doing now isn’t working. And pretending that things are O.K. won’t convince anyone.

 

Il pantano dei mutui, di Paul Krugman

New York Times 14 ottobre 2010

 

I dirigenti americani erano soliti fare lezioni agli altri paesi a proposito dei loro insuccessi economici e spiegar loro che avevano bisogno di seguire il modello americano. La crisi finanziaria asiatica degli ultimi anni 90, in particolare, comportò una gran dose di compiaciuti moralismi. Così, nel 2000, Lawrence Summers, allora segretario al Tesoro, ebbe a dichiarare che le chiavi per evitare crisi finanziarie erano “banche ben capitalizzate e vigilate, efficaci governance di impresa e normative sulla bancarotta nonché strumenti credibili di applicazione dei contratti”. Era implicito che tutte queste cose noi le avessimo, mentre mancavano agli asiatici.

Non era così.

Gli scandali sulle contabilità della Enron e WoldCom fecero svanire il mito della efficace governance della imprese. Di questi tempi, l’idea che le nostre banche fossero ben capitalizzate e vigilate può sembrare uno scherzo di cattivo gusto. E a questo punto il disastro dei mutui sta riducendo a nulla le pretese di avere efficienti applicazioni dei contratti: a questo punto la domanda è se la nostra economia sia governata da regole legislative di un qualsiasi genere.

Questa è la storia sino a questo punto: un epico disastro del settore immobiliare e una perdurante elevata disoccupazione hanno portato ad una epidemia di inadempienze per morosità, con milioni di proprietari di case crollati all’inseguimento delle rate dei mutui. Così gli addetti al servizio – le imprese che raccolgono i pagamenti per conto dei proprietari dei prestiti – hanno dovuto attivare le procedure ipotecarie, requisendo molte abitazioni.

Ma avevano effettivamente il diritto di requisire queste case? Si è avuta una proliferazione di storie terrificanti, come il caso di quella persona in Florida che si è vista requisire la abitazione anche se non aveva alcun mutuo. In modo ancora più significativo, molti soggetti non hanno tenuto conto delle leggi. Giudici hanno approvato pignoramenti senza richiedere che i servizi addetti fornissero adeguata documentazione; si sono basati, piuttosto, su dichiarazioni che i documenti erano in ordine. E queste dichiarazioni sono di solito prodotte da cosiddetti “robo-signers”[169], impiegati di basso livello che non hanno alcuna idea sulla veridicità delle loro affermazioni.

E’ sempre più chiara una verità sconvolgente: in molti casi, la documentazione non esiste. Nella isteria della bolla, molti mutui per la casa sono stati finanziati da società inaffidabili che hanno cercato di realizzare il massimo volume di affari. Questi prestiti venivano svenduti a “compagnie” per mutui che, a loro volta, li frantumavano ed affettavano in titoli azionari garantiti dai mutui. Quelle imprese erano legalmente incaricate di ottenere e conservare documentazioni annesse ai mutui che specificavano le obbligazioni dei mutuatari. Ma a questo punto è chiaro che sottigliezze del genere di solito venivano trascurate. E questo significa che molti dei pignoramenti in corso sono, di fatto, illegali.

Questo è davvero molto negativo. Da una parte, si ha quasi la certezza che un significativo numero di mutuatari sono stati frodati – caricati di oneri a cui non sono tenuti, dichiarati inadempienti quando, sulla base degli accordi posti a base del loro mutuo, non lo erano.

Oltre a ciò, se le compagnie non possono produrre prove di essere effettivamente proprietarie dei mutui  a fronte dei quali hanno venduto i diritti, i sostenitori di queste compagnie dovranno fare i conti con le azioni legali di coloro che hanno investito nell’acquisto di questi diritti – diritti che adesso, in molti casi, valgono solo una piccola parte del loro valore nominale.

E chi sono questi sostenitori? I maggiori istituti finanziari, quegli stessi istituti che si supponeva fossero stati messi in salvo dai programmi governativi dell’anno passato. In questo modo il disastro dei mutui rischia di provocare un’altra crisi finanziaria.

  

Cosa si può fare?

Come c’era da aspettarsi[170], la risposta della amministrazione Obama è stata quella di opporsi a ogni iniziativa che possa turbare gli equilibri delle banche, come una moratoria temporanea dei pignoramenti in attesa che alcuni dei problemi siano risolti. Invece, essa ha chiesto alle banche, con molto garbo, di comportarsi meglio e di adeguare la propria condotta. Voglio dire: è la stessa cosa che ha funzionato alla perfezione in passato, non è così?

La risposta da parte della destra, tuttavia, è stata anche peggiore. I Repubblicani al Congresso stanno tenendo un basso profilo, ma commentatori conservatori come quelli della pagina degli editoriali del Wall Street Journal sono venuti allo scoperto liquidando la mancanza di documentazioni adeguate come una sciocchezza. In sostanza, essi stanno dicendo che se una banca dice di essere proprietaria della vostra casa, dobbiamo prenderla in parola. Secondo me, questo fa venire in mente i tempi nei quali i nobili si sentivano liberi di prendere tutto ciò che volevano, sapendo che i contadini non avevano alcuna considerazione nei giudizi. Sennonché, ho il sospetto che un po’ di gente sia dell’avviso che quelli siano tempi un po’ passati.

Che cosa dovrebbe accadere? Gli eccessi della bolla hanno determinato un pantano della legalità, nella quale di diritti proprietari sono malamente definiti perché nessuno ha documentazione adeguata. E laddove non esiste alcun chiaro diritto di proprietà, è compito dei governi dargli fondamento.

Non sarà facile, ma sono state avanzate alcune buone idee. Ad esempio, il Center for American Progress ha proposto di conferire a coloro che assistono nelle controversie di mutuo e ad altre autorità pubbliche il potere di modificare in via diretta i prestiti irregolari, in modo che il loro giudizio possa restare valido a meno che gli addetti alle esecuzioni ipotecarie non ricorrano in appello. Questo porterebbe un po’ di chiarezza su molti aspetti ed aiuterebbe a tirarci fuori dal pantano.

Una cosa è certa: quanto si sta facendo sul momento non funziona. E pretendere che cose del genere siano la soluzione giusta non convincerà nessuno.

 

    

 

 

 

Rare and Foolish

By PAUL KRUGMAN
Published: October 17, 2010

Last month a Chinese trawler operating in Japanese-controlled waters collided with two vessels of Japan’s Coast Guard. Japan detained the trawler’s captain; China responded by cutting off Japan’s access to crucial raw materials.

And there was nowhere else to turn: China accounts for 97 percent of the world’s supply of rare earths, minerals that play an essential role in many high-technology products, including military equipment. Sure enough, Japan soon let the captain go.

I don’t know about you, but I find this story deeply disturbing, both for what it says about China and what it says about us. On one side, the affair highlights the fecklessness of U.S. policy makers, who did nothing while an unreliable regime acquired a stranglehold on key materials. On the other side, the incident shows a Chinese government that is dangerously trigger-happy, willing to wage economic warfare on the slightest provocation.

 

Some background: The rare earths are elements whose unique properties play a crucial role in applications ranging from hybrid motors to fiber optics. Until the mid-1980s the United States dominated production, but then China moved in.

“There is oil in the Middle East; there is rare earth in China,” declared Deng Xiaoping, the architect of China’s economic transformation, in 1992. Indeed, China has about a third of the world’s rare earth deposits. This relative abundance, combined with low extraction and processing costs — reflecting both low wages and weak environmental standards — allowed China’s producers to undercut the U.S. industry.

You really have to wonder why nobody raised an alarm while this was happening, if only on national security grounds. But policy makers simply stood by as the U.S. rare earth industry shut down. In at least one case, in 2003 — a time when, if you believed the Bush administration, considerations of national security governed every aspect of U.S. policy — the Chinese literally packed up all the equipment in a U.S. production facility and shipped it to China.

 

 

The result was a monopoly position exceeding the wildest dreams of Middle Eastern oil-fueled tyrants. And even before the trawler incident, China showed itself willing to exploit that monopoly to the fullest. The United Steelworkers recently filed a complaint against Chinese trade practices, stepping in where U.S. businesses fear to tread because they fear Chinese retaliation. The union put China’s imposition of export restrictions and taxes on rare earths — restrictions that give Chinese production in a number of industries an important competitive advantage — at the top of the list.

 

Then came the trawler event. Chinese restrictions on rare earth exports were already in violation of agreements China made before joining the World Trade Organization. But the embargo on rare earth exports to Japan was an even more blatant violation of international trade law.

Oh, and Chinese officials have not improved matters by insulting our intelligence, claiming that there was no official embargo. All of China’s rare earth exporters, they say — some of them foreign-owned — simultaneously decided to halt shipments because of their personal feelings toward Japan. Right.

So what are the lessons of the rare earth fracas?

First, and most obviously, the world needs to develop non-Chinese sources of these materials. There are extensive rare earth deposits in the United States and elsewhere. However, developing these deposits and the facilities to process the raw materials will take both time and financial support. So will a prominent alternative: “urban mining,” a k a recycling of rare earths and other materials from used electronic devices.

Second, China’s response to the trawler incident is, I’m sorry to say, further evidence that the world’s newest economic superpower isn’t prepared to assume the responsibilities that go with that status.

 

Major economic powers, realizing that they have an important stake in the international system, are normally very hesitant about resorting to economic warfare, even in the face of severe provocation — witness the way U.S. policy makers have agonized and temporized over what to do about China’s grossly protectionist exchange-rate policy. China, however, showed no hesitation at all about using its trade muscle to get its way in a political dispute, in clear — if denied — violation of international trade law.

 

Couple the rare earth story with China’s behavior on other fronts — the state subsidies that help firms gain key contracts, the pressure on foreign companies to move production to China and, above all, that exchange-rate policy — and what you have is a portrait of a rogue economic superpower, unwilling to play by the rules. And the question is what the rest of us are going to do about it.

 

Rare e sciocche, di Paul Krugman

New York Times 17 ottobre 2010

 

Il mese scorso un peschereccio cinese che operava in acque controllate dal Giappone si è scontrato con due imbarcazioni della Guardia Costiera giapponese. Il Giappone ha tratto in arresto il capitano del peschereccio; la Cina ha risposto interrompendo l’accesso del Giappone a materie prime strategiche.

Né è stato possibile cercarle altrove: la Cina detiene il 97 per cento delle terre rare[171] dell’offerta mondiale, minerali che giocano un ruolo essenziale in molti prodotti della alta tecnologia, incluse attrezzature militari. Chiaramente, il Giappone ha prontamente rilasciato il capitano.

Non so cosa ne pensiate voi, ma io trovo questa storia assai preoccupante, sia per quello che  ci dice sulla Cina che per quello che lascia intendere su di noi. Da una parte, quell’affare mette in chiaro l’irresponsabilità dei responsabili politici degli Stati Uniti, che non hanno fatto niente nel mentre un regime non affidabile acquisiva il monopolio minaccioso[172] di materiali strategici. Dall’altra parte, l’incidente mostra un governo cinese con una pericolosa attitudine alla provocazione incosciente[173], disposto a dichiarare guerre generali sulla base della minima provocazione.

Facciamo un passo indietro: le terre rare sono elementi le cui proprietà uniche giocano un ruolo cruciale in applicazioni che spaziano dai motori ibridi alle fibre ottiche. Sino alla metà degli anni 80 gli Stati Uniti dominavano la produzione, ma a quel punto entrò in gioco la Cina.

“Nel Medio Oriente c’è il petrolio; in Cina ci sono le terre rare”. Dichiarò nel 1992 Deng Xiaoping, l’architetto della trasformazione economica cinese. In effetti, la Cina detiene circa un terzo dei depositi mondiali di terre rare. Questa relativa abbondanza, combinata con bassi costi di estrazione e di lavorazione – che riflettono sia bassi salari che modesti standards ambientali – hanno consentito ai produttori cinesi di vendere sottocosto rispetto all’industria americana[174]

C’è davvero da restare meravigliati del fatto che nessuno si sia messo in allarme nel mentre tutto questo accadeva, se non altro per ragioni di sicurezza nazionale. Ma i responsabili politici semplicemente se ne stettero in disparte, nel mentre l’industria americana delle terre rare veniva liquidata. In almeno in caso, nel 2003 – un tempo in cui, se si doveva dar credito alla amministrazione Bush, le considerazioni di sicurezza nazionale dominavano ogni aspetto della politica americana – i Cinesi letteralmente impacchettarono tutte le attrezzature di un complesso industriale americano e le spedirono in Cina.

Il risultato fu una posizione di monopolio che superava i sogni più sfrenati dei tiranni del combustibile del Medio Oriente. Ed anche in precedenza all’incidente del peschereccio, la Cina si è mostrata desiderosa di sfruttare al massimo quel monopolio. Il Sindacato dei metallurgici ha di recente inoltrato una protesta contro le pratiche commerciali cinesi, che intervengono in campi nei quali le imprese americane hanno timore di procedere per paura delle ritorsioni della Cina. Il Sindacato ha messo in cima alla lista l’imposizione di restrizioni sull’esportazione e i dazi sulle terre rare, restrizioni che consegnano alla produzione cinese in un buon numero di settori industriali un importante vantaggio competitivo.

A quel punto è venuta la faccenda del peschereccio. Le restrizioni cinesi sulle terre rare erano già in violazione di accordi che la Cina aveva sottoscritto prima di aderire alla Organizzazione Mondiale del Commercio.  Ma l’embargo sulle esportazioni di terre rare al Giappone è stata una violazione persino più clamorosa della legge commerciale internazionale.

Del resto, i Cinesi non hanno migliorato la situazione, insultando la nostra intelligenza con il pretesto che non vi fosse stato alcun embargo ufficiale. Tutti gli esportatori di terre rare della Cina (alcuni dei quali di proprietà straniera) – hanno affermato – hanno deciso simultaneamente di sospendere le spedizioni a causa dei loro personali sentimenti nei riguardi del Giappone. Giustamente.

Quali sono, dunque, le lezioni della lite clamorosa sulle terre rare?

In primo luogo, la più ovvia, il mondo ha bisogno di sviluppare fonti non cinesi di questi materiali. Esistono vasti depositi di terre rare negli Stati Uniti ed altrove. Tuttavia, lo sviluppo di questi depositi e delle industrie per la selezione dei materiali grezzi richiederà sia tempo che sostegni finanziari. Ci vuole, dunque, un alternativa fuori dall’ordinario: “miniere urbane”, ovvero il riciclaggio di terre rare e di altri materiali derivanti da apparecchi elettronici usati.

In secondo luogo, la risposta cinese all’incidente del peschereccio è, mi dispiace dirlo, una prova ulteriore che la più recente superpotenza economica mondiale non è pronta ad assumere le responsabilità che si accompagnano a quella condizione.

Le principali potenze economiche, nella comprensione di avere un ruolo importante nel sistema internazionale, sono normalmente molto caute nel ricorrere alla guerra economica, anche dinanzi a gravi provocazioni – lo testimonia il modo in cui i responsabili politici americani si sono angosciati ed hanno preso tempo a proposito della politica del tasso di cambio grossolanamente protezionista della Cina. La Cina, tuttavia, non ha affatto mostrato alcuna esitazione nell’utilizzare i muscoli del commercio per ottenere il risultato che le premeva in una disputa politica, in chiara, ancorché negata, violazione della legge commerciale internazionale.

Mettiamo assieme la faccenda delle terre rare con il comportamento della Cina su altri fronti – i sussidi statali che aiutano le imprese ad ottenere contratti fondamentali, la pressione verso società straniere per spostare le produzioni in Cina e, soprattutto, quella particolare politica del tasso di cambio – e quello che si ha è il ritratto di una superpotenza economica disonesta, che si rifiuta di giocare secondo le regole. E la domanda è che cosa il resto del mondo abbia intenzione di fare con tutto ciò.

  

 

 

 

 

 

British Fashion Victims

By PAUL KRUGMAN
Published: October 21, 2010

In the spring of 2010, fiscal austerity became fashionable. I use the term advisedly: the sudden consensus among Very Serious People that everyone must balance budgets now now now wasn’t based on any kind of careful analysis. It was more like a fad, something everyone professed to believe because that was what the in-crowd was saying.

 

And it’s a fad that has been fading lately, as evidence has accumulated that the lessons of the past remain relevant, that trying to balance budgets in the face of high unemployment and falling inflation is still a really bad idea. Most notably, the confidence fairy has been exposed as a myth. There have been widespread claims that deficit-cutting actually reduces unemployment because it reassures consumers and businesses; but multiple studies of historical record, including one by the International Monetary Fund, have shown that this claim has no basis in reality.

 

No widespread fad ever passes, however, without leaving some fashion victims in its wake. In this case, the victims are the people of Britain, who have the misfortune to be ruled by a government that took office at the height of the austerity fad and won’t admit that it was wrong.

Britain, like America, is suffering from the aftermath of a housing and debt bubble. Its problems are compounded by London’s role as an international financial center: Britain came to rely too much on profits from wheeling and dealing to drive its economy — and on financial-industry tax payments to pay for government programs.

 

Over-reliance on the financial industry largely explains why Britain, which came into the crisis with relatively low public debt, has seen its budget deficit soar to 11 percent of G.D.P. — slightly worse than the U.S. deficit. And there’s no question that Britain will eventually need to balance its books with spending cuts and tax increases.

The operative word here should, however, be “eventually.” Fiscal austerity will depress the economy further unless it can be offset by a fall in interest rates. Right now, interest rates in Britain, as in America, are already very low, with little room to fall further. The sensible thing, then, is to devise a plan for putting the nation’s fiscal house in order, while waiting until a solid economic recovery is under way before wielding the ax.

 

But trendy fashion, almost by definition, isn’t sensible — and the British government seems determined to ignore the lessons of history.

 

Both the new British budget announced on Wednesday and the rhetoric that accompanied the announcement might have come straight from the desk of Andrew Mellon, the Treasury secretary who told President Herbert Hoover to fight the Depression by liquidating the farmers, liquidating the workers, and driving down wages. Or if you prefer more British precedents, it echoes the Snowden budget of 1931, which tried to restore confidence but ended up deepening the economic crisis.

The British government’s plan is bold, say the pundits — and so it is. But it boldly goes in exactly the wrong direction. It would cut government employment by 490,000 workers — the equivalent of almost three million layoffs in the United States — at a time when the private sector is in no position to provide alternative employment. It would slash spending at a time when private demand isn’t at all ready to take up the slack.

Why is the British government doing this? The real reason has a lot to do with ideology: the Tories are using the deficit as an excuse to downsize the welfare state. But the official rationale is that there is no alternative.

Indeed, there has been a noticeable change in the rhetoric of the government of Prime Minister David Cameron over the past few weeks — a shift from hope to fear. In his speech announcing the budget plan, George Osborne, the chancellor of the Exchequer, seemed to have given up on the confidence fairy — that is, on claims that the plan would have positive effects on employment and growth.

Instead, it was all about the apocalypse looming if Britain failed to go down this route. Never mind that British debt as a percentage of national income is actually below its historical average; never mind that British interest rates stayed low even as the nation’s budget deficit soared, reflecting the belief of investors that the country can and will get its finances under control. Britain, declared Mr. Osborne, was on the “brink of bankruptcy.”

 

What happens now? Maybe Britain will get lucky, and something will come along to rescue the economy. But the best guess is that Britain in 2011 will look like Britain in 1931, or the United States in 1937, or Japan in 1997. That is, premature fiscal austerity will lead to a renewed economic slump. As always, those who refuse to learn from the past are doomed to repeat it.

 

Vittime inglesi della moda, di Paul Krugman

New York Times 21 ottobre 2010

 

Nella primavera del 2010, l’austerità finanziaria diventò alla moda. Uso il termine a ragion veduta: l’improvviso consenso nell’ambito delle Persone Molto Serie secondo il quale ognuno doveva, senza perdere un attimo, riequilibrare i bilanci, non era fondato su una analisi accurata di alcun genere. Era piuttosto una mania, qualcosa che ognuno dichiarava di credere perché era quello che si diceva nella moltitudine.

Si tratta di una moda che negli ultimi tempi è venuta svanendo, appena si sono accumulate le prove che le lezioni del passato restano rilevanti, che cercare di riequilibrare i bilanci a fronte di una elevata disoccupazione e di una inflazione in caduta è ancora per davvero una cattiva idea. In modo del tutto significativo, quella magia fideistica è stata presentata come un mito. In termini generali è stata avanzata la pretesa secondo la quale il taglio del deficit riduce la disoccupazione in quanto rassicura i consumatori e le imprese; ma una molteplicità di studi degli archivi storici, incluso uno a cura del Fondo Monetario Internazionale, hanno dimostrato che questa pretesa non ha alcun fondamento reale.

Tuttavia, nessuna moda generale transita senza lasciare qualche vittima dell’infatuazione sul suo percorso. In questo caso, le vittime sono i cittadini inglesi, che hanno la sfortuna di essere governati da un governo che è entrato in carica al culmine della moda dell’austerità e non intende ammettere che essa fosse sbagliata.

L’Inghilterra, come l’America, sta soffrendo in conseguenza di una bolla immobiliare e del debito. I suoi problemi sono aggravati dal ruolo che ha Londra come centro finanziario internazionale: l’Inghilterra era arrivata a contare troppo sui profitti degli intrallazzatori della finanza per portare avanti la sua economia, nonché sulle tasse al settore finanziario per pagare i programmi governativi.

L’eccessiva dipendenza dal settore finanziario spiega ampiamente perché l’Inghilterra, che era arrivata alla crisi con un debito pubblico relativamente basso, ha visto il suo bilancio schizzare all’11 per cento del PIL, una prestazione leggermente peggiore del deficit americano. E non c’è alcun dubbio che alla fine l’Inghilterra avrà bisogno di riequilibrare i suoi conti con tagli di spesa ed incrementi fiscali.

Tuttavia, in questo caso la parola decisiva dovrebbe essere quel “alla fine”. L’austerità finanziaria deprimerà l’economia ulteriormente, a meno che non possa essere riequilibrata da una caduta nei tassi di interesse. Sul momento, i tassi di interesse in Inghilterra, come negli Stati Uniti, sono già molto bassi, con poco spazio per ulteriori diminuzioni. La cosa ragionevole, dunque, sarebbe predisporre un piano per rimettere in ordine l’edificio finanziario del paese, nel mentre si attende che una ripresa sia in atto prima di impugnare la scure.

Ma la moda che è in voga, quasi per definizione, non è ragionevole, e il governo inglese sembra determinato ad ignorare le lezioni della storia.

Il nuovo bilancio inglese annunziato mercoledì, assieme alla retorica con la quale l’annuncio è stato accompagnato, potrebbero venire direttamente dalla scrivania di Andrew Mellon, il segretario al Tesoro che disse al Presidente Herbert Hoover di combattere la Depressione eliminando gli agricoltori, eliminando i lavoratori ed abbassando i salari. Oppure, se si preferiscono precedenti più inglesi, riecheggia il bilancio di Snowden del 1931, che provò a ristabilire la fiducia ma finì con l’aggravare la crisi economica.

Il piano del governo inglese è coraggioso, dicono gli esperti, è così è. Ma esso va coraggiosamente nella direzione sbagliata. Esso taglierebbe l’impiego statale per 490.000 lavoratori – equivalenti a circa tre milioni di licenziamenti negli Stati Uniti – in un periodo nel quale il settore privato non è nella condizione di fornire occupazione alternativa. Esso taglierebbe la spesa in un periodo nel quale la domanda privata non è affatto nelle condizioni di farsi carico di quei tagli[175]

Perché il governo inglese si sta comportando in questo modo? La ragione reale ha molto a che fare con l’ideologia: i Tories stanno utilizzando il deficit come una scusa per far retrocedere lo stato sociale. Ma la spiegazione ufficiale è che non c’è alternativa.

In effetti, nelle ultime settimane c’era stato un rilevante cambiamento nella retorica governativa del Primo Ministro David Cameron,  una sorta di passaggio dalla speranza alla paura. Nel discorso con il quale ha annunciato il programma di bilancio, George Osborne, il Cancelliere dello Scacchiere, era sembrato metter da parte la magia fideistica – ovvero la pretesa che il piano avrebbe avuto effetti positivi sull’occupazione e sulla crescita.

Invece, era tutto relativo all’apocalisse imminente se l’Inghilterra avesse attenuato il suo percorso. Non conta il fatto che il debito inglese in percentuale sul reddito nazionale sia attualmente al di sotto della media storica; neanche conta il fatto che i tassi di interesse siano rimasti bassi anche se il deficit del bilancio nazionale saliva in alto, con ciò riflettendo la fiducia degli investitori sulla possibilità del paese di tenere sotto controllo le sue finanze. L’Inghilterra, ha dichiarato il signor Osborne, è “al limite della bancarotta”.

Cosa accadrà adesso? Può darsi che l’Inghilterra avrà fortuna, e che qualcosa interverrà a salvare l’economia. Ma la cosa più probabile è che l’Inghilterra nel 2011 assomiglierà a quella del 1931, o agli Stati Uniti del 1937, o al Giappone del 1997. Ovvero, la prematura austerità finanziaria porterà ad una rinnovata caduta dell’economia. Come sempre, quelli che rifiutano di imparare dal passato sono condannati a ripeterlo.      

 

 

 

Falling Into the Chasm

By PAUL KRUGMAN
Published: October 24, 2010

This is what happens when you need to leap over an economic chasm — but either can’t or won’t jump far enough, so that you only get part of the way across.

If Democrats do as badly as expected in next week’s elections, pundits will rush to interpret the results as a referendum on ideology. President Obama moved too far to the left, most will say, even though his actual program — a health care plan very similar to past Republican proposals, a fiscal stimulus that consisted mainly of tax cuts, help for the unemployed and aid to hard-pressed states — was more conservative than his election platform.

 

 

A few commentators will point out, with much more justice, that Mr. Obama never made a full-throated case for progressive policies, that he consistently stepped on his own message, that he was so worried about making bankers nervous that he ended up ceding populist anger to the right.

But the truth is that if the economic situation were better — if unemployment had fallen substantially over the past year — we wouldn’t be having this discussion. We would, instead, be talking about modest Democratic losses, no more than is usual in midterm elections.

The real story of this election, then, is that of an economic policy that failed to deliver. Why? Because it was greatly inadequate to the task.

When Mr. Obama took office, he inherited an economy in dire straits — more dire, it seems, than he or his top economic advisers realized. They knew that America was in the midst of a severe financial crisis. But they don’t seem to have taken on board the lesson of history, which is that major financial crises are normally followed by a protracted period of very high unemployment.

If you look back now at the economic forecast originally used to justify the Obama economic plan, what’s striking is that forecast’s optimism about the economy’s ability to heal itself. Even without their plan, Obama economists predicted, the unemployment rate would peak at 9 percent, then fall rapidly. Fiscal stimulus was needed only to mitigate the worst — as an “insurance package against catastrophic failure,” as Lawrence Summers, later the administration’s top economist, reportedly said in a memo to the president-elect.

 

 

 

But economies that have experienced a severe financial crisis generally don’t heal quickly. From the Panic of 1893, to the Swedish crisis of 1992, to Japan’s lost decade, financial crises have consistently been followed by long periods of economic distress. And that has been true even when, as in the case of Sweden, the government moved quickly and decisively to fix the banking system.

To avoid this fate, America needed a much stronger program than what it actually got — a modest rise in federal spending that was barely enough to offset cutbacks at the state and local level. This isn’t 20-20 hindsight: the inadequacy of the stimulus was obvious from the beginning.

Could the administration have gotten a bigger stimulus through Congress? Even if it couldn’t, would it have been better off making the case for a bigger plan, rather than pretending that what it got was just right? We’ll never know.

What we do know is that the inadequacy of the stimulus has been a political catastrophe. Yes, things are better than they would have been without the American Recovery and Reinvestment Act: the unemployment rate would probably be close to 12 percent right now if the administration hadn’t passed its plan. But voters respond to facts, not counterfactuals, and the perception is that the administration’s policies have failed.

 

The tragedy here is that if voters do turn on Democrats, they will in effect be voting to make things even worse.

The resurgent Republicans have learned nothing from the economic crisis, except that doing everything they can to undermine Mr. Obama is a winning political strategy. Tax cuts and deregulation are still the alpha and omega of their economic vision.

And if they take one or both houses of Congress, complete policy paralysis — which will mean, among other things, a cutoff of desperately needed aid to the unemployed and a freeze on further help for state and local governments — is a given. The only question is whether we’ll have political chaos as well, with Republicans’ shutting down the government at some point over the next two years. And the odds are that we will.

 

Is there any hope for a better outcome? Maybe, just maybe, voters will have second thoughts about handing power back to the people who got us into this mess, and a weaker-than-expected Republican showing at the polls will give Mr. Obama a second chance to turn the economy around.

But right now it looks as if the too-cautious attempt to jump across that economic chasm has fallen short — and we’re about to hit rock bottom.

 

Cadere nell’abisso, di Paul Krugman

New York Times 24 ottobre 2010

 

Questo è quello che accade quando c’è bisogno di scavalcare un baratro dell’economia, ma non si sa o non si vuole fare un salto abbastanza lungo, cosicché se ne attraversa solo un pezzo.

Se i Democratici otterranno un risultato così negativo come ci si aspetta dalle elezioni della prossima settimana, gli esperti si precipiteranno a interpretare i risultati come un referendum sull’ideologia. Gran parte di loro dirà che il Presidente Obama si è spostato troppo a sinistra, anche se il suo programma attuale – una programma di assistenza sanitaria in tutto simile a passate proposte repubblicane, un sostegno finanziario all’economia che è consistito principalmente di sgravi fiscali, aiuto ai disoccupati e soccorso agli Stati in difficoltà – è risultato più moderato della sua piattaforma alle elezioni presidenziali.

Pochi commentatori metteranno in evidenza, con maggiore senso della realtà, che Obama non si è mai sgolato per politiche progressiste, che egli ha contraddetto[176] in modo consistente il suo stesso messaggio, che era talmente preoccupato di innervosire i banchieri da consegnare alla fine la rabbia populista alla destra.

Ma la verità è che se la situazione economica fosse migliore – se la disoccupazione si fosse ridotta sostanzialmente nel corso dell’anno passato – non avremmo avuto questa discussione. Staremmo invece ragionando di modeste perdite dei Democratici, non superiori di quanto sia consueto nelle elezioni di medio termine.

La vera storia di queste elezioni, dunque, è quella di una politica economica che non è riuscita ad essere risolutiva[177]. Perché? Perché era del tutto inadeguata al suo scopo.

Quando Obama entrò in carica, ereditò un’economia in serie difficoltà – più serie, a quanto pare, di quanto si resero conto lui ed i suoi principali consiglieri economici. Essi compresero che l’America era nel mezzo di una grave crisi finanziaria. Ma non sembrarono padroneggiare[178] la lezione della storia, secondo la quale le crisi più importanti sono normalmente seguite da prolungati periodi di disoccupazione assai elevata.

 

Se si guarda adesso alle previsioni originarie utilizzate per giustificare il programma economico di Obama, quello che colpisce è l’ottimismo del pronostico di un’economia capace di guarire da sola. Persino senza il loro programma, avevano predetto gli economisti di Obama, il tasso di disoccupazione avrebbe raggiunto il culmine del 9 per cento e successivamente sarebbe calato rapidamente. Lo stimolo finanziario era necessario solo per attenuare le conseguenze peggiori, alla stregua di un “pacchetto assicurativo contro eventi catastrofici”, come, secondo le notizie, si espresse Lawrence Summers, il precedente principale consigliere economico della amministrazione, in un promemoria al Presidente eletto.

Ma le economie che passano da gravi crisi finanziarie, generalmente, non guariscono rapidamente. Dal “Panico” del 1893, alla crisi svedese del 1992, all’ultimo decennio del Giappone, le crisi finanziarie sono seguite in modo sistematico[179] da lunghi periodi di disordine economico. E questo è stato vero anche quando, come nel caso della Svezia, il governo si mosse rapidamente e con decisione per risanare il sistema bancario.

Per evitare un destino del genere, l’America aveva bisogno di un programma molto più forte di quello che ha effettivamente ricevuto – un incremento modesto della spesa federale che è stato appena sufficiente a bilanciare i tagli ai livelli degli Stati e delle istituzioni locali. Questo non è il senno di poi[180]: l’inadeguatezza dello stimolo era evidente sin dall’inizio. 

Avrebbe potuto l’amministrazione ottenere il consenso del Congresso ad un programma di sostegno maggiore? Anche se non l’avesse ottenuto, non sarebbe stato meglio proporre un programma più ampio, piuttosto che pretendere che quello in questione fosse del tutto idoneo? Non lo sapremo mai.

Quello che sappiamo è che l’inadeguatezza dello stimolo è stata una catastrofe politica. Certo, le cose sono migliori di quanto sarebbero state senza il American Recovery and Reinvestment Act : il tasso di disoccupazione a questo punto sarebbe probabilmente vicino al 12 per cento, se l’amministrazione non avesse approvato il programma. Ma gli elettori si basano sui fatti, non sulle ipotesi[181], e quanto si percepisce è che le politiche della amministrazione hanno fallito.

La tragedia ora sarà se gli elettori si rivolteranno contro i Democratici, in modo tale che il loro voto renderà le cose anche peggiori.

I repubblicani in ripresa non hanno imparato niente dalla crisi economica, ad eccezione del fatto che fare tutto il possibile per scalzare Obama è una strategia vincente. Gli sgravi fiscali e la deregolazione sono ancora l’alfa e l’omega della loro visione economica.

E se essi otterranno il controllo di un ramo del Congresso o di entrambi – il che significherà, tra le altre cose, una liquidazione dell’aiuto drammaticamente necessario ai disoccupati ed un congelamento dell’aiuto ulteriore agli Stati ed alle istituzioni locali – la completa paralisi politica sarà un fatto. L’unica domanda è se avremo anche un caos politico, in qualche modo con una blocco da parte dei Repubblicani delle funzioni del governo per i prossimi due anni. Ed è probabile che lo avremo.

C’è qualche speranza di un esito migliore? E’ possibile, è solo possibile, che gli elettori abbiano un ripensamento sul riconsegnare il potere alla gente che ci ha messi in questo disastro, e una prestazione repubblicana inferiore alle attese nei sondaggi fornisca ad Obama una seconda possibilità di risollevare l’economia.

