Articoli sul NYT

Articoli sul New York Times dal 2 gennaio 2011 al 17 marzo 2011

 

 

 

 

Deep Hole Economics

By PAUL KRUGMAN
Published: January 2, 2011

 

If there’s one piece of economic wisdom I hope people will grasp this year, it’s this: Even though we may finally have stopped digging, we’re still near the bottom of a very deep hole.

Why do I need to point this out? Because I’ve noticed many people overreacting to recent good economic news. What particularly concerns me is the risk of self-denying optimism — that is, I worry that policy makers will look at a few favorable economic indicators, decide that they no longer need to promote recovery, and take steps that send us sliding right back to the bottom.

 

So, about that good news: various economic indicators, ranging from relatively good holiday sales to new claims for unemployment insurance (which have finally fallen below 400,000 a week), suggest that the great post-bubble retrenchment may finally be ending.

 

We’re not talking Morning in America here. Construction shows no sign of returning to bubble-era levels, nor are there any indications that debt-burdened families are going back to their old habits of spending all they earned. But all we needed for a modest economic rebound was for construction to stop falling and saving to stop rising — and that seems to be happening. Forecasters have been marking up their predictions; growth as high as 4 percent this year now looks possible.

Hooray! But then again, not so much. Jobs, not G.D.P. numbers, are what matter to American families. And when you start from an unemployment rate of almost 10 percent, the arithmetic of job creation — the amount of growth you need to get back to a tolerable jobs picture — is daunting.

 

First of all, we have to grow around 2.5 percent a year just to keep up with rising productivity and population, and hence keep unemployment from rising. That’s why the past year and a half was technically a recovery but felt like a recession: G.D.P. was growing, but not fast enough to bring unemployment down.

 

Growth at a rate above 2.5 percent will bring unemployment down over time. But the gains aren’t one for one: for a variety of reasons, it has historically taken about two extra points of growth over the course of a year to shave one point off the unemployment rate.

Now do the math. Suppose that the U.S. economy were to grow at 4 percent a year, starting now and continuing for the next several years. Most people would regard this as excellent performance, even as an economic boom; it’s certainly higher than almost all the forecasts I’ve seen.

 

Yet the math says that even with that kind of growth the unemployment rate would be close to 9 percent at the end of this year, and still above 8 percent at the end of 2012. We wouldn’t get to anything resembling full employment until late in Sarah Palin’s first presidential term.

Seriously, what we’re looking at over the next few years, even with pretty good growth, are unemployment rates that not long ago would have been considered catastrophic — because they are. Behind those dry statistics lies a vast landscape of suffering and broken dreams. And the arithmetic says that the suffering will continue as far as the eye can see.

So what can be done to accelerate this all-too-slow process of healing? A rational political system would long since have created a 21st-century version of the Works Progress Administration — we’d be putting the unemployed to work doing what needs to be done, repairing and improving our fraying infrastructure. In the political system we have, however, Senator-elect Kelly Ayotte, delivering the Republican weekly address on New Year’s Day, declared that “Job one is to stop wasteful Washington spending.”

 

 

Realistically, the best we can hope for from fiscal policy is that Washington doesn’t actively undermine the recovery. Beware, in particular, the Ides of March: by then, the federal government will probably have hit its debt limit and the G.O.P. will try to force President Obama into economically harmful spending cuts.

I’m also worried about monetary policy. Two months ago, the Federal Reserve announced a new plan to promote job growth by buying long-term bonds; at the time, many observers believed that the initial $600 billion purchase was only the beginning of the story. But now it looks like the end, partly because Republicans are trying to bully the Fed into pulling back, but also because a run of slightly better economic news provides an excuse to do nothing.

There’s even a significant chance that the Fed will raise interest rates later this year — or at least that’s what the futures market seems to think. Doing so in the face of high unemployment and minimal inflation would be crazy, but that doesn’t mean it won’t happen.

So back to my original point: whatever the recent economic news, we’re still near the bottom of a very deep hole. We can only hope that enough policy makers understand that point.

 

La buca profonda dell’economia di Paul Krugman

New York Times 2 gennaio 2011

 

 

Se c’è un frammento di saggezza economica al quale spero le persone si afferrino in questo nuovo anno, è il seguente: anche se alla fine è possibile che abbiamo terminato di scavare, siamo ancora vicini al fondo di una buca molto profonda.

Perché ho bisogno di sottolinearlo? Perché ho avuto notizia di varie persone che hanno reagito sopra le righe alle recenti buone notizie economiche. Ciò che particolarmente mi preoccupa è il rischio di un ottimismo contro il nostro interesse – cioè, temo che gli uomini politici guarderanno ai pochi indicatori economici favorevoli, che decideranno di non aver più bisogno di promuovere la ripresa, che prenderanno decisioni che ci faranno davvero scivolare all’indietro, sul fondo della buca.

Dunque, a proposito delle buone notizie: vari indicatori economici, che vanno dalle vendite relativamente buone nelle festività alle nuove richieste di assicurazione dalla disoccupazione (che sono finalmente scese al di sotto delle 400.000 in una settimana), suggeriscono che finalmente il grande gelo successivo alla bolla potrebbe essere al termine.

Qua non stiamo parlando di uno scampato pericolo[40]. Il settore delle costruzioni non dà alcun segno di un ritorno ai livelli del periodo della bolla, neppure ci sono indicazioni di un qualche ritorno delle famiglie sovra-indebitate alla loro vecchia abitudine di spendere tutto quello che guadagnavano. Ma tutto quello di cui avevamo bisogno era un modesto rimbalzo dell’economia, affinché l’edilizia cessasse di cadere ed il risparmio cessasse di crescere – e questo sembra che stia accadendo. Gli esperti di previsioni economiche hanno ritoccato i loro pronostici: sembra ora possibile per quest’anno una crescita attorno al 4 per cento.

Hurrà! Ma forse non è proprio così. I posti di lavoro e non i numeri del PIL sono quello che interessa alle famiglie americane. E quando si parte da un tasso di disoccupazione di circa il 10 per cento, la aritmetica della creazione dei posti di lavoro – l’ammontare della crescita di cui c’è bisogno per tornare ad un quadro di occupazione tollerabile –  è scoraggiante.

In primo luogo, noi dobbiamo crescere attorno ad un 2,5 per cento all’anno solo per stare al passo della crescita della produttività e della popolazione, ed è da quel punto che la disoccupazione cessa di crescere. Questa è la ragione per la quale l’ultimo anno e mezzo è stato tecnicamente un periodo di ripresa ma è sembrato di recessione: il PIL stava crescendo, ma non con la rapidità necessaria per abbassare la disoccupazione.

Una crescita ad un tasso superiore al 2,5 per cento abbasserà col tempo la disoccupazione. Ma il progresso non sarà ‘uno ad uno’: per un complesso di ragioni, si considerano storicamente necessari circa due punti supplementari di crescita nel corso di un anno per portar via[41] un punto del tasso di disoccupazione.

Torniamo alla matematica. Supponiamo che l’economia americana cresca attorno ad un 4 per cento all’anno, a partire da adesso e continuando per un certo numero di anni successivi. Molte persone considererebbero questa una prestazione eccellente, quasi un boom economico; essa è certamente più elevata di quanto quasi tutti gli esperti di previsioni avessero indicato.

Tuttavia la matematica dice che anche con una crescita del genere il tasso di disoccupazione resterebbe vicino al 9 per cento alla fine di quest’anno, ed ancora al di sopra dell’8 per cento alla fine del 2012. Non raggiungeremmo qualcosa che assomigli alla piena occupazione se non dopo il primo mandato presidenziale di Sarh Pelin[42].

Parlando sul serio, quello che possiamo constatare per i prossimi anni, anche con una crescita piuttosto buona, sono tassi di disoccupazione che non molto tempo fa avremmo considerato catastrofici, in quanto sono tali. Al di sotto di queste aride statistiche si presenta un vasto paesaggio di sofferenze e di sogni interrotti. E la matematica ci dice che le sofferenze proseguiranno, per quanto si possa vedere ad occhio nudo.

Cosa dunque si può fare per accelerare questo processo di guarigione fin troppo lento? Un sistema politico razionale  sarebbe stato impaziente[43] di ricreare una versione del 21° secolo della Works Progress Administration[44]; noi dovremmo aver messo al lavoro i disoccupati per fare quelle che c’è bisogno di fare, riparare e migliorare le nostre infrastrutture che si logorano. Nel sistema politico che abbiamo, tuttavia, il neo-Senatore Kelly Ayotte, pronunciando il messaggio settimanale per il primo dell’anno, ha dichiarato che “Il primo compito[45] è quello di interrompere lo spreco di spesa pubblica di Washington”.

Realisticamente, il meglio che possiamo sperare dalla politica finanziaria è che Washington non metta attivamente a repentaglio la ripresa. Attenzione, in particolare, alle Idi di Marzo: per quella data, il governo federale toccherà probabilmente il suo limite di indebitamento e il GOP cercherà di costringere il Presidente Obama a tagli di spese deleteri.

Sono anche preoccupato della politica monetaria. Due mesi fa la Federal Reserve annunciò un nuovo piano per promuovere la crescita dell’occupazione acquistando titoli sul debito a lungo termine; in quel momento, molti osservatori credettero che l’acquisto iniziale per 600 miliardi di dollari fosse solo l’inizio della partita. Ma ora sembra piuttosto la fine, in parte perché i Repubblicani hanno alzato la voce[46] nei confronti della Fed perché recedesse, ma anche perché un andamento di notizie economiche leggermente migliori fornisce una scusa per non far niente.

C’è persino una possibilità significativa che la Fed innalzi i tassi di interesse più in avanti nel corso di quest’anno – o almeno questo è quanto il mercato dei  futures sembra credere. Farlo in presenza di una elevata disoccupazione e di un inflazione ai minimi termini sarebbe follia, ma questo non vuol dire che non accadrà.

Torno così al punto di partenza: nonostante le recenti notizie dall’economia, noi siamo ancora nei pressi del fondo di una buca molto profonda. Possiamo solo sperare che un numero sufficiente di uomini politici lo capisca.  

 

 

 

The Texas Omen

By PAUL KRUGMAN
Published: January 6, 2011

These are tough times for state governments. Huge deficits loom almost everywhere, from California to New York, from New Jersey to Texas.

Wait — Texas? Wasn’t Texas supposed to be thriving even as the rest of America suffered? Didn’t its governor declare, during his re-election campaign, that “we have billions in surplus”? Yes, it was, and yes, he did. But reality has now intruded, in the form of a deficit expected to run as high as $25 billion over the next two years.

 

 

 

And that reality has implications for the nation as a whole. For Texas is where the modern conservative theory of budgeting — the belief that you should never raise taxes under any circumstances, that you can always balance the budget by cutting wasteful spending — has been implemented most completely. If the theory can’t make it there, it can’t make it anywhere.

 

 

How bad is the Texas deficit? Comparing budget crises among states is tricky, for technical reasons. Still, data from the Center on Budget and Policy Priorities suggest that the Texas budget gap is worse than New York’s, about as bad as California’s, but not quite up to New Jersey levels.

 

 

The point, however, is that just the other day Texas was being touted as a role model (and still is by commentators who haven’t been keeping up with the news). It was the state the recession supposedly passed by, thanks to its low taxes and business-friendly policies. Its governor boasted that its budget was in good shape thanks to his “tough conservative decisions.”

 

 

Oh, and at a time when there’s a full-court press on to demonize public-sector unions as the source of all our woes, Texas is nearly demon-free: less than 20 percent of public-sector workers there are covered by union contracts, compared with almost 75 percent in New York.

 

 

So what happened to the “Texas miracle” many people were talking about even a few months ago?

Part of the answer is that reports of a recession-proof state were greatly exaggerated. It’s true that Texas job losses haven’t been as severe as those in the nation as a whole since the recession began in 2007. But Texas has a rapidly growing population — largely, suggests Harvard’s Edward Glaeser, because its liberal land-use and zoning policies have kept housing cheap. There’s nothing wrong with that; but given that rising population, Texas needs to create jobs more rapidly than the rest of the country just to keep up with a growing work force.

 

 

 

 

 

And when you look at unemployment, Texas doesn’t seem particularly special: its unemployment rate is below the national average, thanks in part to high oil prices, but it’s about the same as the unemployment rate in New York or Massachusetts.

 

What about the budget? The truth is that the Texas state government has relied for years on smoke and mirrors to create the illusion of sound finances in the face of a serious “structural” budget deficit — that is, a deficit that persists even when the economy is doing well. When the recession struck, hitting revenue in Texas just as it did everywhere else, that illusion was bound to collapse.

 

 

The only thing that let Gov. Rick Perry get away, temporarily, with claims of a surplus was the fact that Texas enacts budgets only once every two years, and the last budget was put in place before the depth of the economic downturn was clear. Now the next budget must be passed — and Texas may have a $25 billion hole to fill. Now what?

 

 

 

 

Given the complete dominance of conservative ideology in Texas politics, tax increases are out of the question. So it has to be spending cuts.

Yet Mr. Perry wasn’t lying about those “tough conservative decisions”: Texas has indeed taken a hard, you might say brutal, line toward its most vulnerable citizens. Among the states, Texas ranks near the bottom in education spending per pupil, while leading the nation in the percentage of residents without health insurance. It’s hard to imagine what will happen if the state tries to eliminate its huge deficit purely through further cuts.

 

 

I don’t know how the mess in Texas will end up being resolved. But the signs don’t look good, either for the state or for the nation.

Right now, triumphant conservatives in Washington are declaring that they can cut taxes and still balance the budget by slashing spending. Yet they haven’t been able to do that even in Texas, which is willing both to impose great pain (by its stinginess on health care) and to shortchange the future (by neglecting education). How are they supposed to pull it off nationally, especially when the incoming Republicans have declared Medicare, Social Security and defense off limits?

 

 

 

People used to say that the future happens first in California, but these days what happens in Texas is probably a better omen. And what we’re seeing right now is a future that doesn’t work.

 

Il presagio del Texas, di Paul Krugman

News York Times 6 gennaio 2011

 

Sono tempi duri per i governi degli Stati. Incombono quasi dappertutto ampi deficit, dalla California a New York, dal New Jersey al Texas.

Un momento: il Texas? Non si riteneva che il Texas fosse florido, anche se il resto dell’America era in sofferenza? Non aveva dichiarato il suo governatore, durante la sua recente campagna elettorale per la rielezione: “abbiamo miliardi di surplus”? In effetti così si riteneva, e in effetti l’aveva detto. Ma ora si è intromessa la verità, nella forma di un deficit atteso da governare delle dimensioni di 25 miliardi di dollari nei prossimi due anni.

E quella verità ha conseguenze per la nazione nella sua interezza. Perché il Texas è il posto dove la moderna teoria di bilancio dei conservatori –  la convinzione che non si debbano mai alzare le tasse sotto nessuna circostanza, che si possano sempre riequilibrare i bilanci tagliando spese superflue – era stata messa in atto nel modo più esauriente. Se la teoria non provoca quell’effetto lì, non lo provoca da nessuna parte.

Quanto è grave il deficit del Texas? Un confronto tra le crisi di bilancio degli Stati è difficile, per ragioni tecniche. Tuttavia, i dati provenienti dal Center on Budget and Policy Priorities suggeriscono che il buco di bilancio del Texas sia peggiore di quello di New York, all’incirca grave come quello della California, ma non così elevato ai livelli del New Jersey.

La questione, tuttavia, è che solo pochi giorni fa il Texas era stato pubblicizzato come un modello esemplare (ed ancora è così, per quei commentatori che non si sono aggiornati con le ultime notizie). Era lo Stato che si voleva fosse stato ignorato dalla recessione, grazie alle sue tasse basse ad alle sue politiche favorevoli alle imprese. Il suo governatore si vantava che il bilancio fosse in buone condizioni in virtù delle sue “ dure decisioni conservatrici”.

E poi, in un tempo nel quale c’è una spinta asfissiante[47] nel demonizzare  i sindacati del settore pubblico come causa di tutti i mali, il Texas era praticamente immune da quel demonio: meno del 20 per cento dei lavoratori del settore pubblico erano interessati da contratti sindacali, a confronto del quasi 75 per cento nello stato di New York.

Cosa è dunque accaduto al “miracolo texano” del quale molte persone parlavano sino a pochi mesi orsono?

In parte la risposta consiste nel fatto che i resoconti su uno Stato “a prova di recessione” erano del tutto esagerati. E’ vero che le perdite di posti di lavoro nel Texas non sono state così severe come quelle della nazione nel suo complesso, dal momento in cui è iniziata la recessione nel 2007. Ma il Texas ha una popolazione in rapida crescita – in gran parte, come suggerisce Edward Glaeser dell’Università di Harvard, a causa del fatto che le sue politiche permissive dell’uso del territorio e dei piani regolatori hanno reso poco costose le abitazioni. In questo non c’è niente di inaccettabile; ma data la crescita della popolazione, il Texas ha la necessità di creare posti di lavoro più rapidamente che nel resto del paese, solo per tenere il passo con una forza lavoro crescente.

E quando si guarda alla disoccupazione, il Texas non sembra così speciale: il suo tasso di disoccupazione è sotto la media nazionale, in parte grazie agli alti prezzi del petrolio, ma è grosso modo simile al tasso di disoccupazione di New York o del Massachusetts.

E che dire del bilancio? La verità è che il Texas ha contato per anni su giochi di prestigio[48] per creare l’illusione di una finanza in salute di fronte al un serio “strutturale” deficit di bilancio – ovvero, ad un deficit che persiste anche quando l’economia va bene. Quando si è abbattuta la recessione, dando un colpo alle entrate nel Texas nello stesso modo in cui ha fatto da ogni altra parte, quell’illusione era destinata ad esplodere.

La sola cosa che consentiva al Governatore Rick Perry di farla franca, temporaneamente, con le pretese di un surplus di bilancio, era il fatto che il Texas approvava i suoi bilanci solo una volta ogni due anni, e l’ultimo bilancio era stato messo in pista prima che la gravità della flessione dell’economia fosse chiara. Ora che il prossimo bilancio deve essere approvato, il Texas è possibile che abbia un buco di 25 miliardi di dollari da coprire. E cosa accadrà?

Dato il completo controllo delle ideologie conservatrici nelle politiche texane, aumenti delle tasse sono fuori questione. Dunque, si deve tagliare le spese.

Tuttavia il signor Perry non aveva mentito a proposito di quelle “dure decisioni conservatrici”: il Texas ha in effetti assunto una linea di condotta dura, si potrebbe dire brutale, nei confronti dei suoi cittadini più deboli. Tra gli Stati, il Texas si colloca quasi al punto più basso quanto a spesa per allievo nella istruzione pubblica, mentre è in testa alla nazione come percentuale di residenti senza assicurazione sanitaria. E’ difficile immaginare cosa accadrà se lo Stato cercherà di eliminare il suo deficit elevato puramente attraverso tagli ulteriori.

Io non so come il disastro del Texas alla fine sarà risolto. Ma i segnali non sono buoni, né per lo stato né per la nazione.

In questo momento, a Washington i conservatori in trionfo stanno affermando di poter tagliare le tasse e purtuttavia riequilibrare il bilancio con l’abbattimento delle spese.  Tuttavia neanche in Texas sono stati capaci di fare una cosa del genere, dove c’era disponibilità sia a imporre grandi sofferenze (per la avarizia in materia di assistenza sanitaria), che a rubare[49] il futuro (per la trascuratezza dell’istruzione). Come si può immaginare che riescano ad ottenerlo su scala nazionale, dove i Repubblicani che sono entrati in carica hanno dichiarato che Medicare, i programmi della Sicurezza Sociale e della Difesa sono fuori discussione?

La gente era solita dire che il futuro si vede anzitutto dalla California,  ma quello che accade in questi giorni nel Texas è probabilmente un segnale più adatto. E quello che in questo momento stiamo osservando è un futuro che non funziona.     

 

 

 

 

Climate of Hate

By PAUL KRUGMAN
Published: January 9, 2011

When you heard the terrible news from Arizona, were you completely surprised? Or were you, at some level, expecting something like this atrocity to happen?

Put me in the latter category. I’ve had a sick feeling in the pit of my stomach ever since the final stages of the 2008campaign. I remembered the upsurge in political hatred after Bill Clinton’s election in 1992 — an upsurge that culminated in the Oklahoma City bombing. And you could see, just by watching the crowds at McCain-Palin rallies, that it was ready to happen again. The Department of Homeland Security reached the same conclusion: in April 2009 an internal report warned that right-wing extremism was on the rise, with a growing potential for violence.

Conservatives denounced that report. But there has, in fact, been a rising tide of threats and vandalism aimed at elected officials, including both Judge John Roll, who was killed Saturday, and Representative Gabrielle Giffords. One of these days, someone was bound to take it to the next level. And now someone has.