Ma sul momento sembra che il tentativo troppo cauto di saltare il baratro dell’economia non abbia raggiunto lo scopo, e che siamo prossimi a toccare il fondo.

     

 


[M1]

Divided We FailBy PAUL KRUGMAN

Published: October 28, 2010

 

 

Barring a huge upset, Republicans will take control of at least one house of Congress next week. How worried should we be by that prospect?

Not very, say some pundits. After all, the last time Republicans controlled Congress while a Democrat lived in the White House was the period from the beginning of 1995 to the end of 2000. And people remember that era as a good time, a time of rapid job creation and responsible budgets. Can we hope for a similar experience now?

No, we can’t. This is going to be terrible. In fact, future historians will probably look back at the 2010 election as a catastrophe for America, one that condemned the nation to years of political chaos and economic weakness.

Start with the politics.

In the late-1990s, Republicans and Democrats were able to work together on some issues. President Obama seems to believe that the same thing can happen again today. In a recent interview with National Journal, he sounded a conciliatory note, saying that Democrats need to have an “appropriate sense of humility,” and that he would “spend more time building consensus.” Good luck with that.

After all, that era of partial cooperation in the 1990s came only after Republicans had tried all-out confrontation, actually shutting down the federal government in an effort to force President Bill Clinton to give in to their demands for big cuts in Medicare.

Now, the government shutdown ended up hurting Republicans politically, and some observers seem to assume that memories of that experience will deter the G.O.P. from being too confrontational this time around. But the lesson current Republicans seem to have drawn from 1995 isn’t that they were too confrontational, it’s that they weren’t confrontational enough.

Another recent interview by National Journal, this one with Mitch McConnell, the Senate minority leader, has received a lot of attention thanks to a headline-grabbing quote: “The single most important thing we want to achieve is for President Obama to be a one-term president.”

If you read the full interview, what Mr. McConnell was saying was that, in 1995, Republicans erred by focusing too much on their policy agenda and not enough on destroying the president: “We suffered from some degree of hubris and acted as if the president was irrelevant and we would roll over him. By the summer of 1995, he was already on the way to being re-elected, and we were hanging on for our lives.” So this time around, he implied, they’ll stay focused on bringing down Mr. Obama.

 

True, Mr. McConnell did say that he might be willing to work with Mr. Obama in certain circumstances — namely, if he’s willing to do a “Clintonian back flip,” taking positions that would find more support among Republicans than in his own party. Of course, this would actually hurt Mr. Obama’s chances of re-election — but that’s the point.

We might add that should any Republicans in Congress find themselves considering the possibility of acting in a statesmanlike, bipartisan manner, they’ll surely reconsider after looking over their shoulder at the Tea Party-types, who will jump on them if they show any signs of being reasonable. The role of the Tea Party is one reason smart observers expect another government shutdown, probably as early as next spring.

 

Beyond the politics, the crucial difference between the 1990s and now is the state of the economy.

When Republicans took control of Congress in 1994, the U.S. economy had strong fundamentals. Household debt was much lower than it is today. Business investment was surging, in large part thanks to the new opportunities created by information technology — opportunities that were much broader than the follies of the dot-com bubble.

In this favorable environment, economic management was mainly a matter of putting the brakes on the boom, so as to keep the economy from overheating and head off potential inflation. And this was a job the Federal Reserve could do on its own by raising interest rates, without any help from Congress.

Today’s situation is completely different. The economy, weighed down by the debt that households ran up during the Bush-era bubble, is in dire straits; deflation, not inflation, is the clear and present danger. And it’s not at all clear that the Fed has the tools to head off this danger. Right now we very much need active policies on the part of the federal government to get us out of our economic trap.

 

But we won’t get those policies if Republicans control the House. In fact, if they get their way, we’ll get the worst of both worlds: They’ll refuse to do anything to boost the economy now, claiming to be worried about the deficit, while simultaneously increasing long-run deficits with irresponsible tax cuts — cuts they have already announced won’t have to be offset with spending cuts.

So if the elections go as expected next week, here’s my advice: Be afraid. Be very afraid.

 

Con le divisioni andremo a fondo, di Paul Krugman

New York Times 28 ottobre 2010

 

 

A meno di un risultato a sorpresa, i Repubblicani prenderanno il controllo di almeno un ramo del Congresso la prossima settimana. Quanto dovremmo essere preoccupati da una prospettiva del genere?

Non molto, dicono alcuni esperti. Dopo tutto, l’ultimo periodo nel quale i Repubblicani controllarono il Congresso mentre un democratico era alla Casa Bianca fu il periodo dall’inizio del 1995 alla fine del 2000. E la gente ricorda quell’epoca come un buon tempo, un tempo di rapida creazione di posti di lavoro e di bilanci responsabili. Possiamo oggi sperare in una esperienza simile?

No, non possiamo. Questa volta sarà terribile. Di fatto, gli storici futuri probabilmente guarderanno indietro alle elezioni del 2010 come una catastrofe per l’America, tale da condannare la nazione ad anni di caos politico e di debolezza economica.

Cominciamo dalla politica.

Nei passati anni ‘90, Repubblicani e Democratici furono capaci di lavorare assieme su alcuni temi. Il Presidente Obama sembra credere che lo stesso possa accadere ancora oggi. In una recente intervista al National Journal, egli ha usato un tono di conciliazione, dicendo che i Democratici devono avere un “appropriato senso di umiltà”, e che egli vorrebbe “spendere più tempo nella costruzione del consenso”. In questo gli auguriamo buona fortuna.

Dopo tutto, quell’epoca di parziale cooperazione venne dopo che i Repubblicani avevano cercato la strada di uno scontro totale, nei fatti bloccando il governo federale nel tentativo di costringere il Presidente Bill Clinton a cedere alle loro richieste di grandi tagli su Medicare.

Oggi la paralisi del governo finirebbe col danneggiare politicamente i Repubblicani, e alcuni osservatori sembrano supporre che il ricordo di quella esperienza dissuaderà il GOP dall’essere troppo aggressivo in questa occasione. Ma la lezione che i Repubblicani di oggi sembrano aver tratto dal 1995 non è quella di essere stati troppo aggressivi, semmai è quella di non esserlo stati abbastanza.

Un’altra recente intervista al National Journal, questa volta con Mitch McConnell,  il dirigente della minoranza al Senato, ha ricevuto molta attenzione essendosi conquistata citazioni sui titoli dei giornali[182]: “La sola cosa davvero importante che ci proponiamo è che il Presidente Obama sia il presidente di un solo mandato”.

Se si legge l’intera intervista, ciò che McConnell afferma è che, nel 1995, i Repubblicani sbagliarono nel concentrarsi troppo sulla loro agenda politica e troppo poco nella azione di distruzione del Presidente: “Soffrimmo in una certa misura di presunzione e ci comportammo come se il Presidente fosse irrilevante e noi fossimo nelle condizioni di ribaltarlo. Attorno all’estate del 1995 egli era già sulla strada di essere rieletto, e noi insistevamo a lottare per la nostra sopravvivenza[183]”. Dunque questa volta, ha lasciato intendere, si concentreranno sul togliere di mezzo Obama.

In verità, il signor McConnell ha affermato che egli potrebbe in certe circostanze avere il desiderio di collaborare con Obama, e precisamente se egli fosse disposto a fare un “salto mortale alla Clinton”, assumendo posizioni che avrebbero maggiore sostegno dai Repubblicani che non dal suo stesso partito. Naturalmente, in questo modo le possibilità di rielezione di Obama ne risentirebbero fortemente, ma il punto è proprio lì.

Si deve aggiungere che se dovessero alcuni repubblicani nel Congresso trovarsi a valutare la possibilità di agire con le modalità di uomini di Stato, senza faziosità partigiane, essi sicuramente ci ripenserebbero una volta

che si fossero messi nei panni[184] della gente del Tea Party, i quali sicuramente gli salterebbero addosso appena dessero il minimo segno di ragionevolezza. Il ruolo del Tea Party è la ragione per la quale osservatori intelligenti si aspettano un nuovo blocco delle funzioni di governo, probabilmente già nella prossima primavera.

Al di là della politica, la differenza cruciale con gli anni ’90 è la condizione dell’economia.

Allorché i Repubblicani presero il controllo del Congresso nel 1994, l’economia americana aveva i fondamentali solidi. Il debito delle famiglie era molto più basso di oggi. L’investimento delle imprese era in crescita, in larga parte grazie alle nuove opportunità create dalla tecnologia informatica – opportunità che furono assai più vaste che non le follie della bolla del dot-com.

In questo contesto favorevole, la gestione economica si riduceva principalmente a tirare i freni della crescita, in modo tale da tenere lontana l’economia dal surriscaldamento e prevenire una potenziale inflazione. E questo fu una lavoro che la Federal Reserve poté fare da sola innalzando i tassi di interesse, senza alcun aiuto da parte del Congresso.

La situazione di oggi è completamente diversa. L’economia, appesantita dal debito che le famiglie avevano accumulato durante la bolla dell’epoca di Bush, è in gravissime ambasce; la deflazione, non l’inflazione, è il pericolo evidente di oggi. E non è affatto chiaro se la Fed abbia gli strumenti per prevenire un pericolo del genere. In questo momento noi abbiamo un grande bisogno di politiche attive da parte del governo federale che ci portino fuori dalla emergenza economica[185].  

Ma non avremo politiche di questo genere se i Repubblicani avranno il controllo della Camera. Di fatto, se essi otterranno il loro risultato, avremo la peggiore delle soluzioni possibili su entrambi gli aspetti: rifiuteranno nell’immediato di sostenere l’economia, con la pretesa della loro preoccupazione per il deficit, ed accresceranno i deficit di lungo periodo con irresponsabili sgravi fiscali – sgravi che, come hanno già annunciato, non saranno bilanciati da tagli alle spese.

Dunque, se le elezioni della prossima settimana andranno come previsto, la mia opinione è la seguente: essere preoccupati. Essere davvero preoccupati.     

 

 

 

 

Mugged by the Moralizers

By PAUL KRUGMAN
Published: October 31, 2010

 

“How many of you people want to pay for your neighbor’s mortgage that has an extra bathroom and can’t pay their bills?” That’s the question CNBC’s Rick Santelli famously asked in 2009, in a rant widely credited with giving birth to the Tea Party movement.

It’s a sentiment that resonates not just in America but in much of the world. The tone differs from place to place — listening to a German official denounce deficits, my wife whispered, “We’ll all be handed whips as we leave, so we can flagellate ourselves.” But the message is the same: debt is evil, debtors must pay for their sins, and from now on we all must live within our means.

And that kind of moralizing is the reason we’re mired in a seemingly endless slump.

The years leading up to the 2008 crisis were indeed marked by unsustainable borrowing, going far beyond the subprime loans many people still believe, wrongly, were at the heart of the problem. Real estate speculation ran wild in Florida and Nevada, but also in Spain, Ireland and Latvia. And all of it was paid for with borrowed money.

This borrowing made the world as a whole neither richer nor poorer: one person’s debt is another person’s asset. But it made the world vulnerable. When lenders suddenly decided that they had lent too much, that debt levels were excessive, debtors were forced to slash spending. This pushed the world into the deepest recession since the 1930s. And recovery, such as it is, has been weak and uncertain — which is exactly what we should have expected, given the overhang of debt.

 

The key thing to bear in mind is that for the world as a whole, spending equals income. If one group of people — those with excessive debts — is forced to cut spending to pay down its debts, one of two things must happen: either someone else must spend more, or world income will fall.

 

Yet those parts of the private sector not burdened by high levels of debt see little reason to increase spending. Corporations are flush with cash — but why expand when so much of the capacity they already have is sitting idle? Consumers who didn’t overborrow can get loans at low rates — but that incentive to spend is more than outweighed by worries about a weak job market. Nobody in the private sector is willing to fill the hole created by the debt overhang.

So what should we be doing? First, governments should be spending while the private sector won’t, so that debtors can pay down their debts without perpetuating a global slump. Second, governments should be promoting widespread debt relief: reducing obligations to levels the debtors can handle is the fastest way to eliminate that debt overhang.

But the moralizers will have none of it. They denounce deficit spending, declaring that you can’t solve debt problems with more debt. They denounce debt relief, calling it a reward for the undeserving.

 

And if you point out that their arguments don’t add up, they fly into a rage. Try to explain that when debtors spend less, the economy will be depressed unless somebody else spends more, and they call you a socialist. Try to explain why mortgage relief is better for America than foreclosing on homes that must be sold at a huge loss, and they start ranting like Mr. Santelli. No question about it: the moralizers are filled with a passionate intensity.

And those who should know better lack all conviction.

John Boehner, the House minority leader, was widely mocked last year when he declared that “It’s time for government to tighten their belts” — in the face of depressed private spending, the government should spend more, not less. But since then President Obama has repeatedly used the same metaphor, promising to match private belt-tightening with public belt-tightening. Does he lack the courage to challenge popular misconceptions, or is this just intellectual laziness? Either way, if the president won’t defend the logic of his own policies, who will?

Meanwhile, the administration’s mortgage modification program — the program that inspired the Santelli rant — has, in the end, accomplished almost nothing. At least part of the reason is that officials were so worried that they might be accused of helping the undeserving that they ended up helping almost nobody.

 

So the moralizers are winning. More and more voters, both here and in Europe, are convinced that what we need is not more stimulus but more punishment. Governments must tighten their belts; debtors must pay what they owe.

The irony is that in their determination to punish the undeserving, voters are punishing themselves: by rejecting fiscal stimulus and debt relief, they’re perpetuating high unemployment. They are, in effect, cutting off their own jobs to spite their neighbors.

 

But they don’t know that. And because they don’t, the slump will go on.

 

Alla mercé dei moralizzatori, di Paul Krugman

New York Times 31 ottobre 2010

 

 

“Quanti di voi sono disposti a pagare il mutuo del vostro vicino che ha un bagno  extra-lusso e non sanno come pagare i propri conti?” E’ questa la famosa domanda che pose nel 2009 Rick Santelli della CNBC[186], nel corso di una lunga sfuriata che viene generalmente considerata come la data di nascita del movimento del Tea Party.

E’ un sentimento diffuso non solo in America, ma in gran parte del mondo. Il tono è diverso da luogo a luogo – ascoltando un dirigente tedesco denunciare i deficit, mia moglie ha sussurrato, “all’uscita ci consegneranno le fruste, così possiamo flagellarci da soli”. Ma la sostanza è la stessa: il debito è il male, i debitori debbano pagare per le loro colpe, d’ora in poi dobbiamo vivere tutti sulla base dei nostri mezzi.

E un moralismo di questa natura è la ragione per la quale siamo impantanati in una crisi apparentemente senza fine.

Gli anni che hanno portato alla crisi del 2008 furono in effetti segnati da un indebitamento insostenibile, che andò assai oltre i mutui subprime che molti ancora credono, sbagliando, fossero il cuore del problema.   La speculazione immobiliare imperversò in Florida ed in Nevada, ma anche in Spagna, in Irlanda e in Lettonia. E fu tutta pagata con soldi a credito.

Questo credito non ha reso il mondo nella sua interezza  né più ricco né più povero: il debito di una persona è l’attivo di un’altra. Ma ha reso il mondo vulnerabile. Quando i prestatori all’improvviso hanno deciso di aver dato troppo denaro in prestito e che i livelli del debito erano diventati eccessivi, i debitori sono stati costretti a tagliare le spese. Questo ha spinto il mondo nella recessione più profonda dagli anni ’30. E la ripresa, se così la vogliamo chiamare, è stata debole ed incerta, il che è esattamente quello che avremmo dovuto aspettarci, data la sovraesposizione del debito.

La questione cruciale da tenere a mente è che per il mondo nella sua interezza, la spesa equivale al reddito. Se un gruppo di persone – quelle con debiti eccessivi – sono costrette a tagliare le spese per liquidare i propri debiti, può accadere una di queste due cose: o qualcun altro deve spendere maggiormente, o il reddito globale cadrà.

Tuttavia, quelle componenti del settore privato che non sono appesantite da alti livelli di debito hanno poche ragioni per incrementare la spesa. Le imprese sono inondate di contante – ma perché espandersi quando una gran parte della capacità produttiva che già possiedono se ne sta inattiva? I consumatori che non si sono troppo indebitati possono ottenere prestiti a tassi bassi – ma quell’incentivo a spendere è più che bilanciato dai timori per il mercato del lavoro debole. Nessuno nel settore privato ha voglia di riempire la buca creata dalla sovraesposizione del debito.

Cosa dovremmo fare, dunque? In primo luogo, i governi dovrebbero spendere, laddove il settore privato non lo farà, in modo che i debitori possano liquidare i loro debiti senza che si perpetui la crisi globale. In secondo luogo, i governi dovrebbero promuovere una complessiva attenuazione del debito: ridurre le obbligazioni a livelli che i debitori possano sopportare è il modo più rapido per eliminare quella sovraesposizione del debito.

Ma i moralizzatori non consentiranno niente del genere. Essi denunciano la spesa in deficit, dichiarando che non si può risolvere il problema del debito con ulteriore debito. Essi denunciano le misure di attenuazione del debito, definendole un premio a coloro che non se lo meritano.

E se voi fate notare che i loro argomenti non possono stare assieme, vanno su tutte le furie. Provate a spiegare che quando i debitori spendono di meno, l’economia finirà in depressione se qualcun altro non spenderà di più, e diranno che siete un socialista. Provate a spiegare che la attenuazione delle condizioni dei mutui per l’America è meglio del pignoramento di abitazioni che possono essere rivendute con grandi perdite, e cominceranno a strepitare come il signor Santelli. Non ci sono dubbi: i moralizzatori sono colmi di intensa passione.

E coloro che dovrebbero sapere di più mancano di convinzione.

John Boehner, il dirigente della minoranza alla Camera, provocò una irrisione generale lo scorso anno quando dichiarò che “è venuto il momento che il governo stringa la cintola” – di fronte ad una spesa privata depressa, il governo dovrebbe spendere di più, non di meno. Ma da allora in poi il Presidente Obama ha ripetutamente utilizzato la stessa metafora, promettendo di far corrispondere alle ristrettezze del settore privato le ristrettezze di quello pubblico. Si tratta di una mancanza di coraggio nello sfidare pregiudizi diffusi, o si tratta proprio di pigrizia intellettuale? In entrambi i casi, se non è il Presidente che difende la logica delle sue stesse politiche, chi lo farà?

Nel frattempo, il programma di modifiche alle condizioni dei mutui da parte della amministrazione – quel programma che ispirò la tirata di Santelli – alla fine non h risolto quasi niente. Per una parte almeno la ragione è che i dirigenti pubblici erano così preoccupati di essere accusati di aiutare coloro che non lo meritano, che hanno finito per non aiutare quasi nessuno.

In questo modo i moralizzatori stanno avendola vinta. Un numero sempre più grande di elettori, qua ed in Europa, son convinti che quello di cui abbiamo bisogno non è un maggiore sostegno all’economia ma maggiori punizioni. I governi debbono stringere la cintola; i debitori devono pagare i loro debiti.

L’ironia è che nella loro determinazione di punire gli immeritevoli, gli elettori stanno punendo se stessi: respingendo il sostegno finanziario e l’attenuazione del debito, essi stanno perpetuando una elevata disoccupazione. In sostanza, stanno tagliando i loro posti di lavoro per fare un dispetto ai loro vicini.

Ma non lo sanno. E siccome non lo sanno, la crisi continuerà.

 

 

The Focus Hocus-Pocus

By PAUL KRUGMAN
Published: November 4, 2010

 

Democrats, declared Evan Bayh in an Op-Ed article on Wednesday in The Times, “overreached by focusing on health care rather than job creation during a severe recession.” Many others have been saying the same thing: the notion that the Obama administration erred by not focusing on the economy is hardening into conventional wisdom.

But I have no idea what, if anything, people mean when they say that. The whole focus on “focus” is, as I see it, an act of intellectual cowardice — a way to criticize President Obama’s record without explaining what you would have done differently.

 

After all, are people who say that Mr. Obama should have focused on the economy saying that he should have pursued a bigger stimulus package? Are they saying that he should have taken a tougher line with the banks? If not, what are they saying? That he should have walked around with furrowed brow muttering, “I’m focused, I’m focused”?

 

Mr. Obama’s problem wasn’t lack of focus; it was lack of audacity. At the start of his administration he settled for an economic plan that was far too weak. He compounded this original sin both by pretending that everything was on track and by adopting the rhetoric of his enemies.

The aftermath of major financial crises is almost always terrible: severe crises are typically followed by multiple years of very high unemployment. And when Mr. Obama took office, America had just suffered its worst financial crisis since the 1930s. What the nation needed, given this grim prospect, was a really ambitious recovery plan.

 

Could Mr. Obama actually have offered such a plan? He might not have been able to get a big plan through Congress, or at least not without using extraordinary political tactics. Still, he could have chosen to be bold — to make Plan A the passage of a truly adequate economic plan, with Plan B being to place blame for the economy’s troubles on Republicans if they succeeded in blocking such a plan.

 

 

But he chose a seemingly safer course: a medium-size stimulus package that was clearly not up to the task. And that’s not 20/20 hindsight. In early 2009, many economists, yours truly included, were more or less frantically warning that the administration’s proposals were nowhere near bold enough.

 

Worse, there was no Plan B. By late 2009, it was already obvious that the worriers had been right, that the program was much too small. Mr. Obama could have gone to the nation and said, “My predecessor left the economy in even worse shape than we realized, and we need further action.” But he didn’t. Instead, he and his officials continued to claim that their original plan was just right, damaging their credibility even further as the economy continued to fall short.

 

 

Meanwhile, the administration’s bank-friendly policies and rhetoric — dictated by fear of hurting financial confidence — ended up fueling populist anger, to the benefit of even more bank-friendly Republicans. Mr. Obama added to his problems by effectively conceding the argument over the role of government in a depressed economy.

I felt a sense of despair during Mr. Obama’s first State of the Union address, in which he declared that “families across the country are tightening their belts and making tough decisions. The federal government should do the same.” Not only was this bad economics — right now the government must spend, because the private sector can’t or won’t — it was almost a verbatim repeat of what John Boehner, the soon-to-be House speaker, said when attacking the original stimulus. If the president won’t speak up for his own economic philosophy, who will?

 

 

So where, in this story, does “focus” come in? Lack of nerve? Yes. Lack of courage in one’s own convictions? Definitely. Lack of focus? No.

And why would failing to tackle health care have produced a better outcome? The focus people never explain.

Of course, there’s a subtext to the whole line that health reform was a mistake: namely, that Democrats should stop acting like Democrats and go back to being Republicans-lite. Parse what people like Mr. Bayh are saying, and it amounts to demanding that Mr. Obama spend the next two years cringing and admitting that conservatives were right.

 

There is an alternative: Mr. Obama can take a stand.

For one thing, he still has the ability to engineer significant relief to homeowners, one area where his administration completely dropped the ball during its first two years. Beyond that, Plan B is still available. He can propose real measures to create jobs and aid the unemployed and put Republicans on the spot for standing in the way of the help Americans need.

 

Would taking such a stand be politically risky? Yes, of course. But Mr. Obama’s economic policy ended up being a political disaster precisely because he tried to play it safe. It’s time for him to try something different.

 

Concentrarsi sull’ Abracadabra[187], di Paul Krugman

New York Times 4 novembre 2010

 

 

I democratici, ha dichiarato Evan Bayh sulla pagina dei commenti di The Times di mercoledì, “hanno fatto il passo più lungo della gamba[188], concentrandosi sulla assistenza sanitaria, anziché sulla creazione di posti di lavoro, nel corso di una grave recessione”. Molti altri hanno detto lo stesso: il concetto secondo il quale la amministrazione Obama abbia sbagliato a non concentrarsi sull’economia si sta consolidando nel giudizio comune.

Ma io non ho idea di cosa la gente intenda con ciò, ammesso che intenda qualcosa. La sostanza effettiva[189] nell’enfatizzare[190] questo aspetto, per quanto posso capire, consiste in un atto di viltà intellettuale – un modo per criticare il comportamento del Presidente Obama senza spiegare cosa si sarebbe fatto di diverso.

In fin dei conti, le persone che sostengono che Obama avrebbe dovuto concentrarsi sull’economia stanno dicendo che egli avrebbe dovuto proporsi misure di sostegno più grandi? Stanno dicendo che avrebbe dovuto tenere una condotta più dura con le banche? Altrimenti, cosa stanno dicendo? Che egli avrebbe dovuto passeggiare mormorando con aria impensierita[191] “Mi sono concentrato, mi sono concentrato”?

Il problema di Obama non è stato una mancanza di concentrazione; è stato una mancanza di audacia. All’inizio della sua amministrazione egli si accontentò di una programma economico che era del tutto inadeguato. Egli aggravò questo peccato originale sia con la pretesa che tutto si stesse mettendo a posto, sia con l’utilizzo della stessa retorica dei suoi avversari.

L’indomani delle più importanti crisi finanziarie è quasi sempre terribile: le crisi gravi sono tipicamente seguite da un certo numero di anni di elevata disoccupazione. E quando Obama entrò in carica, l’America aveva proprio patito la peggiore crisi finanziaria dagli anni ’30. Ciò di cui la nazione aveva bisogno, considerata questa dura prospettiva, era un programma di sostegno realmente ambizioso.

Avrebbe potuto Obama proporre effettivamente un programma del genere? Era possibile che egli non fosse nelle condizioni di ottenere che un grande programma fosse approvato dal Congresso, o almeno non senza usare tattiche politiche fuori dell’ordinario. Tuttavia, egli avrebbe potuto comportarsi con audacia, facendo di un primo programma il punto di passaggio di un piano economico davvero adeguato, con un programma di riserva che avrebbe prodotto l’effetto di dare la responsabilità dei guai dell’economia ai Repubblicani, se avessero bloccato tale proposta[192].

Sennonché egli scelse una percorso apparentemente più sicuro: un pacchetto di misure di sostegno di medie dimensioni che non era chiaramente all’altezza dell’obbiettivo. E non si tratta del senno di poi. Agli inizi del 2009, molti economisti, incluso il sottoscritto, misero in guardia, in modi più o meno angosciati, sul fatto che le proposte della amministrazione non avessero neanche lontanamente il coraggio sufficiente.

Peggio ancora, non c’era alcun piano di riserva. Nell’ultima parte del 2009, era già evidente che quelli che si preoccupavano erano nel giusto, che il programma era del tutto inadeguato. Obama avrebbe potuto rivolgersi alla nazione e dire: “Il mio predecessore ha lasciato l’economia in condizioni anche peggiori di quanto si ritenesse, ed abbiamo bisogno di una iniziativa ulteriore”. Ma egli non lo fece. Piuttosto, continuarono, lui ed i suoi collaboratori, a sostenere che il piano originario fosse davvero giusto, danneggiando in quel modo persino ulteriormente la loro credibilità, mentre l’economia continuava a non riprendersi.

 

Nel frattempo, le politiche ed i toni amichevoli della amministrazione verso le banche – dettati dal timore di urtare la fiducia del sistema finanziario – finivano con l’innescare una rabbia populista, a beneficio degli ancora più amichevoli Repubblicani. Obama accrebbe i suoi problemi, di fatto dando un riconoscimento al dibattito[193] sul peso[194] del governo in un’economia depressa.

Provai una sensazione di sgomento in occasione del primo messaggio di Obama sullo ‘Stato dell’Unione’, con il quale egli affermò che “in tutto il paese le famiglie stringono la cintola e prendono decisioni dure. Il governo federale dovrebbe fare lo stesso”. Non si trattava soltanto di una cattiva concezione dell’economia – in questo momento il governo deve spendere, perché il settore privato non può o non vuole farlo – si trattava quasi di un ripetizione letterale di quello che John Boehner, colui che prossimamente diventerà speaker della Camera, aveva detto nel momento in cui aveva attaccato l’originale programma di sostegno. Se non è il Presidente che parla a favore della sua filosofia economica, chi lo farà mai?

Com’è, dunque, che entra in questa storia la “concentrazione”? Nel senso di una mancanza di fiducia in se stessi? Si. Nel senso di una mancanza di coraggio nelle proprie convinzioni? Senza alcun dubbio. Nel senso di una mancanza di attenzione? No.

E perché se si fosse rinunciato a misurarsi con la assistenza sanitaria si sarebbe provocato un risultato migliore? I teorici della “concentrazione” non lo spiegano mai.

C’è, naturalmente, un sottinteso all’intera posizione secondo la quale la riforma sanitaria fu uno sbaglio: precisamente, che i Democratici avrebbe dovuto smetterla di agire come Democratici per tornare ad essere dei Repubblicani ‘all’acqua di rose’[195]. Una volta analizzato quanto vengono dicendo persone come il signor Bayh, esso risulta equivalente alla richiesta ad Obama di utilizzare i prossimi due anni nel farsi sempre più piccolo[196] e nell’ammettere che i conservatori avevano ragione.

C’è una alternativa: Obama può resistere[197].

Da una parte, egli ha ancora la possibilità di mettere in cantiere significative forme di aiuto ai proprietari di casa, un’area nella quale la sua amministrazione ha completamente perso l’occasione di operare[198] durante i suoi primi due anni. Oltre a ciò, il programma di riserva è ancora a disposizione. Egli può proporre reali misure per creare posti di lavoro ed aiutare i disoccupati e mettere così i Repubblicani alle strette[199] per il loro ostruzionismo all’aiuto di cui gli americani hanno bisogno.

Prendere posizioni del genere sarebbe politicamente rischioso? Si, ovviamente. Ma la politica economica di Obama si è risolta in un disastro politico precisamente perché ha cercato di giocare sul sicuro. E’ venuto per lui il momento di provare qualcosa di diverso.

   

 

 

 

Doing It Again

By PAUL KRUGMAN
Published: November 7, 2010

 

Eight years ago Ben Bernanke, already a governor at the Federal Reserve although not yet chairman, spoke at a conference honoring Milton Friedman. He closed his talk by addressing Friedman’s famous claim that the Fed was responsible for the Great Depression, because it failed to do what was necessary to save the economy.

“You’re right,” said Mr. Bernanke, “we did it. We’re very sorry. But thanks to you, we won’t do it again.”

Famous last words. For we are, in fact, doing it again.

It’s true that things aren’t as bad as they were during the worst of the Depression. But that’s not saying much. And as in the 1930s, every proposal to do something to improve the situation is met with a firestorm of opposition and criticism. As a result, by the time the actual policy emerges, it’s watered down to such an extent that it’s almost guaranteed to fail.

We’ve already seen this happen with fiscal policy: fearing opposition in Congress, the Obama administration offered an inadequate plan, only to see the plan weakened further in the Senate. In the end, the small rise in federal spending was effectively offset by cuts at the state and local level, so that there was no real stimulus to the economy.

Now the same thing is happening to monetary policy.

The case for a more expansionary policy by the Fed is overwhelming. Unemployment is disastrously high, while U.S. inflation data over the past few years almost perfectly match the early stages of Japan’s relentless slide into corrosive deflation.

 

Unfortunately, conventional monetary policy is no longer available: the short-term interest rates the Fed normally targets are already close to zero. So the Fed is shifting from its usual policy of buying only short-term debt, and is now buying long-term debt — a policy generally referred to as “quantitative easing.” (Why? Don’t ask.)

There’s nothing outlandish about this action. As Mr. Bernanke tried to explain Saturday, “This is just monetary policy,” adding, “It will work or not work in much the same way that ordinary, more conventional, familiar monetary policy works.”

 

Yet the Pain Caucus — my term for those who have opposed every effort to break out of our economic trap — is going wild.

 

This time, much of the noise is coming from foreign governments, many of which are complaining vociferously that the Fed’s actions have weakened the dollar. All I can say about this line of criticism is that the hypocrisy is so thick you could cut it with a knife.

After all, you have China, which is engaged in currency manipulation on a scale unprecedented in world history — and hurting the rest of the world by doing so — attacking America for trying to put its own house in order. You have Germany, whose economy is kept afloat by a huge trade surplus, criticizing America for running trade deficits — then lashing out at a policy that might, by weakening the dollar, actually do something to reduce those deficits.

 

As a practical matter, however, this foreign criticism doesn’t matter much. The real damage is being done by our domestic inflationistas — the people who have spent every step of our march toward Japan-style deflation warning about runaway inflation just around the corner. They’re doing it again — and they may already have succeeded in emasculating the Fed’s new policy.

For the big concern about quantitative easing isn’t that it will do too much; it is that it will accomplish too little. Reasonable estimates suggest that the Fed’s new policy is unlikely to reduce interest rates enough to make more than a modest dent in unemployment. The only way the Fed might accomplish more is by changing expectations — specifically, by leading people to believe that we will have somewhat above-normal inflation over the next few years, which would reduce the incentive to sit on cash.

 

 

The idea that higher inflation might help isn’t outlandish; it has been raised by many economists, some regional Fed presidents and the International Monetary Fund. But in the same remarks in which he defended his new policy, Mr. Bernanke — clearly trying to appease the inflationistas — vowed not to change the Fed’s price target: “I have rejected any notion that we are going to try to raise inflation to a super-normal level in order to have effects on the economy.”

 

And there goes the best hope that the Fed’s plan might actually work.

Think of it this way: Mr. Bernanke is getting the Obama treatment, and making the Obama response. He’s facing intense, knee-jerk opposition to his efforts to rescue the economy. In an effort to mute that criticism, he’s scaling back his plans in such a way as to guarantee that they’ll fail.

 

And the almost 15 million unemployed American workers, half of whom have been jobless for 21 weeks or more, will pay the price, as the slump goes on and on.

 

Farlo di nuovo, di Paul Krugman

New York Times 7 novembre 2010

 

 

Otto anni fa Ben Bernanke, già governatore della Federal Reserve sebbene non ancora Presidente[200],  prese la parola ad una conferenza in onore di Milton Friedman. Egli chiuse il suo discorso indirizzando a Friedman la famosa affermazione secondo la quale la Fed era stata responsabile della Grande Depressione, perché aveva mancato di fare ciò che era necessario fare per salvare l’economia.

“Lei ha ragione” disse il signor Bernanke, “ci comportammo in quel modo. Siamo molto dispiaciuti. Ma grazie a lei, non lo faremo un’altra volta”.

Le ultime parole famose. Perché, di fatto, lo stiamo facendo ancora.