It’s true that the shooter in Arizona appears to have been mentally troubled. But that doesn’t mean that his act can or should be treated as an isolated event, having nothing to do with the national climate.

Last spring Politico.com reported on a surge in threats against members of Congress, which were already up by 300 percent. A number of the people making those threats had a history of mental illness — but something about the current state of America has been causing far more disturbed people than before to act out their illness by threatening, or actually engaging in, political violence.

 

And there’s not much question what has changed. As Clarence Dupnik, the sheriff responsible for dealing with the Arizona shootings, put it, it’s “the vitriolic rhetoric that we hear day in and day out from people in the radio business and some people in the TV business.” The vast majority of those who listen to that toxic rhetoric stop short of actual violence, but some, inevitably, cross that line.

 

It’s important to be clear here about the nature of our sickness. It’s not a general lack of “civility,” the favorite term of pundits who want to wish away fundamental policy disagreements. Politeness may be a virtue, but there’s a big difference between bad manners and calls, explicit or implicit, for violence; insults aren’t the same as incitement.

The point is that there’s room in a democracy for people who ridicule and denounce those who disagree with them; there isn’t any place for eliminationist rhetoric, for suggestions that those on the other side of a debate must be removed from that debate by whatever means necessary.

And it’s the saturation of our political discourse — and especially our airwaves — with eliminationist rhetoric that lies behind the rising tide of violence.

Where’s that toxic rhetoric coming from? Let’s not make a false pretense of balance: it’s coming, overwhelmingly, from the right. It’s hard to imagine a Democratic member of Congress urging constituents to be “armed and dangerous” without being ostracized; but Representative Michele Bachmann, who did just that, is a rising star in the G.O.P.

And there’s a huge contrast in the media. Listen to Rachel Maddow or Keith Olbermann, and you’ll hear a lot of caustic remarks and mockery aimed at Republicans. But you won’t hear jokes about shooting government officials or beheading a journalist at The Washington Post. Listen to Glenn Beck or Bill O’Reilly, and you will.

 

Of course, the likes of Mr. Beck and Mr. O’Reilly are responding to popular demand. Citizens of other democracies may marvel at the American psyche, at the way efforts by mildly liberal presidents to expand health coverage are met with cries of tyranny and talk of armed resistance. Still, that’s what happens whenever a Democrat occupies the White House, and there’s a market for anyone willing to stoke that anger.

 

But even if hate is what many want to hear, that doesn’t excuse those who pander to that desire. They should be shunned by all decent people.

 

Unfortunately, that hasn’t been happening: the purveyors of hate have been treated with respect, even deference, by the G.O.P. establishment. As David Frum, the former Bush speechwriter, has put it, “Republicans originally thought that Fox worked for us and now we’re discovering we work for Fox.”

So will the Arizona massacre make our discourse less toxic? It’s really up to G.O.P. leaders. Will they accept the reality of what’s happening to America, and take a stand against eliminationist rhetoric? Or will they try to dismiss the massacre as the mere act of a deranged individual, and go on as before?

 

If Arizona promotes some real soul-searching, it could prove a turning point. If it doesn’t, Saturday’s atrocity will be just the beginning.

 

Clima di odio, di Paul Krugman

New York Times 9 gennaio 2011

 

Quando avete sentito le terribili notizie dall’Arizona siete rimasti completamente sorpresi? Oppure, in qualche modo, vi aspettavate che una atrocità del genere accadesse?

Consideratemi tra questi ultimi. Avevo avuto un senso di nausea sin dalle battute finali della campagna elettorale del 2008. Mi ricordavo la recrudescenza di odio politico dopo l’elezione di Bill Clinton nel 1992 – recrudescenza che culminò nell’attentato di Oklahoma City. E si poteva intuire, solo osservando la gente ai raduni di McCain e della Pelin, che era tutto pronto per una ripetizione. Il Dipartimento della Sicurezza Nazionale era arrivato alla stessa conclusione: nell’aprile del 2009 un rapporto interno aveva ammonito che l’estremismo di destra era in crescita, con un potenziale di violenza crescente.

I conservatori denunciarono quel rapporto. Ma c’è stata, nei fatti, un’ondata crescente di minacce e di vandalismi, rivolti a rappresentanti dello Stato eletti, inclusi sia il Giudice John Roll, che è stato ucciso sabato, che la deputata Gabrielle Giffords.  Uno di questi giorni, era destino che qualcuno, in un crescendo, ne subisse le conseguenze. E adesso qualcuno le ha subite.

E’ vero che colui che ha sparato in Arizona, sembra avesse avuto disturbi mentali. Ma questo non significa che un atto del genere possa o debba essere trattato come un evento isolato, che non ha niente a che fare con un clima nazionale.

La scorsa primavera Politico.com aveva pubblicato un resoconto su una crescita delle minacce contro membri del Congresso, che era già superiore al 300 per cento. Un certo numero delle persone che sono responsabili di queste minacce ha avuto una storia di malattie mentali – ma qualcosa che viene dalla condizione attuale dell’America è all’origine del fatto che un numero superiore che in precedenza di persone disturbate traduce in pratica la propria malattia, attraverso minacce o impegnandosi di fatto nella violenza politica.

E non c’è molto da chiedersi su cosa abbia fatto la differenza. Come lo sceriffo Clarence Dupnik, responsabile delle operazioni connesse con la sparatoria dell’Arizona, ha affermato, si tratta della “retorica al vetriolo che ascoltiamo giorno dopo giorno dalla gente del settore radiofonico e da alcune persone di quello televisivo”. La grande maggioranza di coloro che ascoltano questa retorica inquinante si fermano alla soglia di atti di violenza effettivi, ma alcuni, inevitabilmente, la attraversano.

E’ importante, a questo punto, essere chiari a proposito della natura di questa nostra malattia. Non si tratta di una mancanza complessiva di “civiltà”, l’espressione prediletta degli esperti che vorrebbero fare a meno[50] delle divergenze di fondo della politica. Le buone maniere possono essere una virtù, ma c’è una grande differenza tra le cattive maniere e gli inviti, espliciti od impliciti, alla violenza: le invettive non sono la stessa cosa dell’istigazione.

Il fatto è che in democrazia c’è spazio per coloro che ironizzano e denunciano quelli che non sono d’accordo con loro; non c’è alcun posto per la retorica “eliminazionista”, per le suggestioni secondo le quali coloro che stanno dall’altra parte del dibattito debbano essere di necessità eliminati da quel dibattito, qualunque cosa significhi.

Ed è l’inflazione di retorica ‘eliminazionista’ nel nostro dibattito politico – e specialmente sui nostri programmi radiofonici – che sta dietro l’onda montante di violenza.

Da dove proviene questa retorica velenosa? Lasciamo da parte i falsi pretesti di equilibrio: essa viene, in modo schiacciante, dalla destra. E’ difficile immaginare un componente democratico del Congresso che faccia appello agli elettori ad essere “armati e minacciosi[51]”, senza che venga messo al bando[52];  ma il deputato Michele Bachmann, che l’ha appena detto,  all’interno del Partito Repubblicano è un astro nascente.

E sui media c’è un vasto contenzioso. Ascoltate Rachel Maddow o Keith Olbermann e sentirete un sacco di caustiche osservazioni e prese in giro nei confronti dei repubblicani. Ma non sentirete scherzare su pallottole a rappresentanti del governo o sulla decapitazione di un giornalista del Washington Post. Ascoltate Glenn Beck o Bill O’Reilly e lo sentirete.

Naturalmente, quelli come il signor Beck d il signor O’Reilly sono una risposta ad una domanda popolare. Cittadini di altre democrazie possono provare stupore dinanzi alla psicologia americana, dinanzi al modo in cui i tentativi di presidenti moderatamente liberal di ampliare la assistenza sanitaria siano accolti con grida di tirannia e discorsi sulla resistenza armata.   Tuttavia, è quello che accade ogni qual volta un democratico occupa la Casa Bianca, e c’è un mercato per chiunque abbia voglia di attizzare quella rabbia.

Ma anche se l’odio è quello di cui in molti vogliono sentir parlare, quella non è una scusa per coloro che assecondano quel desiderio. Essi dovrebbero essere messi ai margini da parte di tutte le persone rispettabili.

Sfortunatamente, non è quello che è avvenuto: coloro che distribuiscono odio sono stati trattati con rispetto, persino con deferenza, dal gruppo dirigente del GOP. Come ha notato David Frum, colui che scriveva in passato i discorsi di Bush, “i Repubblicani all’inizio pensavano che la Fox lavorasse per noi, ed ora stiamo scoprendo che noi lavoriamo per la Fox”.

In conclusione, il massacro dell’Arizona renderà il nostro dibattito meno velenoso? La questione riguarda[53] per davvero i dirigenti repubblicani. Prenderanno atto della realtà di quanto sta accadendo in America, e prenderanno posizione contro la retorica ‘eliminazionista’? O cercheranno di derubricare il massacro come il mero atto di un individuo squilibrato, e procederanno come prima?

Se i fatti dell’Arizona provocheranno un qualche effettivo esame di coscienza, potrebbero rivelarsi una occasione di svolta. Se non sarà così, l’atrocità di sabato sarà solo l’inizio.

 

  

 

 

 

A Tale of Two Moralities

By PAUL KRUGMAN
Published: January 13, 2011
 

On Wednesday, President Obama called on Americans to “expand our moral imaginations, to listen to each other more carefully, to sharpen our instincts for empathy, and remind ourselves of all the ways our hopes and dreams are bound together.” Those were beautiful words; they spoke to our desire for reconciliation.

But the truth is that we are a deeply divided nation and are likely to remain one for a long time. By all means, let’s listen to each other more carefully; but what we’ll discover, I fear, is how far apart we are. For the great divide in our politics isn’t really about pragmatic issues, about which policies work best; it’s about differences in those very moral imaginations Mr. Obama urges us to expand, about divergent beliefs over what constitutes justice.

And the real challenge we face is not how to resolve our differences — something that won’t happen any time soon — but how to keep the expression of those differences within bounds.

What are the differences I’m talking about?

One side of American politics considers the modern welfare state — a private-enterprise economy, but one in which society’s winners are taxed to pay for a social safety net — morally superior to the capitalism red in tooth and claw we had before the New Deal. It’s only right, this side believes, for the affluent to help the less fortunate.

The other side believes that people have a right to keep what they earn, and that taxing them to support others, no matter how needy, amounts to theft. That’s what lies behind the modern right’s fondness for violent rhetoric: many activists on the right really do see taxes and regulation as tyrannical impositions on their liberty.

 

There’s no middle ground between these views. One side saw health reform, with its subsidized extension of coverage to the uninsured, as fulfilling a moral imperative: wealthy nations, it believed, have an obligation to provide all their citizens with essential care. The other side saw the same reform as a moral outrage, an assault on the right of Americans to spend their money as they choose.

This deep divide in American political morality — for that’s what it amounts to — is a relatively recent development. Commentators who pine for the days of civility and bipartisanship are, whether they realize it or not, pining for the days when the Republican Party accepted the legitimacy of the welfare state, and was even willing to contemplate expanding it. As many analysts have noted, the Obama health reform — whose passage was met with vandalism and death threats against members of Congress — was modeled on Republican plans from the 1990s.

But that was then. Today’s G.O.P. sees much of what the modern federal government does as illegitimate; today’s Democratic Party does not. When people talk about partisan differences, they often seem to be implying that these differences are petty, matters that could be resolved with a bit of good will. But what we’re talking about here is a fundamental disagreement about the proper role of government.

 

Regular readers know which side of that divide I’m on. In future columns I will no doubt spend a lot of time pointing out the hypocrisy and logical fallacies of the “I earned it and I have the right to keep it” crowd. And I’ll also have a lot to say about how far we really are from being a society of equal opportunity, in which success depends solely on one’s own efforts.

 

But the question for now is what we can agree on given this deep national divide.

In a way, politics as a whole now resembles the longstanding politics of abortion — a subject that puts fundamental values at odds, in which each side believes that the other side is morally in the wrong. Almost 38 years have passed since Roe v. Wade, and this dispute is no closer to resolution.

Yet we have, for the most part, managed to agree on certain ground rules in the abortion controversy: it’s acceptable to express your opinion and to criticize the other side, but it’s not acceptable either to engage in violence or to encourage others to do so.

What we need now is an extension of those ground rules to the wider national debate.

Right now, each side in that debate passionately believes that the other side is wrong. And it’s all right for them to say that. What’s not acceptable is the kind of violence and eliminationist rhetoric encouraging violence that has become all too common these past two years.

It’s not enough to appeal to the better angels of our nature. We need to have leaders of both parties — or Mr. Obama alone if necessary — declare that both violence and any language hinting at the acceptability of violence are out of bounds. We all want reconciliation, but the road to that goal begins with an agreement that our differences will be settled by the rule of law.

 

La storia di due morali, di Paul Krugman

New York Times 13 gennaio 2011

 

 

Mercoledì il Presidente Obama ha invitato noi americani “ad allargare il confine della nostra immaginazione morale, ad ascoltarci con più attenzione l’uno con l’altro, ad affinare i nostri istinti di empatia, a ricordarci che in fin dei conti le nostre speranze e i nostri sogni sono collegati insieme”. Sono state belle parole, che hanno parlato al nostro desiderio di riconciliazione.

Ma la verità è che siamo una nazione profondamente divisa e che resteremo tali per un lungo periodo. In ogni modo, ascoltiamoci l’uno con l’altro con più attenzione; ma quello che scopriremo, temo, è quanto siamo lontani l’uno dall’altro. Perché la grande divisione nella nostra politica non riguarda in effetti i temi pratici, di quali siano le politiche che funzionano meglio; riguarda le differenze in quelle immagini della morale che Obama ci sollecita ad allargare, i diversi convincimenti sui fondamenti della giustizia.

E la sfida reale dinanzi alla quale ci troviamo non è quella di superare le nostre differenze – che è cosa non destinata ad accadere in un breve lasso di tempo – ma quella di non uscire dai limiti dovuti, nell’esprimere quelle diversità

Di quali differenze sto parlando?

Un parte della politica americana considera l’attuale stato assistenziale – una economia di imprese private, nella quale però i vincenti nella società sono tassati per pagare una rete di sicurezza sociale – moralmente superiore al capitalismo primordiale e cruento[54] che avevamo prima del New Deal. E’ solo per giustizia, crede questa parte, che i ricchi aiutano i meno fortunati.

L’altra parte ritiene che la gente abbia diritto a prendersi quello che guadagna, e che essere tassati per sostenere altri, non conta quanto bisognosi, corrisponda a subire un furto. Questo è quello che sta dietro la passione per la destra contemporanea alla retorica violenta: molti attivisti della destra effettivamente concepiscono le tasse e le regole come imposizioni tiranniche alla loro libertà.

Non c’è una via di mezzo tra questi due punti di vista. Una parte considera la riforma sanitaria, con il suo ampliamento della copertura per i non assicurati a carico dello stato, come un accettabile imperativo morale: le nazioni ricche, credono costoro, hanno l’obbligo di provvedere a tutti i loro cittadini nella assistenza di base. L’altra parte considera la stessa riforma come un oltraggio morale, un assalto al diritto degli americani di spendere i loro soldi come credono.

Questa profonda frattura nella moralità politica americana – per quello che può contare – corrisponde ad uno sviluppo relativamente recente. I commentatori che si struggono per i tempi della civiltà e della politica bipartisan hanno la nostalgia, che lo comprendano o meno, di tempi nei quali il Partito Repubblicano accettava lo stato assistenziale come legittimo, ed aveva persino voglia di prendere in considerazione un suo ampliamento. Come molti analisti hanno notato, la riforma sanitaria di Obama – la approvazione della quale è stata accolta con vandalismi e minacce di morte rivolte a membri del Congresso – era modellata su progetti repubblicani degli anni 90.

Ma questo accadeva una volta. Oggi il GOP considera gran parte di quello che fa il governo federale come illegittimo; di contro, il Partito Democratico di oggi pensa l’opposto. Quando alcune persone parlano delle diversità tra le diverse fazioni, essi sembrano spesso considerare implicito che queste differenze siano trascurabili, aspetti che possono essere risolti con un po’ di buona volontà. Ma quello di cui stiamo qua ragionando è un dissenso fondamentale sul ruolo effettivo del governo.

Coloro che mi leggono con regolarità, sanno da quale parte di quella frattura io mi collochi. In prossimi articoli spenderò senza alcun dubbio un po’ di tempo per sottolineare l’ipocrisia e l’incongruenza logica del popolare “Io l’ho guadagnato ed io ho il diritto di averlo”. Nello stesso modo, avrò qualcosa da dire a proposito di quanto si sia lontani da una società fondata su eguali opportunità, dalla cui affermazione dipende completamente l’impegno personale di ciascuno.

Ma la domanda è ora quella di ciò su cui possiamo metterci d’accordo, data questa profonda divisione della nazione.

In un certo senso, la politica nel suo complesso assomiglia oggi al tema politico di vecchia data dell’aborto – un tema che pone in conflitto valore fondamentali, nel quale ogni parte crede che l’altra sia moralmente in errore. Sono passati quasi 38 anni dalla causa “Roe contro Wade” [55], e quella disputa non è più vicina alla soluzione.

Tuttavia siamo riusciti, in grande maggioranza, a intenderci su alcune regole di fondo sulla controversia sull’aborto: è accettabile che esprimiate la vostra opinione e che critichiate quella avversa, ma non è accettabile prendere parte ad atti di violenza o incoraggiare gli altri a farlo.

Ciò di cui abbiamo bisogno è una estensione di queste regole basilari al più vasto dibattito nazionale.

In questo momento, ciascuna delle due parti di quel dibattito è convinta appassionatamente che l’altra sbagli. E questo è nel loro diritto. Ciò che non è accettabile è quel tipo di violenza e di retorica ‘eliminazionista’ che incoraggia la violenza che è diventata sin troppo frequente negli ultimi due anni.

Non basta fare appello ai nostri migliori sentimenti. Abbiamo bisogno che i leaders di entrambe le parti –  oppure Obama da solo, se necessario – dichiarino che sia la violenza che ogni linguaggio che allude alla accettabilità della violenza sono fuori dai limiti consentiti. Vogliamo tutti la riconciliazione, ma la strada per giungere a quel risultato comincia da un accordo secondo il quale le nostre divergenze debbono essere regolate nel rispetto della legge.

 

 

 

The War on Logic

By PAUL KRUGMAN
Published: January 16, 2011

My wife and I were thinking of going out for an inexpensive dinner tonight. But John Boehner, the speaker of the House, says that no matter how cheap the meal may seem, it will cost thousands of dollars once you take our monthly mortgage payments into account.

Wait a minute, you may say. How can our mortgage payments be a cost of going out to eat, when we’ll have to make the same payments even if we stay home? But Mr. Boehner is adamant: our mortgage is part of the cost of our meal, and to say otherwise is just a budget gimmick.

 

O.K., the speaker hasn’t actually weighed in on our plans for the evening. But he and his G.O.P. colleagues have lately been making exactly the nonsensical argument I’ve just described — not about tonight’s dinner, but about health care reform. And the nonsense wasn’t a slip of the tongue; it’s the official party position, laid out in charts and figures.

 

We are, I believe, witnessing something new in American politics. Last year, looking at claims that we can cut taxes, avoid cuts to any popular program and still balance the budget, I observed that Republicans seemed to have lost interest in the war on terror and shifted focus to the war on arithmetic. But now the G.O.P. has moved on to an even bigger project: the war on logic.

 

So, about that nonsense: this week the House is expected to pass H.R. 2, the Repealing the Job-Killing Health Care Law Act — its actual name. But Republicans have a small problem: they claim to care about budget deficits, yet the Congressional Budget Office says that repealing last year’s health reform would increase the deficit. So what, other than dismissing the nonpartisan budget office’s verdict as “their opinion” — as Mr. Boehner has — can the G.O.P. do?

 

The answer is contained in an analysis — or maybe that should be “analysis” — released by the speaker’s office, which purports to show that health care reform actually increases the deficit. Why? That’s where the war on logic comes in.

First of all, says the analysis, the true cost of reform includes the cost of the “doc fix.” What’s that?

 

Well, in 1997 Congress enacted a formula to determine Medicare payments to physicians. The formula was, however, flawed; it would lead to payments so low that doctors would stop accepting Medicare patients. Instead of changing the formula, however, Congress has consistently enacted one-year fixes. And Republicans claim that the estimated cost of future fixes, $208 billion over the next 10 years, should be considered a cost of health care reform.

 

But the same spending would still be necessary if we were to undo reform. So the G.O.P. argument here is exactly like claiming that my mortgage payments, which I’ll have to make no matter what we do tonight, are a cost of going out for dinner.

There’s more like that: the G.O.P. also claims that $115 billion of other health care spending should be charged to health reform, even though the budget office has tried to explain that most of this spending would have taken place even without reform.

 

To be sure, the Republican analysis doesn’t rely entirely on spurious attributions of cost — it also relies on using three-card monte tricks to make money disappear. Health reform, says the budget office, will increase Social Security revenues and reduce Medicare costs. But the G.O.P. analysis says that these sums don’t count, because some people have said that these savings would also extend the life of these programs’ trust funds, so counting these savings as deficit reduction would be “double-counting,” because — well, actually it doesn’t make any sense, but it sounds impressive.

 

So, is the Republican leadership unable to see through childish logical fallacies? No.

The key to understanding the G.O.P. analysis of health reform is that the party’s leaders are not, in fact, opposed to reform because they believe it will increase the deficit. Nor are they opposed because they seriously believe that it will be “job-killing” (which it won’t be). They’re against reform because it would cover the uninsured — and that’s something they just don’t want to do.

 

And it’s not about the money. As I tried to explain in my last column, the modern G.O.P. has been taken over by an ideology in which the suffering of the unfortunate isn’t a proper concern of government, and alleviating that suffering at taxpayer expense is immoral, never mind how little it costs.

 

Given that their minds were made up from the beginning, top Republicans weren’t interested in and didn’t need any real policy analysis — in fact, they’re basically contemptuous of such analysis, something that shines through in their health care report. All they ever needed or wanted were some numbers and charts to wave at the press, fooling some people into believing that we’re having some kind of rational discussion. We aren’t.

 

La guerra alla logica, di Paul Krugman

New York Times 16 gennaio 2011

 

 

Questa sera, io e mia moglie stavamo pensando di uscire per una cenetta economica. Ma John Boehner, lo speaker della Camera, dice che non conta quanto economico possa sembrare un pasto, esso costerà migliaia di dollari una volta che mettete nel conto la rata mensile del mutuo.

Aspetta un attimo, obietterete voi. Come è possibile che il rateo del mutuo faccia parte del costo di una cena fuori, quando dovremmo provvedere a pagare la stessa somma se restiamo in casa? Ma il signor Boehner è irremovibile: il vostro mutuo è parte del costo del vostro pasto, e dire le cose diversamente sarebbe solo un trucco contabile.

Ebbene, non è che lo speaker abbia per davvero preso in considerazione i vostri programmi per la serata. Eppure, lui ed i suoi colleghi del Partito Repubblicano sono venuti svolgendo di recente gli stessi ragionamenti insensati che ho appena descritto, e non in riferimento alla cena di questa sera, ma a proposito della riforma della assistenza sanitaria. E il nonsenso non è stato un lapsus[56], bensì la posizione ufficiale del Partito, messa giù in numeri e diagrammi.

Stiamo assistendo, io credo, a qualcosa di nuovo nella politica americana. L’anno passato, nel mentre mi occupavo delle pretese secondo le quali avremmo potuto tagliare le tasse, evitare tagli ai programmi di governo nei settori sociali e purtuttavia riequilibrare il bilancio, io osservai che i Repubblicani sembravano aver perso interesse nella guerra al terrorismo ed aver spostato l’attenzione alla guerra alla aritmetica. Ma adesso il GOP è passato ad un progetto ancora più impegnativo: la guerra alla logica.

Dunque, a proposito del nonsenso: questa settimana la Camera è previsto che approvi la H.R. 2 (“Proposta di abrogazione della legge di distruzione di posti di lavoro e di assistenza sanitaria[57]”, giacché questa è la sua denominazione effettiva). Dunque, cosa ha intenzione di fare il Partito Repubblicano, oltre a liquidare il parere dell’Ufficio del Bilancio come “la loro opinione”, come ha fatto il signor Boehner?

 

 

 

La risposta è contenuta in una analisi – o forse sarebbe meglio “analisi” tra virgolette – rilasciata dall’ufficio dello speaker, che ha la pretesa di dimostrare che la riforma della assistenza sanitaria effettivamente comporta un aumento del deficit. Perché? E’ qua dove entra in gioco la guerra alla logica.

Prima di tutto, dice l’analisi, il costo effettivo della riforma include il costo della “correzione del compenso ai medici”.  Di cosa si tratta?

Ebbene, nel 1997 il Congresso adottò una formula per il pagamento dei medici generici. Quella formula, tuttavia, aveva un difetto: essa avrebbe comportato pagamenti così lenti, che i medici avrebbero cessato di accettare pazienti di Medicare. Ciononostante, il Congresso, anziché modificare la formula, approvò ripetutamente correzioni della durata di un anno. E i Repubblicani pretendono che il costo stimato di queste correzioni, 208 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, sia considerato come un costo della riforma della assistenza sanitaria.

Sennonché la stessa spesa sarebbe ancora indispensabile se si decidesse di annullare la riforma. Dunque, l’argomento in questione del GOP è esattamente come pretendere che le mie rate del mutuo, alle quali dovrò provvedere a prescindere da cosa faremo questa sera, facciano parte del costo dell’andare a cena fuori.

C’è ancora altro del genere: il GOP pretende che 115 miliardi di dollari di altre spese di assistenza sanitaria siano poste a carico della riforma sanitaria, nonostante che l’Ufficio del Bilancio abbia provato a spiegare che una gran parte di questa spesa avrebbe avuto luogo anche senza la riforma.

 

In verità, l’analisi repubblicana non si basa interamente su una spuria attribuzione dei costi – essa consiste anche nell’utilizzo dei trucchi del gioco delle tre-carte per far sparire denaro. La riforma sanitaria, dice l’Ufficio del Bilancio, accrescerà le entrate della Sicurezza Sociale e ridurrà i costi di Medicare. Ma l’analisi del GOP afferma che queste somme non devono essere considerate, perché qualcuno ha detto che questi risparmi avrebbero l’effetto di prolungare la vita dei fondi fiduciari di questi programmi, cosicché contabilizzare questi risparmi come riduzione del deficit equivarrebbe, per quella ragione,  ad un “doppio conteggio” – il che non significa effettivamente nulla, ma sembra di grande effetto.

Dunque, il gruppo dirigente repubblicano è incapace di accorgersi di questi errori logici puerili? No.

La chiave della comprensione della analisi del GOP sulla riforma sanitaria consiste nel fatto che i dirigenti del partito, in effetti, non si sono opposti alla riforma perché sono convinti che essa accrescerà il deficit. Neppure si sono opposti ad essa perché credono seriamente che “distruggerà posti di lavoro” (il che non accadrà). Essi sono contrari alla riforma perché essa darà una copertura a coloro che sono privi di assicurazione per la salute – e questo è quanto proprio non vogliono fare.

E non è un problema di soldi. Come ho cercato di spiegare nel mio precedente articolo, il GOP dei nostri giorni è condizionato da una ideologia per la quale la sofferenza delle persone sfortunate non è una preoccupazione appropriata per un governo, e ridurre quella sofferenza a carico dei contribuenti è immorale, a prescindere dal fatto che si tratti di un costo modesto.

Dato che la loro mentalità subiva quel condizionamento sin dall’inizio, i dirigenti repubblicani non erano interessati e non avevano bisogno di alcuna effettiva analisi politica – nei fatti, essi erano fondamentalmente sprezzanti verso una analisi del genere,  la qualcosa traspare dal loro rapporto sulla assistenza sanitaria. Tutto ciò di cui avevano bisogno e volevano erano alcuni numeri e qualche diagramma da sventolare presso la stampa, in modo da indurre qualcuno a credere con l’inganno che assistevamo ad un dibattito con un qualche fondamento razionale. Non è a quello che stiamo assistendo.

 

 

 

China Goes to Nixon

By PAUL KRUGMAN
Published: January 20, 2011

With Hu Jintao, China’s president, currently visiting the United States, stories about growing Chinese economic might are everywhere. And those stories are entirely true: although China is still a poor country, it’s growing fast, and given its sheer size it’s well on the way to matching America as an economic superpower.

What’s also true, however, is that China has stumbled into a monetary muddle that’s getting worse with each passing month. Furthermore, the Chinese government’s response to the problem — with policy seemingly paralyzed by deference to special interests, lack of intellectual clarity and a resort to blame games — belies any notion that China’s leaders can be counted on to act decisively and effectively. In fact, the Chinese come off looking like, well, us.

 

How bad will it get? Warnings from some analysts that China could trigger a global crisis seem overblown. But the fact that people are saying such things is an indication of how out of control the situation looks right now.

The root cause of China’s muddle is its weak-currency policy, which is feeding an artificially large trade surplus. As I’ve emphasized in the past, this policy hurts the rest of the world, increasing unemployment in many other countries, America included.

But a policy can be bad for us without being good for China. In fact, Chinese currency policy is a lose-lose proposition, simultaneously depressing employment here and producing an overheated, inflation-prone economy in China itself.

One way to think about what’s happening is that inflation is the market’s way of undoing currency manipulation. China has been using a weak currency to keep its wages and prices low in dollar terms; market forces have responded by pushing those wages and prices up, eroding that artificial competitive advantage. Some estimates I’ve heard suggest that at current rates of inflation, Chinese undervaluation could be gone in two or three years — not soon enough, but sooner than many expected.

 

China’s leaders are, however, trying to prevent this outcome, not just to protect exporters’ interest, but because inflation is even more unpopular in China than it is elsewhere. One big reason is that China already in effect exploits its citizens through financial repression (other kinds, too, but that’s not relevant here). Interest rates on bank deposits are limited to just 2.75 percent, which is below the official inflation rate — and it’s widely believed that China’s true inflation rate is substantially higher than its government admits.

 

Rapidly rising prices, even if matched by wage increases, will make this exploitation much worse. It’s no wonder that the Chinese public is angry about inflation, and that China’s leaders want to stop it.

But for whatever reason — the power of export interests, refusal to do anything that looks like giving in to U.S. demands or sheer inability to think clearly — they’re not willing to deal with the root cause and let their currency rise. Instead, they are trying to control inflation by raising interest rates and restricting credit.

 

This is destructive from a global point of view: with much of the world economy still depressed, the last thing we need is major players pursuing tight-money policies. More to the point from China’s perspective, however, is that it’s not working. Credit limits are proving hard to enforce and are being further undermined by inflows of hot money from abroad.

 

With efforts to cool the economy falling short, China has been trying to limit inflation with price controls — a policy that rarely works. In particular, it’s a policy that failed dismally the last time it was tried here, during the Nixon administration. (And, yes, this means that right now China is going to Nixon.)

 

So what’s left? Well, China has turned to the blame game, accusing the Federal Reserve (wrongly) of creating the problem by printing too much money. But while blaming the Fed may make Chinese leaders feel better, it won’t change U.S. monetary policy, nor will it do anything to tame China’s inflation monster.

Could all of this really turn into a full-fledged crisis? If I didn’t know my economic history, I’d find the idea implausible. After all, the solution to China’s monetary muddle is both simple and obvious: just let the currency rise, already.

But I do know my economic history, which means that I know how often governments refuse, sometimes for many years, to do the obviously right thing — and especially when currency values are concerned. Usually they try to keep their currencies artificially strong rather than artificially weak; but it can be a big mess either way.

 

So our newest economic superpower may indeed be on its way to some kind of economic crisis, with collateral damage to the world as a whole. Did we need this?

 

La Cina va da Nixon, di Paul Krugman

New York Times 20 gennaio 2011

 

Con Hu Jintao, il Presidente della Cina, attualmente in visita agli Stati Uniti, articoli sulla crescita economica cinese si trovano dappertutto. E sono servizi interamente corrispondenti alla verità: sebbene la Cina sia ancora un paese povero, sta crescendo rapidamente, e data la sua immensa vastità essa è per davvero sulla strada di eguagliare l’America come superpotenza economica.

E’ anche vero, tuttavia, che la Cina è inciampata in un imbroglio monetario che sta diventando peggiore mese dopo mese. Inoltre, la risposta del Governo cinese al problema – con una politica apparentemente paralizzata dalla compiacenza verso gli interessi particolari, dalla mancanza di trasparenza intellettuale e dal ricorso agli scarichi di responsabilità – scoraggia ogni idea per la quale si possa far conto sui dirigenti cinesi per una azione decisiva ed efficace. Nei fatti, sembra che i cinesi funzionino esattamente come noi.

Quali saranno le conseguenze negative? La messa in guardia di qualche analista secondo il quale la Cina potrebbe innescare una crisi globale sembra superata. Ma il fatto che la gente dica cose del genere è una indicazione di quanto la situazione sul momento appaia fuori controllo.

Alla radice dell’imbroglio cinese sta la politica di una valuta debole, che sta alimentando un surplus commerciale artificialmente ampio. Come abbiamo sottolineato in passato, questa politica offende il resto del mondo, accrescendo la disoccupazione in molti altri paesi, America inclusa.

Ma una politica può risultare negativa per noi senza essere positiva per la Cina. Di fatto, la attuale politica cinese è un faccenda nella quale ci rimettono tutti, che contemporaneamente deprime l’occupazione da noi e provoca un’economia surriscaldata e soggetta all’inflazione nella Cina stessa.

Un modo di intendere quanto sta accadendo consiste nel considerare che l’inflazione è il modo in cui il mercato disfa la manipolazione valutaria. La Cina ha utilizzato una valuta debole per tenere i suoi salari e i suoi prezzi bassi in termini di dollari; i meccanismi di mercato hanno risposto spingendo in alto quei salari e quei prezzi, erodendo quel vantaggi competitivo artificiale. Secondo alcune stime che ho sentito, con gli attuali tassi di inflazione la sottovalutazione cinese potrebbe essere superata in due o tre anni – non abbastanza in fretta, ma più rapidamente di quanto molti si aspettassero.

I dirigenti cinesi stanno tuttavia cercando di prevenire un risultato del genere, non solo per proteggere gli interessi delle esportazioni, ma perché l’inflazione è in Cina ancora più impopolare che in qualsiasi altro posto. Una grande ragione consiste nel fatto che la Cina, in effetti, già sfrutta i suoi cittadini attraverso la costrizione finanziaria (anche in altri modi, ma questo non è rilevante in questa sede). I tassi di interesse sui depositi bancari sono limitati appena al 2,75 per cento, il che è al di sotto del tasso ufficiale di inflazione – e si è generalmente convinti che il tasso di inflazione cinese sia sostanzialmente più alto di quanto il governo ammetta.

Il rapido aumento dei prezzi, anche se compensato dall’incremento dei salari, renderà questo sfruttamento anche maggiore. Non c’è da meravigliarsi che l’opinione pubblica cinese sia arrabbiata per l’inflazione, e che i dirigenti cinesi vogliano fermare quella indignazione.

Ma qualsiasi sia la ragione – il potere degli interessi del settore dell’export, il rifiuto di fare qualsiasi cosa che assomigli ad una resa alle richieste americane o una pura e semplice incapacità di  ragionare con chiarezza – essi non intendono misurarsi con la causa di fondo e lasciano svalutare la loro moneta. Stanno piuttosto cercando di controllare l’inflazione con tassi di interesse crescenti e con la restrizione del credito.

La qual cosa è distruttiva, da un punto di vista globale: con una gran parte dell’economia mondiale ancora depressa, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che i principali attori perseguano politiche di restrizione monetaria. Tuttavia, a parte la sua utilità nella prospettiva cinese[58], il fatto è che questa soluzione non sta funzionando . Si sta rivelando difficile potenziare i  limiti al credito ed essi sono per di più indeboliti dai flussi dei capitali vaganti provenienti dall’estero.

Considerate le difficoltà a raffreddare l’economia, la Cina sta provando a limitare l’inflazione mediante il controllo dei prezzi – una politica che raramente produce effetti adeguati. Si tratta di una politica che fallì miseramente, in particolare, l’ultima volta che fu tentata qua da noi, durante la amministrazione Nixon (il che significa, in effetti, che sul momento la Cina si sta muovendo nella direzione di Nixon).

Dunque, cosa ho dimenticato? Ebbene, la Cina è ricorsa allo scarico di responsabilità, accusando (erroneamente) la Federal Reserve di aver creato il problema mettendo in circolazione troppo denaro. Ma se incolpare la Fed può far sentire un po’ meglio i dirigenti cinesi, questo non muterà la politica monetaria degli Stati Uniti, né servirà granché ad addomesticare il mostro cinese dell’inflazione.

Potrebbe tutto questo risolversi in una completa crisi? Se non conoscessi la storia dell’economia[59], troverei questa idea poco plausibile. Dopo tutto, la soluzione dell’imbroglio monetario cinese è evidente e semplice: semplicemente, si lasci infine[60] che la valuta si apprezzi.        

Ma conosco la storia dell’economia, il che significa che so con quanta frequenza i governi rifiutano, talora per molti anni, di fare le cose giuste più elementari – specialmente quando sono in ballo i valori delle monete. Normalmente essi cercano di mantenere le loro valute artificialmente forti piuttosto che deboli: ma in entrambi i modi si possono provocare grandi disordini.

La nostra nuova superpotenza economica è dunque davvero prossima ad un qualche genere di crisi economica, con un conseguente danno al mondo nel suo complesso? Avevamo bisogno anche di questo?    

 

 

The Competition Myth

By PAUL KRUGMAN
Published: January 23, 2011

Meet the new buzzword, same as the old buzzword. In advance of the State of the Union, President Obama has telegraphed his main theme: competitiveness. The President’s Economic Recovery Advisory Board has been renamed the President’s Council on Jobs and Competitiveness. And in his Saturday radio address, the president declared that “We can out-compete any other nation on Earth.”

 

This may be smart politics. Arguably, Mr. Obama has enlisted an old cliché on behalf of a good cause, as a way to sell a much-needed increase in public investment to a public thoroughly indoctrinated in the view that government spending is a bad thing.

 

But let’s not kid ourselves: talking about “competitiveness” as a goal is fundamentally misleading. At best, it’s a misdiagnosis of our problems. At worst, it could lead to policies based on the false idea that what’s good for corporations is good for America.

About that misdiagnosis: What sense does it make to view our current woes as stemming from lack of competitiveness?

It’s true that we’d have more jobs if we exported more and imported less. But the same is true of Europe and Japan, which also have depressed economies. And we can’t all export more while importing less, unless we can find another planet to sell to. Yes, we could demand that China shrink its trade surplus — but if confronting China is what Mr. Obama is proposing, he should say that plainly.

Furthermore, while America is running a trade deficit, this deficit is smaller than it was before the Great Recession began. It would help if we could make it smaller still. But ultimately, we’re in a mess because we had a financial crisis, not because American companies have lost their ability to compete with foreign rivals.

 

But isn’t it at least somewhat useful to think of our nation as if it were America Inc., competing in the global marketplace? No.

Consider: A corporate leader who increases profits by slashing his work force is thought to be successful. Well, that’s more or less what has happened in America recently: employment is way down, but profits are hitting new records. Who, exactly, considers this economic success?

 

Still, you might say that talk of competitiveness helps Mr. Obama quiet claims that he’s anti-business. That’s fine, as long as he realizes that the interests of nominally “American” corporations and the interests of the nation, which were never the same, are now less aligned than ever before.

Take the case of General Electric, whose chief executive, Jeffrey Immelt, has just been appointed to head that renamed advisory board. I have nothing against either G.E. or Mr. Immelt. But with fewer than half its workers based in the United States and less than half its revenues coming from U.S. operations, G.E.’s fortunes have very little to do with U.S. prosperity.

 

By the way, some have praised Mr. Immelt’s appointment on the grounds that at least he represents a company that actually makes things, rather than being yet another financial wheeler-dealer. Sorry to burst this bubble, but these days G.E. derives more revenue from its financial operations than it does from manufacturing — indeed, GE Capital, which received a government guarantee for its debt, was a major beneficiary of the Wall Street bailout.

 

So what does the administration’s embrace of the rhetoric of competitiveness mean for economic policy?

The favorable interpretation, as I said, is that it’s just packaging for an economic strategy centered on public investment, investment that’s actually about creating jobs now while promoting longer-term growth. The unfavorable interpretation is that Mr. Obama and his advisers really believe that the economy is ailing because they’ve been too tough on business, and that what America needs now is corporate tax cuts and across-the-board deregulation.

My guess is that we’re mainly talking about packaging here. And if the president does propose a serious increase in spending on infrastructure and education, I’ll be pleased.

 

But even if he proposes good policies, the fact that Mr. Obama feels the need to wrap these policies in bad metaphors is a sad commentary on the state of our discourse.