E’ vero che la situazione non è così cattiva come fu nel momento peggiore della Depressione. Ma questo non dice molto. E come negli anni 30, ogni proposta di fare qualcosa per migliorare le cose è accolta da una tempesta di oppositori e di critiche. Il risultato è che, nel momento in cui la proposta si delinea in una politica effettiva, essa viene annacquata in tal misura da essere quasi condannata al fallimento.

Abbiamo già visto accadere ciò nella politica finanziaria pubblica: per paura della opposizione nel Congresso, la amministrazione Obama ha proposto un programma inadeguato, con il solo risultato di vederlo ulteriormente indebolito nel Senato. Alla fine, il modesto incremento nella spesa federale è stato di fatto compensato dai tagli ai livelli degli Stati e degli enti locali, cosicché non c’è stato alcuno stimolo reale all’economia.

Ora lo stesso sta accadendo con la politica monetaria.

Il caso di una politica più espansiva da parte della Fed è impressionante. La disoccupazione è disastrosamente elevata, mentre le statistiche dell’inflazione degli ultimi anni negli Stati Uniti fanno il pari in modo quasi perfetto con il primo periodo dell’inarrestabile scivolamento del Giappone in una deflazione corrosiva.

Sfortunatamente, non si può più ricorrere alla tradizionale politica monetaria: il tassi di interesse a breve termine che la Fed si propone sono già vicini a zero. Dunque la Fed sta spostandosi dalla tradizionale politica del solo acquisto del debito a breve termine, e sta ora acquistando debito a lungo termine – una politica che generalmente è definita della “facilitazione quantitativa” (perché? Non chiedetelo a me).

Non c’è niente di strano in una iniziativa del genere. Come Bernanke ha provato a spiegare sabato: “Si tratta semplicemente di politica monetaria”, ed ha aggiunto “essa avrà effetto o non lo avrà in gran parte nello stesso modo nel quale funziona la ordinaria, più convenzionale e familiare politica monetaria”.

Tuttavia, il Comitato delle Sofferenze – il termine con il quale indico coloro che si sono opposti ad ogni tentativo per venir fuori dalla emergenza dell’economia – è andato su tutte le furie.

Questa volta, gran parte del chiasso sta venendo dai governi degli altri paesi, molti dei quali stanno lamentando con gran fragore il fatto che le iniziative della Fed abbiano reso il dollaro più debole. Tutto quello che posso dire a proposito di questo fronte di critiche è che l’ipocrisia è così sottile che si può tagliarla con un coltello.

In fin dei conti, abbiamo la Cina, che è impegnata in una manipolazione valutaria in dimensioni che non hanno precedenti nella storia mondiale – e che sta danneggiando il resto del mondo con la sua condotta –  che attacca l’America per il suo tentativo di mettere in ordine i conti a casa sua. Abbiamo la Germania, la cui economia sta a galla per effetto di una vasto surplus commerciale, che critica l’America perché tiene in piedi[201]deficit commerciali – e poi se la prende con una politica che, con l’indebolimento del dollaro, effettivamente avrebbe un qualche effetto nel ridurre quei deficit.

Tuttavia, da un punto di vista pratico, queste critiche straniere non contano granché. Il danno vero viene provocato dai nostri ‘inflazionisti’ – quegli individui che hanno colto l’occasione[202] di ogni passo della nostra marcia di avvicinamento verso una deflazione sul genere di quella del Giappone, mettendo in guardia da una inflazione incontrollabile proprio dietro[203] l’angolo.  Lo stanno facendo anche questa volta, ed è possibile che abbiano già avuto successo nel togliere vigore alla nuova politica della Fed.

Perché la grande preoccupazione a proposito della “quantitative easing”[204] non è che essa provochi un effetto troppo grande; è che ottenga un risultato troppo piccolo. Stime ragionevoli suggeriscono che è improbabile che la nuova politica della Fed riduca i tassi di interesse[205] abbastanza da intaccare anche modestamente la disoccupazione. L’unico modo nel quale la Fed potrebbe ottenere un risultato maggiore sarebbe quello di una modifica delle aspettative – in particolare, inducendo le persone a credere che nei prossimi anni avremo una qualche inflazione superiore al normale, il che ridurrebbe l’incentivo a mantenere liquidità.

L’idea secondo la quale una inflazione più elevata potrebbe essere di aiuto non è bizzarra: essa è stata accreditata[206] da molti economisti, da alcuni presidenti regionali della Fed e dal Fondo Monetario Internazionale. Ma, con le stesse considerazioni con le quali ha difeso la sua nuova politica, Bernanke – chiaramente nel tentativo di placare gli ‘inflazionisti’ – ha giurato di non voler modificare l’obbiettivo di inflazione della Fed: “Ho respinto ogni idea secondo la quale ci incammineremmo ad accrescere l’inflazione ad un livello superiore alla norma, allo scopo di produrre effetti sull’economia”.

E così se ne va la stessa più importante speranza che il programma della Fed possa funzionare per davvero.

Consideriamo le cose nel modo seguente: Bernanke sta ottenendo lo stesso trattamento ricevuto da Obama, e sta dando la stessa risposta. Egli incontra una opposizione intensa ed istintiva nei suoi sforzi di salvare l’economia. Nel tentativo di tacitare quell’ostruzionismo, egli sta riducendo le dimensioni dei suoi programmi, in modo tale da condannarli al fallimento.

E i quasi quindici milioni di lavoratori americani disoccupati, metà dei quali sono rimasti senza lavoro da 21 settimane e più, pagheranno il prezzo, mentre la caduta dell’economia andrà sempre più avanti.  

 

 

 

The Hijacked Commission

By PAUL KRUGMAN
Published: November 11, 2010

Count me among those who always believed that President Obama made a big mistake when he created the National Commission on Fiscal Responsibility and Reform — a supposedly bipartisan panel charged with coming up with solutions to the nation’s long-run fiscal problems. It seemed obvious, as soon as the commission’s membership was announced, that “bipartisanship” would mean what it so often does in Washington: a compromise between the center-right and the hard-right.

 

My misgivings increased as we got a better feel for the views of the commission’s co-chairmen. It soon became clear that Erskine Bowles, the Democratic co-chairman, had a very Republican-sounding small-government agenda. Meanwhile, Alan Simpson, the Republican co-chairman, revealed the kind of honest broker he is by sending an abusive e-mail to the executive director of the National Older Women’s League in which he described Social Security as being “like a milk cow with 310 million tits.”

 

We’ve known for a long time, then, that nothing good would come from the commission. But on Wednesday, when the co-chairmen released a PowerPoint outlining their proposal, it was even worse than the cynics expected.

Start with the declaration of “Our Guiding Principles and Values.” Among them is, “Cap revenue at or below 21% of G.D.P.” This is a guiding principle? And why is a commission charged with finding every possible route to a balanced budget setting an upper (but not lower) limit on revenue?

Matters become clearer once you reach the section on tax reform. The goals of reform, as Mr. Bowles and Mr. Simpson see them, are presented in the form of seven bullet points. “Lower Rates” is the first point; “Reduce the Deficit” is the seventh.

So how, exactly, did a deficit-cutting commission become a commission whose first priority is cutting tax rates, with deficit reduction literally at the bottom of the list?

 

Actually, though, what the co-chairmen are proposing is a mixture of tax cuts and tax increases — tax cuts for the wealthy, tax increases for the middle class. They suggest eliminating tax breaks that, whatever you think of them, matter a lot to middle-class Americans — the deductibility of health benefits and mortgage interest — and using much of the revenue gained thereby, not to reduce the deficit, but to allow sharp reductions in both the top marginal tax rate and in the corporate tax rate.

 

It will take time to crunch the numbers here, but this proposal clearly represents a major transfer of income upward, from the middle class to a small minority of wealthy Americans. And what does any of this have to do with deficit reduction?

Let’s turn next to Social Security. There were rumors beforehand that the commission would recommend a rise in the retirement age, and sure enough, that’s what Mr. Bowles and Mr. Simpson do. They want the age at which Social Security becomes available to rise along with average life expectancy. Is that reasonable?

The answer is no, for a number of reasons — including the point that working until you’re 69, which may sound doable for people with desk jobs, is a lot harder for the many Americans who still do physical labor.

But beyond that, the proposal seemingly ignores a crucial point: while average life expectancy is indeed rising, it’s doing so mainly for high earners, precisely the people who need Social Security least. Life expectancy in the bottom half of the income distribution has barely inched up over the past three decades. So the Bowles-Simpson proposal is basically saying that janitors should be forced to work longer because these days corporate lawyers live to a ripe old age.

 

Still, can’t we say that for all its flaws, the Bowles-Simpson proposal is a serious effort to tackle the nation’s long-run fiscal problem? No, we can’t.

It’s true that the PowerPoint contains nice-looking charts showing deficits falling and debt levels stabilizing. But it becomes clear, once you spend a little time trying to figure out what’s going on, that the main driver of those pretty charts is the assumption that the rate of growth in health-care costs will slow dramatically. And how is this to be achieved? By “establishing a process to regularly evaluate cost growth” and taking “additional steps as needed.” What does that mean? I have no idea.

It’s no mystery what has happened on the deficit commission: as so often happens in modern Washington, a process meant to deal with real problems has been hijacked on behalf of an ideological agenda. Under the guise of facing our fiscal problems, Mr. Bowles and Mr. Simpson are trying to smuggle in the same old, same old — tax cuts for the rich and erosion of the social safety net.

Can anything be salvaged from this wreck? I doubt it. The deficit commission should be told to fold its tents and go away.

 

La Commissione dirottata, di Paul Krugman

New York Times 11 novembre 2010

 

Consideratemi tra quelli che hanno sempre creduto che il Presidente Obama avesse fatto un grande sbaglio quando creò la Commissione Nazionale per la Responsabilità e la Riforma della Finanza Pubblica[207], un gruppo apparentemente bipartisan incaricato di individuare soluzioni ai problemi finanziari pubblici di lungo periodo del paese. Pareva chiaro, dal momento in cui i componenti della commissione furono resi noti, che il suo carattere “non partigiano” avrebbe significato quello che di solito significa a Washington: un compromesso tra il centro-destra e la destra accanita.

I miei cattivi presentimenti crebbero appena avemmo una migliore percezione dei punti di vista del co-presidente della Commissione. Divenne subito evidente che Erskine Bowles, il co-presidente democratico, aveva un programma di restringimento delle funzioni pubbliche di chiara intonazione repubblicana. Contemporaneamente, Alan Simpson, i copresidente repubblicano, rivelò che genere di onesto mediatore egli fosse inviando una e-mail oltraggiosa[208]alla direttrice della Lega Nazionale delle Donne Anziane con la quale definiva la Sicurezza Sociale alla stregua di “una vacca da latte con 310 milioni di capezzoli”.

Sapevamo da un pezzo, dunque, che non sarebbe uscito niente di buono dalla Commissione. Ma quando mercoledì i co-presidenti hanno reso noto, con una serie di diapositive[209], un abbozzo delle loro proposte, è stato anche peggio di quanto le persone ciniche avessero previsto.

Cominciamo con la dichiarazione su “i nostri valori e principi guida”.  Tra di essi compare il seguente: “Tetto a o sotto il 21 per cento del PIL”. Si tratta di un principio guida? E perché è una commissione incaricata di trovare ogni possibile strada per mettere in equilibrio il bilancio che mette un limite massimo (ma non minimo) alle entrate fiscali?

Le cose diventano più chiare quando si arriva alla sezione relativa alla riforma del fisco. Gli obbiettivi della riforma, così come li concepiscono i signori Bowles e Simpson, sono presentati nella forma di sette capisaldi[210]: il primo è “Aliquote più basse”, il settimo “Riduzione del deficit”.

Come può dunque accadere che una commissione relativa alla riduzione del deficit diventi una commissione la cui massima priorità è quella della riduzione delle aliquote, mentre la riduzione del deficit finisce letteralmente in fondo alla lista?

In effetti, tuttavia, quello che i copresidenti propongono è un misto di tagli e di incrementi fiscali – tagli per i più ricchi, incrementi per la classe media. Essi propongono di eliminare gli sgravi fiscali che, qualsiasi cosa se ne pensi, stanno molto a cuore agli americani della classe media – le deducibilità dei contributi[211] sanitari e degli interessi sui mutui – e di utilizzare gran parte delle entrate guadagnate in quel modo, non per ridurre il deficit, bensì per consentire riduzioni più drastiche sia sulle aliquote fiscali marginali più elevate che sulle aliquote fiscali alle imprese.

Ci vorrebbe tempo per analizzare in questa sede i numeri[212], ma questa proposta chiaramente rappresenta una importante redistribuzione del reddito verso l’alto, dalla classe media ad una piccola minoranza di americani ricchi. E che hanno a che fare cose del genere con la riduzione del deficit?

Occupiamoci a questo punto della Sicurezza Sociale. C’erano già voci in giro secondo le quali la commissione avrebbe raccomandato un innalzamento dell’età pensionabile, e infatti è quello che Bowles e Simpson hanno fatto. Essi vogliono che l’età alla quale diviene disponibile il trattamento di Sicurezza Sociale cresca di pari passo alla aspettativa media di vita. E’ ragionevole?

La risposta è no, per varie ragioni, incluso l’aspetto per il quale lavorare sino a 69 anni,  cosa che può sembrare fattibile per persone che lavorano alla scrivania, è molto più duro per americani che tuttora svolgono lavori manuali.

Ma oltre a ciò, la proposta sembra ignorare un aspetto cruciale: mentre l’aspettativa media di vita sta in effetti crescendo, essa cresce principalmente per coloro che hanno alti redditi, ovvero per le persone che hanno meno bisogno della Sicurezza Sociale. La aspettativa di vita degli individui della metà inferiore della distribuzione del reddito è appena cresciuta di poco negli ultimi tre decenni. In tal modo la proposta Bowles-Simpson significa che i portinai dovrebbero essere costretti a lavorare più a lungo perché di questi tempi i legali delle imprese campano più a lungo[213].

Possiamo ancora affermare, con tutti i suoi difetti, che la proposta Bowles-Simpson sia un sforzo serio per affrontare i problemi di lungo periodo della finanza pubblica della nazione? No, non possiamo.

E’ vero che le diapositive contengono immagini confortanti che mostrano deficit in calo e livelli del debito che si stabilizzano. Ma, una volta che ci si sofferma un po’ a cercare di immaginare da cosa ciò derivi, diventa chiaro che il principale protagonista di queste graziose immagini è l’assunto secondo il quale il tasso di crescita della assistenza sanitaria rallenterà in modo sensazionale. E questo come sarà ottenuto? Attraverso “la fissazione di un regolare processo di stima della crescita dei costi” ed assumendo “iniziative ulteriori se necessarie”. Che cosa significa? Non lo so davvero.

Non è un mistero di cosa sia successo presso la Commissione sul deficit: come accade di solito nella odierna Washington, un percorso dedicato ad affrontare problemi reali è stato dirottato nel verso di una agenda ideologica. Alla guisa di misurarsi con i nostri problemi della finanza pubblica, i signori Bowles e Simpson stanno cercando di contrabbandare la vecchia solfa[214]: sgravi fiscali ai ricchi ed erosione delle reti della sicurezza sociale.

C’è qualche aspetto che può essere salvato da un naufragio di questo genere? Lo dubito. Si dovrebbe dire alla Commissione sul deficit di fare fagotto[215] e di uscire di scena.

 

 

 

The World as He Finds It

By PAUL KRUGMAN
Published: November 14, 2010

On Wednesday David Axelrod, President Obama’s top political adviser, appeared to signal that the White House was ready to cave on tax cuts — to give in to Republican demands that tax cuts be extended for the wealthy as well as the middle class. “We have to deal with the world as we find it,” he declared.

The White House then tried to walk back what Mr. Axelrod had said. But it was a telling remark, in more ways than one.

 

The obvious point is the contrast between the administration’s current whipped-dog demeanor and Mr. Obama’s soaring rhetoric as a candidate. How did we get from “We are the ones we’ve been waiting for” to here?

But the bitter irony goes deeper than that: the main reason Mr. Obama finds himself in this situation is that two years ago he was not, in fact, prepared to deal with the world as he was going to find it. And it seems as if he still isn’t.

In retrospect, the roots of current Democratic despond go all the way back to the way Mr. Obama ran for president. Again and again, he defined America’s problem as one of process, not substance — we were in trouble not because we had been governed by people with the wrong ideas, but because partisan divisions and politics as usual had prevented men and women of good will from coming together to solve our problems. And he promised to transcend those partisan divisions.

This promise of transcendence may have been good general election politics, although even that is questionable: people forget how close the presidential race was at the beginning of September 2008, how worried Democrats were until Sarah Palin and Lehman Brothers pushed them over the hump. But the real question was whether Mr. Obama could change his tune when he ran into the partisan firestorm everyone who remembered the 1990s knew was coming. He could do uplift — but could he fight?

 

So far the answer has been no.

Right at the beginning of his administration, what Mr. Obama needed to do, above all, was fight for an economic plan commensurate with the scale of the crisis. Instead, he negotiated with himself before he ever got around to negotiating with Congress, proposing a plan that was clearly, grossly inadequate — then allowed that plan to be scaled back even further without protest. And the failure to act forcefully on the economy, more than anything else, accounts for the midterm “shellacking.”

 

Even given the economy’s troubles, however, the administration’s efforts to limit the political damage were amazingly weak. There were no catchy slogans, no clear statements of principle; the administration’s political messaging was not so much ineffective as invisible. How many voters even noticed the ever-changing campaign themes — does anyone remember the “Summer of Recovery” — that were rolled out as catastrophe loomed?

 

And things haven’t improved since the election. Consider Mr. Obama’s recent remarks on two fronts.

At the predictably unproductive G-20 summit meeting in South Korea, the president faced demands from China and Germany that the Federal Reserve stop its policy of “quantitative easing” — which is, given Republican obstructionism, one of the few tools available to promote U.S. economic recovery. What Mr. Obama should have said is that nations’ running huge trade surpluses — and in China’s case, doing so thanks to currency manipulation on a scale unprecedented in world history — have no business telling the United States that it can’t act to help its own economy.

 

But what he actually said was “From everything I can see, this decision was not one designed to have an impact on the currency, on the dollar.” Fighting words!

 

And then there’s the tax-cut issue. Mr. Obama could and should be hammering Republicans for trying to hold the middle class hostage to secure tax cuts for the wealthy. He could be pointing out that making the Bush tax cuts for the wealthy permanent is a huge budget issue — over the next 75 years it would cost as much as the entire Social Security shortfall. Instead, however, he is once again negotiating with himself, long before he actually gets to the table with the G.O.P.

Here’s the thing: Mr. Obama still has immense power, if he chooses to use it. At home, he has the veto pen, control of the Senate and the bully pulpit. He still has substantial executive authority to act on things like mortgage relief — there are billions of dollars not yet spent, not to mention the enormous leverage the government has via its ownership of Fannie and Freddie. Abroad, he still leads the world’s greatest economic power — and one area where he surely would get bipartisan support would be taking a tougher stand on China and other international bad actors.

 

 

But none of this will matter unless the president can find it within himself to use his power, to actually take a stand. And the signs aren’t good.

 

Il mondo come lui l’ha trovato, di Paul Krugman

New York Times 14 novembre 2010

 

Mercoledì David Axelrod, principale consigliere politico del Presidente Obama, è apparso per informare che la Casa Bianca è pronta a cedere sugli sgravi fiscali, ovvero ad arrendersi alle richieste dei Repubblicani di prorogare gli sgravi fiscali ai ricchi come alla classe media. “Noi dobbiamo misurarci con il mondo che abbiamo trovato”, ha dichiarato.

La Casa Bianca ha poi cercato di fare un passo indietro rispetto alle affermazioni del signor Axelrod. Ma si è trattato di un commento convincente in molti sensi, tranne che in quello che contava[216].

L’aspetto evidente è il contrasto tra l’attuale comportamento da cane ammaestrato[217] della amministrazione e le vette della retorica di Obama quando era candidato. Che cosa è successo dal “Noi siamo proprio quelli che stavamo aspettando” sino a questo punto?

Ma l’amara ironia è anche maggiore se si considera questo[218]: la principale ragione per la quale Obama si trova in questa situazione è che due anno orsono egli, in effetti, non era preparato a misurarsi con il mondo che stava per incontrare. E a quanto pare non lo è ancora.

Guardando retrospettivamente, le radici della sfiducia attuale dei Democratici dipendono tutte dal modo in cui Obama si candidò alla presidenza. Più di una volta, egli definì il problema dell’America come una questione di metodo e non di sostanza – eravamo nei guai non perché eravamo stati governati da persone con idee sbagliate, ma a causa delle divisioni faziose e delle politiche che come al solito avevano impedito agli uomini ed alle donne di buona volontà di procedere assieme per risolvere i problemi di tutti. Ed egli promise di andare oltre queste divisioni faziose.

Questa promessa di andar oltre può essere stata una buona politica nel caso delle elezioni generali, sebbene anche questo sia discutibile: la gente si dimentica quanto fosse incerta la competizione presidenziale agli inizi del settembre del 2008, quanti timori avessero i democratici sinché Sarah Pelin e Lehman Brothers non li spinsero oltre l’ostacolo. Ma il tema vero era se Obama poteva cambiare la sua impostazione nel momento in cui si imbatté in quel fuoco di fila di faziosità che ognuno che avesse memoria degli anni 90 sapeva sarebbe sopraggiunto. Egli poteva volare più alto[219], ma poteva dar battaglia?

Sinora la risposta è stata negativa.

Sopra ogni altra cosa, proprio agli inizi della sua amministrazione, quello che Obama doveva fare era combattere per un programma economico adeguato alle dimensioni della crisi. Invece, egli negoziò con se stesso[220] prima ancora di occuparsi dei negoziati con il Congresso, proponendo un programma che era chiaramente del tutto inadeguato, dopodiché permise che quel programma venisse ulteriormente ridimensionato senza protestare. E l’incapacità di agire con energia sull’economia, più di ogni altra cosa, spiega la ‘débâcle’ delle elezioni di medio termine.

Anche considerati i guai dell’economia, tuttavia, gli sforzi della amministrazione per limitare il danno politico sono stati straordinariamente deboli. Non ci sono state parole d’ordine capaci di fare presa, non c’è stata alcuna chiara dichiarazione di principi; il messaggio politico della amministrazione è risultato non tanto inefficace, quanto inesistente. Quanti elettori sono riusciti persino ad intendere i temi di una campagna elettorale in continuo cambiamento, che venivano squadernati nel mentre incombeva la catastrofe? Qualcuno ricorda “l’estate della ripresa”?

E le cose non sono migliorate dal momento delle elezioni. Si considerino le recenti riflessioni di Obama su due fronti.

 

 

All’incontro al vertice del G-20 in Corea del Sud, improduttivo come era stato previsto, il Presidente ha fronteggiato le richieste della Cina e della Germania di un fermo da parte della Federal Reserve della politica del “quantitative easing[221] – che è, considerato l’ostruzionismo repubblicano, uno dei pochi strumenti utilizzabili per promuove una ripresa economica degli Stati Uniti. Quello che Obama avrebbe dovuto dire è che nazioni che gestiscono ampi surplus commerciali – nel caso della Cina, ottenuto grazie a manipolazioni valutarie di dimensioni mai registrate nella storia – non hanno il diritto di dire[222] agli Stati Uniti che essi non possono agire a sostegno della loro economia.

Ma quello che egli ha effettivamente detto è stato: “Da ogni punto di vista la considero, questa decisione non è stata propriamente rivolta a provocare un impatto sulla valuta, sul dollaro”. Parole combattive!

E poi c’è il tema degli sgravi fiscali. Obama poteva e doveva martellare i Repubblicani per il loro tentativo di tenere la classe media in ostaggio al fine di garantire sgravi fiscali ai più ricchi. Egli poteva sottolineare il fatto che il permanente alleggerimento delle tasse di Bush per i ricchi è una questione con vaste implicazioni di bilancio – nei prossimi 75 anni essa costerebbe altrettanto dell’intero deficit della Sicurezza Sociale. Invece, al posto di questo, egli sta ancora una volta negoziando con se stesso, con largo anticipo rispetto al momento in cui siederà al tavolo con il GOP.

Il punto è qua: Obama ha ancora un immenso potere, se decide di utilizzarlo. Ha a propria disposizione[223] lo strumento del veto[224], il controllo del Senato e il pulpito più autorevole[225]. Egli ha ancora la sostanziale autorità esecutiva per intervenire su questioni quali l’alleggerimento dei mutui – ci sono miliardi di dollari non ancora spesi, per non dire dell’enorme leva che il governo ha a disposizione per effetto della sua proprietà di Fannie e Freddie[226]. Quanto all’estero, egli è ancora alla guida della più grande potenza economica mondiale, e un terreno nel quale potrebbe sicuramente ottenere un sostegno bipartizan sarebbe quello di assumere una posizione più dura nei confronti della Cina e di altri negativi protagonisti sulla scena internazionale.

Ma nessuna di queste cose conterà se il Presidente non le ritroverà in se stesso, allo scopo di usare il suo potere, di prendere effettivamente posizione. E i segnali non sono buoni. 

 

 

 

 

 

Axis of Depression

By PAUL KRUGMAN
Published: November 18, 2010

What do the government of China, the government of Germany and the Republican Party have in common? They’re all trying to bully the Federal Reserve into calling off its efforts to create jobs. And the motives of all three are highly suspect.

It’s not as if the Fed is doing anything radical. It’s true that the Fed normally conducts monetary policy by buying short-term U.S. government debt, whereas now, under the unhelpful name of “quantitative easing,” it’s buying longer-term debt. (Buying more short-term debt is pointless because the interest rate on that debt is near zero.) But Ben Bernanke, the Fed chairman, had it right when he protested that this is “just monetary policy.” The Fed is trying to reduce interest rates, as it always does when unemployment is high and inflation is low.

 

 

And inflation is indeed low. Core inflation — a measure that excludes volatile food and energy prices, and is widely considered a better gauge of underlying trends than the headline number — is running at just 0.6 percent, the lowest level ever recorded. Meanwhile, unemployment is almost 10 percent, and long-term unemployment is worse than it has been since the Great Depression.

So the case for Fed action is overwhelming. In fact, the main concern reasonable people have about the Fed’s plans — a concern that I share — is that they are likely to prove too weak, too ineffective.

But there are reasonable people — and then there’s the China-Germany-G.O.P. axis of depression.

It’s no mystery why China and Germany are on the warpath against the Fed. Both nations are accustomed to running huge trade surpluses. But for some countries to run trade surpluses, others must run trade deficits — and, for years, that has meant us. The Fed’s expansionary policies, however, have the side effect of somewhat weakening the dollar, making U.S. goods more competitive, and paving the way for a smaller U.S. deficit. And the Chinese and Germans don’t want to see that happen.

For the Chinese government, by the way, attacking the Fed has the additional benefit of shifting attention away from its own currency manipulation, which keeps China’s currency artificially weak — precisely the sin China falsely accuses America of committing.

But why are Republicans joining in this attack?

Mr. Bernanke and his colleagues seem stunned to find themselves in the cross hairs. They thought they were acting in the spirit of none other than Milton Friedman, who blamed the Fed for not acting more forcefully during the Great Depression — and who, in 1998, called on the Bank of Japan to “buy government bonds on the open market,” exactly what the Fed is now doing.

Republicans, however, will have none of it, raising objections that range from the odd to the incoherent.

The odd: on Monday, a somewhat strange group of Republican figures — who knew that William Kristol was an expert on monetary policy? — released an open letter to the Fed warning that its policies “risk currency debasement and inflation.” These concerns were echoed in a letter the top four Republicans in Congress sent Mr. Bernanke on Wednesday. Neither letter explained why we should fear inflation when the reality is that inflation keeps hitting record lows.

 

And about dollar debasement: leaving aside the fact that a weaker dollar actually helps U.S. manufacturing, where were these people during the previous administration? The dollar slid steadily through most of the Bush years, a decline that dwarfs the recent downtick. Why weren’t there similar letters demanding that Alan Greenspan, the Fed chairman at the time, tighten policy?

 

 

Meanwhile, the incoherent: Two Republicans, Mike Pence in the House and Bob Corker in the Senate, have called on the Fed to abandon all efforts to achieve full employment and focus solely on price stability. Why? Because unemployment remains so high. No, I don’t understand the logic either.

So what’s really motivating the G.O.P. attack on the Fed? Mr. Bernanke and his colleagues were clearly caught by surprise, but the budget expert Stan Collender predicted it all. Back in August, he warned Mr. Bernanke that “with Republican policy makers seeing economic hardship as the path to election glory,” they would be “opposed to any actions taken by the Federal Reserve that would make the economy better.” In short, their real fear is not that Fed actions will be harmful, it is that they might succeed.

 

Hence the axis of depression. No doubt some of Mr. Bernanke’s critics are motivated by sincere intellectual conviction, but the core reason for the attack on the Fed is self-interest, pure and simple. China and Germany want America to stay uncompetitive; Republicans want the economy to stay weak as long as there’s a Democrat in the White House.

And if Mr. Bernanke gives in to their bullying, they may all get their wish.

 

L’asse della depressione, di Paul Krugman

New York Times 18 novembre 2010

 

Che cosa hanno in comune i governi della Cina e della Germania ed il Partito Repubblicano? Stanno tutti cercando di impressionare la Federal Reserve perché sospenda i suoi sforzi per creare lavoro. E i motivi sono per tutti e tre altamente sospetti.

Non si tratta del fatto che la Fed stia promuovendo niente di radicale. E’ vero che la Fed normalmente si ispira ad una politica monetaria basata sull’acquisto di obbligazioni sul debito statale[227] a breve termine, mentre adesso, sotto il nome infelice[228] di “facilitazione quantitativa”, essa sta acquistando debito e lungo termine (acquistare maggiori obbligazioni a breve termine non serve a niente, giacché l’interesse su quelle obbligazioni e prossimo a zero). Ma Ben Bernanke, il Presidente della Fed, ha ragione quando argomenta che si tratta “semplicemente di politica monetaria”. La Fed sta cercando di ridurre il tasso di interesse, come fa sempre quando la disoccupazione è elevata e l’inflazione è bassa.

E l’inflazione è davvero bassa. L’inflazione sostanziale – una misura che esclude i prezzi volatili dei generi alimentari e dell’energia, e che è generalmente considerata una rappresentazione[229] delle tendenze di fondo più idonea che non i numeri che finiscono sui titoli dei giornali – sta procedendo appena allo 0,6 per cento, la disoccupazione è quasi al 10 per cento e la disoccupazione di lungo periodo è peggiore di quanto non sia mai stata dalla Grande Depressione.

Dunque, ci sono ragioni schiaccianti che depongono a favore dell’iniziativa della Fed. Nei fatti, la preoccupazione principale che le persone di buon senso hanno a proposito dei piani della Fed – una preoccupazione che io condivido – è che essi è probabile si rivelino troppo deboli ed inefficaci.

Ma, oltre alle persone di buon senso, c’è l’asse della depressione rappresentato da Cina, Germania e Partito Repubblicano.

Non è un mistero che Cina e Germania siano sul sentiero di guerra contro la Fed. Entrambe le nazioni si sono abituate a realizzare surplus commerciali ingenti. Ma per alcuni paesi che realizzano surplus commerciali, ve ne debbono essere altri che realizzano deficit – e, da molti anni, siamo noi ad essere chiamati in causa[230].  Le politiche espansive della Fed, tuttavia, hanno l’effetto collaterale di un qualche indebolimento del dollaro, rendendo i prodotti statunitensi più competitivi e preparando la strada ad un debito americano più basso. Questo è quello che i cinesi ed i tedeschi non vogliono veder accadere.

Per il governo cinese, peraltro, attaccare la Fed ha il beneficio aggiuntivo di spostare l’attenzione dalla manipolazione della propria valuta, che rende la moneta cinese artificialmente debole, ovvero precisamente la colpa che la Cina attribuisce all’America.

Ma perché i Repubblicani si uniscono a quest’offensiva?

Bernanke e i suoi colleghi sembrano stupiti per essere finiti nel mirino. Essi pensavano di stare operando nientedimeno che nello spirito di Milton Friedman, il quale aveva incolpato la Fed per non aver fatto niente di più energico durante la Grande Depressione, ed aveva invitato nel 1998, la Banca del Giappone ad “acquistare obbligazioni statali sul mercato aperto”, esattamente quanto la Fed sta facendo attualmente.

I Repubblicani, tuttavia, non lo tollereranno, nel mentre sollevano obiezioni che spaziano dalla stranezza all’incoerenza.

La stranezza: lunedì, un gruppo abbastanza curioso di personalità repubblicane – chi sapeva che William Kristol fosse un esperto di politica monetaria? – si è rivolto con una lettera aperta alla Fed mettendo in guardia che le sue politiche “comportano il rischio di una svalutazione della moneta e dell’inflazione”. Queste preoccupazioni sono state replicate in una lettera che i quattro massimi esponenti del partito nel Congresso hanno inviato a Bernanke mercoledì. Nessuna delle due lettere spiegava perché dovremmo temere l’inflazione nel mentre la realtà è che l’inflazione continua ad essere in ribasso quanto mai.

E, a proposito della svalutazione del dollaro: lasciando da parte il fatto che un dollaro più basso sarebbe d’aiuto effettivo al settore manifatturiero americano, dove erano costoro durante la precedente amministrazione? Il dollaro scivolò in modo costante durante gli anni della amministrazione Bush, un declino rispetto al quale il recente ribasso impallidisce. Perché non ci furono lettere del genere per richiedere politiche più restrittive ad Alan Greenspan, il Presidente della Fed di quel tempo?

D’altra parte, l’incoerenza: due repubblicani, Mike Pence alla Camera e Bob Corker al Senato, hanno invitato la Fed ad abbandonare ogni sforzo per ottenere la piena occupazione e a concentrarsi esclusivamente sulla stabilità dei prezzi. Perché? Perché in quel modo la disoccupazione resta alta. No, mi sfugge persino la logica.

Dunque, cosa sta davvero all’origine degli attacchi del GOP alla Federal Reserve? Bernanke ed i suoi colleghi sono stati chiaramente presi di sorpresa, ma l’esperto del bilancio Stan Collender aveva previsto tutto. Nello scorso agosto, egli aveva messo in guardia Bernanke che “con i politici repubblicani che considerano le traversie economiche come la strada per il successo elettorale”, essi si sarebbero “opposti a tutte le iniziative che la Fed avesse assunto per migliorare l’economia”. In poche parole, la loro reale preoccupazione non è che le iniziative della Fed risultino dannose, è che possano aver successo.