The financial crisis of 2008 was a teachable moment, an object lesson in what can go wrong if you trust a market economy to regulate itself. Nor should we forget that highly regulated economies, like Germany, did a much better job than we did at sustaining employment after the crisis hit. For whatever reason, however, the teachable moment came and went with nothing learned.

 

Mr. Obama himself may do all right: his approval rating is up, the economy is showing signs of life, and his chances of re-election look pretty good. But the ideology that brought economic disaster in 2008 is back on top — and seems likely to stay there until it brings disaster again.

 

Il mito della competizione, di Paul Krugman

New York Times 23 gennaio 2011

 

Facciamo la conoscenza della nuova parola d’ordine, esattamente come per la vecchia. Il Presidente Obama, in anticipo sul discorso sullo Stato dell’Unione, ha trasmesso il suo tema fondamentale: la competitività. La Commissione dei Consulenti per la Ripresa dell’Economia del Presidente è stata ribattezzata Consiglio sul Lavoro e la Competitività del Presidente. E nel suo messaggio alla radio di sabato, il Presidente ha dichiarato che “Noi possiamo entrare in competizione con tutte le nazioni sulla terra”.

Può darsi che questa sia una politica intelligente. Presumibilmente, Obama ha arruolato un vecchio cliché al servizio di una buona causa, un modo per comunicare ad un’opinione pubblica pesantemente indottrinata al pregiudizio secondo il quale la spesa pubblica è una cosa cattiva, la assoluta necessità di un incremento dell’investimento pubblico.

Ma non prendiamoci in giro: parlare di “competitività” come un obbiettivo è fondamentalmente fuorviante. Al massimo è una diagnosi sbagliata dei nostri problemi. Nel caso peggiore, ci porterebbe a politiche basate sulla falsa idea che quello che è buono per le grandi imprese è buono per l’America.

Quanto alla diagnosi sbagliata: quale sensazione offre il considerare i nostri guai attuali come derivanti da una mancanza di competitività?

E’ vero che avremmo avuto più posti di lavoro se avessimo esportato di più e importato di meno. Ma la stessa cosa è vera per l’Europa ed il Giappone, che hanno anch’essi economie depresse. E noi non possiamo esportare tutto importando di meno, a meno che non si trovi un altro pianeta al quale vendere. E’ vero, potremmo chiedere alla Cina di ridurre il suo surplus commerciale – ma se quello che Obama sta proponendo è un confronto serrato con la Cina, avrebbe dovuto dirlo chiaramente.

Inoltre, se l’America sta gestendo un deficit commerciale, questo deficit è minore di quello che era prima che la Grande Recessione avesse inizio. Sarebbe di aiuto, se potessimo renderlo ancora più piccolo. Ma, in ultima analisi, noi siamo in un grande pasticcio perché abbiamo avuto una crisi del sistema finanziario, non perché le imprese americane hanno perso la loro capacità di competere con le rivali straniere.

Ma, non è almeno in qualche modo utile il pensare al nostro paese come se esso fosse “l’impresa America”, in competizione sul mercato globale? No.

Riflettiamoci: un dirigente di una grande impresa che accresce i suoi profitti riducendo le forze di lavoro è considerato una persona di successo. Ebbene, questo è quanto è più o meno accaduto nell’America degli ultimi tempi: l’occupazione è scesa, i profitti hanno segnato nuovi record. Chi ritiene che questo sia stato, sul serio, un successo economico?

Ancora, si potrebbe dire che parlare di competitività aiuti Obama a tacitare le pretese secondo le quali sarebbe ostile alle imprese. Eccellente, purché egli comprenda che gli interessi delle grandi imprese nominalmente ‘americane’ e gli interessi del paese, che non sono mai stati gli stessi, oggi sono ancor meno coincidenti di prima.

Prendiamo il caso della General Electric, il cui amministratore delegato, Jeffrey Immelt, è stato appena posto alla guida del ribattezzato consiglio dei consulenti. Non ho niente nei confronti della General Electric né del signor Immelt. Ma con meno della metà dei suoi lavoratori occupati negli Stati Uniti e con meno della metà dei suoi redditi provenienti da operazioni negli Stati Uniti, le fortune della General Electric hanno davvero poco a che fare con la prosperità degli Stati Uniti.

Si può capire che alcuni  abbiano lodato la nomina del signor Immelt sulla base del fatto che egli almeno rappresenta un’impresa che effettivamente produce cose, piuttosto di trattarsi ancora una volta di intrallazzatori del sistema finanziario. Spiacente di smentire questa balla[61], ma la G.E., di questi tempi, deriva una quota maggiore di entrate dalle sue operazioni finanziarie che non dalle attività manifatturiere – in effetti, General Electric Capital, impresa che ha ricevuto garanzie dal Governo per i suoi debiti, è stata una importante beneficiaria del salvataggio di Wall Street.

Cosa, dunque, comporta per la politica economica il fatto che la amministrazione sposi la retorica della competitività?

La interpretazione favorevole, come ho detto, è che si tratti semplicemente di un modo di confezionare una strategia economica centrata sull’investimento pubblico, investimento che riguarda effettivamente la la creazione di posti di lavoro e la promozione di una crescita a lungo termine. La interpretazione sfavorevole è che Obama ed i suoi consiglieri credano realmente che l’economia sia in sofferenza perché sono stati troppo duri con le imprese, e che ciò di cui l’America ha bisogno siano sgravi fiscali alle aziende e deregolamentazioni a tutti i livelli.

La mia impressione è che in questo caso si stia fondamentalmente parlando di misure di facciata. E se il Presidente intende proporre un serio incremento della spesa pubblica nelle infrastrutture e nell’istruzione, ne sarò felice.

Ma anche se proporrà[62] politiche positive, il fatto che Obama senta il bisogno di confezionare con cattive metafore queste politiche costituisce una notazione triste sullo stato del nostro dibattito.

La crisi finanziaria del 2008 era un momento istruttivo, una lezione pratica di come si possa finire nei guai se si crede che l’economia di mercato si regoli da sola. E non dovremmo neppure dimenticare che economie fortemente regolate, come quella tedesca, hanno fatto un lavoro assai migliore del nostro nel sostenere l’occupazione, dopo il colpo della crisi. Qualsiasi sia stato il motivo, tuttavia, il momento istruttivo è passato senza aver lasciato alcun insegnamento.

Per suo conto, Obama può darsi che stia facendo le cose giuste: la sua percentuale di consensi è elevata, l’economia sta dando segni di vita, e le sue possibilità di rielezione paiono abbastanza buone. Ma l’economia che ha portato al disastro economico del 2008 è tornata in auge – e sembra probabile che resti tale finché non provocherà un altro disastro.   

 

 

 

 

Their Own Private Europe

By PAUL KRUGMAN
Published: January 27, 2011

President Obama’s State of the Union address was a ho-hum affair. But the official Republican response, from Representative Paul Ryan, was really interesting. And I don’t mean that in a good way.

Mr. Ryan made highly dubious assertions about employment, health care and more. But what caught my eye, when I read the transcript, was what he said about other countries: “Just take a look at what’s happening to Greece, Ireland, the United Kingdom and other nations in Europe. They didn’t act soon enough; and now their governments have been forced to impose painful austerity measures: large benefit cuts to seniors and huge tax increases on everybody.”

 

It’s a good story: Europeans dithered on deficits, and that led to crisis. Unfortunately, while that’s more or less true for Greece, it isn’t at all what happened either in Ireland or in Britain, whose experience actually refutes the current Republican narrative.

But then, American conservatives have long had their own private Europe of the imagination — a place of economic stagnation and terrible health care, a collapsing society groaning under the weight of Big Government. The fact that Europe isn’t actually like that — did you know that adults in their prime working years are more likely to be employed in Europe than they are in the United States? — hasn’t deterred them. So we shouldn’t be surprised by similar tall tales about European debt problems.

Let’s talk about what really happened in Ireland and Britain.

On the eve of the financial crisis, conservatives had nothing but praise for Ireland, a low-tax, low-spending country by European standards. The Heritage Foundation’s Index of Economic Freedom ranked it above every other Western nation. In 2006, George Osborne, now Britain’s chancellor of the Exchequer, declared Ireland “a shining example of the art of the possible in long-term economic policy making.” And the truth was that in 2006-2007 Ireland was running a budget surplus, and had one of the lowest debt levels in the advanced world.

So what went wrong? The answer is: out-of-control banks; Irish banks ran wild during the good years, creating a huge property bubble. When the bubble burst, revenue collapsed, causing the deficit to surge, while public debt exploded because the government ended up taking over bank debts. And harsh spending cuts, while they have led to huge job losses, have failed to restore confidence.

 

 

The lesson of the Irish debacle, then, is very nearly the opposite of what Mr. Ryan would have us believe. It doesn’t say “cut spending now, or bad things will happen”; it says that balanced budgets won’t protect you from crisis if you don’t effectively regulate your banks — a point made in the newly released report of the Financial Crisis Inquiry Commission, which concludes that “30 years of deregulation and reliance on self-regulation” helped create our own catastrophe. Have I mentioned that Republicans are doing everything they can to undermine financial reform?

 

What about Britain? Well, contrary to what Mr. Ryan seemed to imply, Britain has not, in fact, suffered a debt crisis. True, David Cameron, who became prime minister last May, has made a sharp turn toward fiscal austerity. But that was a choice, not a response to market pressure.

And underlying that choice was the new British government’s adherence to the same theory offered by Republicans to justify their demand for immediate spending cuts here — the claim that slashing government spending in the face of a depressed economy will actually help growth rather than hurt it.

So how’s that theory looking? Not good. The British economy, which seemed to be recovering earlier in 2010, turned down again in the fourth quarter. Yes, weather was a factor, and, no, you shouldn’t read too much into one quarter’s numbers. But there’s certainly no sign of the surging private-sector confidence that was supposed to offset the direct effects of eliminating half-a-million government jobs. And, as a result, there’s no comfort in the British experience for Republican claims that the United States needs spending cuts in the face of mass unemployment.

 

Which brings me back to Paul Ryan and his response to President Obama. Again, American conservatives have long used the myth of a failing Europe to argue against progressive policies in America. More recently, they have tried to appropriate Europe’s debt problems on behalf of their own agenda, never mind the fact that events in Europe actually point the other way.

 

But Mr. Ryan is widely portrayed as an intellectual leader within the G.O.P., with special expertise on matters of debt and deficits. So the revelation that he literally doesn’t know the first thing about the debt crises currently in progress is, as I said, interesting — and not in a good way.

 

La loro Europa privata, di Paul Krugman

New York Times 27 gennaio 2011

 

Il messaggio sullo Stato dell’Unione del Presidente Obama è stato una cosa un po’ noiosa. Ma la risposta ufficiale repubblicana, da parte del deputato Paul Ryan, è stata davvero interessante. E non lo dico in senso buono.

Il signor Ryan ha sviluppato argomenti assai dubbi in materia di occupazione, assistenza sanitaria ed altro. Ma quello che ha catturato la mia attenzione, quando ho letto il suo discorso trascritto, è stato ciò che ha detto a proposito degli altri paesi: “Basta dare un’occhiata a quello che sta succedendo alla Grecia, all’Irlanda, alla Gran Bretagna e alle altre nazioni europee. Esse non hanno agito con sufficiente rapidità; e adesso i loro governi sono costretti a imporre dolorose misure di austerità: ampi tagli nei sussidi agli anziani, e forti incrementi delle tasse su tutti”.

E’ una buona storia: gli Europei hanno tergiversato sui deficit, e questo li ha portati alla crisi. Sfortunatamente, mentre questo è più o meno vero per la Grecia, non è quello che è accaduto né in Irlanda né in Inghilterra, l’esperienza delle quali nei fatti contraddice il racconto attuale dei repubblicani.

Ma allora, i conservatori americani si sono tenuti per lungo tempo una loro Europa privata frutto della immaginazione – un posto di stagnazione economica e di terrificante assistenza sanitaria, società al collasso che scricchiolavano sotto il peso del Grande Governo[63].  Il fatto che l’Europa non sia effettivamente tale – sapete che le persone adulte negli anni della loro prima esperienza lavorativa è più probabile che trovino lavoro in Europa che negli Stati Uniti? – non li ha dissuasi. Per questo, frottole del genere a proposito dei problemi del debito europeo non dovrebbero sorprenderci.

Consentitemi di dire ciò che è realmente accaduto il Irlanda e in Inghilterra.

Al momento della crisi finanziaria, i conservatori non avevano altro che elogi per l’Irlanda, una paese con basse tasse e modesta spesa pubblica, per gli standards europei. Nella graduatoria delle libertà economiche, l’Heritage Foundation la poneva in testa a tutte le altre nazioni dell’Occidente. Nel 2006, George Osborne, ora Cancelliere dello Scacchiere, definì l’Irlanda “un luminoso esempio dell’arte del possibile nella gestione della politica economica di lungo periodo”. E negli anni 2006-2007 l’Irlanda in realtà realizzava avanzi di bilancio, ed aveva un livello del debito che era tra i più bassi del mondo avanzato.

Dunque, cosa non ha funzionato? La risposta è: banche fuori controllo; le banche irlandesi dilagarono sfrenate durante gli anni buoni, dando vita ad una vasta bolla patrimoniale. Quando la bolla scoppiò, le entrate collassarono, provocando l’incremento del deficit, mentre il debito pubblico esplodeva in conseguenza al fatto che il governo aveva finito con l’accollarsi i debiti delle banche. E i severi tagli nella spesa pubblica, mentre hanno portato a grandi perdite di posti di lavoro, non sono riusciti a restituire fiducia.

La lezione del disastro irlandese, dunque, è assai vicina all’opposto di quello che Ryan vorrebbe che credessimo. Essa non ci dice “tagliare subito la spesa pubblica, o saranno guai”: essa ci dice che bilanci in equilibrio non ci proteggeranno dalla crisi se non regoliamo efficacemente le nostre banche – un aspetto toccato dal rapporto recentemente diffuso della Commissione di Inchiesta sulla Crisi Finanziaria, che conclude affermando che “trent’anni di deregolamentazione e di fiducia nella autoregolamentazione” hanno contribuito a produrre la nostra stessa catastrofe. E ho fatto riferimento al fatto che i Repubblicani stanno facendo tutto quello che possono per far saltare la riforma del sistema finanziario?

Che dire della Gran Bretagna? Ebbene al contrario di quello che il signor Ryan è sembrato lasciar intendere, la Gran Bretagna, in effetti, non ha patito una crisi da debito. Invero, David Cameron, che è diventato Primo Ministro lo scorso maggio, ha messo in atto una brusca svolta in direzione della austerità finanziaria. Ma si è trattato di una scelta, non di una risposta alla spinta dei mercati.

E ciò che stava sotto quella scelta era l’adesione del governo inglese alla stessa teoria che i Repubblicani offrono per giustificare, qua da noi, la loro richiesta di immediati tagli alla spesa pubblica – la pretesa che facendo crollare la spesa pubblica di fronte ad una economia depressa si aiuterà la crescita, anziché danneggiarla.

Dunque, quale prova sta dando di sé quella teoria? Non buona. L’economia inglese, che sembrava essere in ripresa agli inizi del 2010, è di nuovo scesa in basso nel quarto trimestre. E’ vero, il clima è stata una delle cause, e, in effetti, non si deve pretendere di leggere troppo nei dati di un trimestre. Ma sicuramente non c’è alcun segno di una crescita della fiducia del settore privato che si era immaginato bilanciasse gli effetti della eliminazione di mezzo milione di posti di lavoro statali. E, in definitiva, dalla esperienza inglese non giunge alcun conforto alle pretese dei Repubblicani, secondo le quali occorre tagliare la spesa pubblica di fronte alla disoccupazione di massa.

Il che mi riconduce a Paul Ryan ed alla sua risposta al Presidente Obama. I conservatori americani hanno riutilizzato, come spesso in passato, il mito della decadenza dell’Europa per contrastare politiche progressiste in America. Nel periodo più recente, hanno cercato di arruolare i problemi del debito dell’Europa al servizio del loro proprio programma, senza curarsi del fatto che gli avvenimenti europei effettivamente indicano un’altra direzione.

Ma il signor Ryan viene descritto come un leader di una certa caratura intellettuale all’interno del Partito Repubblicano, con una particolare esperienza in materia di debito e di deficit. Dunque, la scoperta che egli letteralmente ignora l’ABC  sul ruolo del debito nelle crisi attualmente in corso è come ho detto, interessante – e non in senso buono.

 

 

 

A Cross of Rubber

By PAUL KRUGMAN
Published: January 30, 2011

Last Saturday, reported The Financial Times, some of the world’s most powerful financial executives were going to hold a private meeting with finance ministers in Davos, the site of the World Economic Forum. The principal demand of the executives, the newspaper suggested, would be that governments “stop banker-bashing.” Apparently bailing bankers out after they precipitated the worst slump since the Great Depression isn’t enough — politicians have to stop hurting their feelings, too.

But the bankers also had a more substantive demand: they want higher interest rates, despite the persistence of very high unemployment in the United States and Europe, because they say that low rates are feeding inflation. And what worries me is the possibility that policy makers might actually take their advice.

To understand the issues, you need to know that we’re in the midst of what the International Monetary Fund calls a “two speed” recovery, in which some countries are speeding ahead, but others — including the United States — have yet to get out of first gear.

The U.S. economy fell into recession at the end of 2007; the rest of the world followed a few months later. And advanced nations — the United States, Europe, Japan — have barely begun to recover. It’s true that these economies have been growing since the summer of 2009, but the growth has been too slow to produce large numbers of jobs. To raise interest rates under these conditions would be to undermine any chance of doing better; it would mean, in effect, accepting mass unemployment as a permanent fact of life.

What about inflation? High unemployment has kept a lid on the measures of inflation that usually guide policy. The Federal Reserve’s preferred measure, which excludes volatile energy and food prices, is now running below half a percent at an annual rate, far below the informal target of 2 percent.

But food and energy prices — and commodity prices in general — have, of course, been rising lately. Corn and wheat prices rose around 50 percent last year; copper, cotton and rubber prices have been setting new records. What’s that about?

 

The answer, mainly, is growth in emerging markets. While recovery in advanced nations has been sluggish, developing countries — China in particular — have come roaring back from the 2008 slump. This has created inflation pressures within many of these countries; it has also led to sharply rising global demand for raw materials. Bad weather — especially an unprecedented heat wave in the former Soviet Union, which led to a sharp fall in world wheat production — has also played a role in driving up food prices.

 

The question is, what bearing should all of this have on policy at the Federal Reserve and the European Central Bank?

First of all, inflation in China is China’s problem, not ours. It’s true that right now China’s currency is pegged to the dollar. But that’s China’s choice; if China doesn’t like U.S. monetary policy, it’s free to let its currency rise. Neither China nor anyone else has the right to demand that America strangle its nascent economic recovery just because Chinese exporters want to keep the renminbi undervalued.

 

What about commodity prices? The Fed normally focuses on “core” inflation, which excludes food and energy, rather than “headline” inflation, because experience shows that while some prices fluctuate widely from month to month, others have a lot of inertia — and it’s the ones with inertia you want to worry about, because once either inflation or deflation gets built into these prices, it’s hard to get rid of.

And this focus has served the Fed well in the past. In particular, the Fed was right not to raise rates in 2007-8, when commodity prices soared — briefly pushing headline inflation above 5 percent — only to plunge right back to earth. It’s hard to see why the Fed should behave differently this time, with inflation nowhere near as high as it was during the last commodity boom.

 

 

 

So why the demand for higher rates? Well, bankers have a long history of getting fixated on commodity prices. Traditionally, that meant insisting that any rise in the price of gold would mean the end of Western civilization. These days it means demanding that interest rates be raised because the prices of copper, rubber, cotton and tin have gone up, even though underlying inflation is on the decline.

Ben Bernanke clearly understands that raising rates now would be a huge mistake. But Jean-Claude Trichet, his European counterpart, is making hawkish noises — and both the Fed and the European Central Bank are under a lot of external pressure to do the wrong thing.

They need to resist this pressure. Yes, commodity prices are up — but that’s no reason to perpetuate mass unemployment. To paraphrase William Jennings Bryan, we must not crucify our economies upon a cross of rubber.

 

Una croce di gomma, di Paul Krugman

New York Times 30 gennaio 2011

 

Lo scorso sabato, ha dato notizia  The Financial Times, alcuni dei più potenti dirigenti del settore finanziario al mondo si stavano dirigendo a Davos, il luogo del Word Economic Forum, per un incontro riservato con i ministri delle finanze. La richiesta principale di quei dirigenti, indicava il giornale, sarebbe stata quella di “cessare gli attacchi” ai banchieri. A quanto sembra, aver messo in salvo i banchieri dopo che essi avevano provocato la peggiore recessione dai tempi della Grande Depressione non  è bastato – gli uomini politici devano anche smetterla di ferire i loro sentimenti.

Ma i banchieri hanno anche una richiesta più di sostanza: vogliono tassi di interesse più alti, nonostante la persistenza di una disoccupazione davvero elevata negli Stati Uniti ed in Europa, perché dicono che i bassi tassi stanno alimentando l’inflazione. E quello che mi preoccupa è la possibilità che gli uomini politici, in effetti, facciano propria quell’idea.

Per comprendere la questione, dovete sapere che siamo nel mezzo di quella che il Fondo Monetario Internazionale chiama una ripresa “a due velocità”, nella quale alcuni paesi vanno a tutta birra, ma altri – inclusi gli Stati Uniti –  devono ancora togliere la prima marcia.

L’economia americana finì nella recessione alla fine del 2007; il resto del mondo la seguì pochi mesi dopo. E le nazioni avanzate – Stati Uniti, Europa, Giappone – hanno appena cominciato a riprendersi. E’ vero che queste economie hanno ricominciato a crescere dall’estate del 2009, ma la crescita è risultata troppo lenta per produrre grandi quantità di posti di lavoro. Alzare in queste condizioni i tassi di interesse equivarrebbe a minare ogni possibilità di fare meglio; significherebbe, nei fatti, accettare la disoccupazione di massa come una condizione permanente dell’esistenza.

Cosa dire dell’inflazione? L’elevata disoccupazione ha fatto calare il silenzio[64] sulle misure dell’inflazione che normalmente guidano l’azione politica. La misura prescelta dalla Federal Reserve, che esclude i prezzi volatili dell’energie e  dei generi alimentari, sta procedendo ad un mezzo punto di tasso annuo, assai al di sotto dell’obbiettivo non ufficiale del 2 per cento.

Ma i prezzi dei generi alimentari e dell’energia – e quelli più in generale delle materie prime – recentemente, come è noto, sono in ascesa. I prezzi del grano e dei cereali sono cresciuti attorno al 50 per cento l’anno passato; i prezzi del rame, del cotone e della gomma stanno raggiungendo livelli record. Quale è la causa?

La risposta è, in larga misura, la crescita dei mercati emergenti. Mentre la ripresa nelle nazioni avanzate è stata fiacca, i paesi in sviluppo – la Cina in particolare –  sono venuti fuori con impeto dalla recessione del 2008[65]. Questo ha creato spinte inflazionistiche in molti di questi paesi; ciò ha anche portato ad una brusca crescita globale della domanda di materie prime. Il cattivo andamento climatico – specialmente una ondata di caldo senza precedenti nelle regioni di quella che fu l’Unione Sovietica, che ha comportato una improvvisa caduta nella produzione mondiale di grano – ha anch’esso avuto un peso nello spingere in alto i prezzi dei generi alimentari.

La questione è, che rapporto tutto questo dovrebbe avere con la politica della Federal Reserve d della Banca Centrale Europea?

Prima di tutto, l’inflazione in Cina è un problema della Cina, non nostro. E’ vero che in questo momento la valuta cinese è collegata[66] al dollaro. Ma questa è una scelta della Cina: se alla Cina non piace la nostra politica monetaria, è libera di lasciar apprezzare la propria valuta. Né la Cina né nessun altro ha il diritto di chiedere che l’America strangoli la sua nascente ripresa economica solo perché gli esportatori cinesi vogliono mantenere sottovalutato il renmimbi.

E cosa dire dei prezzi delle derrate alimentari? La Fed normalmente si concentra sul “nocciolo” dell’inflazione, che esclude generi alimentari ed energia, piuttosto che sull’inflazione “da titoli dei giornali”, perché l’esperienza dimostra che mentre alcuni prezzi fluttuano di mese in mese, altri restano solitamente assai inerti – e sono quelli inerti che devono preoccupare, perché una volta che l’inflazione o la deflazione prende piede su questi prezzi, è difficile liberarsene.

E questa concentrazione è stata ben utile alla Fed nel passato. In particolare, la Fed ebbe ragione a non innalzare i tassi di interesse negli anni 2007-2008, quando i prezzi delle derrate alimentari schizzarono in alto – spingendo per un breve periodo l’inflazione nella sua accezione giornalistica al di sopra del 5 per cento – solo per riprecipitare proprio ai minimi termini. E’ difficile vedere per quale ragione la Fed dovrebbe comportarsi diversamente in questa occasione, con una inflazione neanche lontanamente elevata quanto lo fu durante l’ultimo boom delle derrate alimentari.

Perché, dunque, la richiesta di tassi di interesse più elevati? Ebbene, i banchieri hanno una lunga consuetudine nel fissarsi sui prezzi dei prodotti. Nel passato, essa consisteva nella pretesa secondo la quale ogni incremento nel prezzo dell’oro avrebbe significato la fine della civiltà dell’Occidente. Di questi tempi, essa consiste nella richiesta di un innalzamento dei tassi di interesse a causa del rialzo dei prezzi del rame, del cotone, della gomma e dello stagno, anche se la sottostante inflazione è in riduzione.

Ben Bernanke capisce perfettamente che alzare in questo momento i tassi di interesse sarebbe un errore di vaste dimensioni. Ma Jean-Claude Trichet, il suo omologo europeo, sta strepitando[67] – e sia la Fed che la Banca Centrale Europea sono sottoposti a molte pressioni esterne per fare la cosa sbagliata.

E’ necessario che essi resistano a queste spinte. Si, i prezzi delle derrate sono in crescita – ma questa non è una ragione per perpetuare la disoccupazione di massa. Per parafrasare William Jennings Bryan[68], non dobbiamo crocifiggere le nostre economie ad una croce di gomma.

 

 

 

Droughts, Floods and Food

By PAUL KRUGMAN
Published: February 6, 2011

 

We’re in the midst of a global food crisis — the second in three years. World food prices hit a record in January, driven by huge increases in the prices of wheat, corn, sugar and oils. These soaring prices have had only a modest effect on U.S. inflation, which is still low by historical standards, but they’re having a brutal impact on the world’s poor, who spend much if not most of their income on basic foodstuffs.

 

The consequences of this food crisis go far beyond economics. After all, the big question about uprisings against corrupt and oppressive regimes in the Middle East isn’t so much why they’re happening as why they’re happening now. And there’s little question that sky-high food prices have been an important trigger for popular rage.

 

So what’s behind the price spike? American right-wingers (and the Chinese) blame easy-money policies at the Federal Reserve, with at least one commentator declaring that there is “blood on Bernanke’s hands.” Meanwhile, President Nicolas Sarkozy of France blames speculators, accusing them of “extortion and pillaging.”

But the evidence tells a different, much more ominous story. While several factors have contributed to soaring food prices, what really stands out is the extent to which severe weather events have disrupted agricultural production. And these severe weather events are exactly the kind of thing we’d expect to see as rising concentrations of greenhouse gases change our climate — which means that the current food price surge may be just the beginning.

Now, to some extent soaring food prices are part of a general commodity boom: the prices of many raw materials, running the gamut from aluminum to zinc, have been rising rapidly since early 2009, mainly thanks to rapid industrial growth in emerging markets.

 

But the link between industrial growth and demand is a lot clearer for, say, copper than it is for food. Except in very poor countries, rising incomes don’t have much effect on how much people eat.

It’s true that growth in emerging nations like China leads to rising meat consumption, and hence rising demand for animal feed. It’s also true that agricultural raw materials, especially cotton, compete for land and other resources with food crops — as does the subsidized production of ethanol, which consumes a lot of corn. So both economic growth and bad energy policy have played some role in the food price surge.

 

 

Still, food prices lagged behind the prices of other commodities until last summer. Then the weather struck.

Consider the case of wheat, whose price has almost doubled since the summer. The immediate cause of the wheat price spike is obvious: world production is down sharply. The bulk of that production decline, according to U.S. Department of Agriculture data, reflects a sharp plunge in the former Soviet Union. And we know what that’s about: a record heat wave and drought, which pushed Moscow temperatures above 100 degrees for the first time ever.

The Russian heat wave was only one of many recent extreme weather events, from dry weather in Brazil to biblical-proportion flooding in Australia, that have damaged world food production.

The question then becomes, what’s behind all this extreme weather?

 

To some extent we’re seeing the results of a natural phenomenon, La Niña — a periodic event in which water in the equatorial Pacific becomes cooler than normal. And La Niña events have historically been associated with global food crises, including the crisis of 2007-8.

But that’s not the whole story. Don’t let the snow fool you: globally, 2010 was tied with 2005 for warmest year on record, even though we were at a solar minimum and La Niña was a cooling factor in the second half of the year. Temperature records were set not just in Russia but in no fewer than 19 countries, covering a fifth of the world’s land area. And both droughts and floods are natural consequences of a warming world: droughts because it’s hotter, floods because warm oceans release more water vapor.

 

As always, you can’t attribute any one weather event to greenhouse gases. But the pattern we’re seeing, with extreme highs and extreme weather in general becoming much more common, is just what you’d expect from climate change.

The usual suspects will, of course, go wild over suggestions that global warming has something to do with the food crisis; those who insist that Ben Bernanke has blood on his hands tend to be more or less the same people who insist that the scientific consensus on climate reflects a vast leftist conspiracy.

But the evidence does, in fact, suggest that what we’re getting now is a first taste of the disruption, economic and political, that we’ll face in a warming world. And given our failure to act on greenhouse gases, there will be much more, and much worse, to come.

 

Siccità, alluvioni e generi alimentari.,

di Paul Krugman

New York Times 6 febbraio 2011

 

Siamo nel mezzo di una crisi dei generi alimentari – la seconda in tre anni. I prezzi dei generi alimentari in gennaio hanno registrato un record, spinti da elevati incrementi dei prezzi del grano, del mais, dello zucchero e degli oli. L’impennata di questi prezzi ha avuto un effetto modesto sulla inflazione statunitense, che è ancora bassa in riferimento ai suoi standards storici, ma stanno avendo un impatto brutale sui poveri del mondo, che spendono molto se non la massima parte del loro reddito sui prodotti alimentari di base.

La conseguenza di questa crisi dei generi alimentari va molto oltre l’aspetto economico. Dopo tutto, la grande domanda a proposito delle rivolte contro i regimi repressivi e corrotti in Medio Oriente non è tanto perché esse hanno luogo, quanto perché hanno luogo in questo momento. E non ci sono dubbi che il fatto che i prezzi degli alimenti siano schizzati alle stelle sia stato un innesco determinante della rabbia popolare.

Cosa c’è, dunque, dietro questa punta dei prezzi? La destra americana (e quella cinese) danno la colpa alle politiche del denaro-facile della Federal Reserve, e almeno in un caso un commentatore ha dichiarato che c’è “sangue sulle mani di Bernanke”. Nel frattempo, il Presidente francese Nicolas Sarkozy incolpa gli speculatori, accusandoli di “estorsione ed appropriazione indebita”.

Ma le prove dei fatti ci raccontano una storia molto più minacciosa. Mentre molteplici fattori hanno contribuito all’impennata dei prezzi dei generi alimentari, quello che effettivamente viene in risalto è la misura in cui gli eventi atmosferici hanno sconvolto le produzioni agricole. E questo genere di eventi climatici sono proprio il genere di cose che dovremmo aspettarci di vedere, dati i cambiamenti climatici per effetto delle concentrazioni dei gas serra – il che significa che l’attuale impennata del prezzo dei generi alimentari può essere solo l’inizio.

Ora, in un certa misura la crescita dei prezzi dei generi alimentari e solo una parte del boom generale delle materie prime: i prezzi di molti materiali grezzi, scorrendo la serie dall’alluminio allo zinco, sono saliti rapidamente dagli inizi del 2009, principalmente per effetto della rapida crescita industriale sui mercati emergenti.

Ma la connessione tra la crescita industriale e la domanda è molto più chiara, diciamo, per il rame che per i generi alimentari. Ad eccezione di paesi molto poveri, l’incremento dei redditi non ha un grande effetto su quanto la gente mangia.  

E’ vero che la crescita delle nazioni emergenti come la Cina comporta un incremento nei consumi di carne, e da lì una domanda crescente di mangime per il bestiame. E’ anche vero che le materie prime dell’agricoltura, particolarmente il cotone, son in competizione con i raccolti dei generi alimentari quanto a terra e ad altre risorse – così come lo è la produzione di etanolo, che consuma grandi quantità di mais. In questo modo sia la crescita economica che una cattiva politica energetica hanno avuto un qualche ruolo nella crescita dei prezzi degli alimenti.

Sino alla scorsa estate,  prezzi dei generi alimentari erano ancora indietro rispetto ad altre materie prime. Poi è arrivato il colpo degli andamenti climatici.

Consideriamo il caso del grano, il cui prezzo è quasi raddoppiato a partire dall’estate. La causa immediata del picco del prezzo del grano è ovvia: la produzione mondiale è scesa bruscamente. La maggior parte del declino di quella produzione, secondo le statistiche del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, è dipesa da una forte caduta nei paesi dell’ex Unione Sovietica. E sappiamo da cosa è stata provocata: ondate record di caldo e di siccità, che hanno portato Mosca per la prima volta in assoluto a temperature superiori ai 38 gradi.

Le ondate di caldo in Russia sono state soltanto l’ultimo di molti eventi atmosferici estremi, dalla siccità in Brasile alle alluvioni di proporzioni  bibliche in Australia, che hanno danneggiato la produzione alimentare mondiale.

Dunque, la domanda che ne consegue è cosa stia dietro questi eventi estremi.

 

In qualche misura, siamo dinanzi alle conseguenze di un fenomeno naturale, La Niňa – un evento periodico per il quale l’acqua del Pacifico equatoriale diventa più fredda del normale. E storicamente gli eventi riconducibili a  La Niňa sono stati associati a crisi alimentari globali, inclusa la crisi del 2007-2008.

Ma questa non è l’intera storia. Non vi fate ingannare dalla neve: complessivamente, il 2010 è stato associato al 2005 come anni record per il caldo, anche se eravamo al ‘minimo solare’[69] e La Niňa ha rappresentato un fattore di raffreddamento nella seconda parte dell’anno. Si sono registrate temperature record non solo in Russia, ma in non meno di 19 paesi, che rappresentano un quinto del suolo mondiale. E sia le siccità che le alluvioni sono conseguenze naturali del riscaldamento globale: le siccità perché fa più caldo, le alluvioni perché gli oceani riscaldati rilasciano maggiore vapore acqueo.

Come sempre, non si può attribuire ogni e qualsiasi evento atmosferico ai gas serra. Ma il modello cui stiamo assistendo, con picchi estremi e in generale con andamenti climatici estremi che diventano molto più frequenti, è esattamente quello che ci si deve aspettare dal cambiamento climatico.

I ‘soliti ignoti’[70], ovviamente, si infurieranno a proposito dell’ipotesi per la quale il riscaldamento globale abbia qualcosa a che fare con la crisi alimentare; coloro che alludono al fatto che Ben Bernanke abbia le ‘mai insanguinate’ tendono più o meno a coincidere con quella gente che sostiene che il consenso scientifico sul clima dipende da una vasta cospirazione della sinistra.

Ma la prova dei fatti suggerisce davvero che quanto ci sta toccando è un primo assaggio dello sconvolgimento, economico e politico, cui dovremo far fronte in un mondo riscaldato. E, dato il nostro fallimento ad agire nei confronti dei gas serra, dovremo attenderci molto di più, e molto di peggio.   

 

 

 

Abraham Lincoln, Inflationist

By PAUL KRUGMAN
Published: February 10, 2011

There was a time when Republicans used to refer to themselves, proudly, as “the party of Lincoln.” But you don’t hear that line much these days. Why?

 

The main answer, presumably, lies in the G.O.P.’s decision, long ago, to seek votes from Southerners angered by the end of legal segregation. With the old Confederacy now the heart of the Republican base, boasting about the party’s Civil War-era legacy is no longer advisable.

But sooner or later, Republicans were bound to notice other reasons to disavow Lincoln. He was, after all, the first president to institute an income tax. And he was also the first president to issue a paper currency — the “greenback” — that wasn’t backed by gold or silver. “There is nothing more insidious that a country can do to its people than to debase its currency,” declared Representative Paul Ryan in one of two hearings Congress held on Wednesday on monetary policy. So much, then, for the Great Liberator.

Which brings me to the story of what went on in those monetary hearings.

One of the hearings was called by Representative Ron Paul, a harsh critic of the Federal Reserve, who now has an oversight role over the very institution he wants abolished in favor of a return to the gold standard. Mr. Paul’s subcommittee called three witnesses, one of whom was an odd choice: Thomas DiLorenzo, a professor at Loyola University and a senior fellow at the Ludwig von Mises Institute.

What was odd about that choice? Well, Mr. DiLorenzo hasn’t actually written much about monetary policy, although he has described Fed policy — not just recently, but since the 1960s — as “legalized counterfeiting operations.” His main claim to fame, instead, is as a critic of Lincoln — he’s the author of “Lincoln Unmasked: What You’re Not Supposed to Know About Dishonest Abe” — and as a modern-day secessionist.

 

No, really: calls for secession run through many of Mr. DiLorenzo’s writings — for example, in his declaration that “healthcare freedom” won’t be restored until “some states begin seceding from the new American fascialistic state.” Raise the rebel flag!

 

O.K., it’s going to be a while before the G.O.P. as a whole embraces neo-secessionism, and Mr. Paul, although highly visible, is, in fact, a somewhat marginal figure even within his own party. But Mr. Ryan, who led the other hearing — the one at which Ben Bernanke, the Fed chairman, testified — is a rising Republican star. So it’s worth nothing that Mr. Ryan’s hard-money rhetoric was nearly as bizarre as Mr. DiLorenzo’s.

Start with that bit about debasing our currency. Where did that come from? The dollar’s value in terms of other major currencies is about the same now as it was three years ago. And as Mr. Bernanke pointed out, consumer prices rose only 1.2 percent in 2010, an inflation rate that, for the record, is well below the rate under the sainted Ronald Reagan. The Fed’s preferred measure, which excludes volatile food and energy prices, was up only 0.7 percent, well below the target of around 2 percent.

But Mr. Ryan is sure that the dollar is being debased and won’t take no for an answer. In an attempt to create a gotcha moment, he waved a copy of a newspaper bearing the headline “Inflation Worries Spread” at the Fed chairman. But the gotcha actually went the other way. As Mr. Bernanke immediately pointed out, the article was about inflation in China and other emerging markets, not in the United States. And the Fed chairman declared, correctly, that “inflation made here in the U.S. is very, very low.”

 

Advantage Bernanke. But the facts don’t matter, because conservative hard-money mania, the demand that the Fed stop trying to rescue the economy, isn’t really about inflation fears.

Mr. Ryan said as much in Wednesday’s hearing, in which he declared that our currency “should be guided by the rule of law, not the rule of men.” A few years ago, my response would have been, say what? After all, even Milton Friedman saw the conduct of monetary policy as a technical issue, not a matter of principle; his complaint about the Fed’s role in the Great Depression was that it didn’t print enough money, not that it printed too much.

 

But then Friedman, who believed that it sometimes makes sense to let your currency depreciate, who urged Japan’s central bank to adopt a policy very similar to what the Fed is doing now, was a leftist by the standards of today’s G.O.P.

 

Wednesday’s hearings aren’t likely to have any immediate effect on monetary policy. But they offer a revealing — and appalling — look at the mind-set of one of our two major political parties. We’ve always known that the modern G.O.P. wants to take America back to the way it was before the New Deal; but now it’s clear that the party wants to build a bridge to the 19th century, and maybe even to the antebellum era. Backward, march!

 

Abram Lincoln, l’inflazionista.

Di Paul Krugman

New York Times 10 febbraio 2011

 

C’era un tempo in cui i Repubblicani, con orgoglio, erano soliti riferirsi a se stessi come “il Partito di Lincoln”. Ma, di questi tempi, un appellativo del genere non ricorre granché. Come mai?

La spiegazione principale, presumibilmente, dipende dalla decisione del GOP, molto tempo fa, di cercar voti tra i sudisti arrabbiati per la fine della segregazione legale. Con la vecchia Confederazione[71] diventata il cuore della base repubblicana, gloriarsi dell’eredità del partito dell’epoca della Guerra Civile non era più consigliabile.

Ma era destino che, prima o poi, i Repubblicani si accorgessero di altre ragioni per ripudiare Lincoln. Egli fu, dopo tutto, il primo Presidente ad istituire una tassa sui redditi. E fu anche il primo Presidente ad emettere una valuta cartacea – il “verdone”[72] – che non era collegata all’oro o all’argento. “Non c’è niente di più insidioso che un paese possa fare ai propri cittadini che svalutare la propria moneta” ha dichiarato il deputato Paul Ryan in una delle due sedute[73] tenute mercoledì dal Congresso sulla politica monetaria. Con il che, dunque, il Grande Liberatore è stato servito[74].