Da qua l’asse della depressione. Non ho dubbi che qualche critico di Bernanke sia motivato da un sincero convincimento intellettuale, ma le ragioni sostanziali dell’attacco alla Fed sono, puramente e semplicemente, negli interessi soggettivi. La Cina e la Germania vogliono che l’America resti non competitiva; i Repubblicani vogliono che l’economia resti debole finché c’è un democratico alla Casa Bianca.

 

E se Bernanke cede alle loro intimazioni, tutti loro potranno ottenere quello che desiderano.

 

 

        

 

 

 

 

There Will Be Blood

By PAUL KRUGMAN
Published: November 22, 2010

Former Senator Alan Simpson is a Very Serious Person. He must be — after all, President Obama appointed him as co-chairman of a special commission on deficit

So here’s what the very serious Mr. Simpson said on Friday: “I can’t wait for the blood bath in April. … When debt limit time comes, they’re going to look around and say, ‘What in the hell do we do now? We’ve got guys who will not approve the debt limit extension unless we give ’em a piece of meat, real meat,’ ” meaning spending cuts. “And boy, the blood bath will be extraordinary,” he continued.

 

Think of Mr. Simpson’s blood lust as one more piece of evidence that our nation is in much worse shape, much closer to a political breakdown, than most people realize.

Some explanation: There’s a legal limit to federal debt, which must be raised periodically if the government keeps running deficits; the limit will be reached again this spring. And since nobody, not even the hawkiest of deficit hawks, thinks the budget can be balanced immediately, the debt limit must be raised to avoid a government shutdown. But Republicans will probably try to blackmail the president into policy concessions by, in effect, holding the government hostage; they’ve done it before.

 

 

Now, you might think that the prospect of this kind of standoff, which might deny many Americans essential services, wreak havoc in financial markets and undermine America’s role in the world, would worry all men of good will. But no, Mr. Simpson “can’t wait.” And he’s what passes, these days, for a reasonable Republican.

The fact is that one of our two great political parties has made it clear that it has no interest in making America governable, unless it’s doing the governing. And that party now controls one house of Congress, which means that the country will not, in fact, be governable without that party’s cooperation — cooperation that won’t be forthcoming.

Elite opinion has been slow to recognize this reality. Thus on the same day that Mr. Simpson rejoiced in the prospect of chaos, Ben Bernanke, the Federal Reserve chairman, appealed for help in confronting mass unemployment. He asked for “a fiscal program that combines near-term measures to enhance growth with strong, confidence-inducing steps to reduce longer-term structural deficits.”

My immediate thought was, why not ask for a pony, too? After all, the G.O.P. isn’t interested in helping the economy as long as a Democrat is in the White House. Indeed, far from being willing to help Mr. Bernanke’s efforts, Republicans are trying to bully the Fed itself into giving up completely on trying to reduce unemployment.

 

And on matters fiscal, the G.O.P. program is to do almost exactly the opposite of what Mr. Bernanke called for. On one side, Republicans oppose just about everything that might reduce structural deficits: they demand that the Bush tax cuts be made permanent while demagoguing efforts to limit the rise in Medicare costs, which are essential to any attempts to get the budget under control. On the other, the G.O.P. opposes anything that might help sustain demand in a depressed economy — even aid to small businesses, which the party claims to love.

 

 

Right now, in particular, Republicans are blocking an extension of unemployment benefits — an action that will both cause immense hardship and drain purchasing power from an already sputtering economy. But there’s no point appealing to the better angels of their nature; America just doesn’t work that way anymore.

And opposition for the sake of opposition isn’t limited to economic policy. Politics, they used to tell us, stops at the water’s edge — but that was then.

These days, national security experts are tearing their hair out over the decision of Senate Republicans to block a desperately needed new strategic arms treaty. And everyone knows that these Republicans oppose the treaty, not because of legitimate objections, but simply because it’s an Obama administration initiative; if sabotaging the president endangers the nation, so be it.

 

How does this end? Mr. Obama is still talking about bipartisan outreach, and maybe if he caves in sufficiently he can avoid a federal shutdown this spring. But any respite would be only temporary; again, the G.O.P. is just not interested in helping a Democrat govern.

My sense is that most Americans still don’t understand this reality. They still imagine that when push comes to shove, our politicians will come together to do what’s necessary. But that was another country.

It’s hard to see how this situation is resolved without a major crisis of some kind. Mr. Simpson may or may not get the blood bath he craves this April, but there will be blood sooner or later. And we can only hope that the nation that emerges from that blood bath is still one we recognize.

 

Scorrerà sangue, di Paul Krugman

New York Times 22 novembre 2010

 

L’ex Senatore Alan Simpson è una Persona Molto Seria. Deve esserlo; dopotutto il Presidente Obama l’ha incaricato della copresidenza di una speciale commissione sul deficit.

Dunque, ecco quello di Molto Serio che ha detto il signor Simpson venerdì: “Non posso aspettare il bagno di sangue ad aprile … Quando arriva il punto limite del debito, si comincia a guardarsi intorno e a dire ‘Adesso che diavolo facciamo? Ci ritroviamo con gente che non approverà l’estensione del limite del debito[231] se non gli diamo in cambio letteralmente un pezzo di carne’ ”, intendendo con ciò i tagli alla spesa.  Ed ha proseguito “Ragazzi, il bagno di sangue sarà straordinario”.

La sete di sangue del signor Simpson è uno dei maggiori indicatori della pessima condizione nella quale versa il nostro paese, molto più vicino a un crollo politico di quanto la maggior parte delle persone abbia compreso.

Una spiegazione: esiste un limite legale al debito federale, che deve essere periodicamente innalzato se il governo continua ad avere gestioni in deficit; il limite sarà raggiunto ancora una volta nella prossima primavera. E siccome nessuno, nemmeno i più forsennati ‘falchi’ del deficit[232], pensa che il bilancio possa essere rimesso in equilibrio su due piedi,  il limite del debito deve essere innalzato per evitare una interruzione delle funzioni di governo. Ma i Repubblicani probabilmente cercheranno di costringere col ricatto il Presidente a concessioni politiche, di fatto prendendo il governo in ostaggio; l’hanno già fatto in precedenza[233].

Ora, potreste immaginare che la prospettiva di una paralisi del genere, che potrebbe negare a molti americani servizi essenziali e che porterebbe scompiglio sui mercati finanziari e minerebbe il ruolo dell’America nel mondo, preoccupi ogni individuo di buona volontà. Invece no, il signor Simpson “non può aspettare”. Ed egli passa, di questi tempi, come un repubblicano ragionevole.

Il fatto è che uno dei nostri due grandi partiti ha affermato senza mezzi termini di non avere alcun interesse a rendere l’America governabile, a meno che non sia esso a governare. E quel Partito adesso controlla un ramo del Congresso, il che significa che il paese, di fatto, non sarà governabile senza la cooperazione di quel partito – cooperazione che non sarà messa a disposizione[234].

La opinione degli addetti ai lavori ha tardato a riconoscere questa realtà. Per questa ragione, lo stesso giorno che Simpson si rallegrava con la prospettiva del caos, il Presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha fatto appello ad un aiuto per combattere la disoccupazione di massa. Egli ha chiesto “un programma di spesa pubblica[235] che unisca misure a breve termine per potenziare la crescita con forti iniziative di riduzione del deficit strutturale a lungo termine che inducano fiducia”.

Il mio pensiero immediato è stato, e perché non chiedere anche un cavallino[236]? Dopo tutto, il GOP non ha interesse a dare un contributo all’economia per tutto il periodo in cui un Democratico sarà alla Casa Bianca. Lungi dall’aver voglia di sostenere gli sforzi di Bernanke, i Repubblicani stanno cercando di costringere[237] la Fed a rinunciare del tutto ai tentativi di riduzione della disoccupazione.

E, in materia di spesa pubblica, il programma del GOP va in una direzione quasi esattamente opposta a quella richiesta da Bernanke. Da una parte, i Repubblicani si oppongono in pratica a tutto quello che potrebbe ridurre i deficit strutturali: essi chiedono che gli sgravi fiscali di Bush vengano resi permanenti e contemporaneamente fanno demagogia nei confronti degli sforzi per limitare gli incrementi dei costi di Medicare, che sono essenziali per ogni tentativo di tenere il bilancio sotto controllo. Dall’altra parte, il GOP si oppone a tutto quello che può essere di aiuto nel sostegno alla domanda in una economia depressa – persino il contributo alle piccole imprese, che il partito pretende di avere a cuore.

In questo momento, in particolare, i Repubblicani stanno bloccando una estensione dei benefici di disoccupazione – una iniziativa che provocherà sia enormi privazioni che un drenaggio di potere d’acquisto da un’economia che già batte i colpi[238]. Ma non è il caso di fare appello ai loro migliori sentimenti; l’America non funziona proprio più in quel modo.

E l’opposizione nell’esclusivo interesse dell’opposizione non si limita alla politica economica. La politica, ci raccontavano, si ferma ai confini nazionali[239]; ma questo succedeva una volta.

In questi giorni, gli esperti della sicurezza nazionale si strappano i capelli a proposito della decisione dei repubblicani al Senato di bloccare un nuovo trattato sulle armi strategiche disperatamente indispensabile. E ognuno è al corrente che questi repubblicani si oppongono al trattato non a causa di obiezioni legittime, ma semplicemente perché si tratta di una iniziativa della amministrazione Obama: se il sabotaggio al presidente mette in pericolo la nazione, così sia.

Come andrà a finire? Obama sta ancora parlando di solidarietà bipartisan e può darsi che egli faccia sufficienti concessioni[240] per evitare il blocco del governo federale nella prossima primavera. Ma ogni tregua sarebbe soltanto temporanea; anche in questo caso, il GOP non è proprio interessato ad aiutare un governo di democratici.

La mia sensazione è che gran parte degli americani ancora non capiscano questa realtà. Essi si immaginano ancora che al momento in cui sarà indispensabile[241], i nostri politici si metteranno assieme per fare quanto è necessario. Ma quello era un altro paese.

E difficile vedere come questa situazione possa sboccarsi senza una grave crisi di un qualche genere. Il signor Simpson potrà avere o no il bagno di sangue che brama per il prossimo aprile, ma prima o poi il sangue scorrerà. E noi possiamo solo sperare che nella nazione che emergerà da quel bagno di sangue ci si possa ancora riconoscere[242].

 

 

 

Eating the Irish

By PAUL KRUGMAN
Published: November 25, 2010

What we need now is another Jonathan Swift.

Most people know Swift as the author of “Gulliver’s Travels.” But recent events have me thinking of his 1729 essay “A Modest Proposal,” in which he observed the dire poverty of the Irish, and offered a solution: sell the children as food. “I grant this food will be somewhat dear,” he admitted, but this would make it “very proper for landlords, who, as they have already devoured most of the parents, seem to have the best title to the children.”

 

O.K., these days it’s not the landlords, it’s the bankers — and they’re just impoverishing the populace, not eating it. But only a satirist — and one with a very savage pen — could do justice to what’s happening to Ireland now.

The Irish story began with a genuine economic miracle. But eventually this gave way to a speculative frenzy driven by runaway banks and real estate developers, all in a cozy relationship with leading politicians. The frenzy was financed with huge borrowing on the part of Irish banks, largely from banks in other European nations.

Then the bubble burst, and those banks faced huge losses. You might have expected those who lent money to the banks to share in the losses. After all, they were consenting adults, and if they failed to understand the risks they were taking that was nobody’s fault but their own. But, no, the Irish government stepped in to guarantee the banks’ debt, turning private losses into public obligations.

Before the bank bust, Ireland had little public debt. But with taxpayers suddenly on the hook for gigantic bank losses, even as revenues plunged, the nation’s creditworthiness was put in doubt. So Ireland tried to reassure the markets with a harsh program of spending cuts.

 

Step back for a minute and think about that. These debts were incurred, not to pay for public programs, but by private wheeler-dealers seeking nothing but their own profit. Yet ordinary Irish citizens are now bearing the burden of those debts.

Or to be more accurate, they’re bearing a burden much larger than the debt — because those spending cuts have caused a severe recession so that in addition to taking on the banks’ debts, the Irish are suffering from plunging incomes and high unemployment.

But there is no alternative, say the serious people: all of this is necessary to restore confidence.

Strange to say, however, confidence is not improving. On the contrary: investors have noticed that all those austerity measures are depressing the Irish economy — and are fleeing Irish debt because of that economic weakness.

Now what? Last weekend Ireland and its neighbors put together what has been widely described as a “bailout.” But what really happened was that the Irish government promised to impose even more pain, in return for a credit line — a credit line that would presumably give Ireland more time to, um, restore confidence. Markets, understandably, were not impressed: interest rates on Irish bonds have risen even further.

 

Does it really have to be this way?

In early 2009, a joke was making the rounds: “What’s the difference between Iceland and Ireland? Answer: One letter and about six months.” This was supposed to be gallows humor. No matter how bad the Irish situation, it couldn’t be compared with the utter disaster that was Iceland.

But at this point Iceland seems, if anything, to be doing better than its near-namesake. Its economic slump was no deeper than Ireland’s, its job losses were less severe and it seems better positioned for recovery. In fact, investors now appear to consider Iceland’s debt safer than Ireland’s. How is that possible?

Part of the answer is that Iceland let foreign lenders to its runaway banks pay the price of their poor judgment, rather than putting its own taxpayers on the line to guarantee bad private debts. As the International Monetary Fund notes — approvingly! — “private sector bankruptcies have led to a marked decline in external debt.” Meanwhile, Iceland helped avoid a financial panic in part by imposing temporary capital controls — that is, by limiting the ability of residents to pull funds out of the country.

 

 

And Iceland has also benefited from the fact that, unlike Ireland, it still has its own currency; devaluation of the krona, which has made Iceland’s exports more competitive, has been an important factor in limiting the depth of Iceland’s slump.

None of these heterodox options are available to Ireland, say the wise heads. Ireland, they say, must continue to inflict pain on its citizens — because to do anything else would fatally undermine confidence.

But Ireland is now in its third year of austerity, and confidence just keeps draining away. And you have to wonder what it will take for serious people to realize that punishing the populace for the bankers’ sins is worse than a crime; it’s a mistake.

 

Mangiare l’irlandese, di Paul Krugman

New York Times 25 novembre 2010

 

 

Quello di cui abbiamo bisogno in questo momento è un altro Jonathan Swift.

Molte persone conoscono Swift come l’autore dei “Viaggi di Gulliver”. Ma gli eventi recenti mi hanno fatto pensare al suo saggio del 1729 “Una modesta proposta”, nel quale egli considerava la terribile povertà degli Irlandesi e proponeva una soluzione: vendere i bambini come cibo. “Riconosco che questo cibo sarebbe quanto di più caro abbiamo”, ammetteva, ma sarebbe risultato “del tutto appropriato per i proprietari terrieri, i quali, nello stesso modo in cui hanno già divorato gran parte dei genitori, pare che siano nella migliore condizione per pretendere i bambini”.

E’ vero, di questi tempi non si tratta di proprietari terrieri, ma di banchieri – e non hanno mangiato la popolazione, l’hanno soltanto impoverita. Ma solo un uomo di satira – ed uno con una penna davvero feroce – potrebbe fare giustizia per quanto sta accadendo attualmente in Irlanda.

La storia dell’Irlanda ha avuto inizio con un genuino miracolo economico. Ma effettivamente questo ha dato vita ad una frenesia speculativa guidata da banche fuori controllo e da agenti immobiliari, tutti in affabili relazioni con uomini politici al potere. La frenesia è stata finanziata con ampi prestiti sul versante delle banche irlandesi, in gran parte provenienti da banche di altre nazioni europee.

Poi è scoppiata la bolla, e quelle banche hanno dovuto fare i conti con grandi perdite. Vi sareste aspettati che coloro che avevano prestato denaro alle banche partecipassero alle perdite. Dopotutto, si trattava di adulti consenzienti, e se avevano sbagliato nel valutare i rischi che si erano assunti, la colpa non era di nessun altro che di loro stessi. Invece no, il governo irlandese è intervenuto a garanzia del debito delle banche, trasformando perdite private in obbligazioni pubbliche.

Prima del fallimento bancario, l’Irlanda aveva un piccolo debito pubblico. Ma una volta che i contribuenti sono finiti appesi al gancio delle gigantesche perdite delle banche, anche le entrate sono crollate e la affidabilità della nazione è stata messa in dubbio. Così l’Irlanda ha provato a rassicurare i mercati con un severo programma di tagli alle spese.

Facciamo una pausa e riflettiamo. Questi debiti erano intervenuti non al seguito del pagamento di programmi pubblici, ma a causa di affaristi privati che avevano cercato niente altro che il loro profitto. Tuttavia i comuni cittadini irlandesi ora portano il fardello di quei debiti.

O, per essere più precisi, essi portano un peso molto più grande del debito – giacché quei tagli della spesa hanno provocato una grave recessione, cosicché in aggiunta al farsi carico dei debiti delle banche, gli Irlandesi stanno soffrendo di un crollo dei redditi e di una elevata disoccupazione.

 

Ma non c’è alcuna alternativa, dicono le ‘persone serie’: tutto questo è necessario perché si riacquisti la fiducia.

 

Tuttavia, strano a dirsi, la fiducia non sta migliorando. Al contrario, gli investitori si sono accorti che tutte quelle misure di austerità stanno deprimendo l’economia irlandese, e stano scappando dalle obbligazioni sul debito dell’Irlanda a causa della sua debolezza economica.

E adesso cosa accade? Lo scorso fine settimana l’Irlanda ed i suoi vicini hanno messo insieme quello che è stato generalmente descritto come un “salvataggio”. Ma quello che effettivamente è avvenuto è che il governo irlandese ha promesso di imporre restrizioni ancora più dolorose, in cambio di una linea di credito – linea di credito che presumibilmente darà all’Irlanda più tempo, si fa per dire, per ripristinare la fiducia. I mercati, comprensibilmente, non si sono impressionati: i tassi di interesse sui bonds irlandesi sono scesi persino più in basso.

Deve proprio essere questo il modo?

Agli inizi del 2009, andava di moda una battuta: “Qual è la differenza tra l’Islanda e l’Irlanda? Risposta: una lettera e all’incirca sei mesi”. Si pensava che fosse umorismo macabro. A prescindere da quanto fosse seria la situazione irlandese, essa non poteva essere paragonata a quel disastro assoluto che era l’Islanda.

Ma a questo punto l’Islanda sembra, semmai, star meglio del suo omonimo vicino. Il suo crollo economico non è stato più profondo di quello dell’Irlanda, le sue perdite di posti di lavoro sono state meno gravi ed essa sembra meglio posizionata per una ripresa. Di fatto, gli investitori paiono considerare il debito dell’Islanda più sicuro di quello dell’Irlanda. Come è possibile?

In parte la risposta consiste nel fatto che l’Islanda ha fatto in modo che i prestatori stranieri alle sue banche fuori controllo pagassero il prezzo del proprio incauto giudizio, piuttosto che caricarlo sui propri contribuenti all’insegna di una garanzia sui cattivi debiti dei privati. Come nota il Fondo Monetario Internazionale –  con espressioni di approvazione! – “le bancarotte del settore privato hanno portato ad un marcato declino del debito verso l’esterno”. Nel frattempo, l’Islanda ha contribuito ad evitare una situazione di panico finanziario in una certa misura attraverso l’imposizione di controlli temporanei sui capitali – ovvero, limitando la possibilità per i residenti di portare le proprie disponibilità fuori dal paese.       

E l’Islanda ha anche beneficiato del fatto che, diversamente dall’Irlanda, essa ha ancora una propria valuta; la svalutazione della corona, che ha reso le esportazioni dell’Islanda più competitive, è stata un fattore importante nel limitare la profondità della caduta dell’Islanda.

Dicono i benpensanti che nessuna di queste opzioni eterodosse sia disponibile nel caso dell’Irlanda. L’Irlanda, dicono, deve continuare ad infliggere sofferenze ai suoi cittadini, giacché fare qualcosa d’altro minerebbe fatalmente la fiducia.

Ma l’Irlanda è adesso al suo terzo anno di austerità, e per l’appunto la fiducia continua a ridursi. C’è da chiedersi che cosa ci vorrà perché le ‘persone serie’[243] comprendano che punire le popolazioni per i peccati dei banchieri è peggio di un crimine: è uno sbaglio.  

 

 

 

The Spanish Prisoner

By PAUL KRUGMAN
Published: November 28, 2010

The best thing about the Irish right now is that there are so few of them. By itself, Ireland can’t do all that much damage to Europe’s prospects. The same can be said of Greece and of Portugal, which is widely regarded as the next potential domino.

But then there’s Spain. The others are tapas; Spain is the main course.

What’s striking about Spain, from an American perspective, is how much its economic story resembles our own. Like America, Spain experienced a huge property bubble, accompanied by a huge rise in private-sector debt. Like America, Spain fell into recession when that bubble burst, and has experienced a surge in unemployment. And like America, Spain has seen its budget deficit balloon thanks to plunging revenues and recession-related costs.

But unlike America, Spain is on the edge of a debt crisis. The U.S. government is having no trouble financing its deficit, with interest rates on long-term federal debt under 3 percent. Spain, by contrast, has seen its borrowing cost shoot up in recent weeks, reflecting growing fears of a possible future default.

Why is Spain in so much trouble? In a word, it’s the euro.

Spain was among the most enthusiastic adopters of the euro back in 1999, when the currency was introduced. And for a while things seemed to go swimmingly: European funds poured into Spain, powering private-sector spending, and the Spanish economy experienced rapid growth.

Through the good years, by the way, the Spanish government appeared to be a model of both fiscal and financial responsibility: unlike Greece, it ran budget surpluses, and unlike Ireland, it tried hard (though with only partial success) to regulate its banks. At the end of 2007 Spain’s public debt, as a share of the economy, was only about half as high as Germany’s, and even now its banks are in nowhere near as bad shape as Ireland’s.

 

But problems were developing under the surface. During the boom, prices and wages rose more rapidly in Spain than in the rest of Europe, helping to feed a large trade deficit. And when the bubble burst, Spanish industry was left with costs that made it uncompetitive with other nations.

 

Now what? If Spain still had its own currency, like the United States — or like Britain, which shares some of the same characteristics — it could have let that currency fall, making its industry competitive again. But with Spain on the euro, that option isn’t available. Instead, Spain must achieve “internal devaluation”: it must cut wages and prices until its costs are back in line with its neighbors.

And internal devaluation is an ugly affair. For one thing, it’s slow: it normally take years of high unemployment to push wages down. Beyond that, falling wages mean falling incomes, while debt stays the same. So internal devaluation worsens the private sector’s debt problems.

What all this means for Spain is very poor economic prospects over the next few years. America’s recovery has been disappointing, especially in terms of jobs — but at least we’ve seen some growth, with real G.D.P. more or less back to its pre-crisis peak, and we can reasonably expect future growth to help bring our deficit under control. Spain, on the other hand, hasn’t recovered at all. And the lack of recovery translates into fears about Spain’s fiscal future.

 

Should Spain try to break out of this trap by leaving the euro, and re-establishing its own currency? Will it? The answer to both questions is, probably not. Spain would be better off now if it had never adopted the euro — but trying to leave would create a huge banking crisis, as depositors raced to move their money elsewhere. Unless there’s a catastrophic bank crisis anyway — which seems plausible for Greece and increasingly possible in Ireland, but unlikely though not impossible for Spain — it’s hard to see any Spanish government taking the risk of “de-euroizing.”

So Spain is in effect a prisoner of the euro, leaving it with no good options.

The good news about America is that we aren’t in that kind of trap: we still have our own currency, with all the flexibility that implies. By the way, so does Britain, whose deficits and debt are comparable to Spain’s, but which investors don’t see as a default risk.

 

The bad news about America is that a powerful political faction is trying to shackle the Federal Reserve, in effect removing the one big advantage we have over the suffering Spaniards. Republican attacks on the Fed — demands that it stop trying to promote economic recovery and focus instead on keeping the dollar strong and fighting the imaginary risks of inflation — amount to a demand that we voluntarily put ourselves in the Spanish prison.

Let’s hope that the Fed doesn’t listen. Things in America are bad, but they could be much worse. And if the hard-money faction gets its way, they will be.

 

Il prigioniero spagnolo, di Paul Krugman

New York Times 28 novembre 2010

 

La cosa migliore che si può dire dell’Irlanda è che sinora ci sono pochi casi come il suo. Da sola, l’Irlanda non può fare un gran danno alle prospettive dell’Europa. La stessa cosa si può dire della Grecia e del Portogallo, che è generalmente considerato il prossimo potenziale effetto domino.

Ma poi c’è la Spagna. Gli altri sono tapas: ma la Spagna è il piatto principale.[244]

Quello che colpisce della Spagna, dal punto di vista americano, è quanto la sua storia economica assomigli alla nostra. Come l’America, la Spagna ha avuto l’esperienza di una grande bolla immobiliare, accompagnata da una forte crescita del debito del settore privato. Come l’America, la Spagna è caduta nella recessione al momento in cui è scoppiata la bolla, e ha conosciuto una crescita della disoccupazione. E come l’America, la Spagna ha visto gonfiare il suo deficit di bilancio grazie alla caduta delle entrate ed ai costi connessi con la recessione.

Ma diversamente dall’America, la Spagna è alle soglie di una crisi del debito. Il governo americano non ha problemi a finanziare il suo deficit, con tassi di interesse sul debito federale a lungo termine sotto il 3 per cento. La Spagna, al contrario, ha visto il costo del suo indebitamento crescere rapidamente nelle settimane recenti, riflettendo una crescita dei timori di un futuro possibile default.

Perché la Spagna è in un guaio così grande? In una parola, a causa dell’euro.

La Spagna fu tra gli aderenti all’euro più entusiasti nel passato 1999, quando fu introdotta la valuta. E per un certo periodo sembrò che le cose andassero a meraviglia: fondi europei affluirono in Spagna, rinforzando gli investimenti nel settore privato, e l’economia spagnola conobbe una rapida crescita.

Negli anni buoni, di conseguenza, il governo spagnolo appariva come una modello di responsabilità finanziaria e fiscale: diversamente dalla Grecia, realizzava avanzi di bilancio e, diversamente dall’Irlanda, provò con forza (sebbene con un successo solo parziale) a dare regole alle sue banche. Alla fine del 2007 il debito pubblico della Spagna, come quota della sua economia, era soltanto una metà circa di quello tedesco, ed anche adesso le sue banche sono ben lontane dalle pessime condizioni di quelle irlandesi.

Ma i problemi crescevano sotto la superficie. Durante il boom, i prezzi e i salari erano cresciuti più rapidamente in Spagna che nel resto dell’Europa, contribuendo ad alimentare un vasto deficit della bilancia commerciale. E quando scoppiò la bolla, l’industria spagnola si ritrovò con costi che la rendevano non competitiva con le altre nazioni.

E a questo punto? Se la Spagna avesse ancora la sua valuta, come gli Stati Uniti – o come la Gran Bretagna, che condivide alcune caratteristiche simili – essa potrebbe lasciar cadere la sua moneta, rendendo le sue industrie nuovamente competitive. Ma con la Spagna nell’euro, questa possibilità non è a disposizione. La Spagna deve, piuttosto, ottenere una “svalutazione interna”: deve tagliare i salari ed i prezzi sino a che i suoi costi non tornino in linea con quelli dei suoi vicini.

E la svalutazione interna è un brutto affare. Da una parte è lenta: normalmente occorrono anni di elevata disoccupazione per abbassare i salari. Oltre a ciò, salari che diminuiscono significano redditi che diminuiscono, mentre il debito resta lo stesso. In tal modo la svalutazione interna peggiora i problemi del debito del settore privato.

Tutto questo comporta per la Spagna prospettiva economiche assai grame nei prossimi anni. La ripresa dell’America è stata deludente, specialmente in termini di costi di lavoro, ma alla fine noi abbiamo visto una qualche crescita, con il PIL che è tornato più o meno ai suoi livelli precedenti alla crisi, e possiamo ragionevolmente aspettarci che una futura crescita aiuti a mettere il deficit sotto controllo. La Spagna, per suo conto, non si è ripresa affatto. E l’assenza di una ripresa si traduce nelle paure per il futuro della finanza pubblica spagnola.

La Spagna dovrebbe cercare di uscire dalla sua trappola lasciando l’euro e ristabilendo una propria valuta? Lo farà? La risposta ad entrambe le domande è probabilmente negativa. La Spagna starebbe meglio di ora se non avesse mai adottato l’euro, ma provare ad uscirne provocherebbe una vasta crisi bancaria, dato che i possessori dei depositi correrebbero a spostare i loro soldi altrove. A meno che non avvenga una crisi catastrofica delle banche – che sembra plausibile nel caso della Grecia e sempre più possibile in quello dell’Irlanda, ma improbabile sebbene non impossibile per la Spagna – è difficile immaginare qualsiasi governo spagnolo assumersi il rischio di una uscita dall’euro[245].

La Spagna è, dunque, in effetti prigioniera dell’euro, che non le consente alcuna soluzione accettabile.

La buona notizia, per l’America, è che noi non siamo finiti in una trappola di quel genere: abbiamo ancora la nostra moneta, con tutta la flessibilità che ciò comporta. La stessa situazione è, per inciso, quella della Gran Bretagna, il cui deficit e debito sono paragonabili a quello della Spagna,  ma che gli investitori non vedono a rischio di default.

La cattiva notizia a proposito dell’America è che una potente fazione politica sta cercando di immobilizzare[246] la Federal Reserve, in sostanza eliminando il principale grande vantaggio che noi abbiamo nei confronti degli spagnoli in sofferenza. Gli attacchi dei Repubblicani alla Fed, le richieste che essa interrompa i suoi tentativi di promuovere un ripresa economica e si concentri piuttosto nel mantenere il dollaro forte e nel combattere i rischi immaginari di inflazione, coincidono in pratica con la richiesta che ci si metta volontariamente nella prigione spagnola.

Possiamo sperare che la Fed non dia ascolto. Le cose in America vanno male, ma potrebbero andar peggio. E se la fazione della moneta forte ottenessi i suoi scopi, questo è ciò che avverrebbe.

     

 

 

 

 

Freezing Out Hope

By PAUL KRUGMAN
Published: December 2, 2010

After the Democratic “shellacking” in the midterm elections, everyone wondered how President Obama would respond. Would he show what he was made of? Would he stand firm for the values he believes in, even in the face of political adversity?

On Monday, we got the answer: he announced a pay freeze for federal workers. This was an announcement that had it all. It was transparently cynical; it was trivial in scale, but misguided in direction; and by making the announcement, Mr. Obama effectively conceded the policy argument to the very people who are seeking — successfully, it seems — to destroy him.

So I guess we are, in fact, seeing what Mr. Obama is made of.

About that pay freeze: the president likes to talk about “teachable moments.” Well, in this case he seems eager to teach Americans something false.

The truth is that America’s long-run deficit problem has nothing at all to do with overpaid federal workers. For one thing, those workers aren’t overpaid. Federal salaries are, on average, somewhat less than those of private-sector workers with equivalent qualifications. And, anyway, employee pay is only a small fraction of federal expenses; even cutting the payroll in half would reduce total spending less than 3 percent.

So freezing federal pay is cynical deficit-reduction theater. It’s a (literally) cheap trick that only sounds impressive to people who don’t know anything about budget realities. The actual savings, about $5 billion over two years, are chump change given the scale of the deficit.

 

Anyway, slashing federal spending at a time when the economy is depressed is exactly the wrong thing to do. Just ask Federal Reserve officials, who have lately been more or less pleading for some help in their efforts to promote faster job growth.

Meanwhile, there’s a real deficit issue on the table: whether tax cuts for the wealthy will, as Republicans demand, be extended. Just as a reminder, over the next 75 years the cost of making those tax cuts permanent would be roughly equal to the entire expected financial shortfall of Social Security. Mr. Obama’s pay ploy might, just might, have been justified if he had used the announcement of a freeze as an occasion to take a strong stand against Republican demands — to declare that at a time when deficits are an important issue, tax breaks for the wealthiest aren’t acceptable.

 

 

But he didn’t. Instead, he apparently intended the pay freeze announcement as a peace gesture to Republicans the day before a bipartisan summit. At that meeting, Mr. Obama, who has faced two years of complete scorched-earth opposition, declared that he had failed to reach out sufficiently to his implacable enemies. He did not, as far as anyone knows, wear a sign on his back saying “Kick me,” although he might as well have.

There were no comparable gestures from the other side. Instead, Senate Republicans declared that none of the rest of the legislation on the table — legislation that includes such things as a strategic arms treaty that’s vital to national security — would be acted on until the tax-cut issue was resolved, presumably on their terms.

It’s hard to escape the impression that Republicans have taken Mr. Obama’s measure — that they’re calling his bluff in the belief that he can be counted on to fold. And it’s also hard to escape the impression that they’re right.

 

The real question is what Mr. Obama and his inner circle are thinking. Do they really believe, after all this time, that gestures of appeasement to the G.O.P. will elicit a good-faith response?

What’s even more puzzling is the apparent indifference of the Obama team to the effect of such gestures on their supporters. One would have expected a candidate who rode the enthusiasm of activists to an upset victory in the Democratic primary to realize that this enthusiasm was an important asset. Instead, however, Mr. Obama almost seems as if he’s trying, systematically, to disappoint his once-fervent supporters, to convince the people who put him where he is that they made an embarrassing mistake.

 

Whatever is going on inside the White House, from the outside it looks like moral collapse — a complete failure of purpose and loss of direction.

 

So what are Democrats to do? The answer, increasingly, seems to be that they’ll have to strike out on their own. In particular, Democrats in Congress still have the ability to put their opponents on the spot — as they did on Thursday when they forced a vote on extending middle-class tax cuts, putting Republicans in the awkward position of voting against the middle class to safeguard tax cuts for the rich.

It would be much easier, of course, for Democrats to draw a line if Mr. Obama would do his part. But all indications are that the party will have to look elsewhere for the leadership it needs.

 

La speranza congelata[247], di Paul Krugman

New York Times 2 dicembre 2010

 

Dopo la “batosta” dei Democratici alle elezioni di medio termine, ognuno era curioso di sapere come il Presidente Obama avrebbe risposto. Avrebbe dimostrato di che pasta era fatto? Sarebbe rimasto fermo nei suoi principi, anche di fronte alle avversità politiche?

Lunedì, abbiamo avuto la risposta: egli ha annunciato il congelamento degli stipendi per gli impiegati federali. In questo annuncio c’era tutto[248]. Era evidente il cinismo: insignificante nelle dimensioni, ma fuorviante nell’indirizzo; mentre con quell’annuncio Obama riconosceva gli argomenti politici proprio di coloro che avevano cercato – con successo, a quanto pare – di distruggerlo.

Cosicché suppongo che, in effetti, ci stiamo accorgendo di che pasta sia fatto Obama.

A proposito del congelamento degli stipendi: al presidente piace parlare di “momenti istruttivi”. Bene, in questo caso egli sembra ansioso di insegnare agli Americani quello che non corrisponde al vero.

La verità è che il deficit di lungo termine dell’America non ha, in fondo, niente a che fare con gli stipendi eccessivi degli impiegati federali. Da una parte, questi lavoratori non sono pagati eccessivamente. I salari federali sono, in media, qualcosa meno di quelli dei lavoratori privati con qualifiche equivalenti. E, in ogni modo, il pagamento degli stipendi è solo una piccola frazione delle spese federali; se anche si tagliassero della metà quegli stipendi si avrebbe una riduzione totale della spesa inferiore al 3 per cento.

Dunque, il congelamento degli stipendi federali  è una cinica sceneggiata di riduzione del deficit. E’ niente altro che un trucco a buon mercato che ha solo l’effetto di fare impressione a coloro che non sanno niente delle realtà del bilancio. I risparmi effettivi, circa 5 miliardi di dollari in due anni, sono un cambiamento insignificante[249] data la dimensione del deficit.

In ogni modo, tagliare la spesa federale nel momento in cui l’economia è depressa è esattamente la cosa sbagliata da fare. Basta chiederlo ai dirigenti della Federal Reserve, che di recente avevano più o meno fatto appello ad un qualche aiuto nei loro sforzi di promuovere un crescita più rapida dell’occupazione.

Nel frattempo, c’è una questione sul tavolo che attiene effettivamente al deficit: se saranno prorogati, come chiedono i Repubblicani, gli sgravi fiscali ai ricchi. Solo per memoria, nei prossimi 75 anni il costo derivante dal rendere permanenti quegli sgravi sarebbe grosso modo identico all’intero ammanco finanziario previsto per la Sicurezza Sociale[250]. La manovra di Obama sugli stipendi potrebbe, solo potrebbe, essere giustificata se egli avesse utilizzato quell’annuncio del congelamento per prendere una posizione ferma contro le richieste dei Repubblicani, per dichiarare che in un periodo nel quale i deficit sono un problema importante, esenzioni fiscali per i ricchi non sono accettabili.

Non è quello che ha fatto. Piuttosto, egli è sembrato presentare il congelamento degli stipendi come un gesto di pace verso i Repubblicani alla vigilia dell’incontro al vertice tra i due partiti. A quell’incontro, Obama, che ha fronteggiato per due anni una opposizione che faceva terra-bruciata, ha dichiarato di aver avuto il difetto di una attenzione insufficiente[251] nei confronti di questi nemici implacabili. Egli non aveva, per quanto se ne sa, un cartello sulla schiena con su scritto[252] “prendetemi a calci”, sebbene avrebbe potuto benissimo averlo.

Sull’altro versante, non ci sono stati gesti analoghi. Piuttosto, i Repubblicani del Senato hanno dichiarato che niente della restante legislazione che è sul tavolo – legislazione che include questioni quali il trattato sulle armi strategiche che è vitale per la sicurezza nazionale – potrà essere avviata a soluzione sinché la questione dei tagli fiscali non sarà risolta, presumibilmente alle loro condizioni.

E’ difficile sfuggire all’impressione che i Repubblicani abbiano preso le misure di Obama, che essi stiano andando a vedere il suo bluff nella convinzione che si possa confidare che egli lasci il gioco[253]. Ed è anche difficile sfuggire all’impressione che abbiano ragione.

La vera domanda è che cosa Obama ed il suo gruppo ristretto di collaboratori stiano pensando. Credono davvero, dopo tutto questo tempo, che gesti di riappacificazione con il GOP provocheranno risposte in buona fede?

Quello che è ancora più misterioso è l’apparente indifferenza del gruppo di Obama sugli effetti di gesti del genere presso i loro sostenitori. Ci si sarebbe aspettati da un candidato che aveva cavalcato l’entusiasmo degli attivisti verso una sconvolgente vittoria alle primarie democratiche, che egli comprendesse che questo entusiasmo era un bene importante. Invece, nonostante ciò, sembra quasi che Obama stia cercando di deludere in modo sistematico i suoi ferventi sostenitori di un tempo, allo scopo di convincere la gente che lo ha messo a quel posto di aver fatto uno sbaglio imbarazzante.

Qualsiasi cosa stia succedendo all’interno della Casa Bianca, all’esterno essa assomiglia ad una sorta di collasso morale, un fallimento completo di intenzioni ed uno smarrimento della direzione.

Cosa hanno intenzione di fare, dunque, i Democratici? La risposta sembra essere sempre di più quella secondo la quale dovranno cavarsela da soli[254]. In particolare, i Democratici al Congresso hanno ancora la capacità di mettere alle strette i loro avversari – come hanno fatto quando hanno costretto ad un voto sul prolungamento dei tagli fiscali alle classi medie, mettendo i repubblicani nella imbarazzante posizione di votare contro le classi medie per salvaguardare gli sgravi fiscali ai ricchi.

Per i Democratici sarebbe molti più facile, naturalmente, prendere un indirizzo[255] se Obama facesse la sua parte. Ma tutti i segnali dicono che il partito dovrà cercare da qualche altra parte la guida di cui ha bisogno. 

 

 

 

 

 

Let’s Not Make a Deal

By PAUL KRUGMAN
Published: December 5, 2010

Back in 2001, former President George W. Bush pulled a fast one. He wanted to enact an irresponsible tax cut, largely for the benefit of the wealthiest Americans. But there were Senate rules in place designed to prevent that kind of irresponsibility. So Mr. Bush evaded the rules by making the tax cut temporary, with the whole thing scheduled to expire on the last day of 2010.

 

The plan, of course, was to come back later and make the thing permanent, never mind the impact on the deficit. But that never happened. And so here we are, with 2010 almost over and nothing resolved.

Democrats have tried to push a compromise: let tax cuts for the wealthy expire, but extend tax cuts for the middle class. Republicans, however, are having none of it. They have been filibustering Democratic attempts to separate tax cuts that mainly benefit a tiny group of wealthy Americans from those that mainly help the middle class. It’s all or nothing, they say: all the Bush tax cuts must be extended. What should Democrats do?

 

The answer is that they should just say no. If G.O.P. intransigence means that taxes rise at the end of this month, so be it.

Think about the logic of the situation. Right now, the Republicans see themselves as successful blackmailers, holding a clear upper hand. President Obama, they believe, wouldn’t dare preside over a broad tax increase while the economy is depressed. And they therefore believe that he will give in to their demands.

But while raising taxes when unemployment is high is a bad thing, there are worse things. And a cold, hard look at the consequences of giving in to the G.O.P. now suggests that saying no, and letting the Bush tax cuts expire on schedule, is the lesser of two evils.

 

Bear in mind that Republicans want to make those tax cuts permanent. They might agree to a two- or three-year extension — but only because they believe that this would set up the conditions for a permanent extension later. And they may well be right: if tax-cut blackmail works now, why shouldn’t it work again later?

America, however, cannot afford to make those cuts permanent. We’re talking about almost $4 trillion in lost revenue just over the next decade; over the next 75 years, the revenue loss would be more than three times the entire projected Social Security shortfall. So giving in to Republican demands would mean risking a major fiscal crisis — a crisis that could be resolved only by making savage cuts in federal spending.

 

And we’re not talking about government programs nobody cares about: the only way to cut spending enough to pay for the Bush tax cuts in the long run would be to dismantle large parts of Social Security and Medicare.

So the potential cost of giving in to Republican demands is high. What about the costs of letting the tax cuts expire? To be sure, letting taxes rise in a depressed economy would do damage — but not as much as many people seem to think.

A few months ago, the Congressional Budget Office released a report on the impact of various tax options. A two-year extension of the Bush tax cuts, it estimated, would lower the unemployment rate next year by between 0.1 and 0.3 percentage points compared with what it would be if the tax cuts were allowed to expire; the effect would be about twice as large in 2012. Those are significant numbers, but not huge — certainly not enough to justify the apocalyptic rhetoric one often hears about what will happen if the tax cuts are allowed to end on schedule.

 

Oh, and what about confidence? I’ve been skeptical about claims that budget deficits hurt the economy even in the short run, because they undermine confidence in the government’s long-run solvency. Advanced countries, I’ve argued, have a lot of fiscal leeway. But anything that makes permanent extension of obviously irresponsible tax cuts more likely also sends a strong signal to investors: it says, “Hey, we aren’t really an advanced country; we’re a banana republic!” And that can’t be good for the economy.

 

 

Last but not least: if Democrats give in to the blackmailers now, they’ll just face more demands in the future. As long as Republicans believe that Mr. Obama will do anything to avoid short-term pain, they’ll have every incentive to keep taking hostages. If the president will endanger America’s fiscal future to avoid a tax increase, what will he give to avoid a government shutdown?

So Mr. Obama should draw a line in the sand, right here, right now. If Republicans hold out, and taxes go up, he should tell the nation the truth, and denounce the blackmail attempt for what it is.

 

Yes, letting taxes go up would be politically risky. But giving in would be risky, too — especially for a president whom voters are starting to write off as a man too timid to take a stand. Now is the time for him to prove them wrong.

 

Non facciamo accordi, di Paul Krugman

New York Times, 5 dicembre 2010

 

Nel passato 2001, il precedente Presidente George W. Bush perpetrò un inganno[256]. Egli voleva varare un irresponsabile provvedimento di sgravi fiscali, in larga parte a beneficio degli americani più ricchi. Ma al Senato vigevano regole intese a prevenire irresponsabilità di tal genere. Dunque il signor Bush eluse quelle regole rendendo gli sgravi fiscali temporanei: l’intero provvedimento era destinato ad esaurirsi con l’ultimo giorno del 2010.

Naturalmente, il progetto era di tornarci sopra in un secondo tempo e di rendere la cosa permanente, senza curarsi dell’impatto sul deficit. Sennonché ciò non è mai accaduto. E così siamo a questo punto, con il 2010 quasi terminato e niente che sia stato risolto.

I Democratici hanno provato a proporre un compromesso: lasciare che gli sgravi fiscali per i ricchi vadano ad esaurimento, ma prorogarli per i ceti medi. I Repubblicani, tuttavia, non ne vogliono sapere. Essi hanno fatto ostruzionismo ai tentativi dei democratici di separare gli sgravi che principalmente recano beneficio ad un esiguo gruppo di americani più ricchi da quelli che fondamentalmente aiutano i ceti medi. O tutto o niente, hanno detto: tutti gli sgravi fiscali di Bush debbono essere prorogati. Cosa dovrebbero fare i Democratici?

La risposta è che dovrebbero opporre un rifiuto. Se l’intransigenza del GOP comporta che ci sarà un incremento delle tasse alla fine di questo mese, così sia.

Si pensi alla sostanza della situazione. A questo punto i Repubblicani ritengono di poter avere successo nel loro ricatto, avendo il coltello dalla parte del manico[257]. Il Presidente Obama, ritengono, non oserebbe consentire[258] un generale incremento fiscale nel mentre l’economia è depressa. Di conseguenza, credono che egli cederà alla loro richieste.

Ma se incrementi fiscali in un periodo di elevata disoccupazione sono una cosa cattiva, ci sono cose peggiori. E una fredda e severa valutazione delle conseguenze di un cedimento al GOP, in questo momento suggerisce che dire di no, e lasciare che gli sgravi fiscali si esauriscano alla scadenza, sia il minore dei due mali.

Si tenga a mente che i Repubblicani vogliono rendere quegli sgravi permanenti. Essi potrebbero concordare con una estensione di due o tre anni – ma soltanto perché credono che questo preparerebbe le condizioni per una proroga permanente in seguito. Ed è probabile che abbiano ragione: se il ricatto sugli sgravi fiscali funziona oggi, perché non dovrebbe funzionare anche in un secondo tempo?

L’America, tuttavia, non può permettersi di rendere questi sgravi permanenti. Si sta parlando di circa 4 mila miliardi di dollari di entrate perse soltanto nel prossimo decennio; nel corso dei prossimi 75 anni, la perdita di entrate sarebbe superiore a tre volte l’intero previsto sbilancio del programma di Sicurezza Sociale[259]. In tal modo, cedere alle richieste dei Repubblicani significherebbe correre il rischio di una grave crisi fiscale – una crisi che potrebbe essere risolta solo attraverso tagli selvaggi alla spesa federale.

E non stiamo ragionando di programmi governativi che non interessano nessuno: nel lungo periodo, l’unico modo per tagliare spese a sufficienza per pagare gli sgravi fiscali di Bush sarebbe smantellare larga parte dei programmi di Sicurezza Sociale e di Medicare.

Dunque, il costo potenziale del cedere alle richieste dei Repubblicani è alto. Che dire del costo di lasciar esaurire gli sgravi fiscali? E’ certo che consentire incrementi fiscali in un’economia depressa provocherebbe un danno, ma non così grande come molte persone sembrano ritenere.

Pochi mesi orsono, il Congressional Budget Office rilasciò un rapporto sull’impatto delle varie opzioni fiscali. Esso stimava che una estensione di due anni degli sgravi fiscali di Bush, avrebbe abbassato il tasso di disoccupazione del prossimo anno di una percentuale tra 0,1 e 0,3 punti, in confronto con quanto avverrebbe se si facesse esaurire l’efficacia degli sgravi; l’effetto sarebbe circa due volte più ampio nel 2012. Si tratta di numeri significativi, ma non enormi – certamente non tali da giustificare la retorica apocalittica che spesso si ascolta a proposito di quello che accadrebbe se si consentisse agli sgravi fiscali di andare a termine.

Che dire, infine, a proposito della fiducia degli investitori? Io sono stato scettico sulle pretese secondo le quali i deficit di bilancio avrebbero danneggiato l’economia anche nel breve termine, in quanto minano le fiducia nella solvibilità a lungo termine della amministrazione pubblica. I paesi avanzati, ho sostenuto, hanno ampi margini di manovra finanziari. Ma è anche probabile che ogni cosa che renda permanente l’estensione di sgravi fiscali evidentemente irresponsabili, invii un segnale forte agli investitori: essa dice loro: “Guardate, in realtà non siamo un paese avanzato, siamo una ‘repubblica delle banane’!” E questo non può essere positivo per l’economia.

Da ultimo ma non per ultimo: se i Democratici cedono ai ricattatori oggi, essi si troveranno semplicemente dinanzi a maggior richieste in futuro. Nella misura in cui i Repubblicani si convincono che Obama farà ogni cosa per evitare sofferenze nel breve periodo, essi si sentiranno incentivati in ogni modo nel continuare a fare ostaggi. Se il Presidente metterà a rischio il futuro della finanza pubblica americana per vitare un aumento delle tasse, cosa sarà disposto a dare per evitare una paralisi governativa[260]?

Dunque, Obama dovrebbe proprio qua e proprio in questo momento tracciare una linea di demarcazione. Se i Repubblicani insistono, e le tasse crescono, egli dovrebbe dire la verità alla Nazione e denunciare il tentativo di ricatto per quello che è.

E’ vero, lasciar crescere le tasse sarebbe in termini politici un rischio. Ma anche cedere sarebbe rischioso, specialmente per un Presidente che comincia ad essere considerato spacciato dai propri elettori,  in quanto uomo troppo timoroso di prendere posizione. E’ ora il momento per lui di provare che si sbagliano.

 

 

 

 

Obama’s Hostage Deal

By PAUL KRUGMAN
Published: December 9, 2010

I’ve spent the past couple of days trying to make my peace with the Obama-McConnell tax-cut deal. President Obama did, after all, extract more concessions than most of us expected.

Yet I remain deeply uneasy — not because I’m one of those “purists” Mr. Obama denounced on Tuesday but because this isn’t the end of the story. Specifically: Mr. Obama has bought the release of some hostages only by providing the G.O.P. with new hostages.

About the deal: Republicans got what they wanted — an extension of all the Bush tax cuts, including those for the wealthy. This part of the deal was bad all around. Yes, some of those tax cuts would be spent, boosting the economy to some extent. But a large part of the tax cuts, especially those for the wealthy, would not be spent, so the tax-cut extension increases the budget deficit a lot while doing little to reduce unemployment.

And by stringing things along, the extension increases the chances that the Bush tax cuts will be made permanent, with devastating effects on the budget and the long-term prospects for Social Security and Medicare.

In return for this bad stuff, Mr. Obama got a significant amount of short-term stimulus. Unemployment benefits were extended; there was a temporary cut in the payroll tax; and there were tax breaks for investment. Incidentally: how, exactly, did we get to the point where Democrats must plead with Republicans to accept lower corporate taxes?

 

Unemployment benefits aside, all of this is very much second-best policy: consumers would probably spend only part of the payroll tax break, and it’s unclear whether the business break would do much to spur investment given the excess capacity in the economy. Still, it would be a noticeable net positive for the economy next year.

But here’s the thing: while the bad stuff in the deal lasts for two years, the not-so-bad stuff expires at the end of 2011. This means that we’re talking about a boost to growth next year — but growth in 2012 that would actually be slower than in the absence of the deal.

This has big political implications. Political scientists tell us that voting is much more strongly affected by the economy’s direction in the year or less preceding an election than by how well the nation is doing in some absolute sense.

When Ronald Reagan ran for re-election in 1984, the unemployment rate was almost exactly the same as it had been just before the 1980 election — but because the economic trend in 1980 was down while the trend in 1984 was up, an unemployment rate that spelled defeat for Jimmy Carter translated into landslide victory for Reagan.

 

This political reality makes the tax deal a bad bargain for Democrats. Think of it this way: The deal essentially sets up 2011-2012 to be a repeat of 2009-2010. Once again, there would be initial benefits from the stimulus, and decent growth a year before the election. But as the stimulus faded, growth would tend to stall — and this stall would, once again, come in the months leading up to the election, with seriously negative consequences for Mr. Obama and his party.

You may say that economic policy shouldn’t be affected by partisan considerations. But even if you believe that — how’s the weather on your planet? — you have to consider the situation likely to prevail a year from now, as the good parts of the Obama-McConnell deal are about to expire. Wouldn’t there be pressure on Democrats to offer Republicans something, anything, to improve economic prospects for 2012? And wouldn’t that be a recipe for another bad deal?

 

 

Surely the answer to both questions is yes. And that means that Mr. Obama is, as I said, paying for the release of some hostages — getting an extension of unemployment benefits and some more stimulus — by giving Republicans new hostages, which they may well use to make new, destructive demands a year from now.

One big concern: Republicans may try using the prospect of a rise in the payroll tax to undermine Social Security finances.

Which brings me back to Mr. Obama’s press conference, where — showing much more passion than he seems able to muster against Republicans — he denounced purists on the left, who supposedly refuse to accept compromises in the national interest.

 

Well, concerns about the tax deal reflect realism, not purism: Mr. Obama is setting up another hostage situation a year down the road. And given that fact, the last thing we need is the kind of self-indulgent behavior he showed by lashing out at progressives who he feels aren’t giving him enough credit.

 

The point is that by seeming angrier at worried supporters than he is at the hostage-takers, Mr. Obama is already signaling weakness, giving Republicans every reason to believe that they can extract another ransom.

 

And they can be counted on to act accordingly.

 

L’accordo ostaggio di Obama, di Paul Krugman

New York Times 9 dicembre 2010

 

Ho passato gli ultimi due giorni a cercare di riappacificarmi con l’accordo sugli sgravi fiscali Obama-McConnel.  Dopo tutto, il Presidente Obama aveva ottenuto maggiori concessioni di quanto la maggior parte di noi si aspettasse.

Tuttavia resto profondamente a disagio, e non perché io sia uno di quei “puristi” che Obama ha denunciato giovedì, ma perché quella storia non finisce qua. Più precisamente: Obama ha pagato per il rilascio di alcuni ostaggi offrendo al GOP nuovi ostaggi.

A proposito dell’accordo: i Repubblicani hanno ottenuto quanto volevano, una proroga di tutti gli sgravi fiscali di Bush, inclusi quelli per i più ricchi. E’ vero, una parte di quegli sgravi fiscali saranno spesi[261], in qualche misura dando una spinta all’economia. Ma una larga parte di quei tagli fiscali non sarà spesa, cosicché la proroga degli sgravi aumenterà il deficit di bilancio per un certo periodo, nel mentre non avrà effetto nel ridurre la disoccupazione.

E, tirando le cose in avanti[262], la proroga accrescerà la possibilità che gli sgravi fiscali di Bush vengano resi permanenti, con effetti devastanti sul bilancio e sulle prospettive a lungo termine della Sicurezza Sociale e di Medicare.

In cambio di questa robaccia, Obama ha ottenuto interventi di stimolo sull’economia nel breve termine per una quantità  significativa. I benefici di disoccupazione sono stati prorogati; c’è stato un taglio temporaneo delle tasse sui salari e ci sono stati sgravi fiscali per gli investimenti. Tra parentesi: in che modo, esattamente, siamo arrivati al punto che i Democratici devono supplicare i Repubblicani perché accettino tasse più basse per le imprese?

A prescindere dai sussidi di disoccupazione, tutto ciò costituisce di gran lunga il secondo risultato politico[263]: i consumatori probabilmente spenderanno solo in parte le esenzioni fiscali sugli stipendi, e non è chiaro se gli sgravi sull’impresa stimoleranno gli investimenti, considerato l’eccesso di capacità produttiva dell’economia. Tuttavia, l’anno futuro ci sarà un evidente saldo positivo.

Ma qua è il punto: mentre l’aspetto negativo dell’accordo durerà per due anni, quello meno negativo andrà ad esaurimento alla fine del 2011. Questo significa che stiamo parlando di una spinta alla crescita per il prossimo anno, ma la crescita nel 2012 sarà effettivamente più lenta in assenza dell’accordo.

Questo ha grandi implicazioni politiche. I politologi ci dicono che il voto è influenzato in modo molto più forte dall’indirizzo dell’economia, grossomodo nell’anno che precede una elezione, che non da quanto una nazione stia ottenendo buoni risultati in senso assoluto.

Quando Ronald Reagan si mise in corsa per la rielezione nel 1984, il tasso di disoccupazione era quasi esattamente lo stesso che era stato appena prima delle elezioni del 1980; ma poiché la tendenza economica nel 1980 era negativa mentre nel 1984 era positiva, un tasso di disoccupazione che aveva comportato la sconfitta per Jimmy Carter si trasformò in una vittoria schiacciante per Reagan.

Questa realtà politica rende l’accordo sulle tasse un affare non conveniente per i Democratici. Guardiamola in questo modo: l’accordo fondamentalmente configura il biennio 2011-2012 come una ripetizione del 2009-2010. Ancora una volta ci saranno i benefici iniziali dallo stimolo, e una crescita decente l’anno precedente alle elezioni. Ma come lo stimolo svanirà, la crescita tenderà a ristagnare, e questo stallo ancora una volta giungerà nei mesi che precedono le elezioni, con conseguenze seriamente negative per Obama e il suo partito.

Si può dire che la politica economica non dovrebbe essere influenzata da considerazioni di parte. Ma anche se la pensate così – a proposito, che aria tira sul vostro pianeta? – dovete considerare la situazione che probabilmente prevarrà ad un anno da oggi, quando gli aspetti positivi dell’accordo Obama-McConnell si estingueranno. Non ci sarà sui Democratici una spinta ad offrire qualcosa, qualsiasi cosa, ai Repubblicani, in modo da migliorare le prospettive economiche del 2012? E questa non sarà una ricetta per un ulteriore cattivo accordo?

E’ certo che la risposta ad ambedue le domande è positiva. Obama, come ho detto, sta pagando il prezzo del rilascio di alcuni ostaggi, ottenendo una proroga dei sussidi di disoccupazione e qualche ulteriore stimolo all’economia attraverso la consegna ai Repubblicani di altri ostaggi, che essi potranno ben utilizzare per avanzare nuove richieste distruttive, ad un anno da oggi.

Un grande preoccupazione su tutte: i Repubblicani potranno cercare di utilizzare la prospettiva di una crescita delle tasse sugli stipendi per scalzare finanziariamente il programma previdenziale.

La qualcosa mi riporta alla conferenza stampa di Obama, nel corso della quale – mostrando una passione molto superiore di quella che egli sembra capace di mettere assieme nel contrastare i Repubblicani – egli ha denunciato i puristi della sinistra, che si suppone rifiutino compromessi nell’interesse della nazione.

Ebbene, le preoccupazioni sull’accordo riflettono il realismo, non il purismo: Obama sta predisponendo un’altra emergenza-ostaggi di qua ad un anno. E, in considerazione di questo dato di fatto, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è quel genere di comportamento auto-assolutorio di cui ha dato prova attaccando i progressisti, che egli ha la sensazione non gli diano sufficiente credito.

Il fatto è che apparendo più arrabbiato con i suoi preoccupati sostenitori di quanto non lo sia nei confronti di coloro che lo ricattano[264], Obama sta già mostrando debolezza, ed offre ai Repubblicani tutte le ragioni per credere di poter mettere a segno un nuovo riscatto.

E si può ben ritenere che essi si comporteranno di conseguenza.

 

   

 

 

 

 

Block Those Metaphors

By PAUL KRUGMAN
Published: December 12, 2010

Like it or not — and I don’t — the Obama-McConnell tax-cut deal, with its mixture of very bad stuff and sort-of-kind-of good stuff, is likely to pass Congress. Then what?

 

The deal will, without question, give the economy a short-term boost. The prevailing view, as far as I can tell — and that includes within the Obama administration — is that this short-term boost is all we need. The deal, we’re told, will jump-start the economy; it will give a fragile recovery time to strengthen.

I say, block those metaphors. America’s economy isn’t a stalled car, nor is it an invalid who will soon return to health if he gets a bit more rest. Our problems are longer-term than either metaphor implies.

 

And bad metaphors make for bad policy. The idea that the economic engine is going to catch or the patient rise from his sickbed any day now encourages policy makers to settle for sloppy, short-term measures when the economy really needs well-designed, sustained support.

 

The root of our current troubles lies in the debt American families ran up during the Bush-era housing bubble. Twenty years ago, the average American household’s debt was 83 percent of its income; by a decade ago, that had crept up to 92 percent; but by late 2007, debts were 130 percent of income.

All this borrowing took place both because banks had abandoned any notion of sound lending and because everyone assumed that house prices would never fall. And then the bubble burst.

What we’ve been dealing with ever since is a painful process of “deleveraging”: highly indebted Americans not only can’t spend the way they used to, they’re having to pay down the debts they ran up in the bubble years. This would be fine if someone else were taking up the slack. But what’s actually happening is that some people are spending much less while nobody is spending more — and this translates into a depressed economy and high unemployment.

What the government should be doing in this situation is spending more while the private sector is spending less, supporting employment while those debts are paid down. And this government spending needs to be sustained: we’re not talking about a brief burst of aid; we’re talking about spending that lasts long enough for households to get their debts back under control. The original Obama stimulus wasn’t just too small; it was also much too short-lived, with much of the positive effect already gone.

 

It’s true that we’re making progress on deleveraging. Household debt is down to 118 percent of income, and a strong recovery would bring that number down further. But we’re still at least several years from the point at which households will be in good enough shape that the economy no longer needs government support.

 

But wouldn’t it be expensive to have the government support the economy for years to come? Yes, it would — which is why the stimulus should be done well, getting as much bang for the buck as possible.

Which brings me back to the Obama-McConnell deal. I’m often asked how I can oppose that deal given my consistent position in favor of more stimulus. The answer is that yes, I believe that stimulus can have major benefits in our current situation — but these benefits have to be weighed against the costs. And the tax-cut deal is likely to deliver relatively small benefits in return for very large costs.

 

The point is that while the deal will cost a lot — adding more to federal debt than the original Obama stimulus — it’s likely to get very little bang for the buck. Tax cuts for the wealthy will barely be spent at all; even middle-class tax cuts won’t add much to spending. And the business tax break will, I believe, do hardly anything to spur investment given the excess capacity businesses already have.

 

The actual stimulus in the plan comes from the other measures, mainly unemployment benefits and the payroll tax break. And these measures (a) won’t make more than a modest dent in unemployment and (b) will fade out quickly, with the good stuff going away at the end of 2011.

The question, then, is whether a year of modestly better performance is worth $850 billion in additional debt, plus a significantly raised probability that those tax cuts for the rich will become permanent. And I say no.

The Obama team obviously disagrees. As I understand it, the administration believes that all it needs is a little more time and money, that any day now the economic engine will catch and we’ll be on the road back to prosperity. I hope it’s right, but I don’t think it is.

What I expect, instead, is that we’ll be having this same conversation all over again in 2012, with unemployment still high and the economy suffering as the good parts of the current deal go away. The White House may think it has struck a good bargain, but I believe it’s in for a rude shock.

 

Basta con quelle metafore, di Paul Krugman

New York Times 12 dicembre 2010

 

Piaccia o no – e a me non piace – è probabile che l’accordo sugli sgravi fiscali Obama – McConnell, nella sua mescolanza di cose cattive e di cose in un qualche modo buone, sia approvato dal Congresso. A quel punto cosa accadrà?

L’accordo darà, senza dubbio, una spinta nel breve termine all’economia. Da quanto posso arguire, l’opinione più diffusa – all’interno della quale è compresa la posizione della amministrazione Obama – è che questa spinta nel breve termine sia tutto quello di cui abbiamo bisogno. L’accordo, ci viene detto, darà il colpi d’avvio all’economia; darà ad una ripresa fragile il tempo per rafforzarsi.

Io dico, smettiamola con queste metafore. L’economia americana non è una macchina in panne, e non è neppure un invalido che tornerà presto alla salute se si giova di un qualche periodo di riposo. I nostri problemi sono più di lungo periodo di quanto ambedue quelle metafore facciano intendere.

E le cattive metafore favoriscono la cattiva politica. L’idea che il meccanismo economico stia per mettersi in moto[265] o che l’ammalato in un giorno qualsiasi si alzi da letto di degenza in questo momento incoraggia gli operatori politici ad allestire rimedi di breve termine e disorganici[266], nel mentre l’economia ha in realtà bisogno di un sostegno robusto e ben concepito.

Le radici dei nostri guai attuali affondano nei debiti che le famiglie americane hanno accumulato[267] nel corso della bolla immobiliare dell’epoca di Bush. Venti anni fa, il debito medio delle famiglie americane corrispondeva all’83 per cento del loro reddito; dieci anni fa si era innalzato[268] al 92 per cento; ma alla fine del 2007 i debito erano il 130 per cento dei redditi.

Tutto questo indebitamento aveva preso piede sia perché le banche avevano abbandonato ogni sana nozione di credito, sia perché tutti ipotizzavano che i prezzi delle case non sarebbero mai scesi. E a quel punto scoppiò la bolla.

Da quel momento stiamo facendo l’esperienza di un doloroso processo di “deleveraging[269]; gli americani con i loro debiti elevati non solo non possono spendere quello che erano soliti, devono ripagare i debiti che avevano accumulato negli anni della bolla. Si tratterebbe di una buona cosa se qualcun altro stesse tirando la carretta[270].  Ma quello che in effetti sta accadendo è che alcuni stanno spendendo molto meno mentre nessuno spende di più, e questo si traduce in una economia depressa ed in elevata disoccupazione.

Quello che il governo dovrebbe fare in questa situazione sarebbe spendere di più, a fronte del settore privato che sta spendendo di meno, sostenendo l’occupazione nel mentre si ripianano quei debiti. Ed è necessario che questa spesa pubblica sia sostenuta; non stiamo parlando di una breve fiammata di sostegno; stiamo parlando di una spesa pubblica che duri abbastanza da consentire alle famiglie di riportare i loro debiti sotto controllo. Lo stimolo originario di Obama non era soltanto troppo esiguo; era anche troppo breve nel tempo, con una gran parte dell’effetto positivo che se ne è già andato.

E’ vero che in quella azione di “deleveraging” stiamo facendo progressi. Il debito delle famiglie è sceso al 118 per cento del reddito, ed una forte ripresa spingerebbe quel dato ancora più in basso. Ma siamo ancora almeno qualche anno lontani dal momento in cui i consumatori saranno in quelle condizioni di buona forma tali da consentire all’economia di non avere più bisogno del sostegno statale.

Ma non sarebbe costoso ricorrere al sostegno statale all’economia ancora per vari anni? Certo, lo sarebbe; il che spiega perché lo stimolo dovrebbe essere ben congegnato, ottenendo la maggior resa possibile in rapporto alla spesa[271].

Il che mi riporta all’intesa Obama-McConnell. Mi viene spesso chiesto in che modo io possa oppormi a quell’accordo, considerata la mia continua posizione a favore di un maggiore sostegno all’economia. La risposta è che io credo che in effetti quello stimolo possa comportare importanti benefici nella attuale situazione, ma questi benefici debbano essere valutati a fronte dei costi. E l’accordo sugli sgravi fiscali è probabile che comporti piccoli benefici in cambio di costi molto cospicui.

Il punto è che mentre l’accordo costerà un bel po’ – aggiungendo al debito federale più dell’originario programma di sostegno di Obama –  è probabile che esso ottenga, in rapporto alla spesa, una resa molto piccola. Gli sgravi fiscali per i più ricchi non saranno spesi se non i minima parte; persino i tagli fiscali alle classi medie non aggiungeranno molto alla spesa. Ed io credo che gli sgravi alle imprese difficilmente produrranno l’effetto di incoraggiare gli investimenti, dato l’eccesso di capacità produttiva che l’imprese già hanno.

Il sostegno effettivo nel programma deriva da altre misure, principalmente dai sussidi di disoccupazione e dagli sgravi fiscali sugli stipendi. E queste misure (a) intaccheranno la disoccupazione in modo poco più che modesto e (b) svaniranno rapidamente, dato che la parte buona dell’accordo sparirà alla fine del 2011.