La qualcosa mi riporta al racconto di quanto è successo in quelle sedute dedicate alla politica monetaria.

Una delle sedute era stata provocata dal deputato Ron Paul, un severo critico della Federal Reserve, che ha oggi un ruolo di sorveglianza di una istituzione che egli vorrebbe proprio abolire, per un ritorno al Gold Standard. La sottocommissione di Paul ha convocato tre testimoni, uno dei quali è parsa una scelta strana: Thomas DiLorenzo, professore della Loyola University e membro eminente del Ludwig von Mises Institute.

 

 

Cosa c’era di curioso in quella scelta? Ebbene, il signor DiLorenzo effettivamente non ha scritto granché di politica monetaria, sebbene egli abbia definito – non di recente, ma a partire dagli anni ’60 – la politica della Fed alla stregua di “operazioni legalizzate di contrabbando”. Piuttosto, la ragione principale della sua fama consiste in una critica a Lincoln – egli è l’autore di “Lincoln smascherato: quello che non vi sareste mai immaginato del disonesto Abe[75]  . nell’essere un secessionista dei giorni nostri.

Proprio così: appelli alla secessione si ritrovano in molti scritti del signor DiLorenzo – ad esempio, nella sua dichiarazione secondo la quale la “libertà della assistenza sanitaria” non sarà ripristinata finché “alcuni Stati non intraprenderanno la strada della secessione dal nuovo Stato americano socio-fascista”. In alto la bandiera della ribellione!

E’ vero, ci vorrà un po’ prima che l’intero Partito Repubblicano abbracci il neo-secessionismo, e il signor Paul, per quanto assai in vista, è una figura in qualche modo ai margini persino nel proprio partito. Ma il signor Ryan – colui al quale Ben Bernanke, il Presidente della Fed, è stato tenuto a portare testimonianza[76] – è una stella nascente del firmamento repubblicano. E’ dunque degno di nota il fatto che la retorica sulla moneta forte di Ryan sia stata accostata alla bizzarria del signor DiLorenzo.

Cominciamo da quel passaggio sulla svalutazione della nostra moneta. Da cosa deriva? Il valore del dollaro, nei termini delle altre valute importanti, è grosso modo lo stesso oggi di tra anni fa. E come Bernanke ha sottolineato, i prezzi al consumo sono cresciuti soltanto dell’1,2 per cento nel 2010, un tasso di inflazione che, nella serie storica, è assai al di sotto di quello all’epoca del canonizzato Ronald Reagan. La misurazione preferita dalla Fed, che esclude i prezzi volatili dei generi alimentari e dell’energia, è salita soltanto dello 0,7 per cento, ben al di sotto dell’obbiettivo del 2 per cento circa.

Ma il signor Ryan è certo che il dollaro si sia svalutato non ha nessunissima intenzione di accontentarsi di questa risposta. Nel tentativo di metter su un trabocchetto[77], egli ha sventolato al Presidente della Fed la copia di un quotidiano che recava il titolo “I timori di inflazione si diffondono”. Ma il trabocchetto ha funzionato all’opposto. Così Bernanke[78] ha immediatamente sottolineato che l’articolo si riferiva all’inflazione in Cina e in altri mercati emergenti, non negli Stati Uniti. E, correttamente, il Presidente della Fed ha dichiarato che “l’inflazione registrata in America è davvero molto bassa”.

Vantaggio Bernanke. Ma i fatti non contano, giacché la mania dei conservatori per la moneta forte, la richiesta che la Fed interrompa i suoi tentativi di soccorrere l’economia, non ha proprio a che fare con le paure d’inflazione.

Il signor Ryan è stato molto chiaro nella seduta di mercoledì, dichiarando che la nostra valuta “dovrebbe essere guidata dalle regole della legge, non dalle regole degli uomini”. Pochi anni fa la mia risposta sarebbe stata, “ma che dici?”. Dopo tutto, persino Milton Friedman considerava la condotta della politica monetaria come una questione tecnica e non come una questione di principi: il suo disappunto sul ruolo della Fed nella Grande Depressione fu per il fatto che essa non avesse stampato sufficiente moneta, non perché ne avesse stampata troppa.

Ma allora Friedman – che credeva che qualche volta fosse opportuno lasciar svalutare la moneta, e che faceva pressione sulla banca centrale de Giappone perché adottasse una politica del tutto simile a quella attuale della Fed – era un individuo di sinistra, secondo gli standards attuali del partito repubblicano.

E’ improbabile che le audizioni di mercoledì abbiano un qualche effetto immediato sulla politica monetaria. Ma esse offrono una significativa – e terrificante –  rappresentazione della condizione mentale di uno dei due nostri principali partiti politici. Avevamo sempre saputo che il moderno GOP intende riportare l’America alle condizioni antecedenti il New Deal; ma ora è chiaro che quel partito intende costruire un ponte verso il diciannovesimo secolo, e forse persino verso l’epoca dell’anteguerra. In marcia, all’indietro!

 

 

 

Eat The Future

By PAUL KRUGMAN
Published: February 13, 2011

On Friday, House Republicans unveiled their proposal for immediate cuts in federal spending. Uncharacteristically, they failed to accompany the release with a catchy slogan. So I’d like to propose one: Eat the Future.

I’ll explain in a minute. First, let’s talk about the dilemma the G.O.P. faces.

Republican leaders like to claim that the midterms gave them a mandate for sharp cuts in government spending. Some of us believe that the elections were less about spending than they were about persistent high unemployment, but whatever. The key point to understand is that while many voters say that they want lower spending, press the issue a bit further and it turns out that they only want to cut spending on other people.

 

That’s the lesson from a new survey by the Pew Research Center, in which Americans were asked whether they favored higher or lower spending in a variety of areas. It turns out that they want more, not less, spending on most things, including education and Medicare. They’re evenly divided about spending on aid to the unemployed and — surprise — defense.

The only thing they clearly want to cut is foreign aid, which most Americans believe, wrongly, accounts for a large share of the federal budget.

Pew also asked people how they would like to see states close their budget deficits. Do they favor cuts in either education or health care, the main expenses states face? No. Do they favor tax increases? No. The only deficit-reduction measure with significant support was cuts in public-employee pensions — and even there the public was evenly divided.

The moral is clear. Republicans don’t have a mandate to cut spending; they have a mandate to repeal the laws of arithmetic.

How can voters be so ill informed? In their defense, bear in mind that they have jobs, children to raise, parents to take care of. They don’t have the time or the incentive to study the federal budget, let alone state budgets (which are by and large incomprehensible). So they rely on what they hear from seemingly authoritative figures.

And what they’ve been hearing ever since Ronald Reagan is that their hard-earned dollars are going to waste, paying for vast armies of useless bureaucrats (payroll is only 5 percent of federal spending) and welfare queens driving Cadillacs. How can we expect voters to appreciate fiscal reality when politicians consistently misrepresent that reality?

 

Which brings me back to the Republican dilemma. The new House majority promised to deliver $100 billion in spending cuts — and its members face the prospect of Tea Party primary challenges if they fail to deliver big cuts. Yet the public opposes cuts in programs it likes — and it likes almost everything. What’s a politician to do?

 

 

The answer, once you think about it, is obvious: sacrifice the future. Focus the cuts on programs whose benefits aren’t immediate; basically, eat America’s seed corn. There will be a huge price to pay, eventually — but for now, you can keep the base happy.

If you didn’t understand that logic, you might be puzzled by many items in the House G.O.P. proposal. Why cut a billion dollars from a highly successful program that provides supplemental nutrition to pregnant mothers, infants, and young children? Why cut $648 million from nuclear nonproliferation activities? (One terrorist nuke, assembled from stray ex-Soviet fissile material, can ruin your whole day.) Why cut $578 million from the I.R.S. enforcement budget? (Letting tax cheats run wild doesn’t exactly serve the cause of deficit reduction.)

 

 

Once you understand the imperatives Republicans face, however, it all makes sense. By slashing future-oriented programs, they can deliver the instant spending cuts Tea Partiers demand, without imposing too much immediate pain on voters. And as for the future costs — a population damaged by childhood malnutrition, an increased chance of terrorist attacks, a revenue system undermined by widespread tax evasion — well, tomorrow is another day.

 

In a better world, politicians would talk to voters as if they were adults. They would explain that discretionary spending has little to do with the long-run imbalance between spending and revenues. They would then explain that solving that long-run problem requires two main things: reining in health-care costs and, realistically, increasing taxes to pay for the programs that Americans really want.

But Republican leaders can’t do that, of course: they refuse to admit that taxes ever need to rise, and they spent much of the last two years screaming “death panels!” in response to even the most modest, sensible efforts to ensure that Medicare dollars are well spent.

 

And so they had to produce something like Friday’s proposal, a plan that would save remarkably little money but would do a remarkably large amount of harm.

 

Mangiarsi il futuro, di Paul Krugman

New York Times 13 febbraio 2011

 

Venerdì, i Repubblicani della Camera hanno svelato i loro propositi per i tagli immediati alla spesa federale. In modo insolito, hanno mancato di accompagnare il comunicato con uno slogan accattivante. Così mi piacerebbe proporne uno: Mangiarsi il Futuro.

Lo spiegherò tra un attimo. Prima, consentitemi di parlare del dilemma dinanzi al quale il GOP si trova.

I leaders repubblicani amano affermare che le elezioni di medio termine gli abbiano consegnato il mandato di forti tagli nella spesa governativa. Alcuni di noi credono che le elezioni fossero più relative alla elevata disoccupazione che non alla spesa pubblica, ma tant’è. Il punto chiave da comprendere è che mentre molti elettori dicono di volere una spesa più bassa, collocano quel tema un po’ in avanti nel tempo e viene fuori che intendono più che altro tagliare le spese che riguardano gli altri.

Questa è la lezione che emerge da una nuova indagine del Pew Research Center[79],  nella quale era chiesto agli americani se sono a favore di spese più basse in una varietà di aree. Viene fuori che essi vogliono una spesa maggiore, non minore, su molti aspetti, inclusi l’istruzione e Medicare. Essi si dividono in parti uguali per quanto riguarda la spesa sugli aiuti ai disoccupati e – a sorpresa – la difesa.

L’unica cosa per la quale chiaramente vogliono tagli sono gli aiuti all’estero, che molti americani, sbagliando, considerano una larga parte del bilancio federale.

Pew ha anche chiesto alle persone in che modo esse vorrebbero veder ridotti i deficit di bilancio degli Stati. Sarebbero a favore di tagli, vuoi nell’istruzione che nella assistenza sanitaria, che sono le spese principali alle quali gli Stati fanno fronte? No. Sarebbero a favore di aumenti fiscali? No. L’unica misura di riduzione del deficit che ha ricevuto un significativo sostegno sono i tagli alle pensioni nel pubblico impiego – ed anche in quel caso l’opinione pubblica è divisa in due.

La morale è chiara. I repubblicani non hanno  un mandato a tagliare le spese: hanno un mandato ad abrogare le leggi della aritmetica.

Come possono essere così male informati gli elettori? A loro scusante, si tenga a mente che essi hanno posti di lavoro, figlioli da allevare, genitori di cui prendersi cura. Non hanno né il tempo né l’incentivo a studiare il bilancio federale, per non dire i bilanci degli Stati (che in linea di massima sono incomprensibili). Dunque, si fidano di quanto sentono dire da personaggi apparentemente autorevoli.

E quello che si sono sentiti dire sin dai tempi di Ronald Reagan è che i loro soldi faticosamente guadagnati sono destinati ad essere sprecati, nel pagamento di legioni di inutili burocrati (gli stipendi sono soltanto il 5 per cento della spesa federale) e di ‘reginette’ che guidano le Cadillac con i benefici della assistenza pubblica[80]. Come ci si può aspettare che gli elettori discernano la realtà della spesa pubblica[81], quando sono gli uomini politici a deformare in modo cospicuo quella stessa realtà?

La quale constatazione mi riconduce al dilemma dei Repubblicani. La nuova maggioranza dei repubblicani aveva promesso di deliberare tagli di spesa per 100 miliardi di dollari – ed i suoi componenti si trovano dinanzi alla prospettiva di spostamenti importanti del Tea Party, ove mancasse di deliberare tali forti tagli. Tuttavia l’opinione pubblica si oppone a tagli nei programmi di suo gradimento – ed essa gradisce quasi tutto. Cosa deve fare un uomo politico?

La risposta, se ci pensate, è ovvia: sacrificare il futuro. Concentrarsi su tagli a programmi i cui benefici non sono immediati; fondamentalmente, fare come le cicale[82]. In effetti, ci sarà un prezzo elevato da pagare – ma, per adesso, possiamo mantenere allegra la base elettorale.

 

Se non avete compreso una logica del genere, potreste restare perplessi su vari aspetti della proposta dei repubblicani della Camera. Perché tagliare un miliardo di dollari da un programma che ha un elevato successo e che offre una alimentazione supplementare alle madri che aspettano figli, ai neonati ed ai bambini piccoli? Perché tagliare 648 milioni di dollari dalle attività per la non-proliferazione nucleare (un’arma nucleare di un terrorista, assemblata con materiale fissile ex-sovietico in circolazione, può rovinarvi un’intera giornata)? Perché tagliare 578 milioni di dollari di potenziamento del bilancio dell’IRS[83] (consentire agli evasori fiscali di crescere indisturbati non favorisce esattamente la causa della riduzione del deficit).

Tuttavia, una volta che vi fate una ragione degli imperativi che stanno di fronte ai repubblicani, tutto acquista un senso. Tagliando programmi orientati al futuro, essi possono adottare quei tagli immediati alla spesa richiesti dal Tea Party, senza troppo affliggere gli elettori nell’immediato. E per quanto riguarda i costi futuri – una popolazione che subisce il danno della malnutrizione infantile, una possibilità maggiore di attacchi terroristici, un sistema delle entrate minato da una generalizzata evasione fiscale – ebbene, domani è un altro giorno.

In un mondo migliore, gli uomini politici dovrebbero parlare agli elettori come se si trattasse di adulti. Dovrebbero spiegare che la spesa discrezionale ha poco a che fare con lo squilibrio di lungo periodo tra entrate ed uscite. Essi dovrebbero spiegare che per risolvere quel problema a lungo termine sono richieste principalmente due cose: tenere sotto controllo i costi della assistenza sanitaria e, realisticamente, accrescere le tasse in modo da pagare quei programmi che stanno effettivamente a cuore agli americani.

Ma i leaders repubblicani non possono farlo, naturalmente: essi rifiutano di ammettere il bisogno che le tasse siano costantemente adeguate[84], ed hanno speso gran parte degli ultimi due anni strillando “tribunali della morte![85]” in risposta ai ragionevoli tentativi, persino ai più modesti, di fare in modo che i dollari di Medicare fossero ben spesi.

E dunque essi devono predisporre qualcosa di simile alle proposte di venerdì scorso, un piano che consentirebbe di risparmiare davvero pochi soldi, in cambio di un danno davvero considerevole.   

 

 

 

Willie Sutton Wept

By PAUL KRUGMAN
Published: February 17, 2011

 

There are three things you need to know about the current budget debate. First, it’s essentially fraudulent. Second, most people posing as deficit hawks are faking it. Third, while President Obama hasn’t fully avoided the fraudulence, he’s less bad than his opponents — and he deserves much more credit for fiscal responsibility than he’s getting.

 

About the fraudulence: Last month, Howard Gleckman of the Tax Policy Center described the president as the “anti-Willie Sutton,” after the holdup artist who reputedly said he robbed banks because that’s where the money is. Indeed, Mr. Obama has lately been going where the money isn’t, making a big deal out of a freeze on nonsecurity discretionary spending, which accounts for only 12 percent of the budget.

But that’s what everyone does. House Republicans talk big about spending cuts — but focus solely on that same small budget sliver.

And by proposing sharp spending cuts right away, Republicans aren’t just going where the money isn’t, they’re also going when the money isn’t. Slashing spending while the economy is still deeply depressed is a recipe for slower economic growth, which means lower tax receipts — so any deficit reduction from G.O.P. cuts would be at least partly offset by lower revenue.

The whole budget debate, then, is a sham. House Republicans, in particular, are literally stealing food from the mouths of babes — nutritional aid to pregnant women and very young children is one of the items on their cutting block — so they can pose, falsely, as deficit hawks.

 

What would a serious approach to our fiscal problems involve? I can summarize it in seven words: health care, health care, health care, revenue.

Notice that I said “health care,” not “entitlements.” People in Washington often talk as if there were a program called Socialsecuritymedicareandmedicaid, then focus on things like raising the retirement age. But that’s more anti-Willie Suttonism. Long-run projections suggest that spending on the major entitlement programs will rise sharply over the decades ahead, but the great bulk of that rise will come from the health insurance programs, not Social Security.

 

So anyone who is really serious about the budget should be focusing mainly on health care. And by focusing, I don’t mean writing down a number and expecting someone else to make that number happen — a dodge known in the trade as a “magic asterisk.” I mean getting behind specific actions to rein in costs.

 

By that standard, the Simpson-Bowles deficit commission, whose work is now being treated as if it were the gold standard of fiscal seriousness, was in fact deeply unserious. Its report “was one big magic asterisk,” Bob Greenstein of the Center on Budget and Policy Priorities told The Washington Post’s Ezra Klein. So is the much-hyped proposal by Paul Ryan, the G.O.P.’s supposed deep thinker du jour, to replace Medicare with vouchers whose value would systematically lag behind health care costs. What’s supposed to happen when seniors find that they can’t afford insurance?

 

 

What would real action on health look like? Well, it might include things like giving an independent commission the power to ensure that Medicare only pays for procedures with real medical value; rewarding health care providers for delivering quality care rather than simply paying a fixed sum for every procedure; limiting the tax deductibility of private insurance plans; and so on.

 

And what do these things have in common? They’re all in last year’s health reform bill.

That’s why I say that Mr. Obama gets too little credit. He has done more to rein in long-run deficits than any previous president. And if his opponents were serious about those deficits, they’d be backing his actions and calling for more; instead, they’ve been screaming about death panels.

 

Now, even if we manage to rein in health costs, we’ll still have a long-run deficit problem — a fundamental gap between the government’s spending and the amount it collects in taxes. So what should be done?

 

This brings me to the seventh word of my summary of the real fiscal issues: if you’re serious about the deficit, you should be willing to consider closing at least part of this gap with higher taxes. True, higher taxes aren’t popular, but neither are cuts in government programs. So we should add to the roster of fundamentally unserious people anyone who talks about the deficit — as most of our prominent deficit scolds do — as if it were purely a spending issue.

The bottom line, then, is that while the budget is all over the news, we’re not having a real debate; it’s all sound, fury, and posturing, telling us a lot about the cynicism of politicians but signifying nothing in terms of actual deficit reduction. And we shouldn’t indulge those politicians by pretending otherwise.

 

Le lacrime di coccodrillo[86] di Willie Sutton.

Di Paul Krugman

New York Times 17 febbraio

 

Ci sono tre cose che si devono sapere a proposito dell’attuale dibattito sul bilancio. La prima è che esso è essenzialmente ingannevole. La seconda è che molte persone che atteggiano a ‘falchi’ del deficit stanno fingendo. La terza è che se il Presidente Obama non ha del tutto fatto a meno di argomenti ingannevoli, egli è meno fraudolento dei suoi avversari – e merita molto maggior credito in materia di responsabilità fiscale di quanta ne  stia ricevendo.

A proposito dell’inganno: lo scorso mese, Howard Gleckman del Tax Policy Center aveva descritto il Presidente come “l’anti Willie Sutton”, in considerazione del fatto che l’artista delle rapine era famoso per aver dichiarato di derubare le banche giacché era lì che stavano i soldi. Diversamente, Obama di recente si è indirizzato dove il denaro non c’è, proponendo un congelamento generale delle spese discrezionali detratte di quelle per la sicurezza, che realizzano soltanto il 12 per cento del bilancio.

Ma questo è quanto fanno tutti. I Repubblicani della Camera parlano di grandi tagli alla spesa pubblica – ma si concentrano esclusivamente sulla medesima piccola fetta di bilancio.

E proponendo forti tagli di spesa con effetto immediato, i repubblicani non solo vanno dove il denaro non c’è, ma anche nel momento sbagliato[87]. Un forte taglio alla spesa nel momento in cui l’economia è depressa è una ricetta per una crescita economica più bassa, il che significa minori entrate fiscali, di modo che ogni riduzione del deficit sulla base dei tagli dei repubblicani sarebbe almeno in parte compensata da entrate più basse.