La questione, dunque, è se un anno di prestazioni modestamente migliori valgano il costo di 850 miliardi di dollari di debito addizionale, con in più la significativa probabilità che quegli sgravi fiscali per i ricchi divengano permanenti. Io dico di no.

Il gruppo dei collaboratori di Obama, ovviamente, non è d’accordo. Da quanto capisco, la amministrazione ritiene che tutto quello di cui abbiamo bisogno sia un po’ di tempo e di denaro, che di qua a non molto[272] il meccanismo dell’economia si rimetterà in moto e si tornerà sulla strada della prosperità. Spero che abbiano ragione, ma non la penso così.

Quello che mi aspetto, invece, è che, appena la parte buona dell’accordo sparirà, ci ritroveremo anche per tutto il corso del 2012 a discutere delle stesse cose, con la disoccupazione ancora alta e l’economia in sofferenza. La Casa Bianca può ritenere di aver concluso un buon affare, ma io credo che la aspetti un triste risveglio.   

 

 

 

Wall Street WhitewashBy PAUL KRUGMAN

Published: December 16, 2010

 

When the financial crisis struck, many people — myself included — considered it a teachable moment. Above all, we expected the crisis to remind everyone why banks need to be effectively regulated.

How naïve we were. We should have realized that the modern Republican Party is utterly dedicated to the Reaganite slogan that government is always the problem, never the solution. And, therefore, we should have realized that party loyalists, confronted with facts that don’t fit the slogan, would adjust the facts.

Which brings me to the case of the collapsing crisis commission.

The bipartisan Financial Crisis Inquiry Commission was established by law to “examine the causes, domestic and global, of the current financial and economic crisis in the United States.” The hope was that it would be a modern version of the Pecora investigation of the 1930s, which documented Wall Street abuses and helped pave the way for financial reform.

Instead, however, the commission has broken down along partisan lines, unable to agree on even the most basic points.

 

It’s not as if the story of the crisis is particularly obscure. First, there was a widely spread housing bubble, not just in the United States, but in Ireland, Spain, and other countries as well. This bubble was inflated by irresponsible lending, made possible both by bank deregulation and the failure to extend regulation to “shadow banks,” which weren’t covered by traditional regulation but nonetheless engaged in banking activities and created bank-type risks.

Then the bubble burst, with hugely disruptive consequences. It turned out that Wall Street had created a web of interconnection nobody understood, so that the failure of Lehman Brothers, a medium-size investment bank, could threaten to take down the whole world financial system.

It’s a straightforward story, but a story that the Republican members of the commission don’t want told. Literally.

Last week, reports Shahien Nasiripour of The Huffington Post, all four Republicans on the commission voted to exclude the following terms from the report: “deregulation,” “shadow banking,” “interconnection,” and, yes, “Wall Street.”

When Democratic members refused to go along with this insistence that the story of Hamlet be told without the prince, the Republicans went ahead and issued their own report, which did, indeed, avoid using any of the banned terms.

 

That report is all of nine pages long, with few facts and hardly any numbers. Beyond that, it tells a story that has been widely and repeatedly debunked — without responding at all to the debunkers.

In the world according to the G.O.P. commissioners, it’s all the fault of government do-gooders, who used various levers — especially Fannie Mae and Freddie Mac, the government-sponsored loan-guarantee agencies — to promote loans to low-income borrowers. Wall Street — I mean, the private sector — erred only to the extent that it got suckered into going along with this government-created bubble.

It’s hard to overstate how wrongheaded all of this is. For one thing, as I’ve already noted, the housing bubble was international — and Fannie and Freddie weren’t guaranteeing mortgages in Latvia. Nor were they guaranteeing loans in commercial real estate, which also experienced a huge bubble.

Beyond that, the timing shows that private players weren’t suckered into a government-created bubble. It was the other way around. During the peak years of housing inflation, Fannie and Freddie were pushed to the sidelines; they only got into dubious lending late in the game, as they tried to regain market share.

But the G.O.P. commissioners are just doing their job, which is to sustain the conservative narrative. And a narrative that absolves the banks of any wrongdoing, that places all the blame on meddling politicians, is especially important now that Republicans are about to take over the House.

 

Last week, Spencer Bachus, the incoming G.O.P. chairman of the House Financial Services Committee, told The Birmingham News that “in Washington, the view is that the banks are to be regulated, and my view is that Washington and the regulators are there to serve the banks.”

He later tried to walk the remark back, but there’s no question that he and his colleagues will do everything they can to block effective regulation of the people and institutions responsible for the economic nightmare of recent years. So they need a cover story saying that it was all the government’s fault.

 

In the end, those of us who expected the crisis to provide a teachable moment were right, but not in the way we expected. Never mind relearning the case for bank regulation; what we learned, instead, is what happens when an ideology backed by vast wealth and immense power confronts inconvenient facts. And the answer is, the facts lose.

 

Una mano di tinta su Wall Street[273], di Paul Krugman

New York Times 16 dicembre 2010

 

Quando è precipitata la crisi finanziaria, molte persone, incluso il sottoscritto, lo considerarono un momento istruttivo. Soprattutto, ci aspettavamo che la crisi ricordasse a tutti che le banche hanno bisogno di essere regolate in modo efficace.

Come eravamo ingenui! Dovevamo pur sapere che il Partito Repubblicano dei nostri giorni è interamente votato allo slogan reaganiano secondo il quale il governo è sempre un problema e mai una soluzione. E, di conseguenza, dovevamo pur sapere che il Partito conservatore[274], costretto dinanzi a fatti che non vanno d’accordo con lo slogan, si sarebbe aggiustato i fatti.

La qual cosa mi conduce alla vicenda della commissione sulla crisi che sta fallendo.

La bipartisan Commissione di Inchiesta sulla Crisi Finanziaria era stata introdotta per legge allo scopo di “esaminare la cause, interne e globali, della crisi economica e finanziaria in corso negli Stati Uniti”. La speranza era che sarebbe stata una versione moderna dell’indagine della commissione Pecora degli anni ’30, che documentò gli abusi di Wall Street e contribuì a preparare la strada alla riforma del sistema finanziario.

Invece, nonostante ciò, la commissione è finita in panne lungo linee di contrapposizione partitica, incapace di trovare una intesa anche sugli aspetti più elementari.

Non è che la storia della crisi sia particolarmente oscura. In primo luogo, c’è stata una bolla immobiliare ampiamente diffusa, non solo negli Stati Uniti, ma in Irlanda, Spagna, ed anche in altri paesi. Questa bolla è stata gonfiata dal credito irresponsabile, reso possibile sia dalla deregolamentazione delle banche che dalla mancata estensione di regole al ‘sistema bancario ombra’, che non era provvisto delle regole tradizionali pur essendo impegnato in attività bancarie e pur determinando rischi di natura bancaria.

Poi la bolla scoppiò, con vaste conseguenze distruttive. Venne fuori che Wall Street aveva dato vita ad una ragnatela di connessioni che nessuno era in grado di comprendere, cosicché il fallimento di Lehman Brothers, una banca di investimenti di medie dimensioni, arrivò a minacciare l’intero sistema finanziario mondiale.

Si tratta di una storia chiara, ma è una storia che i membri repubblicani della Commissione non vogliono ascoltare. Letteralmente.

La scorsa settimana, secondo il resoconto di Shahien Nasiripour di The Huffington Post, tutti e quattro i repubblicani della Commissione hanno votato per escludere i seguenti termini dal rapporto: “deregolamentazione”, “sistema bancario ombra”, “interconnessione” e, proprio così, anche “Wall Street”.

Dato che i membri democratici si rifiutavano di acconsentire a questa pretesa di raccontare la storia di Amleto senza far menzione del Principe, i repubblicani sono andato avanti per conto loro ed hanno distribuito un loro rapporto, con il quale, per davvero, si evitava l’utilizzo di uno qualsiasi dei termini messi al bando.

Questo rapporto è in tutto lungo nove pagine, con pochi fatti e rari numeri. Oltre a ciò, esso racconta una storia che è già stata ampiamente e ripetutamente messa a nudo[275] –  senza alla fine rispondere a coloro che l’hanno messa a nudo.

Nel complesso, secondo i commissari del GOP, è tutta colpa del benefattori governativi, che hanno utilizzato varie leve – specialmente Fannie Mae e Freddie Mac, le agenzie di garanzia dei mutui sostenute dal governo – al fine di promuovere i prestiti ai debitori a basso reddito. Wall Street – volevo dire, il settore privato –  ha sbagliato solo nella misura in cui si è fatto fregare nel consentire questa bolla creata dai governi.

E’ difficile esagerare nel giudizio su quanto tutto questo sia mistificante. Da una parte, come ho già notato, la bolla immobiliare aveva dimensioni internazionali – e Fannie e Freddie non stavano garantendo mutui in Lettonia. Neanche garantivano mutui nel settore immobiliare commerciale, nel quale pure c’è stata l’esperienza di una vasta bolla.

Oltre a ciò, la cronistoria dimostra che gli operatori privati non furono indotti con l’inganno in una bolla creata dai governi. Le cose andarono nel senso opposto. Durante gli anni del culmine dell’inflazione del settore abitativo, Fannie e Freddie vennero spinte ai margini; esse si spinsero in queste pericolose forme di credito alla fine del gioco, quando cercarono di riguadagnare quote di mercato.

Ma i commissari del GOP stanno solo facendo il loro lavoro, che consiste nel sostenere la propaganda conservatrice. E una propaganda che assolve le banche da ogni malefatta, che pone ogni responsabilità a carico delle invasioni di campo di uomini della politica, è particolarmente importante in questo momento in cui i repubblicani stanno prendendo il controllo della Camera.

La scorsa settimana, Spencer Bachus, il nuovo presidente della Commissione pe ri Servizi Finanziari della Camera, ha dichiarato a The Birmingham News che “a Washington c’è l’opinione che le banche debbano essere regolate, mentre la mia opinione è che Washington e coloro che controllano sono lì per servire le banche”.

Successivamente, egli ha provato a tornare su quell’osservazione, ma non c’è dubbio che lui ed i suoi colleghi faranno tutto quello che possono per bloccare regole efficaci sugli individui e sugli istituti che sono responsabili dell’incubo economico degli anni recenti. Dunque, hanno bisogno di notizie da copertina[276] che dicano che fu tutta colpa dei governi.

In conclusione, coloro che si aspettavano che la crisi fornisse una occasione istruttiva, avevano ragione, ma non nel senso in cui si aspettavano. Non si trattava da quell’esempio di riapprendere le regole bancarie; quello che abbiamo invece imparato è cosa accade quando una ideologia fondata su grandi ricchezze e su un immenso potere si trova a fare i conti con fatti sconvenienti. La risposta è che sono i fatti che soccombono.   

 

 

 

 

When Zombies Win

By PAUL KRUGMAN
Published: December 19, 2010

When historians look back at 2008-10, what will puzzle them most, I believe, is the strange triumph of failed ideas. Free-market fundamentalists have been wrong about everything — yet they now dominate the political scene more thoroughly than ever.

How did that happen? How, after runaway banks brought the economy to its knees, did we end up with Ron Paul, who says “I don’t think we need regulators,” about to take over a key House panel overseeing the Fed? How, after the experiences of the Clinton and Bush administrations — the first raised taxes and presided over spectacular job growth; the second cut taxes and presided over anemic growth even before the crisis — did we end up with bipartisan agreement on even more tax cuts?

 

The answer from the right is that the economic failures of the Obama administration show that big-government policies don’t work. But the response should be, what big-government policies?

For the fact is that the Obama stimulus — which itself was almost 40 percent tax cuts — was far too cautious to turn the economy around. And that’s not 20-20 hindsight: many economists, myself included, warned from the beginning that the plan was grossly inadequate. Put it this way: A policy under which government employment actually fell, under which government spending on goods and services grew more slowly than during the Bush years, hardly constitutes a test of Keynesian economics.

 

Now, maybe it wasn’t possible for President Obama to get more in the face of Congressional skepticism about government. But even if that’s true, it only demonstrates the continuing hold of a failed doctrine over our politics.

 

It’s also worth pointing out that everything the right said about why Obamanomics would fail was wrong. For two years we’ve been warned that government borrowing would send interest rates sky-high; in fact, rates have fluctuated with optimism or pessimism about recovery, but stayed consistently low by historical standards. For two years we’ve been warned that inflation, even hyperinflation, was just around the corner; instead, disinflation has continued, with core inflation — which excludes volatile food and energy prices — now at a half-century low.

 

The free-market fundamentalists have been as wrong about events abroad as they have about events in America — and suffered equally few consequences. “Ireland,” declared George Osborne in 2006, “stands as a shining example of the art of the possible in long-term economic policymaking.” Whoops. But Mr. Osborne is now Britain’s top economic official.

 

And in his new position, he’s setting out to emulate the austerity policies Ireland implemented after its bubble burst. After all, conservatives on both sides of the Atlantic spent much of the past year hailing Irish austerity as a resounding success. “The Irish approach worked in 1987-89 — and it’s working now,” declared Alan Reynolds of the Cato Institute last June. Whoops, again.

 

But such failures don’t seem to matter. To borrow the title of a recent book by the Australian economist John Quiggin on doctrines that the crisis should have killed but didn’t, we’re still — perhaps more than ever — ruled by “zombie economics.” Why?

Part of the answer, surely, is that people who should have been trying to slay zombie ideas have tried to compromise with them instead. And this is especially, though not only, true of the president.

 

People tend to forget that Ronald Reagan often gave ground on policy substance — most notably, he ended up enacting multiple tax increases. But he never wavered on ideas, never backed down from the position that his ideology was right and his opponents were wrong.

President Obama, by contrast, has consistently tried to reach across the aisle by lending cover to right-wing myths. He has praised Reagan for restoring American dynamism (when was the last time you heard a Republican praising F.D.R.?), adopted G.O.P. rhetoric about the need for the government to tighten its belt even in the face of recession, offered symbolic freezes on spending and federal wages.

 

None of this stopped the right from denouncing him as a socialist. But it helped empower bad ideas, in ways that can do quite immediate harm. Right now Mr. Obama is hailing the tax-cut deal as a boost to the economy — but Republicans are already talking about spending cuts that would offset any positive effects from the deal. And how effectively can he oppose these demands, when he himself has embraced the rhetoric of belt-tightening?

 

Yes, politics is the art of the possible. We all understand the need to deal with one’s political enemies. But it’s one thing to make deals to advance your goals; it’s another to open the door to zombie ideas. When you do that, the zombies end up eating your brain — and quite possibly your economy too.

 

Quando vincono gli zombi, di Paul Krugman

New York Times 19 dicembre 2010

 

Quando gli storici guarderanno indietro agli anni 2008 – 10, io credo che ciò che li lascerà maggiormente sconcertati sarà il singolare trionfo delle idee fallite. I  fondamentalisti del libero mercato hanno avuto torto su tutto, tuttavia dominano la scena politica, oggi più a fondo che mai.

Come è successo? Come siamo finiti, dopo che le banche fuori controllo hanno messo l’economia in ginocchio, con Ron Paul che afferma “io non penso che abbiamo bisogno di controllori”, in occasione del rinnovo di una commissione fondamentale della Camera con compiti di supervisione della Fed? Come siamo finiti, dopo le esperienze delle amministrazioni Clinton e Bush – la prima innalzò le tasse e si trovò a gestire una spettacolare crescita dei posti di lavoro; la seconda le tagliò e si trovò a gestire una crescita anemica anche prima della crisi  –  ad un accordo bipartisan per sgravi fiscali anche maggiori?

La risposta della destra è che i fallimenti economici della amministrazione Obama dimostrano che le politiche del ‘grande governo’ non funzionano. Ma si dovrebbe replicare, quali politiche del ‘grande governo’?

Perché i fatti sono che il programma di stimoli di Obama – che di per sé consisteva in sgravi fiscali quasi per il 40 per cento – risultarono assolutamente troppo cauti per risanare l’economia. E questo non con il senno di poi[277]: molti economisti, incluso il sottoscritto, avevano messo in guardia sin dall’inizio sul fatto che il piano fosse completamente inadeguato. Diciamolo in questo modo: una politica con la quale l’occupazione pubblica in effetti si riduce, e con la quale la spesa pubblica in beni e servizi cresce più lentamente che negli anni di Bush, difficilmente può costituire un esempio di politica economica keynesiana.

Ora, può darsi che non fosse possibile per il Presidente Obama fare di più, di fronte allo scetticismo del Congresso sul ruolo della amministrazione pubblica. Ma se anche questo fosse vero, dimostrerebbe soltanto il perdurante dominio sulla nostra politica di una dottrina fallimentare.

E’ anche il caso di far notare che ogni cosa che la destra ha affermato sui motivi per i quali la politica economica di Obama sarebbe fallita, è risultata priva di fondamento. Per due anni siamo stati messi in guardia sul fatto che l’indebitamento statale avrebbe portato alle stelle i tassi di interesse; nei fatti, i tassi hanno fluttuato con più o meno ottimismo sulla ripresa, ma restando assai bassi per i loro standards storici. Per due anni siamo stati messi in guardia sul fatto che l’inflazione, persino l’iperinflazione, era dietro l’angolo; invece la disinflazione[278] è proseguita, con l’inflazione sostanziale[279] – che esclude i prezzi volatili degli alimenti e dell’energia – ora ai livelli più bassi del cinquantennio.

I fondamentalisti del libero mercato hanno sbagliato sui fatti internazionali nello stesso modo che su quelli dell’America, e ne hanno subito egualmente poche conseguenze. “L’Irlanda”, dichiarò George Osborne[280] nel 2006, “costituisce un esempio luminoso dell’arte del possibile nella politica economica di lungo periodo”. Nientedimeno! Eppure il signor Osborne è attualmente il principale responsabile economico della Gran Bretagna.

E nella sua nuova posizione, ha l’intenzione di emulare le politiche di austerità che l’Irlanda ha messi in atti dopo che scoppiasse la sua bolla. In fin dei conti, i conservatori di entrambe le sponde dell’Atlantico hanno passato gran parte dell’anno trascorso ad acclamare l’austerità irlandese come un successo mirabile. “L’approccio irlandese funzionò negli anni 1987-1989 e sta funzionando adesso”, dichiarò lo scorso giugno Alan Reynolds del Cato Institute. Ancora: nientedimeno!

Ma fallimenti del genere sembra che non contino. Prendendo in prestito il titolo di un libro recente dell’economista australiano John Quiggin a proposito delle teorie economiche che la crisi dovrebbe, eppure non ha,  liquidato, noi siamo ancora – forse più che mai – governata da una “politica economica zombi”. Come mai?

In parte la risposta sicuramente consiste nel fatto che le persone che dovrebbero aver provato a liquidare le idee zombi, hanno invece cercato di venire con esse ad un compromesso. E questo è particolarmente vero, sebbene non soltanto, nel caso del Presidente.

La gente tende a dimenticare che Ronald Reagan spesso si adattò[281] alla sostanza politica; nel modo più significativo, egli finì con l’approvare vari incrementi delle tasse. Ma non ondeggiò mai sulle idee di fondo, né recedette mai dalla sua posizione, secondo la quale la sua ideologia era giusta e i suoi avversari avevano torto.

Al contrario, il Presidente Obama ha regolarmente cercato di transitare l’intero spettro[282] delle posizioni, prestando comprensione ai miti della destra. Egli ha elogiato Reagan per aver ristabilito il dinamismo americano (quando avete mai sentito un repubblicano elogiare Roosevelt?), ha adottato la retorica repubblicana a proposito della necessità per il governo di stringere la cintola anche dinanzi alla recessione, ha offerto simbolici raffreddamenti della spesa e degli stipendi federali.

Nessuna di queste concessioni ha impedito alla destra di continuare a denunciarlo come un socialista. Ma egli ha contribuito a rafforzare le cattive idee, in modi che possono provocare danni  a non lungo termine. In questo momento Obama tesse le lodi dell’accordo sugli sgravi fiscali come una spinta all’economia – ma i Repubblicani stanno già parlando di tagli alla spesa che bilancerebbero ogni effetto positivo dell’accordo. E come può egli opporsi efficacemente a queste richieste, quando egli stesso ha abbracciato la retorica dello stringere la cintola?

E’ vero, la politica è l’arte del possibile. Tutti capiscono la necessità di venire ad accordi con i propri avversari politici. Ma una cosa è fare accordi per progredire sui propri obbiettivi; altra cosa è aprire la porta alle idee zombi. Se si fa questo, gli zombi finiscono col mangiarvi il cervello, e appena possono anche l’economia.  

 

 

 

 

 

 

The Humbug Express

By PAUL KRUGMAN
Published: December 23, 2010

Hey, has anyone noticed that “A Christmas Carol” is a dangerous leftist tract?

I mean, consider the scene, early in the book, where Ebenezer Scrooge rightly refuses to contribute to a poverty relief fund. “I’m opposed to giving people money for doing nothing,” he declares. Oh, wait. That wasn’t Scrooge. That was Newt Gingrich — last week. What Scrooge actually says is, “Are there no prisons?” But it’s pretty much the same thing.

Anyway, instead of praising Scrooge for his principled stand against the welfare state, Charles Dickens makes him out to be some kind of bad guy. How leftist is that?

 

As you can see, the fundamental issues of public policy haven’t changed since Victorian times. Still, some things are different. In particular, the production of humbug — which was still a somewhat amateurish craft when Dickens wrote — has now become a systematic, even industrial, process.

Let me walk you through a case in point, one that I’ve been following lately.

If you listen to the recent speeches of Republican presidential hopefuls, you’ll find several of them talking at length about the harm done by unionized government workers, who have, they say, multiplied under the Obama administration. A recent example was an op-ed article by the outgoing Minnesota governor Tim Pawlenty, who declared that “thanks to President Obama,” government is the only booming sector in our economy: “Since January 2008” — silly me, I thought Mr. Obama wasn’t inaugurated until 2009 — “the private sector has lost nearly eight million jobs, while local, state and federal governments added 590,000.”

 

Horrors! Except that according to the Bureau of Labor Statistics, government employment has fallen, not risen, since January 2008. And since January 2009, when Mr. Obama actually did take office, government employment has fallen by more than 300,000 as hard-pressed state and local governments have been forced to lay off teachers, police officers, firefighters and other workers.

So how did the notion of a surge in government payrolls under Mr. Obama take hold?

It turns out that last spring there was, in fact, a bulge in government employment. And both politicians and researchers at humbug factories — I mean, conservative think tanks — quickly seized on this bulge as evidence of an exploding public sector. Over the summer, articles and speeches began to appear highlighting the rise in government employment and issuing dire warnings about what it portended for America’s future.

 

 

But anyone paying attention knew why public employment had risen — and it had nothing to do with Big Government. It was, instead, the fact that the federal government had to hire a lot of temporary workers to carry out the 2010 Census — workers who have almost all left the payroll now that the Census is done.

Is it really possible that the authors of those articles and speeches about soaring public employment didn’t know what was going on? Well, I guess we should never assume malice when ignorance remains a possibility.

 

There has not, however, been any visible effort to retract those erroneous claims. And this isn’t the only case of a claimed huge expansion in government that turns out to be nothing of the kind. Have you heard the one about how there’s been an explosion in the number of federal regulators? Mike Konczal of the Roosevelt Institute looked into the numbers behind that claim, and it turns out that almost all of those additional “regulators” work for the Department of Homeland Security, protecting us against terrorists.

Still, why does it matter what some politicians and think tanks say? The answer is that there’s a well-developed right-wing media infrastructure in place to catapult the propaganda, as former President George W. Bush put it, to rapidly disseminate bogus analysis to a wide audience where it becomes part of what “everyone knows.” (There’s nothing comparable on the left, which has fallen far behind in the humbug race.)

 

And it’s a very effective process. When discussing the alleged huge expansion of government under Mr. Obama, I’ve repeatedly found that people just won’t believe me when I try to point out that it never happened. They assume that I’m lying, or somehow cherry-picking the data. After all, they’ve heard over and over again about that surge in government spending and employment, and they don’t realize that everything they’ve heard was a special delivery from the Humbug Express.

 

So in this holiday season, let’s remember the wisdom of Ebenezer Scrooge. Not the bit about denying food and medical care to those who need them: America’s failure to take care of its own less-fortunate citizens is a national disgrace. But Scrooge was right about the prevalence of humbug. And we’d be much better off as a nation if more people had the courage to say “Bah!”

 

L’Industria della Balla Bell’e Buona[283], di Paul Krugman

New York Times 23 dicembre 2010

 

Ehi, sapeva nessuno che “Un canto di Natale” fosse un opuscolo di sinistra?

Intendo riferirmi, immaginatevi la scena all’inizio del libro, a quel punto in cui Ebenezer Scrooge rifiuta con convinzione[284] di contribuire ad un fondo per gli aiuti ai poveri. “Sono contrario a dare alla gente soldi per non far niente”, dichiara. Fermatevi un attimo. Quello non era Scrooge. Era Newt Gingrich[285], la scorsa settimana. Ciò che Scrooge diceva, in effetti, era “Non ci sono le prigioni?” Ma, grosso modo, si tratta dello stesso concetto.

In ogni modo, piuttosto di elogiare Scrooge per la sua presa di posizione contro lo stato assistenziale, Charles Dickens lo dipinge come una sorta di individuo senza cuore. Non si tratta di una affermazione di sinistra?

Come potete constatare, i temi fondamentali della politica della civica convivenza[286]  non sono mutati, dall’epoca vittoriana. Tuttavia, alcune cose sono diverse. In particolare, la produzione di balle – che era ancora una specie di specialità per amatori, quando scriveva Dickens – è ora diventato un procedimento sistematico, su scala persino industriale.

Seguitemi[287] in questo esempio tipico, un caso di cui mi sono occupato di recente.

Se voi avete dato ascolto ai discorsi recenti dei repubblicani accreditati di speranze presidenziali, vi accorgerete che diversi di loro parlano con ampiezza dei danni provocati dal lavoratori statali sindacalizzati, che si sarebbero, a loro dire, moltiplicati sotto la amministrazione Obama. Un esempio recente è stato un articolo di commento del Governatore uscente del Minnesota Tim Pawlenty,  il quale ha dichiarato che “grazie al Presidente Obama”, la pubblica amministrazione è l’unico settore in forte crescita della nostra economia: “A partire dal gennaio 2008” – povero me, io pensavo che Obama si fosse insediato nel 2009 – “il settore privato ha perso quasi otto milioni di posti di lavoro, mentre quello dei governi locali, statali e federali ne ha aumentati 590.000”.

Orrore! Ad eccezione del fatto che secondo le statistiche del Bureau of Labor, l’occupazione nella amministrazione pubblica è diminuita, e non aumentata, dal Gennaio 2008. E dal Gennaio 2009, quando Obama in effetti entrò in carica, l’occupazione nella pubblica amministrazione è diminuita di più di 300.000 unità, dato che i governi degli Stati e delle comunità locali sono stati costretti a licenziare insegnanti, poliziotti, vigili del fuoco ed altri lavoratori.

Dunque, come ha potuto prendere piede l’idea di un innalzamento degli stipendi nella pubblica amministrazione sotto Obama?

Risulta che la scorsa primavera ci fu, in effetti, un rialzo nella occupazione pubblica. E sia gli uomini politici che i ricercatori dell’industria delle balle – intendo dire, i gruppi di esperti conservatori – hanno immediatamente classificato questo rialzo come una prova della esplosione del settore pubblico. Nel corso dell’estate, sono cominciati ad apparire articoli e discorsi che mettevano in evidenza la crescita della occupazione nel settore pubblico, e impartivano tremendi ammonimenti su quello che ciò faceva presagire per il futuro dell’America.

Ma chiunque avesse posto attenzione avrebbe saputo perché l’occupazione del settore pubblico era cresciuta, la qualcosa non aveva niente a che fare con il ‘Grande Governo’[288]. Si trattava, invece, del fatto che il governo federale doveva assumere un certo numero di lavoratori a termine per eseguire il Censimento 2010, lavoratori che hanno quasi tutti perso il posto ora che il censimento è stato terminato.

E’ davvero possibile che gli autori di quegli articoli e di quei discorsi a proposito della crescita della occupazione nel settore pubblico non sapessero che cosa stava succedendo? Ebbene, suppongo che non dovremmo supporre malizia, finché l’ignoranza resta una possibilità.

Tuttavia, non c’è stato alcuno sforzo visibile di ritrattare quelle dichiarazioni infondate. E questo non è il solo esempio di una pretesa ampia espansione delle funzioni pubbliche che si è risolto in nulla. Avete sentito quella relativa a come ci sarebbe stata una esplosione del numero dei controllori federali? Mike Konczal del Roosevelt Institute è andato a verificare i numeri di quella affermazione, ed è risultato che quasi tutti quei “controllori” aggiuntivi lavorano per il Dipartimento della Sicurezza Nazionale, proteggendoci contro i terroristi.

Comunque, perché è importante quanto affermano quei politici e quei gruppi di esperti? La risposta è che è in funzione una ben sviluppata infrastruttura mediatica della destra addetta a scagliare la propaganda, secondo la definizione che ne dette il precedente Presidente Bush, al fine di divulgare false analisi presso un vasto pubblico, laddove esse diventano parte di quello che “tutti sanno” (non c’è niente di paragonabile nella sinistra, che è rimasta molto indietro in questa competizione della menzogna).

E si tratta di procedure assai efficaci. Quando ho messo in discussione la presunta ampia crescita della spesa pubblica sotto Obama, ho più volte scoperto che la gente proprio non mi avrebbe creduto nel momento in cui cercavo di mettere in evidenza quello che non era successo. Supponevano che io mentissi, o che in qualche modo utilizzassi dati artefatti[289]. Dopo tutto, avevano sentito parlare una quantità di volte del rialzo della spesa e dell’occupazione pubblica, e non comprendevano come tutto quello che avevano appreso fosse stato appositamente partorito[290] dall’Industria della Balla Bell’e Buona.

Dunque, in questi giorni di festa, ricordiamoci della saggezza di Ebenezer Scrooge. Non il passaggio sul diniego del cibo e della assistenza sanitaria a coloro che ne hanno bisogno; il fallimento dell’America nel perdersi cura dei propri cittadini meno fortunati è una disgrazia nazionale. Però, Scrooge aveva ragione a proposito della diffusione della menzogna. E noi appariremmo una nazione assai migliore[291] se un numero maggiore di persone avesse il coraggio di dire “Balle![292]”.   

 

 

 

The Finite World

By PAUL KRUGMAN
Published: December 26, 2010

Oil is back above $90 a barrel. Copper and cotton have hit record highs. Wheat and corn prices are way up. Over all, world commodity prices have risen by a quarter in the past six months.

So what’s the meaning of this surge?

Is it speculation run amok? Is it the result of excessive money creation, a harbinger of runaway inflation just around the corner? No and no.

What the commodity markets are telling us is that we’re living in a finite world, in which the rapid growth of emerging economies is placing pressure on limited supplies of raw materials, pushing up their prices. And America is, for the most part, just a bystander in this story.

Some background: The last time the prices of oil and other commodities were this high, two and a half years ago, many commentators dismissed the price spike as an aberration driven by speculators. And they claimed vindication when commodity prices plunged in the second half of 2008.

But that price collapse coincided with a severe global recession, which led to a sharp fall in demand for raw materials. The big test would come when the world economy recovered. Would raw materials once again become expensive?

 

Well, it still feels like a recession in America. But thanks to growth in developing nations, world industrial production recently passed its previous peak — and, sure enough, commodity prices are surging again.

This doesn’t necessarily mean that speculation played no role in 2007-2008. Nor should we reject the notion that speculation is playing some role in current prices; for example, who is that mystery investor who has bought up much of the world’s copper supply? But the fact that world economic recovery has also brought a recovery in commodity prices strongly suggests that recent price fluctuations mainly reflect fundamental factors.

 

What about commodity prices as a harbinger of inflation? Many commentators on the right have been predicting for years that the Federal Reserve, by printing lots of money — it’s not actually doing that, but that’s the accusation — is setting us up for severe inflation. Stagflation is coming, declared Representative Paul Ryan in February 2009; Glenn Beck has been warning about imminent hyperinflation since 2008.

 

Yet inflation has remained low. What’s an inflation worrier to do?

One response has been a proliferation of conspiracy theories, of claims that the government is suppressing the truth about rising prices. But lately many on the right have seized on rising commodity prices as proof that they were right all along, as a sign of high overall inflation just around the corner.

You do have to wonder what these people were thinking two years ago, when raw material prices were plunging. If the commodity-price rise of the past six months heralds runaway inflation, why didn’t the 50 percent decline in the second half of 2008 herald runaway deflation?

 

Inconsistency aside, however, the big problem with those blaming the Fed for rising commodity prices is that they’re suffering from delusions of U.S. economic grandeur. For commodity prices are set globally, and what America does just isn’t that important a factor.

 

In particular, today, as in 2007-2008, the primary driving force behind rising commodity prices isn’t demand from the United States. It’s demand from China and other emerging economies. As more and more people in formerly poor nations are entering the global middle class, they’re beginning to drive cars and eat meat, placing growing pressure on world oil and food supplies.

And those supplies aren’t keeping pace. Conventional oil production has been flat for four years; in that sense, at least, peak oil has arrived. True, alternative sources, like oil from Canada’s tar sands, have continued to grow. But these alternative sources come at relatively high cost, both monetary and environmental.

 

Also, over the past year, extreme weather — especially severe heat and drought in some important agricultural regions — played an important role in driving up food prices. And, yes, there’s every reason to believe that climate change is making such weather episodes more common.

 

So what are the implications of the recent rise in commodity prices? It is, as I said, a sign that we’re living in a finite world, one in which resource constraints are becoming increasingly binding. This won’t bring an end to economic growth, let alone a descent into Mad Max-style collapse. It will require that we gradually change the way we live, adapting our economy and our lifestyles to the reality of more expensive resources.

 

But that’s for the future. Right now, rising commodity prices are basically the result of global recovery. They have no bearing, one way or another, on U.S. monetary policy. For this is a global story; at a fundamental level, it’s not about us.

 

Un mondo finito, di Paul Krugman

New York Times 26 dicembre 2010

 

Il petrolio è tornato al di sopra dei 90 dollari al barile. Il rame e il cotone hanno raggiunto i loro livelli più elevati. I prezzi del grano e dei cereali sono in salita. Soprattutto, i prezzi mondiali delle materie prime[293] sono cresciuti di un quarto nei sei mesi passati.

Qual è, dunque, il significato di questi rialzi?

 

E’ la speculazione che è fuori controllo? E’ il risultato di una eccessiva creazione di moneta, presagio di una inflazione fuori controllo prossima ventura? Niente affatto.

 

Quello che ci dicono i mercati delle materie prime è che viviamo in un mondo finito, nel quale la rapida crescita delle economie emergenti sta mettendo sotto pressione l’offerta dei materiali grezzi, spingendo in alto i loro prezzi. E, in questa storia, l’America ha, in gran parte, una funzione solo secondaria[294].

Qualche passo indietro: nell’ultimo periodo i prezzi del petrolio e delle materie prime erano così alti[295], che molti commentatori liquidarono l’impennata dei prezzi alla stregua di una aberrazione guidata dagli speculatori. Gli stessi presentarono come una conferma[296] la caduta dei prezzi delle materie prime nella seconda metà del 2008.

Sennonché il collasso dei prezzi coincise con una grave recessione globale, che aveva condotto la domanda delle materie prime ad una brusca caduta. La vera prova sarebbe venuta al momento in cui l’economia mondiale si fosse ripresa. Le materie prime sarebbero ancora una volta tornate ad essere costose?

Ebbene, in America pare che siamo ancora in recessione[297]. Ma grazie alla crescita delle nazioni in sviluppo, la produzione industriale mondiale ha superato i suoi massimi livelli precedenti, ed infatti i prezzi delle materie prime sono di nuovo in rialzo.

Questo non significa che la recessione non abbia giocato alcun ruolo negli anni 2007-2008. Neppure si dovrebbe escludere l’idea che la speculazione non stia giocando un qualche ruolo nei prezzi correnti: ad esempio, chi è quell’investitore misterioso che ha fatto incetta[298] di gran parte dell’offerta mondiale di rame? Ma il fatto che la ripresa economica mondiale abbia contemporaneamente portato con sé un aumento dei prezzi delle materie prime suggerisce decisamente che le recenti fluttuazioni dei prezzi principalmente dipendano da fattori fondamentali.

E cosa dire del fatto che i prezzi delle materie prime siano un presagio di inflazione? Molti commentatori sulla destra hanno predetto per anni che la Federal Reserve, creando grandi quantitativi di moneta – effettivamente non lo sta facendo, ma l’accusa è questa – stia ponendo le premesse per una grave inflazione. La stagflazione è in arrivo, dichiarò nel febbraio del 2009 il deputato Paul Ryan; Glenn Beck aveva messo in guardia da una imminente iperinflazione sin dal 2008.

Tuttavia l’inflazione è rimasta bassa. Cosa deve mai fare un individuo apprensivo[299] di inflazione?

Una risposta è stata quella della proliferazione di tesi cospirative, ovvero le pretese secondo le quali il governo starebbe nascondendo la verità a proposito del rialzo dei prezzi. Ma ultimamente molte persone a destra si sono appigliate ai prezzi in ascesa delle materie prime come prova di aver visto giusto sin dall’inizio, il segnale di una generalizzata alta inflazione in arrivo[300].

E’ il caso di chiedersi a cosa quelle persone stessero pensando quando, due anni fa, i prezzi delle materie prime stavano crollando. Se la crescita dei prezzi delle materie prime dei sei mesi passati annuncia una inflazione fuori controllo, perché la caduta del 50 per cento nella seconda metà del 2008 non fu il segno premonitore di una deflazione fuori controllo?

Incongruenze a parte, tuttavia, il serio problema con quelli che danno la colpa alla Fed del rialzo dei prezzi delle materie prime è che essi sono in sofferenza per le delusioni della grandeur economica degli Stati Uniti, dal momento che[301] i prezzi delle materie prime sono definiti su scala globale, e che quello che fa l’America non è proprio un aspetto fondamentale.

In particolare, oggi come nel 2007-2008, la forza che spinge fondamentalmente in avanti i prezzi in rialzo delle materie prime non è la domanda che proviene dagli Stai Uniti; è la domanda che proviene dalla Cina e dalle altre economie emergenti. Nel mentre sempre più persone delle nazioni un tempo povere stanno entrando a far parte della classe media globale, esse cominciano a guidare automobili ed a mangiare carne, ponendo le condizioni per una pressione crescente sull’offerta mondiale di petrolio e di alimenti.

E questa offerta non riesce a tenere il passo. La tradizionale produzione di petrolio è rimasta stagnante per quattro anni; almeno in quel senso, il punto culmine per il petrolio è arrivato. E’ vero, risorse alternative, come il petrolio proveniente dalle sabbie bituminose del Canada[302], hanno continuato a crescere. Ma queste fonti alternative arrivano a costi, sia monetari che ambientali, relativamente elevati. 

Inoltre, nell’anno passato, condizioni climatiche estreme – particolarmente il caldo e la siccità in alcune importanti regioni agricole –  hanno giocato un ruolo importante nello spingere in alto i prezzi dei generi alimentari. E, per davvero, ci sono tutte le ragioni per credere che i cambiamenti climatici stiano rendendo tali episodi atmosferici più frequenti.

 

Quali sono, dunque, le implicazioni della recente crescita nei prezzi delle materie prime? Si tratta, come ho detto, del segno che viviamo in un mondo finito,  un mondo nel quale gli obblighi derivanti dalle risorse stanno diventando sempre più vincolanti. Questo non comporterà una fine della crescita economica, tanto meno[303] il precipitare in un collasso su un modello alla Mad Max[304]. Ci richiederà gradualmente di cambiare il nostro modo di vivere, adattando la nostra economia ed i nostri stili di vita alla realtà di risorse più costose.

Ma questo è per il futuro. Sul momento, i prezzi crescenti delle materie prime sono fondamentalmente la conseguenza di una ripresa globale. Essi non hanno alcun rapporto, in un modo o nell’altro, con la politica monetaria americana. Per questo si tratta di una vicenda globale; considerata nella sua sostanza, essa non si riferisce a noi.

     

 

 

 

 

The New Voodoo

By PAUL KRUGMAN
Published: December 30, 2010

Hypocrisy never goes out of style, but, even so, 2010 was something special. For it was the year of budget doubletalk — the year of arsonists posing as firemen, of people railing against deficits while doing everything they could to make those deficits bigger.

 

And I don’t just mean politicians. Did you notice the U-turn many political commentators and other Serious People made when the Obama-McConnell tax-cut deal was announced? One day deficits were the great evil and we needed fiscal austerity now now now, never mind the state of the economy. The next day $800 billion in debt-financed tax cuts, with the prospect of more to come, was the greatest thing since sliced bread, a triumph of bipartisanship.

 

Still, it was the politicians — and, yes, that mainly meant Republicans — who took the lead on the hypocrisy front.

In the first half of 2010, impassioned speeches denouncing federal red ink were the G.O.P. norm. And concerns about the deficit were the stated reason for Republican opposition to extension of unemployment benefits, or for that matter any proposal to help Americans cope with economic hardship.

But the tone changed during the summer, as B-day — the day when the Bush tax breaks for the wealthy were scheduled to expire — began to approach. My nomination for headline of the year comes from the newspaper Roll Call, on July 18: “McConnell Blasts Deficit Spending, Urges Extension of Tax Cuts.”

How did Republican leaders reconcile their purported deep concern about budget deficits with their advocacy of large tax cuts? Was it that old voodoo economics — the belief, refuted by study after study, that tax cuts pay for themselves — making a comeback? No, it was something new and worse.

To be sure, there were renewed claims that tax cuts lead to higher revenue. But 2010 marked the emergence of a new, even more profound level of magical thinking: the belief that deficits created by tax cuts just don’t matter. For example, Senator Jon Kyl of Arizona — who had denounced President Obama for running deficits — declared that “you should never have to offset the cost of a deliberate decision to reduce tax rates on Americans.”

 

It’s an easy position to ridicule. After all, if you never have to offset the cost of tax cuts, why not just eliminate taxes altogether? But the joke’s on us because while this kind of magical thinking may not yet be the law of the land, it’s about to become part of the rules governing legislation in the House of Representatives.

As the Center on Budget and Policy Priorities points out, the incoming House majority plans to make changes in the “pay-as-you-go” rules — rules that are supposed to enforce responsible budgeting — that effectively implement Mr. Kyl’s principle. Spending increases will have to be offset, but revenue losses from tax cuts won’t. Oh, and revenue increases, even if they come from the elimination of tax loopholes, won’t count either: any spending increase must be offset by spending cuts elsewhere; it can’t be paid for with additional taxes.

 

So if taxes don’t matter, does the incoming majority have a realistic plan to cut spending? Of course not. Republicans say that they want to cut $100 billion in spending, which is itself small change in a $3.6 trillion federal budget. But they also say that defense, Medicare and Social Security — all the big-ticket items — are off the table. So they’re talking about a 20 percent cut in what’s left, which includes things like running the judicial system and operating the Centers for Disease Control and Prevention; they have offered no specifics about where the cuts will fall.

 

How will this all end? I have seen the future, and it’s on Long Island, where I grew up.

Nassau County — the part of Long Island that directly abuts New York City — is one of the wealthiest counties in America and has an unemployment rate well below the national average. So it should be weathering the economic storm better than most places.

But a year ago, in one of the first major Tea Party victories, the county elected a new executive who railed against budget deficits and promised both to cut taxes and to balance the budget. The tax cuts happened; the promised spending cuts didn’t. And now the county is in fiscal crisis.

Now the federal government has a lot more flexibility than a county government: it needn’t, and shouldn’t, balance its budget each year. The deficits of the past two years have actually been a good thing, helping to support the economy in the aftermath of the 2008 financial crisis.

But Nassau County shows how easily responsible government can collapse in this country, now that one of our major parties believes in budget magic. All it takes is disgruntled voters who don’t know what’s at stake — and we have plenty of those. Banana republic, here we come.

 

La nuova magia nera, di Paul Krugman

New York Times 30 dicembre 2010

 

L’ipocrisia non è mai passata di moda, ma, anche ciò considerato, il 2010 è stato qualcosa di speciale. Perché esso è stato l’anno della lingua biforcuta[305] in fatto di bilanci – l’anno dei piromani che si facevano passare per pompieri, l’anno degli individui che si scagliavano contro i deficit mentre facevano tutto quello che potevano per renderli ancora più grandi.

E non mi riferisco solo agli uomini politici. Avete notato l’inversione ‘a U’ che molti commentatori politici hanno fatto al momento dell’annuncio dell’accordo sugli sgravi fiscali Obama-McConnell? Un giorno i deficit erano la grande maledizione ed avevamo bisogno senza perdere un secondo di austerità finanziaria, a prescindere dalle condizioni dell’economia. Il giorno dopo 800 miliardi di dollari di riduzioni fiscali finanziate in debito, con la prospettiva che ne arrivino altri, è diventata la cosa migliore del mondo[306] , un trionfo del bipartisan.

Tuttavia[307], sono stati gli uomini politici – la qualcosa, in effetti, significa i Repubblicani – che hanno preso la testa del fronte dell’ipocrisia.

Nella prima metà del 2010, discorsi veementi a denuncia del disavanzo federale erano la norma del GOP. E le preoccupazioni sul deficit erano la ragione dichiarata della opposizione dei Repubblicani alla proroga dei sussidi di disoccupazione, nonché della opposizione per lo stesso motivo a ogni proposta che aiutasse gli Americani a sopportare le difficoltà economiche.

Ma il tono cambiò durante l’estate, quando cominciò a delinearsi il B-Day – ovvero il giorno in cui era fissato che gli sgravi fiscali di Bush  andassero ad esaurimento. La mia proposta[308] per il ‘Titolo dell’anno’ viene dal giornale Roll Call del 18 luglio: “McConnell tuona contro la spesa in deficit, urge una proroga degli sgravi fiscali”.

 

Come hanno conciliato i leaders repubblicani la loro pretesa profonda preoccupazione sui deficit di bilancio con la difesa di ampie facilitazioni fiscali? Si è trattato di un ritorno della vecchia economia vudù – la convinzione, smentita da ogni analisi, secondo la quale gli sgravi fiscali si ripagano da soli? No, si è trattato di qualcosa di nuovo e di peggiore.

In realtà, sono state reiterate le pretese secondo le quali i tagli alle tasse porteranno ad entrate maggiori. Ma il 2010 ha evidenziato il manifestarsi di un nuovo livello, persino più profondo, di pensiero magico: la fiducia che i deficit creati dagli sgravi fiscali proprio non siano destinati ad aver peso. Ad esempio, il Senatore Jon Kyl dell’Arizona – che aveva denunciato il Presidente Obama per l’estensione[309] del deficit –  ha dichiarato che “non dovrebbero neppure essere compensati i costi di decisioni già assunte di riduzioni fiscali agli americani”.

E’ una tesi che è facile ridicolizzare. Dopo tutto, se non si devono bilanciare i costi degli sgravi fiscali, perché non eliminare del tutto le tasse? Eppure questa battuta ci riguarda perché, mentre questo genere di pensiero magico non fa ancora parte della legislazione della nazione, esso è destinato a diventare parte della legislazione delle regole di governo alla Camera dei Rappresentanti.

Come ha sottolineato il Center on Budget and Policy Priorities, la nuova maggioranza alla Camera ha in programma di apportare cambiamenti alle regole dell’obbligo della copertura finanziaria[310] – regole che si supponeva rafforzassero una finanza pubblica responsabile –  che effettivamente rendono effettivo il principio del signor Kyl. Gli incrementi di spesa dovranno essere bilanciati, ma la perdita di entrate da tagli al fisco no. Oh, e neanche gli incrementi di entrate, quando derivino dalla eliminazione di forme di elusione del fisco,  saranno contabilizzati: ogni aumento di spesa deve essere compensato da tagli alle spese da qualche altra parte; mentre non può essere compensato da tasse aggiuntive.

Così, se le tasse non contano, può avere la nuova maggioranza un piano realistico di tagli alle spese? Evidentemente no. I Repubblicani affermano di voler tagliare spese per 100 miliardi di dollari, il che sarebbe in sé un piccolo cambiamento a fronte di un bilancio federale di 3.600 miliardi di dollari. Ma dicono anche che la Difesa, Medicare e la Sicurezza Sociale – tutti i grandi centri di spesa – sono fuori discussione. Cosicché stanno parlando di un taglio del 20 per cento su ciò che resta, che include questioni quali la gestione del sistema giudiziario e l’operatività dei Centri per la Prevenzione ed il Controllo delle Malattie; non hanno offerta alcuna specifica su dove cadrà la mannaia.

Come andrà a finire tutto ciò? Ho visto il futuro, e si trova dalle parti di Long Island, dove sono cresciuto.

La Contea di Nassau –  la parte di Long Island che confina con New York City – è una delle contee più ricche dell’America ed ha un tasso di disoccupazione assai al di sotto della media nazionale. Dovrebbe essere, dunque, nelle condizioni di superare la crisi[311] economica meglio che altri posti.

Ma un anno fa, in una delle prime importanti vittorie del Tea Party, la contea elesse una nuova amministrazione che si era scagliata contro i deficit di bilancio ed aveva promesso sia tagli alle tasse che il riequilibrio del bilancio. I tagli alle tasse ci sono stati; i promessi tagli alle spese no. Ed ora la contea è in crisi finanziaria.

Ora, il governo federale ha un po’ di maggiore flessibilità di un governo di una contea: esso non ha necessità, e non dovrebbe, riequilibrare il suo bilancio ogni anno. I deficit dei due anni trascorsi sono stati effettivamente una buona cosa, hanno contribuito a sostenere l’economia all’indomani della crisi finanziaria del 2008.

Ma la Contea di Nassau mostra con quanta facilità un governo responsabile può andare al crollo in questo paese, ora che uno dei maggiori partiti ha deciso di credere alla magia finanziaria. Tutto quello che serve sono elettori arrabbiati che ignorino cosa sia in ballo – e noi ne abbiamo a iosa. Repubblica delle banane, siamo in arrivo. 

 

 

 



[1] holds off on rate hikes.

[2] hard-pressed

[3] on the grounds

[4] most vocal deficit scolds. “Scold” significa “seccatore, persona che mette in evidenza i difetti in modo petulante”.

[5] will be like watching paint dry. Lett. “sarà come guardare la pittura asciugarsi”.

[6] “string along” può significare “prendere per i fondelli” o “ tener buono”.

[7] Il Presidente repubblicano degli Stati Uniti che precedette Roosvelt e che reagì alla crisi con una politica economica disastrosa di ‘non-interventismo’.

[8] Ovvero, dei singoli Stati e degli Enti Locali.

[9] Normalmente l’autore – non so se si tratti di una abitudine americana – usa l’espressione “last few months” (“gli ultimi pochi mesi”), che in italiano non è consueta, a meno che l’aggettivo “few” abbia una motivazione specifica.

[10] conventional wisdom. Lett. “saggezza convenzionale”, era la stessa espressione utilizzata da Keynes nella sua polemica contro le analisi economiche tradizionali.

[11] the confidence fairy.

[12] pull the plug. Espressione che, in contesto medico, equivale a “lasciar morire un paziente, togliendogli l’assistenza artificiale”.

[13] (see Greece, debt of). Talora si usi questa  forma, come in un indice  (“vedi la Grecia, il debito della quale”).

[14] Naturalmente, i “custodi delle obbligazioni”.

[15] La gabbietta col canarino nella miniera era un metodo utilizzato per la segnalazione immediata di perdite di gas.

[16] wich isn’t a strategy everyone can pursue at the same time. Lett. “che non è una strategia che una persona qualsiasi può perseguire nello stesso tempo”.

[17] sheer scale. Lett. “dimensione completa. assoluta”.

[18] serious-sounding. Lett. “che suonano serie”.

[19] parse. Lett. “analizzare, fare l’analisi grammaticale o logica, verificare la sintassi”.

[20] Don’t pretend to be shocked.

[21] you know they’re out there. Lett. “sapete che essi sono là fuori”.

[22] and make up a large share. Lett. “e che compongono una elevata quota”. “To make up” ha molti significati, compreso “mettere insieme, comporre”.

[23] collecting , lett “che raccoglie, che fa la raccolta”, può avere il significato sostantivo di “esazione”, sia pure normalmente accompagnato da “tax”. In questo caso, sarebbe lett. “i benefici dell’esazione”, ovvero l’esenzione. Mi pare meno probabile che il termine si riferisca direttamente alle indennità di disoccupazione.

[24] a sample remark. Lett. “una osservazione a campione”.

[25] going down. Lett. “andando giù”.

[26] We’ve put in so much entitlement in our government. Lett. “abbiamo messo così tanto diritto nel nostro governo”. (Per inciso, molte volte traduciamo “government” o “governmental” con “stato” e “statale”. In italiano “governativo” indica un attributo specifico del Governo, mentre in americano è un attributo di tutto ciò che appartiene alla sfera esecutiva dello Stato, in quanto distinta da quella legislativa. Ad esempio: “government official”, lo tradurremo con “dirigente statale”, anziché con “dirigente governativo”).

[27] spoiled.

[28] any amount of evidence. Lett. “ogni quantità/somma di evidenza”.

[29] badly need it.

[30] get through. Lett. “entrare in contatto”.

[31] It’s up to them. Lett. “spetta a loro”.

[32] CEO è l’acronimo di “chief executive officer”, ovvero la più alta carica esecutiva di una impresa.

[33] Business. In questo articolo traduciamo spesso le espressioni “business, businesses” con “impresa/e”. Il termine “impresa”,da una parte, è una delle traduzioni più letterali di “business”, che non significa necessariamente solo  una condotta o un proposito economicamente profittevole. Nel contesto di questo articolo – nel quale si parla soprattutto di “business” come luogo e gruppo sociale, il termine “impresa/e” è spesso il più adatto. Ad esempio: “business investment” è più logicamente traducibile con “investimento di impresa” che con “investimento affaristico”. “Small business” si tradurrà più comprensibilmente con “piccola impresa”, piuttosto che con “piccolo affare”.  Invece “antibusiness climate” sarà tradotto con “clima ostile agli affari”, ovvero ostile ai propositi naturali delle imprese.

[34] buzz.

[35] are feeling unloved.

[36] “output gap”.

[37] diatribe. In italiano “diatriba” ha il significato principale di “dibattito, controversia su un argomento”. Nel senso di “rabbuffo, strapazzata” è, secondo il Devoto, Oli, non comune.

[38] Lett. “la Fed inetta”. In questo caso il termine “feckless” può essere tradotto in modo più ‘rispettoso’ con “inazione”, o meno ‘rispettoso’ con “inettitudine”.

[39] L’espressione “It” (“ciò, questa”, riferita alla deflazione), virgolettata nel titolo del discorso di Bernanke, ritorna poi nella frase finale di questo articolo. In inglese ed americano l’uso delle virgolette  e della  iniziale maiuscola, ha il significato di un riferimento implicito ad una cosa negativa (“quella cosa lì”, “quella roba lì”). Un effetto che in italiano non sarebbe possibile se non, appunto, utilizzando quelle espressioni (che però non sembrano modi di esprimersi consoni ad un Presidente di una Banca Centrale). Peraltro, l’espressione “IT”, riferita ad una grave recessione economica, la si trova in un libro di Keynes (“Can “IT” Happen Again? Essays on Instability and Finance”, New York 1982), e Bernanke è un economista noto per i suoi studi sulla crisi del ’29 e su Keynes. L’espressione potrebbe derivare da un sofisticato riferimento a quel libro.

[40] it’s a good bet. Lett. “è una buona scommessa”.

[41] as recently as two years ago.

[42] is standing pat.

[43] Vedi nota n. 2 alla pagina precedente.

[44] vibrancy. Lett. “risonanza, ripercussione”. Traduco con “effetto tonificante” per meglio corrispondere al gioco di parole tra “vibrancy” e “vibrant” nella frese successiva.

[45] deep voodoo.

[46] came along. Lett. “vennero assieme”.

[47] There has always been a sense in which voodoo economics was e cover story for the real doctrine. Lett. “C’è sempre stato un senso nel quale l’economia della magia nera era la storia di copertura di una reale dottrina”.

[48] l’espressione “affamare la bestia” indica esattamente, nella polemica politica americana, una strategia dei conservatori, che si proporrebbe di smantellare e di privatizzare, in particolare il settore previdenziale, a seguito di una emergenza fiscale provocata da sgravi ai redditi alti.

[49] their sudden outbusts of candor. Lett. “le loro improvvise esplosioni di candore”.

[50] by demanding even more budget-busting tax cuts. Lett. “attraverso la richiesta di  persino maggiori tagli fiscali che fanno scoppiare il bilancio”.

[51] “Delusion” significa “inganno, illusione” o anche “idea fissa, mania”. Esiste anche “illusion”, che ha pioù il significato di “miraggio”, o comunque di qualcosa che appare ma deve essere meglio verificato e non può essere di guida all’azione.In questo caso traduciamo sia con idea fissa/mania/fissazione, che con illusione.

[52] Il personaggio principale della serie televisiva “Star Treck”, che probabilmente risulta un po’ riservato o spocchioso o chissà cosaltro.

[53] snappiest. “Snap” significa “elegante, elegantone”.

[54] Espressione diventata famosa a seguito di una battuta di Bill Clinton, che così rispose ad un interlocutore che si ostinava a non comprendere qualcosa, in un dibattito pubblico.

[55] godlike political skills. Lett. “attitudini politiche divine”.

[56] turnout.

[57] quite like presidential elections. Lett. “completamente simili alle elezioni presidenziali”.

[58] usual suspects. Suspect, come sostantivo, significa “sospetto, imputato”. Traduco “soliti ignoti” utilizzando il gergo giornalistico (reso famoso da un film di Monicelli).

[59] For a couple of years, it was the love that dared not speak. Lett. “Per un paio d’anni, è stato l’amore che non ha osato pronunciare ..”. Il sentimento preciso, in italiano, mi pare “carità cristiana”.

[60] unfonded. Lett. “non finanziata”. E’ noto che  parte delle spese belliche furono assunte sulla base di un norma che aveva stabilito, all’indomani dell’attentato dell’ 11 settembre, la possibilità di assumere iniziative senza copertura.

[61] WMD. Ovvero: Weapons of mass destruction.

[62] caused the economy to tank. “To tank”, come verbo intransitivo, è una espressione ‘slang’ che significa “patire un improvviso declino o fallimento” (come cervo transitivo, significa “collocare o immagazzinare qualcosa in un contenitore”).

[63] “to have non of it” significa “non tollerare, non sopportare (una accusa)”.

[64] to hype significare “fare un battage pubblicitario”.

[65] let the whitewashing begin. Lett. “facciamo in modo che inizi una rimbiancatura” (“To whitewash” significa, in particolare, “esonerare attraverso una investigazione superficiale o parziale”).

[66] action. Che significa “azione, iniziativa, provvedimento, misura” ed anche “azione legale”. Nel contesto dell’articolo, traduciamo solitamente con “legge, legislazione, iniziativa legislativa”, giacchè il riferimento è alla mancata approvazione del provvedimento del Senato.

[67] smooth out. Significa “appianare, spianare”.

[68] unmasked. Lett. “smascherato”, ovvero “rivelato nella sua essenza”.

[69] Si tratta della protagonista di una vicenda di questi giorni. La signora Sherrod, funzionaria nera del Dipartimento dell’Agricoltura, era finita su Internet per iniziativa di un gruppo conservatore, che aveva estrapolato alcune sue frasi relative ad un’esperienza di 24 anni orsono, dalle quali risultava che al tempo avrebbe discriminato un agricoltore bianco. La donna è stata licenziata su due piedi dalla Casa Bianca. Successivamente è risultato che, nel corso della stessa dichiarazione, ella aveva chiarito, in realtà, di aver preso a cuore ed aiutato quell’agricoltore; circostanza confermata da associazioni di categoria che sono insorte in sua difesa. Obama si è scusato e la donna è stata riassunta.

[70] gallows humour. Lett. “umorismo da forca”.

[71] turn around. Lett. “girarsi indietro”.

[72] Ci si riferisce al metodo cosiddetto “cap and trade”, per effetto del quale le emissioni di carbonio diverrebbero costoso, e le non-emissioni convenienti.

[73] Espressione frequentissima, che ogni volta abbiamo tradotto con il ‘monicelliano’ (e giornalistico)  “soliti ignoti”.

[74] To go out on one’s way, significa “prendersi il disturbo, darsi pena”.

[75] This enthusiasm was bound to be followed by disappointment. Lett. “Questo entusiasmo ha dovuto per forza essere seguito da delusione”.

[76] of getting anything done. “To get done” significa “finire di fare qualcosa”.

[77] lock step.

[78] Mitt Romney è un repubblicano, ex Governatore del Massachusets, Stato nel quale era stata approvato un complesso di misure sanitarie considerato abbastanza simile alla successiva riforma di Obama.

[79] advocacy. Lett. “appoggio, pressione”.

[80] where largely responsible. In questo caso traduco “responsible” in analogia con “responsible person” (“persona di fiducia”).

[81] they’ll turn that excuse into a dismal reality.

[82]would surely be pulling out all the stops. “Pull out all the stops” significa “usare tutte le risorse disponibili” (WordRefernce.com). Lett. “abbandonare tutti gli impedimenti”.

[83] “Sit on one’s hands”, vedi  “hand” su Dictionary.com, n. 81

[84]             “to push one pedal to the metal” significa lett. “spingere il pedale del gas sul pavimento (metal) di chi è al posto di guida”, ovvero “spingere a tavoletta”.

[85]are defining success down.

[86]“goalpost” è il “palo della porta”.

[87]             unfocused. Lett. “sfocata” (ma il senso potrebbe anche essere “rivolta nella direzione sbagliata”, giacché la rabbia assume connotati piuttosto populistici).

[88]             The flimflam man. Lett. “L’uomo delle fandonie”.

[89]             Susceptibility. Il primo significato è “pronta disponibilità, capacità di”.

[90]             D.C. insiders. D.C. sta per District of Columbia (Washington D.C.).

[91]             checks his arithmetic.

[92]             poster child. Lett. “il bambino del manifesto, del cartellone pubblicitario”.

[93]             of dopes. In WordReference.com, English definition, “dope” ha i seguenti significati: “droga (marijuana), ‘dritta’ (ovvero una espressione slang per una ‘inside information’), bevanda insaporita con la Cola (espressione meridionale), una persona stupida o ignorante”).

[94]             stepped into the brach. Lett. “è entrato nella breccia”.

[95]             in the teeth. Significa “a dispetto”; lett. “nei denti”.

[96]             But they don’t. In riferimento alla frase precedente, dove si era detto che “sono senza vestiti”.

[97]             Sistema autostradale interstatale.

[98]             virtually in the next breath. Lett. “praticamente, quasi al respiro successivo”.

[99]             just sit idle. Lett. “soltanto, semplicemente resteranno fermi”.

[100]            has reached fruition. “To reach (to come to) fruition” significa “dare dei frutti”.

[101]            what was actually in the firing line. “To be in firing line” significa  “essere sulla linea di tiro”.

[102]            services that government must provide or nobody will. Lett. “i servizi che lo Stato deve fornire o nessuno lo farà”.

[103]            we’ve taken a disastrously wrong turn.

[104]            I “Borg” sono una razza di alieni della fiction ‘Star Treck’, che hanno la caratteristiche di “assimilare” i loro avversari.

[105]            posturing.

[106]            Federal Insurance Contributions Act (ovvero: “Legge Federale sui Contrbuti Assicurativi”).

[107]            trust fund può essere tradotto con “fondo fiducia” o “fondo della associazione”.

[108]            three-card monte.

[109]            hey.

[110]            bait-and-switch. Lett. “prodotto civetta, tecnica dell’adescamento”.

[111]            are peddling. “To peddle” significa “vendere porta a porta, andare in giro con la mercanzia”. “Influence peddling” significa “pressione indebita”.

[112]            So think about it this way. Lett. “Dunque, pensate a ciò in questo modo”.

[113]            austerians. E’ un neologismo, forse inventato qua, nel contesto della fantasiosa  metafora di una religione antica, ad esempio in assonanza con “sectarian”.

[114]            they’re just getting carried away.”To carry away” significa “portar via”.

[115]            “Now that’s rich” è una espressione idiomatica che significa “Questa (si che) è bella”. Naturalmente, nel contesto di questo articolo nel quale si parla della parte più ricca della popolazione americana, l’aggettivo “rich” è anche un giuoco di parole, che in italiano si perde.

[116]            the witching hour. “L’ora delle streghe”.

[117]            La costruzione di questa frase in italiano richiede che il soggetto (quella “cultura politica”) venga reiterato, o che la frase successiva sia introdotta da un pronome relativo. L’interposizione della frase “con la quale il Congresso non prenderà l’iniziativa – o non otterrà l’effetto – di ravvivare/rivitalizzare l’economia” ha un suo distinto significato; cosicchè quella frase non può fungere da soggetto di quella successiva. Il ragionamento sarebbe analogo se si ritenesse che il soggetto della successiva frase (“adduce il pretesto …ma dichiara …”) sia “il Congresso” anziché la “cultura politica”: anche in quel caso il soggetto “il Congresso” andrebbe ripetuto. Ma questa ipotesi è meno probabile, perché il Congresso e quella cultura politica non sono giudicati nello stesso modo, come chiarisce il finale dell’articolo, nel quale si afferma la speranza che il Congresso non decida per una conferma degli sgravi fiscali.In realtà, penso che lo stesso dovrebbe valere anche in inglese, a meno che il pronome relativo “in which” (“nella quale”, “con la quale”, “per effetto della quale”), in tale lingua, sia sufficiente a reggere due frasi distinte.

[118]            in any sense that matters. Lett. “in qualsiasi senso ciò abbia importanza”.Ovvero “qualsiasi significato effettivo si voglia a ciò attribuire”.

[119]            “double dip (recession)” significa an andamento della recessione per quale, dopo una lieve ripresa, si determina una nuova ricaduta. “To dip” è un verbo che può significare immergere, abbassare.  Viene anche definito come un andamento a “doppia V (W) ”, ovvero: caduta, risalita, nuova caduta.

[120]            “To be in denial” significa “essere in una condizione nella quale si nega una evidenza anche a se stessi”.

[121]            Why are people who know better sugar-coating economic reality? Lett. “perche esistono persone che (ri)conoscono meglio la realtà economica ricoperta di zucchero?”.

[122]            “to draw smiley faces on a grim picture”. Lett. “di attingere/derivare facce sorridenti ad/da un quadro triste”.

[123]            “Past”, oltre a “passato”, come avverbio può significare anche “oltre” o “davanti” (“he walked past the pharmacy”, “è passato davanti alla farmacia”).

[124]            Sono due grandi imprese finanziarie ed assicurative pubbliche, o almeno sostenute dal governo federale,  che operano anche nel settore dei mutui per la casa.

[125]            “with a vengeance”. Significa: “a più non posso”.

[126]            Vincent Walker Foster, Jr. fu vice consigliere della Casa Bianca durante il primo mandato di Clinton. Collega di studio legale ed amico di Hillary Clinton, fu trovato morto presso il Fort Mercy Park, in Virginia, nel 1993. Le indagini e successive commissioni di inchiesta stabilirono che si trattò di un suicidio. Ciononostante, fu orchestrata una campagna  da parte della destra americana, tendente ad insinuare una responsabilità dei coniugi Clinton, ed in particolare di Hillary, nella sua morte. La campagna consistette in una serie di indagini, denominate ‘Arkansas Project’, finanziate dall’uomo di affarri Richard Mellon Scaife.

[127]            “To play chicken” è una espressione che si riferisce al “gioco”, per così dire, nel quale due macchine corrono assieme, ognuna cercando di costringere l’altra ad uscire di strada. Si tratta di pratiche in uso negli anni 50 e 60 tra i giovani americani, delle quali c’è anche traccia in alcuni films. Cosa c’entri il “pollo” (chicken) non è chiarissimo. “Pollo” potrebbe essere colui che esce di strada. Oppure, potrebbe derivare da una antica barzelletta: Domanda: “Perchè un pollo attraversa la strada?”; Risposta: “Per andare dall’altra parte”.