L’intero dibattito sul bilancio, dunque, è una mistificazione. I Repubblicani della Camera, in particolare, stanno letteralmente togliendo il cibo di bocca ai neonati – l’aiuto alimentare alle donne partorienti ed ai bambini in tenera età è uno dei temi della loro piattaforma di tagli – in modo da presentarsi, falsamente, come ‘falchi’ del deficit.

Che cosa dovrebbe riguardare un serio approccio ai nostri problemi di finanza pubblica? Lo posso sintetizzare in sette parole: assistenza sanitaria, assistenza sanitaria, assistenza sanitaria, entrate.

Notate che ho detto ‘assistenza sanitaria’, non ‘diritti’. La gente a Washington spesso parla come se ci fosse un programma chiamato Sicurezzasocialemedicaidemedicare, dopo di che si concentrano su cose come l’innalzamento dell’età pensionabile. Questo è più ancora che il contrario della idea di Willie Sutton. Le prospettive di lungo termine indicano che la spesa pubblica sui principali programmi relativi ai diritti crescerà fortemente nei prossimi decenni, ma la maggior parte di questa crescita verrà dai programmi di assicurazione sanitaria, non dalla Sicurezza Sociale.

Dunque, chi volesse seriamente occuparsi di bilancio dovrebbe principalmente concentrarsi sulla assistenza sanitaria. E dicendo ‘concentrarsi’, io non intendo dire buttar giù un numero e attendere che qualcun altro operi in modo che quel numero si realizzi – lo stratagemma che nel commercio è conosciuto come “l’asterisco magico”; ovvero il metodo consistente ne semplice  rinvio[88] di azioni precise di controllo dei costi.

Da quel punto di vista, la commissione sul deficit Simpson-Bowles, i cui lavori sono in questi giorni considerati come se fossero la ‘regola aurea’ della serietà finanziaria, è nei fatti del tutto poco seria. Il suo rapporto “è stato un grande asterisco magico”, ha detto ad Ezra Klein del Washington Post Bob Greenstein, del Center on Budget and Policy Priorities. Altrettanto si dica della proposta molto pubblicizzata di Paul Ryan, che passa per essere il pensatore profondo del GOP dei nostri giorni, di rimpiazzare Medicare con vouchers [89], il valore dei quali resterebbe continuamente indietro rispetto ai costi dell’assistenza sanitaria. Cosa si pensa che accadrebbe, quando gli anziani si accorgessero di non potersi permettere l’assicurazione?

In cosa potrebbe consistere una azione effettiva sul sistema sanitario? Ebbene, essa potrebbe includere cose come il dare il potere ad una commissione indipendente affinché Medicare  paghi soltanto quei trattamenti di accertato efficacia sanitaria; compensare i fornitori della assistenza sanitaria che offrono assistenza di qualità piuttosto che pagare una somma stabilita per ogni genere di trattamento; limitare la deducibilità fiscale dai programmi assicurativi privati; e così via.  

E cosa  hanno in comune tutte queste cose? In ultima analisi esse sono il testo di riforma sanitaria dell’anno passato.

Questa è la ragione per la quale sostengo che Obama sta ricevendo troppo poco credito. Egli ha fatto, in materia di controllo del deficit di lungo periodo, di più di ogni precedente presidente. E se i suoi avversari fossero seri a proposito di quel deficit, essi sosterrebbero le sue iniziative e ne chiederebbero di ulteriori; invece, hanno passato il tempo a strillare sui ‘tribunali della morte’.[90]

Ora, persino se operassimo per tenere sotto controllo i costi del sistema sanitario, avremmo ancora un problema di deficit di lungo periodo – una diversità rilevante tra la spesa pubblica del governo e quanto esso raccoglie in tasse. Dunque, cosa si dovrebbe fare?

Questo mi riporta alla settima parola del mio elenco dei temi reali della finanza pubblica: se si è seri a proposito del deficit, si dovrebbe avere la volontà di considerare una almeno parziale riduzione di questo gap con tasse più elevate. E’ vero, tasse maggiori non sono popolari, ma non lo sono neppure i tagli alla spesa pubblica. Dunque, dovremmo aggiungere alla lista della persone poco serie  chiunque parli del deficit – come fanno gran parte dei nostri grilli parlanti[91] su quel tema – come si si trattasse esclusivamente di una questione di spesa pubblica.

La morale della favola, dunque, è che, nonostante che il tema del bilancio sia sempre in prima pagina, non è in corso una dibattito vero: sono tutte grida, sfuriate e atteggiamenti, che ci dicono molto sui cinismo degli uomini politici ma che non significano niente in termini di effettiva riduzione del deficit. E non dovremmo essere indulgenti con quei politici che mascherano la realtà[92].

 

 

 

 

 

 

Wisconsin Power Play

By PAUL KRUGMAN
Published: February 20, 2011

 

Last week, in the face of protest demonstrations against Wisconsin’s new union-busting governor, Scott Walker — demonstrations that continued through the weekend, with huge crowds on Saturday — Representative Paul Ryan made an unintentionally apt comparison: “It’s like Cairo has moved to Madison.”

It wasn’t the smartest thing for Mr. Ryan to say, since he probably didn’t mean to compare Mr. Walker, a fellow Republican, to Hosni Mubarak. Or maybe he did — after all, quite a few prominent conservatives, including Glenn Beck, Rush Limbaugh and Rick Santorum, denounced the uprising in Egypt and insist that President Obama should have helped the Mubarak regime suppress it.

 

In any case, however, Mr. Ryan was more right than he knew. For what’s happening in Wisconsin isn’t about the state budget, despite Mr. Walker’s pretense that he’s just trying to be fiscally responsible. It is, instead, about power. What Mr. Walker and his backers are trying to do is to make Wisconsin — and eventually, America — less of a functioning democracy and more of a third-world-style oligarchy. And that’s why anyone who believes that we need some counterweight to the political power of big money should be on the demonstrators’ side.

 

 

Some background: Wisconsin is indeed facing a budget crunch, although its difficulties are less severe than those facing many other states. Revenue has fallen in the face of a weak economy, while stimulus funds, which helped close the gap in 2009 and 2010, have faded away.

In this situation, it makes sense to call for shared sacrifice, including monetary concessions from state workers. And union leaders have signaled that they are, in fact, willing to make such concessions.

But Mr. Walker isn’t interested in making a deal. Partly that’s because he doesn’t want to share the sacrifice: even as he proclaims that Wisconsin faces a terrible fiscal crisis, he has been pushing through tax cuts that make the deficit worse. Mainly, however, he has made it clear that rather than bargaining with workers, he wants to end workers’ ability to bargain.

 

The bill that has inspired the demonstrations would strip away collective bargaining rights for many of the state’s workers, in effect busting public-employee unions. Tellingly, some workers — namely, those who tend to be Republican-leaning — are exempted from the ban; it’s as if Mr. Walker were flaunting the political nature of his actions.

Why bust the unions? As I said, it has nothing to do with helping Wisconsin deal with its current fiscal crisis. Nor is it likely to help the state’s budget prospects even in the long run: contrary to what you may have heard, public-sector workers in Wisconsin and elsewhere are paid somewhat less than private-sector workers with comparable qualifications, so there’s not much room for further pay squeezes.

 

So it’s not about the budget; it’s about the power.

In principle, every American citizen has an equal say in our political process. In practice, of course, some of us are more equal than others. Billionaires can field armies of lobbyists; they can finance think tanks that put the desired spin on policy issues; they can funnel cash to politicians with sympathetic views (as the Koch brothers did in the case of Mr. Walker). On paper, we’re a one-person-one-vote nation; in reality, we’re more than a bit of an oligarchy, in which a handful of wealthy people dominate.

Given this reality, it’s important to have institutions that can act as counterweights to the power of big money. And unions are among the most important of these institutions.

You don’t have to love unions, you don’t have to believe that their policy positions are always right, to recognize that they’re among the few influential players in our political system representing the interests of middle- and working-class Americans, as opposed to the wealthy. Indeed, if America has become more oligarchic and less democratic over the last 30 years — which it has — that’s to an important extent due to the decline of private-sector unions.

And now Mr. Walker and his backers are trying to get rid of public-sector unions, too.

There’s a bitter irony here. The fiscal crisis in Wisconsin, as in other states, was largely caused by the increasing power of America’s oligarchy. After all, it was superwealthy players, not the general public, who pushed for financial deregulation and thereby set the stage for the economic crisis of 2008-9, a crisis whose aftermath is the main reason for the current budget crunch. And now the political right is trying to exploit that very crisis, using it to remove one of the few remaining checks on oligarchic influence.

 

So will the attack on unions succeed? I don’t know. But anyone who cares about retaining government of the people by the people should hope that it doesn’t.

 

Gioco di potere nel Wisconsin, di Paul Krugman

New York Times. 20 febbraio 2011

 

 

La scorsa settimana, di fronte alle dimostrazioni di protesta contro Scott Walker,  il nuovo Governatore antisindacale del Wisconsin – dimostrazioni che sono continuate nel fine settimana, con grandi folle nel giorno di sabato – il deputato Paul Ryan ha non intenzionalmente avanzato un paragone appropriato: “E’ come se Il Cairo si fosse trasferito a Madison[93]”.

Non era la cosa più intelligente che Ryan potesse dire, dato che egli probabilmente non aveva l’intenzione di stabilire un paragone tra il signor Walker, suo collega repubblicano, ed Hosni Mubarak. O forse era proprio quello che intendeva – dopo tutto in discreto gruppo di importanti conservatori, inclusi Glenn Beck, Rush Limbaugh e Rick Santorum, hanno denunciato la rivolta in Egitto ed hanno insistito sul fatto che il Presidente Obama avrebbe dovuto aiutare il regime di Mubarak a soffocarla.

In ogni caso, tuttavia, il signor Ryan aveva più ragione di quanto si rendesse conto. Giacché quanto accade nel Wisconsin non ha a che fare con il bilancio dello Stato, a dispetto della pretesa del signor Walker di stare soltanto cercando di essere responsabile nella gestione della finanza pubblica; ha invece a che fare con il potere. Quello che il signor Walker e i suoi sostenitori stanno cercando di fare è di rendere il Wisconsin – e, alla fine, l’America – meno simile ad una democrazia funzionante e più simile ad una oligarchia da terzo mondo. E questa è la ragione per la quale chiunque creda che abbiamo bisogno di qualche contrappeso al potere politico della grande finanza dovrebbe stare dalla parte dei dimostranti.

Qualche precedente: il Wisconsin è effettivamente alle prese con una stretta di bilancio, sebbene le sue difficoltà siano meno ardue di quelle che stanno fronteggiando molti altri Stati. A fronte di un’economia debole le entrate sono cadute, nel mentre i fondi dello stimolo, che hanno aiutato a ridurre il disavanzo negli anni 2009 e 2010, si sono rarefatti.

In questa situazione, può avere un senso chiamare a condividere i sacrifici, comprese concessioni monetarie da parte degli impiegati statali. E i dirigenti sindacali, in effetti, hanno segnalato la loro disponibilità a fare concessioni del genere.

Ma il signor Walker non ha interesse a stipulare un accordo. In parte perché non ha intenzione di condividere sacrifici: pur dichiarando che il Wisconsin sta misurandosi con una crisi finanziaria terribile, egli ha fatto accettare sgravi fiscali che aggravano il deficit. In primo luogo, tuttavia, egli ha messo in chiaro che anziché contrattare con i lavoratori, egli vuole metter fine al diritto dei lavoratori a contrattare.

La proposta di legge che ha provocato le dimostrazioni sottrarrebbe i diritti alla contrattazione collettiva a molti lavoratori statali, di fatto smantellando i sindacati del pubblico impiego. In modo rivelatore, alcuni settori dei lavoratori – precisamente, coloro che hanno propensioni verso il partito repubblicano – sono esentati dalla messa al bando; è come se il signor Walker avesse sbandierato la natura politica delle sue azioni.

Perché smantellare i sindacati? Come ho detto, questo non ha niente a che fare con l’aiutare il Wisconsin a fare i conti con la sua crisi finanziaria corrente. Neanche è verosimile che aiuti  le prospettive del bilancio dello Stato nel lungo periodo: contrariamento a quanto è stato detto, i lavoratori del settore pubblico, nel Wisconsin come altrove, sono pagati un po’ meno dei lavoratori del settore privato con qualifiche analoghe, dunque non c’è molto spazio per ulteriori strette salariali.

Così non riguarda il bilancio, bensì il potere.

In linea di principio, ogni cittadino americano ha eguale peso nel processo politico. In pratica, come è noto, alcuni di noi sono più uguali degli altri. I miliardari possono mettere in campo schiere di lobbisti; possono finanziare gruppi di esperti che muovono nel verso desiderato i temi della politica; possono incanalare moneta sonante verso i politici che hanno punti di vista amichevoli (come i fratelli Koch hanno fatto nel caso del signor Walker). Sulla carta siamo una nazione basata sul principio una-testa-un-voto; in realtà, siamo una oligarchia non da poco, nella quale domina una manciata di ricchi.

Data questa realtà, è importante avere istituzioni che possono fungere da contrappeso al potere della grande finanza. E, di queste istituzioni, i sindacati sono tra le più importanti.

Non è necessario amare i sindacati, non è necessario credere che essi siano sempre nel giusto, per riconoscere che essi sono tra i pochi attori influenti che rappresentano, in opposizione ai ceti abbienti,  gli interessi della classe lavoratrice e dei ceti medi americani nel nostro sistema politico. In effetti, se l’America è diventata negli ultimi 30 anni più oligarchica e meno democratica – il che è avvenuto – ciò è dipeso in misura importante dal declino dei sindacati del settore privato.

Ed ora il signor Walker ed i suoi sostenitori stanno cercando di sbarazzarsi anche dei sindacati del settore pubblico.

In questo c’è un’amara ironia. La crisi finanziaria nel Wisconsin, come negli altri Stati, è stata ampiamente provocata dal potere crescente dell’oligarchia americana. In fin dei conti, sono stati i soggetti super-ricchi, non la collettività nel suo complesso, che hanno spinto per la deregolamentazione del sistema finanziario e di conseguenza hanno creato le premesse per la crisi economica del 2008-9, una crisi la cui conseguenza è la ragione principale dell’attuale ristrettezze di bilancio. Ed ora la destra politica sta cercando di sfruttare proprio quella crisi, utilizzandola per rimuovere uno dei pochi controlli rimasti al potere degli oligarchi.

Avrà, dunque, successo l’attacco ai sindacati? Non lo so. Ma chiunque abbia a cuore la sopravvivenza del governo del popolo da parte del popolo, dovrebbe sperare che non abbia successo.

 

Shock Doctrine, U.S.A.

By PAUL KRUGMAN
Published: February 24, 2011

Here’s a thought: maybe Madison, Wis., isn’t Cairo after all. Maybe it’s Baghdad — specifically, Baghdad in 2003, when the Bush administration put Iraq under the rule of officials chosen for loyalty and political reliability rather than experience and competence.

As many readers may recall, the results were spectacular — in a bad way. Instead of focusing on the urgent problems of a shattered economy and society, which would soon descend into a murderous civil war, those Bush appointees were obsessed with imposing a conservative ideological vision. Indeed, with looters still prowling the streets of Baghdad, L. Paul Bremer, the American viceroy, told a Washington Post reporter that one of his top priorities was to “corporatize and privatize state-owned enterprises” — Mr. Bremer’s words, not the reporter’s — and to “wean people from the idea the state supports everything.”

 

 

The story of the privatization-obsessed Coalition Provisional Authority was the centerpiece of Naomi Klein’s best-selling book “The Shock Doctrine,” which argued that it was part of a broader pattern. From Chile in the 1970s onward, she suggested, right-wing ideologues have exploited crises to push through an agenda that has nothing to do with resolving those crises, and everything to do with imposing their vision of a harsher, more unequal, less democratic society.

Which brings us to Wisconsin 2011, where the shock doctrine is on full display.

In recent weeks, Madison has been the scene of large demonstrations against the governor’s budget bill, which would deny collective-bargaining rights to public-sector workers. Gov. Scott Walker claims that he needs to pass his bill to deal with the state’s fiscal problems. But his attack on unions has nothing to do with the budget. In fact, those unions have already indicated their willingness to make substantial financial concessions — an offer the governor has rejected.

What’s happening in Wisconsin is, instead, a power grab — an attempt to exploit the fiscal crisis to destroy the last major counterweight to the political power of corporations and the wealthy. And the power grab goes beyond union-busting. The bill in question is 144 pages long, and there are some extraordinary things hidden deep inside.

 

For example, the bill includes language that would allow officials appointed by the governor to make sweeping cuts in health coverage for low-income families without having to go through the normal legislative process.

And then there’s this: “Notwithstanding ss. 13.48 (14) (am) and 16.705 (1), the department may sell any state-owned heating, cooling, and power plant or may contract with a private entity for the operation of any such plant, with or without solicitation of bids, for any amount that the department determines to be in the best interest of the state. Notwithstanding ss. 196.49 and 196.80, no approval or certification of the public service commission is necessary for a public utility to purchase, or contract for the operation of, such a plant, and any such purchase is considered to be in the public interest and to comply with the criteria for certification of a project under s. 196.49 (3) (b).”

 

What’s that about? The state of Wisconsin owns a number of plants supplying heating, cooling, and electricity to state-run facilities (like the University of Wisconsin). The language in the budget bill would, in effect, let the governor privatize any or all of these facilities at whim. Not only that, he could sell them, without taking bids, to anyone he chooses. And note that any such sale would, by definition, be “considered to be in the public interest.”

 

If this sounds to you like a perfect setup for cronyism and profiteering — remember those missing billions in Iraq? — you’re not alone. Indeed, there are enough suspicious minds out there that Koch Industries, owned by the billionaire brothers who are playing such a large role in Mr. Walker’s anti-union push, felt compelled to issue a denial that it’s interested in purchasing any of those power plants. Are you reassured?

 

The good news from Wisconsin is that the upsurge of public outrage — aided by the maneuvering of Democrats in the State Senate, who absented themselves to deny Republicans a quorum — has slowed the bum’s rush. If Mr. Walker’s plan was to push his bill through before anyone had a chance to realize his true goals, that plan has been foiled. And events in Wisconsin may have given pause to other Republican governors, who seem to be backing off similar moves.

 

 

But don’t expect either Mr. Walker or the rest of his party to change those goals. Union-busting and privatization remain G.O.P. priorities, and the party will continue its efforts to smuggle those priorities through in the name of balanced budgets.

 

Stati Uniti d’America: la dottrina shock,

di Paul Krugman

New York Times 24 febbraio 2011

 

Avanzo un pensiero: che, dopo tutto,  forse Madison, nel Wisconsin, non è come Il Cairo. Forse è come Bagdad – in particolare, la Bagdad del 2003, quando la amministrazione Bush mise l’Iraq sotto il comando di ufficiali scelti per la loro fedeltà ed affidabilità politica, piuttosto che per competenza ed esperienza.

Come molti lettori ricorderanno, i risultati furono spettacolari, in senso negativo. Piuttosto che concentrarsi sugli urgenti problemi di un’economia distrutta e di una società che avrebbe potuto precipitare in una guerra civile micidiale[94], gli incaricati di Bush erano ossessionati dall’imporre una visione ideologica conservatrice. In realtà, mentre i saccheggiatori ancora imperversavano per le strade di Bagdad, L. Paul Bremer, il viceré americano, disse al giornalista del Washington Post che una delle sue massime priorità era “rendere autonome[95] e privatizzare le imprese di proprietà statale” – parole del signor Bremer, non del giornalista – e di “disabituare la gente dall’idea che lo Stato si occupi di tutto”.

La storia della Autorità Provvisoria della Coalizione fu il fulcro del best-seller di Naomi Klein “La Dottrina dello Shock”[96], dove si sosteneva che essa fosse parte di un progetto più generale. Dal Cile degli anni ’70 in poi, ella ipotizzava, gli ideologi della destra avevano sfruttato le crisi per inserire nei loro programmi ciò che non aveva niente a che fare con la soluzione delle crisi, ed aveva invece a che fare con la loro visione di una società più dura, più ineguale e meno democratica.

Il che ci porta al Wisconsin del 2011, dove la ‘dottrina dello shock’ è in piena mostra.

Nelle recenti settimane, Madison[97] è stata la scena di vaste dimostrazioni contro la proposta di legge di bilancio del Governatore, che negherebbe i diritti della contrattazione collettiva ai lavoratori del pubblico impiego. Il Governatore Scott Walker sostiene di aver bisogno della approvazione della sua proposta per affrontare i problemi della crisi finanziaria dello Stato. Ma il suo attacco ai sindacati non ha niente a che fare con il bilancio. Nei fatti, quei sindacati hanno già indicato la loro disponibilità ad avanzare concessioni salariali sostanziali, una offerta respinta dal Governatore.