[128]            Il “government shutdown” (ovvero: la “chiusura” del governo) del 1995 consistette nella  prolungata  mancata  approvazione da parte del Congresso della legge di Bilancio. Da una parte i Repubblicani, guidati da Newt Gingrich, volevano imporre tagli ai programmi della sanità pubblica (Medicare e Medicaid); dall’altra il Presidente Clinton li riteneva dannosi e superflui. I Repubblicani decisero allora di non concedere l’approvazione alla decisione di accrescimento del livello del debito, che tecnicamente è indispensabile ripetere ogni anno che il Bilancio si preveda in deficit. In questo modo il Governo Federale non era più nelle condizioni di provvedere ai servizi essenziali. L’unico modo di risolvere, agli effetti pratici,  la grave crisi fu quello di provvedere con continui e separati provvedimenti specifici di spesa. Sul piano politico la vicenda danneggiò, alla fine, principalmente i Repubblicani. Newt Gingrich ebbe a dichiarare, in presenza di numerosi giornalisti, di essersi risolto allo “shutdown” a causa di un episodio banale e personale (nella occasione di un volo presidenziale, Clinton aveva disposto che il politico repubblicano venisse sistemato in fondo all’ Air Force One!); la qualcosa lo danneggiò visibilmente. 

[129]            “all the way into catastrophe”. Lett. “sino in fondo dentro la catastrofe”.

[130]            “to spend its way out of debt”. Lett. “spendere/dedicare/investire la sua via d’uscita dal debito”.

[131] Dress rehearsal.

[132] Behind the curve. Lett. “dietro la curva”.

[133] Freeter (in giapponese: フリーター) è un neologismo, coniato intorno al 19871988, composto dalla parola inglese free (libero) e dalla quella tedesca Arbeiter (lavoratore). Descrive la condizione dei giovani giapponesi, di età compresa fra i 15 e i 34 anni, che terminati gli studi cercano lavori precari e brevi o addirittura rimangono in famiglia come disoccupati, con l’idea di mantenere quanto più a lungo possibile la propria libertà. In queste condizioni, questi giovani difficilmente possono formare una nuova famiglia.

[134] “we may wish we’d managed to match”. Lett. “possiamo desiderare che ce l’abbiamo fatta  (we had managed)  ad eguagliare”.

 

[135] “twofer” significa “una offerta di ‘due al prezzo di uno’ ”, o “un biglietto che consente di acquistare due oggetti al prezzo di uno”.

[136] “Politics ain’t beanbag”. Lett. “la politica non è un grosso cuscino” (ovvero, uno di quei cuscini che fungono da poltrone). Il senso sarebbe quello che la politica non si fa comodamente sdraiati in poltrona; nella traduzione si preferisce una allusione a ciò che in politica è lecito usare come strumento, in coerenza con l’intera frase successiva. 

[137] “playing hardball”. Lo ‘hardball’ (oltre ad essere un modo di definire il ‘baseball’, distinguendolo dal ‘softball’, che gli assomiglia, ma è giocato su un campo più piccolo e con una palla più grande e più soffice, generalmente essendo considerato più adatto alle donne), in politica o negli affari è considerato un comportamento “no-nonsense”, ovvero “intollerabilmente privo di ogni relazione con la questione di cui si tratta”.

[138] “witching hour”, lett. “l’ora delle streghe”.

[139] L’espressione “to turn into a pumpkin” significa lett. “trasformarsi in una zucca”. E’ ispirata alla favola di Cenerentola, ed indica in generale quelle situazioni nelle quali una magia (la carrozza con la quale Cenerentola andò al ballo) si interrompe (a mezzanotte la carrozza sarebbe tornata ad essere una zucca). Nel linguaggio ordinario è una espressione idiomatica che ha il significato di “andare a letto”, giacché questo è quello che fece Cenerentola. 

[140] “brinksmanship” significa lett. “la pratica di spingere una situazione pericolosa od uno scontro sino ai limiti della sicurezza fondamentalmente per imporre un risultato desiderato”.

[141] “overblown” significa o “sfiorito, oltre il periodo della piena fioritura”, o “ampolloso, pomposo, retorico”.

[142] I Luo sono una famiglia di gruppi etnici (tribù) relazionati fra loro che vivono in un’area che si estende dal sud del Sudan, attraverso l’Uganda settentrionale e la Repubblica Democratica del Congo, fino al Kenya occidentale e alla parte nord della Tanzania.

[143] “trickle-down economics”. E’ la teoria economica secondo la quale i benefici economici accordati alle grandi imprese sono destinati a trasmettersi alle piccole imprese ed ai consumatori.

[144] “Why”, oltre ad essere avverbio, può essere una esclamazione.

[145] “To make ends meet” significa “sbarcare il lunario”.

[146] “ever claimed that up is down”, lett. “hanno mai sostenuto che il su è giù”.

[147] “Wishful thinking”, lett. “pensiero desiderante”.

[148] “holds sway”. Letteralmente “tiene influenza”.

[149] Vedi l’articolo precedente, col quale ha avuto inizio la polemica con le “Persone Molto Serie”.

[150] “should be way down on our list of worries”, lett. “dovrebbe essere in fondo sulla nostra lista delle preoccupazioni”.

[151] “I guess the tooth fairy purchased …”. Lett “suppongo che la fatina dei denti abbia acquistato …”. “Tooth fairy” è la fatina che, nei racconti ai bambini, raccoglie i primi denti perduti e lascia di notte i soldini in regalo. 

[152] “a shot across the bow”. Lett. “un colpo sull’arco”.

[153] “bill” è un testo legislativo non ancora promulgato. In questo caso, la approvazione c’è stata soltanto da parte di un ramo del Congresso.

[154] “build a fire under”. Lett. “allestire un fuoco sotto”.

[155] La nascita di una nazione (The Birth of a Nation) è un film muto diretto da David Wark Griffith ed immesso nel circuito cinematografico l’8 febbraio 1915. È stato uno dei film privi di sonoro che ha fatto registrare i maggiori incassi della storia ed è stato molto importante per la storia del cinema per le tecniche innovative che apportava alla settima arte. Il film era una ricostruzione romanzata di alcuni episodi della guerra di secessione americana.

[156] “Citizen Kane” è il titolo americano di “Quarto potere”,  il primo lungometraggio diretto da Orson Welles, quando questi aveva 25 anni. Liberamente ispirato alla vita del magnate statunitense William Randolph Hearst, il film uscì nelle sale il 1º maggio 1941. Il film narra la vita del magnate della stampa Charles Foster Kane (interpretato dallo stesso Welles), incapace di amare se non “solo alle sue condizioni”, con la conseguenza che egli fa il vuoto attorno a sé e rimane solo all’interno della sua gigantesca residenza (Xanadu, nella versione italiana Candalù), dove muore abbandonato da tutti.

[157] “wars of choice”.

[158] “aonointing them”. To anoint significa “(la pratica religiosa dello) ungere, consacrare”.

[159] Mitt Romney è un dirigente repubblicano, già Governatore del Massachusetts, in apparenza maggiormente moderato. Egli fu responsabile della approvazione di una legge sanitaria statale, nel Massachusetts, che secondo Krugman sostanzialmente conteneva le soluzioni fondamentali che sono state inserite nella recente riforma di Obama.

[160] Il Canale Erie è un canale situato nello Stato di New York, che unisce l’Hudson al Lago Erie, stabilendo una via fluviale tra l’Oceano Atlantico e i Grandi Laghi.

[161] La diga di Hoover (anche conosciuta come Boulder Dam) è una diga di tipo arco-gravità in calcestruzzo armato, situata nel Black Canyon del fiume Colorado, sul confine tra lo stato dell’Arizona e del Nevada negli USA. Quando fu completata nel 1935, alta 221 m e alla base lunga 201 m costruita impiegando 3.400.000 m3 di calcestruzzo, era il più grande impianto di produzione di energia elettrica e anche la più grande struttura in calcestruzzo.

[162] Interstate Highway System è il nome abbreviato del sistema autostradale degli Stati Uniti d’America. La denominazione per esteso è Dwight D. Eisenhower National System of Interstate and Defense Highways, dal nome del presidente che era in carica al momento della creazione della rete, Dwight D. Eisenhower.
Nel
2004, lo sviluppo della rete autostradale statunitense era di 75.376 chilometri[1].

 

[163] “Independent”, riferito ad istituzioni, ha anche il significato di “non pubblico”.

[164] “penny-pinching”, lett. “grattare al centesimo, parsimonia, avarizia”.

[165] “Narrowest”

[166] “Hey, small spender”. Letteralmente sarebbe “Ehi (salve), piccolo spenditore”.

[167] “big government” (let.. “grande governo”) è il termine anglosassone con il quale si indica l’azione dello Stato, con particolare riferimento ai periodi di depressione, durante i quali, secondo la lezione keynesiana, quella espansione di funzioni e di spesa dovrebbe contrastare la caduta dell’occupazione.

[168] “cooked numbers”, lett. “numeri cucinati, cotti”.

[169] [169]I “robo-signers” sono normalmente dei ragazzi, appena usciti dall’università, che vengono “arruolati” dalle grosse banche di prestito americane, per sbrigare le pratiche di pignoramento delle case i cui mutui risultano “non performing”. Le procedure per il pignoramento negli Stati Uniti variano da stato a stato, ma sono estremamente complesse, e coinvolgono strutture private e statali a diversi livelli, passando per l’ufficio dello sceriffo della contea, avvocati, uffici del governo, ecc. Fino a qualche anno fa, era piuttosto raro che si arrivasse a pignorare una casa: ci volevano in genere mesi, prima che una banca mandasse la notifica di “inizio pratica di pignoramento”, e praticamente fino al giorno prima dell’asta dell’immobile in contea, si era ancora in tempo a ripagare le rate del mutuo e a recuperare la casa. Ultimamente però le banche si sono rese conto che molti tendevano ad avvantaggiarsi di questa situazione, pur non avendo intenzione (o possibilità) di ripagarsi il mutuo: considerato che  ci volevano almeno 6/8 mesi prima che perdessero effettivamente la casa, decidevano semplicemente di vivere “rent-free” per tutto quel tempo. Ed ecco che arrivano i robo-signers, delle vere e proprie macchine da guerra dei pignoramenti, 10 mila firme di approvazione su contratti di pignoramento al mese.

Si potrebbe inventare una traduzione in italiano con una espressione del genere “turboesattori”.

[170] “true to form”.

[171] Secondo la definizione della IUPAC, le terre rare – che non sono semplicemente ‘minerali preziosi’ – (in inglese “rare earth elements” o “rare earth metals”) sono un gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica, precisamente scandio, ittrio e i lantanoidi. Le terre rare sono utilizzate in molti apparecchi tecnologici: superconduttori, magneti, catalizzatori, componenti di motori ibridi, fibre ottiche, applicazioni di optoelettronica. Tutte le terre rare pesanti del mondo (come il disprosio) provengono da depositi cinesi come quello di Bayan Obo. Miniere illegali di terre rare sono comuni nella Cina rurale e sono spesso note per rilasciare rifiuti tossici nelle risorse idriche. Per evitare carenze e il monopolio cinese sono state cercate altre fonti di terre rare, specialmente in Sud Africa, Brasile e negli Stati Uniti. Una miniera di terre rare in California sarà riaperta nel 2012, mentre altri siti in fase di studio sono quelli a Thor Lake nei Territori del Nord-Ovest e in alcune zone del Vietnam.

[172] “stranglehold” significa, in un combattimento, “stretta alla gola”. In termini generali, “controllo asfissiante”.

[173] “trigger-happy” lett. “allegro-ad-innescare”.

[174] “to undercut” può significare sia “minare”, come sarebbe nel caso in questione dove ‘l’industria americana’ e complemento oggetto, che “vendere sottocosto”, che è anche il significato implicito della stessa frase.

[175] “to take up the slack” significa “ tagliare le spese (inutili)”.

[176] “To step on” significa “calpestare” o “accelerare”, quest’ultimo come estensione figurativa di “step on the gas”. In questo caso sarebbero soluzioni di significato opposto, ed è chiaro che il senso è il primo.

[177] Uno dei significati di “to deliver” è quello di “eseguire, portare e termine” ed anche di “mettere in salvo, liberare”.

[178] “To take on board” significa lett. “prendere a bordo”; in senso più generale “far proprio”.

[179] “consistently” significa in modo consistente ed anche “sistematico”.

[180] “handsight” significa già per suo conto “il senno di poi”. L’aggiunta consueta di “20-20” ha il significato di “intero, integrale, al 100 per cento”.

[181] “counterfactual” significa “che va contro i fatti (come in una ipotesi)”. In italiano non mi pare esista una espressione analoga, dato che “prova contraria” non ha affatto il significato di una ipotesi.

[182] “thanks to a headline-grabbing quote” significa lett. “grazie alla sua quota di attrazione dei titoli (dei giornali)”.

[183] “To hang on for our lives” è una immagine che si usa quando qualcuno è sospeso su un burrone e cerca di non precipitare.

[184] “To look over someone’s shoulder” significa “guardare sopra, oltre le spalle di qualcun altro” (in questo caso, infatti, il “their” non mi pare riferito a coloro che guardano, ma ai “tea Party-types”. Ovvero, alla lettera: “guardare alle persone del Tea Party sopra-oltre le loro spalle).). E’ una strana espressione, che mi pare possa significare “guardare con la prospettiva di altri”, ovvero guardare con gli occhi degli altri.

[185] Il termine “trap” (trappola), nel linguaggio economico, è molto consueto e quasi gergale (ad esempio, si dice “demand trap” per indicare una crisi da scarsità di domanda etc.). Quest’uso è ancora infrequente in italiano, dove il termine “emergenza” è equivalente. 

[186] E’ un canale televisivo di finanza e spettacolo.

[187] “Hocus-pocus” è una famosa formula magica. Non so se il termine “focus” faccia parte anch’esso della formula; in ogni caso “Focus” è il nome di un gruppo musicale olandese che, tra l’altro, compose una musichetta dal titolo “Hocus-pocus”. Ma mi pare più probabile che il senso sia una ironia sulla magia che ci si attende dal Presidente Obama.

[188] “To overreach oneself” significa “prefiggersi obbiettivi troppo ambiziosi etc.”.

[189] “Whole”, oltre che “intero”, ha una significato genericamente enfatico: “decisamente, tutto qui etc.”.

[190] Gioco di parole al quadrato che risolvo con “enfatizzare”, che è uno dei significati possibili di “to focus”, nel senso di “mettere in rilievo”.

[191] “with furrowed brow” significa “con la fronte corrugata”.

[192] Ragionamento piuttosto macchinoso. Come si chiarisce con la frase successiva, il riferimento ai due Programmi – A e B – non significa che essi avrebbero dovuto essere presentati in alternativa. Il programma A, quello adeguato, avrebbe dovuto essere presentato come tale, ed evidentemente sarebbe stato assai ridimensionato dal Congresso. Successivamente sarebbe stato presentato un Programma B, integrativo del primo. Se i Repubblicani si fossero opposti anche a quello, si sarebbero assunti la chiara responsabilità delle conseguenze sull’economia. Per cui è meglio tradurre “A e B” con “primo e secondo”.

[193] “to concede” ha anche il significato di “ammettere, riconoscere”; “argument” (da “to argue”), prima che “argomento”, può significare “dibattito, discussione”.

[194] Traduco “role” con “peso, influenza”, perché il senso non sembra quello di una oggettiva discussione sul ruolo che il governo debba avere, ma di una precisa tesi secondo la quale lo Stato e la sua spesa sono fattori che provocano la depressione dell’economia. Obama, in sostanza, avrebbe avvalorato gli argomenti dei suoi avversari.

[195] “Lite” (Repubblicans-lite) è un sinonimo gergale di “light”, ovvero significa “leggero”. E’ una espressione che è diventata popolare nella denominazione di alimenti che si suppongono “poco calorici.

[196] “To cringe” significa “rannicchiarsi, umiliarsi”.

[197] “To take ( o make) a stand on sth.”  significa “prendere posizione”. “Make a stand” significa “opporre resistenza”.

[198] “To drop the ball”, “perdere l’occasione”.

[199] “Yo put sb. on the spot” significa “mettere alle strette qualcuno”.

[200] La Federal Reserve ha un organo direttivo composto da governatori; sette dei dodici membri del consiglio direttivo (Board of Governors) sono scelti dal Presidente degli Stati Uniti; i restanti cinque sono i presidenti delle Federal Banks regionali che ricoprono la carica a rotazione. Le Federal Banks regionali sono quelle di: Boston, New York, Filadelfia, Cleveland, Richmond, Atlanta, Chicago, St Louis, Minneapolis, Kansas City, Dallas, San Francisco.  Sono definite regionali perché non corrispondono agli Stati, ma fanno capo alle città più importanti. La più potente, ad esempio, è quella di New York, dalla quale proviene lo stesso Segretario al Tesoro Geithner. Quindi il termine ‘governatore’ non indica, come in Italia, la funzione presidenziale.

[201] Tra i vari possibili significati di “to run”, in questo caso si può scegliere tra “tenere in attività, tenere in piedi”, “rincorrere, inseguire”, “dirigere, amministrare”

[202] “To spend” può significare, oltre che “spendere”,  sia “trascorre, passare il tempo”, se riferito appunto al tempo, oppure “dedicare, investire”. Mi pare possibile una interpretazione nel senso di “cogliere (ogni) occasione”.

[203] Noi diciamo “dietro l’angolo”, gli americani dicono “attorno, nei pressi dell’angolo”.

[204] La spiegazione del termine è stata spiegata nel testo in precedenza. Essendo un termine tecnico della politica monetaria, tanto vale lasciarlo in inglese.

[205] Si ricordi che la Banca Centrale non opera direttamente sui tassi di interesse, ma li orienta attraverso il tasso di sconto praticato agli istituti di credito, o misure più indirette come quelle in questione dell’acquisto del debito.

[206] “To raise” può significare anche “alimentare”.

[207] Ricordo che in questo articolo, come sempre, traduco il termine “fiscal” con il significato di “finanza pubblica”. La traduzione letterale di “fiscale”, che talora si trova, è chiaramente inadatta, giacché in italiano quel termine ha una stretta connessione con le tasse, mentre in inglese ha il significato di “tutto ciò che concerne le risorse finanziarie originate dalle entrate dello Stato”. Cosicché, ad esempio, la “fiscal policy” non sarà soltanto la “politica del fisco”, ma “la politica della finanza pubblica”. Oppure: i “fiscal problems” di uno Stato non sono soltanto i problemi della tassazione, ma i problemi finanziari pubblici in senso lato.

[208] “Abusive”.

[209] In americano il programma Microsoft “Power Point”, che fondamentalmente si basa sull’uso di diapositive sintetiche, è diventato sinonimo di quel genere di comunicazione.

[210] “bullet points” significa “punti fondamentali” (lett. “punti pallottola”).

[211] “benefit” significa genericamente “beneficio” ed anche “sussidio, indennità”. Ma è probabile che in questo contesto sia un sussidio inverso, dei contribuenti verso il sistema sanitario, Ovvero, quello che noi definiremmo “ticket”.

[212] “To craunch numbers” significa “elaborare, analizzare i numeri” (llet. “sgranocchiare i numeri”).

[213] “ripe old age” significa “la bella età” (ovvero “età avanzata”, perché “bella età” in italiano ha bisogno di una specificazione).

[214] “tha same old, the same old”; ovvero “la solita vecchia storia” (rafforzata).

[215] “to fold tents” significa “ripiegare le tende”.

[216] Lett. sarebbe “in molti sensi ad eccetto di uno”. Mi pare probabile che sia una espressione ironica, ovvero che si sia fatto un apparente passo indietro ma, sulla sostanza, non vi sia stata smentita.

[217] “Whipped” significa “frustato”, ma che si dice anche di una persona innamorata cotta (‘alla frusta’, ovvero comandata ‘a bacchetta’). Nel caso di una cane, in questo contesto, mi pare più traducibile con “ammaestrato” che con “bastonato”.

[218] Lett. il significato della frase sarebbe: “l’amara ironia va più a fondo di questo”.

[219] “To do uplift” lett. significa “fare/operare per un sollevamento, un miglioramento”. Mi pare che in questo contesto possa essere inteso in riferimento al tema della non-faziosità.

[220] “Negoziare con se stessi” è una espressione ironica abbastanza frequente in Krugman, nel senso di “autolimitarsi”. Poiché questa caratteristica personale di Obama è il significativo tema centrale di questo articolo, viene tradotta letteralmente.

[221] Termine tecnico (”Facilitazione quantitativa”) con il quale si designa la recente scelta della Fed di acquistare, creando nuova moneta, obbligazioni sul debito pubblico anche a lungo termine.

[222] “To have not business telling” significa “non aver diritto di dire” (ovvero “affare” è sinonimo di “diritto”).

[223] “At home” significa “a casa” anche nel senso di “essere di casa, avere familiarità, consuetudine”. Ad es. “to be at home with” significa “essere a proprio agio con”.

[224] “veto pen”, lett. “la penna del veto”.

[225] “bully pulpit” (lett. “il pulpito prepotente”) è una espressione tradizionale per esprimere il potere di comunicazione diretta con i cittadini del Presidente degli Stati Uniti.

[226] Il nome dei due grandi istituti assicurativi pubblici che operano  nel settore della concessioni dei mutui per la casa.

[227] “US government debt”. Il termine “debito” viene utilizzato, nel dibattito anglosassone, in modo diretto, come un nome collettivo, per indicare le obbligazioni emesse dallo Stato sul proprio debito pubblico.

[228] “Unhelpful”, lett. “non servizievole, non di aiuto, non cooperativo”.

[229] “gauge”, lett “spessore, diametro”. Ma il verbo “to gauge” significa “misurare (lo spessore”, valutare”.

[230] “that has meant us”, lett “quello ha voluto dire (riguardato, significato) noi”.

[231] Nel rapporto tra il potere legislativo di Camera e Senato ed il potere esecutivo del Presidente, negli Stati Uniti, un passaggio tradizionalmente denso di implicazioni politiche, particolarmente quando il Presidente non ha la maggioranza in uno o in entrambi i rami del Congresso, è quello della approvazione della cosiddetta “estensione del debito”. Con tale approvazione il Congresso stabilisce il nuovo limite dell’indebitamento per la gestione di bilancio, di fatto condizionando in modo sostanziale il potere esecutivo.

[232] “the hawkiest of deficit hawk”, lett. “i più falchi dei falchi del deficit”.

[233] Il riferimento, ad esempio, è ad una fase, nel corso della Presidenza Clinton, nella quale per molti mesi di determinò un blocco delle funzioni di governo, in uno scontro che vide impegnato il leader repubblicano dell’epoca Newt Gingrich.

[234] “forthcoming” può significare sia “disponibile, pronto” che “cordiale, affabile”. In questo caso il concetto è che, delineandosi un possibile ostruzionismo sul limite di bilancio, tale collaborazione non sarà “disposta”.

[235] Come chiarito in molte altre note, “fiscal” non è traducibile con “fiscale”, che in italiano ha un riferimento stretto alle entrate provenienti da tassazione. Il termine ha un significato più generale che include il complesso della politica finanziaria pubblica e, in questo caso particolare, la politica della spesa pubblica.

[236] Suppongo che l’espressione ironica sia indicativa di un “regalo” assai gradito e particolare (ovvero, quel regalo che, nella immaginazione infantile, sarebbe fuori dal comune, improbabile ma non impossibile).

[237] “To bully” significa “fare il prepotente con, intimorire”.

[238] “To sp(l)utter”, lett. “scoppiettare, farfugliare, balbettare”.

[239] L’espressione “politics stop at the water’s edge” – lett. “la politica si ferma sul ciglio dell’acqua” – viene utilizzata nel senso del prevalente interesse comune su tutte le questioni di politica estera (ovvero, riguardanti relazioni che vanno oltre i limiti dei due Oceani).

[240] “caves in sufficiently”, lett. “ceda sufficientemente”.

[241] “When push comes to shove” (che lett. significherebbe “quando la pressione arriva a spingere”) è una espressione idiomatica corrispondente a “alla fine, in ultima analisi, quando non se ne può fare a meno etc.”.

[242] Lett. “sia ancora quella che riconosciamo”

[243] Come in vari altri articoli di questi mesi, Krugman usa il termine “(Very) Serious People” in senso ironico.

[244] Con il termine tapas si indica una ampia varietà di antipasti tipici della cucina spagnola.

 

[245] “Deeurizzazione”, in italiano, è un neologismo che ci si augura improbabile.

[246] “To shackle”, lett. “mettere ai ferri, ammanettare”.

[247] “To freeze out” significa “annullare, sospendere una gara per il freddo”. Nel contesto, è chiaro il gioco di parole tra il “congelamento” della speranza e quello degli stipendi dei lavoratori federali (gioco di parole che in italiano non è possibile esattamente negli stessi termini, perché ‘congelare’ non ha il significato di sospendere una gara, mentre può avere quello di sospendere gli stipendi).

[248] Uno dei significati di “to have” è “raccontare, asserire”. Lett. “Questo annuncio la raccontava tutta”.

[249] “chump” lett, significa, riferito a persona,  “sciocco, idiota”.

[250] “Social Security” è maiuscolo, perché è la denominazione del programma federale specifico per le pensioni.

[251] “to reach out sufficiently”, lett. “di tendere le braccia a sufficienza verso”.

[252] “To wear a sign on one’s back” è una espressione idiomatica che significa, in pratica, portare o indossare un “segnale” – ovvero un cartello – sulla schiena, indicando pubblicamente qualcosa.

[253] Come è noto, le espressioni “to call one’s bluff” e “to fold” provengono dal gergo del gioco del poker, con i significati che sono stati tradotti. “To count on” significa “confidare” e, nella costruzione passiva, significa lett, “essere confidati/creduti  di fare qualcosa”.

[254] “To strike out on one’s own” significa “mettersi in proprio”.

[255] “Draw a line” lett. significa “tracciare una riga”, nel senso di “demarcare, mettere un limite” (“draw a line on the sand”, “tracciare una linea divisoria sulla sabbia”).

[256] “To pull fast one” è espressione idiomatica che significa “ingannare”.

[257] L’intera frase, lett. “si vedono come ricattatori di successo, possedendo un chiaro vantaggio”.

[258] “preside over”, lett. “presiedere a”.

[259] Il “Social Security program” è il programma federale in meteria di trattamenti pensionistici.

[260] “government shutdown” significa lett. “arresto del governo” ed indica una possibile evoluzione della situazione politica americana, stante la maggioranza che i Repubblicani hanno acquisito alla Camera con le elezioni di medio termine. In pratica, il contrasto tra potere esecutivo e Congresso potrebbe portare alla non approvazione dei provvedimenti periodici di quantificazione del deficit di bilancio ammissibile, con conseguenze di paralisi della attività governativa.

[261] In inglese si usa rigorosamente il condizionale, per rispetto della natura ipotetica della frase. In italiano, stante che l’accordo è stato fatto, quel minimo di incertezza che ancora può esservi sulla sua effettiva messa in pratica può essere reso anche con l’indicativo futuro. Forse perché in italiano, comunque, “del futur non c’è certezza” ! Nel corso dell’articolo questo aspetto si ripresenta più volte.

[262] “To string” può significare: “infilare, appendere” e “to string along” può significare “prendere in giro” anche nel senso di “tirarla alle lunghe”.

[263] “second-best politicy”, lett. significa “la seconda politica in graduatoria”.

[264] “hostage-taker”, lett. “prenditori di ostaggi, rapitori”,

[265] “To catch” ha anche il significato di accendersi, prendere fuoco etc.

[266] “sloppy”, lett. “sciatto, trasandato, negligente, privo di rgore”.

[267] Ran up.

[268] “had crept”, lett. “si era arrampicato”.

[269] “deleveraging”, in termini finanziari, è l’operazione opposta a quella consistente nel fare investimenti con capitali presi a prestito molto superiori alle proprie disponibilità, ovvero utilizzando il credito come una “leva”. Dunque, è l’effetto inverso di quella “leva”.

[270] “To take up the slack” può significare lett. “tendere la corda (the rope)”, ed anche, metaforicamente, “ridurre le spese inutili”. In questo caso, il secondo senso è esattamente il contrario di quello che si intende. L’intenzione è quella di riferirsi esattamente a chi ‘tiene la corda tesa’ in una scalata.

[271] “as much bang for buck as possible” significa let. “il più gran colpo possibile per (in relazione a) i propri dollari”

[272] Any day now.

[273] “Wall Street” whitewash”, lett, significa “l’imbiancatura/la mascheratura di Wall Street”; ovvero, come spiega l’articolo, una lettura della crisi che consente di nascondere le responsabilità del sistema finanziario americano, con una semplice mano di vernice.

[274] “loyalist” nella tradizione politica britannica è sinonimo di “tory”, ovvero di conservatore. Ma anche durante la Rivoluzione Americana, coloro che stavano dalla parte degli Inglesi venivano definiti “Tories” o “loyalists”. E’ probabile che il termine sia rimasto anche nel linguaggio politico attuale, per indicare genericamente il polo conservatore.

[275] “to debunk” lett, significa “dimostrare la falsità di una idea o di una fede in qualcosa”.

[276] “cover story”, in gergo giornalistico  significa “notizia da copertina”, “articolo collegato alla copertina”

[277] “20-20 hindsight” significa “con il senno di poi” (lett.  “retrospettivamente con venti ventesimi”, ovvero con la certezza delle cose già successe).

[278] La disinflazione è una riduzione del tasso di inflazione, che dunque cala nella sua crescita; mentre la deflazione corrisponde a  una effettiva riduzione dei prezzi.

[279] “core inflation” è un metodo di calcolo dell’inflazione che, appunto, consiste nelle esclusione dal “paniere” di alcuni prezzi particolarmente ‘volatili’.

[280] George Osborne è attualmente Cancelliere dello Scacchiere in Inghilterra. E’ stato parlamentare e ‘ministro ombra’ del partito conservatore inglese durante i governi laburisti. Il giudizio riferito sull’Irlanda lo espresse in un articolo su The Sunday Times del febbraio del 2006.

[281] “to give ground” è una espressione con significati molteplici (causare, impartire, produrre, concedere). Tra di essi: “assecondare una spinta/pressione, anziché resistere o rompere”.

[282] “to reach across the aisle” significa lett. “protendersi sulla navata”.

[283] “The Hambug Express” può essere tradotto, alla lettera, come “la balla bella e buona” (“express”, oltre a “rapido”, ha il significato di “chiaro, dichiarato”). Con l’utilizzo delle maiuscole – nel titolo come nella frase finale di questo articolo – si intende, in aggiunta, utilizzare l’espressione per denominare qualcosa di intenzionale ed  ‘organizzato’.

[284] “Rightly”, lett. “con buona ragione”.

[285] Uomo politico repubblicani.

[286] Public policy.

[287] “Let me walk you through”, lett. “consentitemi di accompagnarvi attraverso”.

[288] Ovvero con l’interventismo pubblico nell’economia in risposta alla depressione.

[289] “cherry-picking the data” significa “selezionare i dati utilizzando quelli più convenienti ad una tesi”.

[290] “delivery”, oltre che “consegna, recapito” significa anche “parto”.

[291] “to pass off as” significa “farsi passare per”.

[292] Nel libro di Dickens, il vecchio Ebenezer Scrooge usa l’espressione “Bah, hambug!” (che si potrebbe tradurre con “Scempiaggini!”, oppure, in aderenza all’articolo, con “Balle!”) come commento alla festività del Natale. Krugman, dunque, dice che gli Americani almeno dovrebbero avere il coraggio di chiamare le “balle” col loro nome. Implicitamente, forse intende anche dire che, nel contesto della cruda indifferenza di gran parte del mondo politico americano agli effetti sociali della crisi, tanto varrebbe, come Scrooge, considerare le festività natalizie come una “balla”.

[293] “Commodity” può significare “raw material” (“materia prima”; lett. “materia grezza” ) o “primary agricoltural product” (“prodotto primario dell’agricoltura”). Ha anche il significato più generale di “cosa utile o di valore”. Ma in questo caso, avendo peraltro già fatto menzione dell’andamento del grano e dei cereali, mi pare che ci si riferisca alle materie prime in generale, e il fatto che sia al singolare si spiega, mi pare, con un suo uso ‘aggettivale’; come, subito dopo, con “commodity markets”.

[294] “is … just a bystander” significa lett. “è … solo un passante”.

[295] “this” può anche essere un avverbio (“it’s this big”, “è grande così”).

[296] “claimed vindication”, lett. “pretesero giustificazione”.

[297] “to feel like a recession”, “sentirsi come/aver voglia di una recessione” .

[298] “to buy up” significa “acquistare grandi quantitativi, fare incetta”.

[299] “inflation worrier” significa “(individuo) apprensivo di inflazione”; nel linguaggio krugmaniano ha assunto il significato di un vero e proprio “partito dell’inflazione”.

[300] “just around the corner”, “proprio nei pressi dell’angolo”.

[301] “for”, oltre che preposizione, può essere congiunzione (“poiché, dal momento che”). In quanto congiunzione, in italiano è assai meglio non collocarla in un periodo separato. Inoltre, la congiunzione “for” regge anche la seconda parte della frase.

[302] Le “tar sands” del Canada sono terre composte da sabbie, argille, acqua e una forma di petrolio densa ed estremamente vischiosa. Le riserve si trovano in Canada (le “Athabasca Oil sands” dello Stato di Alberta) ed in Venezuela. “Tar” significa “catrame, bitume”, e il nome deriva dalla somiglianza tra quel composto e questa forma di petrolio.

[303] “let alone”, lett. “figurarsi, figuriamoci”

[304] Mad Max è il nome dell’ex poliziotto eroe e protagonista di una serie di films ambientati in un futuro post-apocalittico.

[305] Traduzione in lingua “native”! Lett. “linguaggio ambiguo, contorto”.

[306] “It’s the greatest thing since sliced bread” è una espressione idiomatica che significa “è la cosa migliore in assoluto/del mondo” (lett. “è la cosa più grande dal/dopo il pane a fette”).

[307] “Still” può essere anche congiunzione (“eppure” etc.).

[308] “nomination”, in effetti, ha il significato di “selezione, designazione, candidatura”; mentre per nomina è preferibile “appointment”.

[309] Uno degli svariati significati di “to run” è “estendere, espandere, sciogliersi” (“to spread”).

[310] “Pay-as-you-go” è una espressione idiomatica che corrisponde al nostro “pagare in contanti”. Nel linguaggio congressuale, si tratta di regole che si riferiscono all’obbligo di copertura delle nuove spese o con maggiori entrate o con minori altre spese.

[311] “to weather the storm” significa lett. “resistere alla tempesta”.


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