Quanto sta accadendo nel Wisconsin è piuttosto una operazione di potere[98], un tentativo di sfruttare la crisi delle finanze pubbliche per distruggere l’ultimo importante contrappeso al potere politico delle grandi imprese e dei potenti dell’economia. E l’operazione di potere è una conseguenza della distruzione dei sindacati. La legge in questione è lunga 144 pagine, e contiene al suo interno alcune cose straordinarie ben nascoste.

Ad esempio, la legge comprende termini che consentirebbero ai dirigenti nominati dal Governatore di apportare tagli radicali alla copertura della assistenza sanitaria per le famiglie a basso reddito, senza l’obbligo di passare dal normale processo legislativo.

Inoltre contiene questo: “A prescindere da precedenti disposizioni[99] il Dipartimento può mettere in vendita ogni impianto di produzione di energia, di riscaldamento e di condizionamento, ovvero può contrattare con soggetti privati per operazioni connesse con ognuno di tali impianti, con o senza procedure di appalto[100], per qualsiasi ammontare il Dipartimento stabilisca corrispondere al migliore interesse dello Stato.  A prescindere da precedenti disposizioni, non è necessaria alcuna approvazione o alcun certificato dalla commissione del servizi pubblici per acquistare impianti di quella natura, ovvero contratti per il loro utilizzo, ed ogni acquisto del genere è considerato di pubblico interesse e si conforma ai criteri straordinari[101] previsti per la certificazione di un progetto”.

A cosa ci si riferisce? Lo Stato del Wisconsin è proprietario di un certo numero di impianti che offrono riscaldamento, condizionamento dell’aria ed elettricità ad installazioni gestite dallo Stato (come l’Università del Wisconsin). Le espressioni contenute nella proposta di legge consentirebbero al Governatore, in sostanza, di privatizzare in piena libertà[102] alcune o tutte queste installazioni. Non solo questo, egli potrebbe metterle in vendita, senza procedure di appalto, a chiunque scelga. E si noti che ognuna di tali vendite, per definizione, sarebbe “considerata di pubblico interesse”.

Se questo vi sembrasse un dispositivo perfetto per favoritismi ed affarismi – ricordare quei miliardi scomparsi in Iraq? – ebbene, non siete i soli a pensarlo. In realtà, sono in circolazione tali e tanti cattivi pensieri[103] che le Koch Industries, possedute dai fratelli miliardari che stanno giocando un ruolo così importante a favore dell’offensiva antisindacale del signor Walker, si sono sentite in obbligo di diramare una nota di diniego relativamente al loro interesse all’acquisto di nessuno degli impianti energetici suddetti. La cosa vi rassicura?

Le buone notizie dal Wisconsin sono che il dilagare dell’indignazione dell’opinione pubblica – aiutato dalla manovre dei Democratici al Senato dello Stato, che si sono assentati in modo da impedire ai Repubblicani il raggiungimento del quorum – hanno rallentato la procedura di una approvazione frettolosa[104]. Se il progetto del signor Walker era quello di far approvare la sua legge prima che nessuno avesse la possibilità di rendersi conto dei suoi obbiettivi reali, quel progetto è stato sventato. E gli eventi del Wisconsin possono avere indotto ad una pausa gli altri governatori repubblicani, che sembra abbiano in mente di andar dietro ad operazioni del genere.

Ma non ci aspetti che il signor Walker o il resto del suo partito modifichino quegli obbiettivi. La distruzione dei sindacati e la privatizzazione restano le priorità dei Repubblicani, e il partito continuerà nei suoi sforzi di contrabbandare quelle priorità nel nome del riequilibrio dei conti pubblici.      

 

 

 

Leaving Children Behind

By PAUL KRUGMAN
Published: February 27, 2011
  • Will 2011 be the year of fiscal austerity? At the federal level, it’s still not clear: Republicans are demanding draconian spending cuts, but we don’t yet know how far they’re willing to go in a showdown with President Obama. At the state and local level, however, there’s no doubt about it: big spending cuts are coming.

And who will bear the brunt of these cuts? America’s children.

Now, politicians — and especially, in my experience, conservative politicians — always claim to be deeply concerned about the nation’s children. Back during the 2000 campaign, then-candidate George W. Bush, touting the “Texas miracle” of dramatically lower dropout rates, declared that he wanted to be the “education president.” Today, advocates of big spending cuts often claim that their greatest concern is the burden of debt our children will face.

 

In practice, however, when advocates of lower spending get a chance to put their ideas into practice, the burden always seems to fall disproportionately on those very children they claim to hold so dear.

Consider, as a case in point, what’s happening in Texas, which more and more seems to be where America’s political future happens first.

Texas likes to portray itself as a model of small government, and indeed it is. Taxes are low, at least if you’re in the upper part of the income distribution (taxes on the bottom 40 percent of the population are actually above the national average). Government spending is also low. And to be fair, low taxes may be one reason for the state’s rapid population growth, although low housing prices are surely much more important.

 

But here’s the thing: While low spending may sound good in the abstract, what it amounts to in practice is low spending on children, who account directly or indirectly for a large part of government outlays at the state and local level.

And in low-tax, low-spending Texas, the kids are not all right. The high school graduation rate, at just 61.3 percent, puts Texas 43rd out of 50 in state rankings. Nationally, the state ranks fifth in child poverty; it leads in the percentage of children without health insurance. And only 78 percent of Texas children are in excellent or very good health, significantly below the national average.

 

 

But wait — how can graduation rates be so low when Texas had that education miracle back when former President Bush was governor? Well, a couple of years into his presidency the truth about that miracle came out: Texas school administrators achieved low reported dropout rates the old-fashioned way — they, ahem, got the numbers wrong.

 

It’s not a pretty picture; compassion aside, you have to wonder — and many business people in Texas do — how the state can prosper in the long run with a future work force blighted by childhood poverty, poor health and lack of education.

But things are about to get much worse.

A few months ago another Texas miracle went the way of that education miracle of the 1990s. For months, Gov. Rick Perry had boasted that his “tough conservative decisions” had kept the budget in surplus while allowing the state to weather the recession unscathed. But after Mr. Perry’s re-election, reality intruded — funny how that happens — and the state is now scrambling to close a huge budget gap. (By the way, given the current efforts to blame public-sector unions for state fiscal problems, it’s worth noting that the mess in Texas was achieved with an overwhelmingly nonunion work force.)

 

So how will that gap be closed? Given the already dire condition of Texas children, you might have expected the state’s leaders to focus the pain elsewhere. In particular, you might have expected high-income Texans, who pay much less in state and local taxes than the national average, to be asked to bear at least some of the burden.

But you’d be wrong. Tax increases have been ruled out of consideration; the gap will be closed solely through spending cuts. Medicaid, a program that is crucial to many of the state’s children, will take the biggest hit, with the Legislature proposing a funding cut of no less than 29 percent, including a reduction in the state’s already low payments to providers — raising fears that doctors will start refusing to see Medicaid patients. And education will also face steep cuts, with school administrators talking about as many as 100,000 layoffs.

 

The really striking thing about all this isn’t the cruelty — at this point you expect that — but the shortsightedness. What’s supposed to happen when today’s neglected children become tomorrow’s work force?

Anyway, the next time some self-proclaimed deficit hawk tells you how much he worries about the debt we’re leaving our children, remember what’s happening in Texas, a state whose slogan right now might as well be “Lose the future.”

 

Trascurare i bambini, di Paul Krugman

New York Times 27 febbraio 2011

 

 

Il 2011 sarà l’anno della austerità finanziaria? Ai livelli federali, questo non è ancora chiaro: i Repubblicani chiedono tagli draconiani alla spesa, ma non sappiamo ancora sin dove si vorranno spingere in una resa dei conti con il Presidente Obama. Al livello degli Stati e degli Enti Locali, tuttavia, non c’è alcun dubbio al proposito: stanno arrivando grandi tagli sulla spesa pubblica.

E chi sosterrà l’impatto di questi tagli? I bambini americani.

 

Ora, gli uomini politici – specialmente i conservatori, nella mia esperienza – dichiarano in continuazione di essere profondamente interessati ai bambini del nostro paese. Durante le passate presidenziali del 2000, l’allora candidato George W. Bush, facendo la propaganda del “miracolo texano” dei tassi di abbandono scolastico sensibilmente più bassi, dichiarò di voler essere il “Presidente dell’istruzione”. Oggi, i sostenitori dei grandi tagli alla spesa pubblica di solito sostengono che la loro massima preoccupazione è il fardello del debito che dovranno sostenere i nostri figli.

In pratica, tuttavia, quando i sostenitori di una spesa pubblica più bassa hanno l’opportunità di mettere in pratica le loro idee, quel fardello sembra sempre cascare in modo sproporzionato proprio su quei bambini che affermano di aver tanto cari.

Si consideri quanto di davvero esemplare sta accadendo nel Texas, che sempre di più sembra essere il posto dove si sperimenta in anticipo il futuro dell’America.

Il Texas ama rappresentarsi come un modello di governo sobrio[105], e in effetti lo è. Le tasse sono  basse, almeno se vi trovate a far parte della fascia più elevata della distribuzione del reddito (le tasse sul 40 per cento della popolazione con redditi superiori sono in effetti superiori alla media nazionale). La spesa pubblica statale è anch’essa bassa. E, ad essere onesti, le tasse basse possono essere una ragione della rapida crescita della popolazione di quello Stato, anche se i bassi costi degli alloggi sono sicuramente più importanti.

Ma qua è il punto: mentre la bassa spesa pubblica può apparire buona in astratto, ciò che essa in pratica comporta è una bassa spesa nei confronti dei bambini, che direttamente o indirettamente rappresentano una larga parte delle uscite degli Stati e degli Enti Locali.

E nel Texas delle tasse basse e della spesa modesta, i ragazzi non se la passano bene. Il tasso dei diplomati della scuola media superiore, appena al 61,3 per cento, colloca il Texas al 43° posto nella graduatoria di 50 Stati. Su scala nazionale esso si colloca al quinto posto quanto a povertà dei bambini ed è in testa quanto a percentuale di bambini sprovvisti di assicurazione sanitaria. E soltanto il 78 per cento dei bambini del Texas sono in condizioni di salute molto buone o eccellenti, significativamente al di sotto della media nazionale.

Ma aspettate: come è possibile che le percentuali dei diplomati siano così basse, se il Texas aveva il miracolo dell’istruzione, quando il Presidente Bush era Governatore? Ebbene, dopo un paio d’anni della sua presidenza, venne fuori la verità su quel miracolo: gli amministratori delle scuole texane ottenevano le dichiarazioni sulle basse percentuali di abbandono facendo ricorso al buon metodo antico – insomma, falsificavano i dati.

Non si tratta di un quadro a tinte fosche: a parte gli aspetti umani[106], dovete chiedervi – e molti, nel sistema delle imprese del Texas, lo fanno – come uno Stato possa prosperare nel lungo periodo con una futura forza di lavoro compromessa dalla povertà nel periodo dell’infanzia, da una assistenza sanitaria povera e da una mancanza di istruzione.

Ma le cose stanno per divenire molto peggiori.

Pochi mesi fa un altro miracolo texano prese la strada del miracolo dell’istruzione degli anni ’90. Per mesi, il Governatore Rick Perry si era vantato del fatto che le sue “dure decisioni conservatrici” avessero mantenuto il bilancio in attivo, nel mentre consentivano allo Stato di superare incolume la recessione. Ma, dopo la rielezione del signor Perry, la realtà si inframise – è divertente come questo accada – e lo stato ora sta combattendo con una vasto deficit di bilancio (tra parentesi, dati gli sforzi in corso per incolpare i sindacati del settore pubblico dei problemi della finanza pubblica degli Stati, è degno di nota che il disastro in Texas è stato ottenuto con una quota schiacciante di forza di lavoro non sindacalizzata).

Dunque, come verrà ridotto quel deficit? Date le condizioni già deprecabili dei bambini nel Texas, vi sareste potuti aspettare che i dirigenti dello Stato concentrassero altrove le sofferenze. In particolare, vi sareste potuti aspettare che sarebbe stato chiesto ai texani con i redditi elevati, che pagano meno tasse statali e locali della media nazionale, di sopportare almeno una parte di quel peso.

Avreste avuto torto. Gli aumenti fiscali sono stati esclusi dalla considerazione; il deficit sarà ridotto unicamente attraverso tagli alla spesa pubblica. Medicaid, un programma fondamentale per molti bambini dello Stato, riceverà la botta più forte, con una legislazione che propone un taglio dei fondi non inferiore al 29 per cento, inclusa una riduzione dei già bassi pagamenti ai fornitori da parte dello Stato – il che fa crescere i timori che i medici cominceranno a rifiutare i pazienti di Medicaid. Ed anche l’istruzione dovrà fare i conti con tagli considerevoli, con gli amministratori scolastici che stanno parlando di ben 100.000 licenziamenti.

La cosa realmente stupefacente in tutto questo, è che ciò non ha a che fare con la crudeltà – a questo punto si potrebbe cominciare a pensarlo – bensì con la miopia. Cosa si pensa che accada, quando i bambini trascurati di oggi diventeranno le forze di lavoro di domani?

 

In ogni modo, la prossima volta che qualcuno che si proclama “nemico[107]” del deficit vi racconta delle sue preoccupazioni sul debito che stiamo lasciando ai nostri figli, ricordatevi di cosa sta succedendo nel Texas, uno Stato la cui parola d’ordine a questo punto dovrebbe essere a buon diritto “Rinunciare al futuro”.    

 

 

 

How to Kill a Recovery

By PAUL KRUGMAN
Published: March 3, 2011

The economic news has been better lately. New claims for unemployment insurance are down; business and consumer surveys suggest solid growth. We’re still near the bottom of a very deep hole, but at least we’re climbing.

It’s too bad that so many people, mainly on the political right, want to send us sliding right back down again.

Before we get to that, let’s talk about why economic recovery has been so long in coming.

Some economists expected a rapid bounce-back once we were past the acute phase of the financial crisis — what I think of as the oh-God-we’re-all-gonna-die period — which lasted roughly from September 2008 to March 2009. But that was never in the cards. The bubble economy of the Bush years left many Americans with too much debt; once the bubble burst, consumers were forced to cut back, and it was inevitably going to take them time to repair their finances. And business investment was bound to be depressed, too. Why add to capacity when consumer demand is weak and you aren’t using the factories and office buildings you have?

 

The only way we could have avoided a prolonged slump would have been for government spending to take up the slack. But that didn’t happen: growth in total government spending actually slowed after the recession hit, as an underpowered federal stimulus was swamped by cuts at the state and local level.

So we’ve gone through years of high unemployment and inadequate growth. Despite the pain, however, American families have gradually improved their financial position. And in the past few months there have been signs of an emerging virtuous circle. As families have repaired their finances, they have increased their spending; as consumer demand has started to revive, businesses have become more willing to invest; and all this has led to an expanding economy, which further improves families’ financial situation.

But it’s still a fragile process, especially given the effects of rising oil and food prices. These price rises have little to do with U.S. policy; they’re mainly because of growing demand from China and other emerging markets, on one side, and disruption of supply from political turmoil and terrible weather on the other. But they’re a hit to purchasing power at an especially awkward time. And things will be much worse if the Federal Reserve and other central banks mistakenly respond to higher headline inflation by raising interest rates.

 

 

The clear and present danger to recovery, however, comes from politics — specifically, the demand from House Republicans that the government immediately slash spending on infant nutrition, disease control, clean water and more. Quite aside from their negative long-run consequences, these cuts would lead, directly and indirectly, to the elimination of hundreds of thousands of jobs — and this could short-circuit the virtuous circle of rising incomes and improving finances.

Of course, Republicans believe, or at least pretend to believe, that the direct job-destroying effects of their proposals would be more than offset by a rise in business confidence. As I like to put it, they believe that the Confidence Fairy will make everything all right.

But there’s no reason for the rest of us to share that belief. For one thing, it’s hard to see how such an obviously irresponsible plan — since when does starving the I.R.S. for funds help reduce the deficit? — can improve confidence.

Beyond that, we have a lot of evidence from other countries about the prospects for “expansionary austerity” — and that evidence is all negative. Last October, a comprehensive study by the International Monetary Fund concluded that “the idea that fiscal austerity stimulates economic activity in the short term finds little support in the data.”

And do you remember the lavish praise heaped on Britain’s conservative government, which announced harsh austerity measures after it took office last May? How’s that going? Well, business confidence did not, in fact, rise when the plan was announced; it plunged, and has yet to recover. And recent surveys suggest that confidence has fallen even further among both businesses and consumers, indicating, as one report put it, that the private sector is “unprepared to fill the hole left by public sector cuts.”

Which brings us back to the U.S. budget debate.

Over the next few weeks, House Republicans will try to blackmail the Obama administration into accepting their proposed spending cuts, using the threat of a government shutdown. They’ll claim that those cuts would be good for America in both the short term and the long term.

But the truth is exactly the reverse: Republicans have managed to come up with spending cuts that would do double duty, both undermining America’s future and threatening to abort a nascent economic recovery.

 

Come ammazzare una ripresa, di Paul Krugman

New York Times 3 marzo 2011

 

Di recente le notizie dall’economia stanno migliorando. Le nuove domande di sussidi di disoccupazione sono calate: le indagini su imprese e consumi fanno pensare ad una crescita solida. Siamo ancora sul fondo di una buca assai profonda, ma almeno abbiamo ripreso ad arrampicarci.

C’è addirittura cattiveria nel fatto che molta gente, principalmente a destra, vogli farci riscivolare in basso un’altra volta.

Prima di passare a quell’aspetto, vorrei parlare del perché la ripresa economica è stata così lenta ad arrivare.

Alcuni economisti si aspettavano una rapida ripresa una volta che fosse passata la fase acuta della crisi finanziaria – che mi viene alla mente come il periodo dell’ “Oddio, siamo spacciati!”– che grosso modo durò dal settembre del 2008 al marzo del 2009. Ma questo non era affatto probabile. La bolla dell’economia degli anni di Bush aveva lasciato molti americani alle prese con un debito troppo elevato; una volta scoppiata la bolla, i consumatori furono costretti a fare dei tagli, ed era inevitabile che si prendessero il tempo di assestare le loro finanze. Ed anche gli investimenti delle imprese erano destinati a restare depressi. Perché aggiungere capacità produttiva quando la domanda è debole e non si stanno utilizzando le fabbriche e gli uffici che si hanno a disposizione?

Il solo modo nel quale si sarebbe potuta evitare una recessione prolungata sarebbe stata una spesa pubblica che avesse sostituito la stagnazione. Il che non accadde: la crescita complessiva della spesa pubblica in effetti rallentò dopo il colpo della recessione, e uno stimolo federale sottodimensionato fu sommerso da tagli ai livelli degli Stati e degli Enti Locali.

Così siamo passati da anni di elevata disoccupazione e di crescita inadeguata. A dispetto della sofferenza, tuttavia, la famiglie americane hanno gradualmente migliorato la loro situazione finanziaria. E nei mesi passati ci sono stati segnali di un riemergere di un circolo virtuoso. Come la famiglie hanno assestato le loro finanze, hanno accresciuto le loro spese: come la domanda dei consumatori ha cominciato a rianimarsi, le imprese hanno avuto più voglia di investire; e tutto questo ha portato ad un economia in espansione, con ulteriori miglioramenti nella situazione finanziaria delle famiglie.

Ma si tratta di un processo fragile, specialmente in considerazione degli effetti della crescita dei prezzi del petrolio e dei generi alimentari. Queste crescite dei prezzi hanno poco a che fare con la politica degli Stati Uniti; derivano principalmente, da una parte, dalla domanda crescente della Cina e degli altri mercati emergenti, dall’altra dallo sconvolgimento dell’offerta a seguito di disordini politici e di terribili andamenti climatici. Ma sono colpi al potere d’acquisto, in un periodo particolarmente sfavorevole. E le cose diventeranno peggiori se la Federal Reserve e le altre banche centrali daranno una risposta sbagliata alla più alta inflazione ‘apparente’[108] con l’innalzamento dei tassi di interesse.

Il chiaro ed attuale pericolo alla ripresa, tuttavia, viene della politica – in particolare, dalla richiesta dei repubblicani che il Governo abbatta immediatamente la spesa sui sussidi di alimentazione dell’infanzia, sulla prevenzione sanitaria, sulla depurazione delle acque e così via. Anche non considerando le loro conseguenze negative di lungo periodo, questi tagli porterebbero, direttamente o indirettamente, alla eliminazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro – e questo potrebbe causare un corto circuito al circolo virtuoso dei redditi crescenti e dei miglioramenti finanziari.

Naturalmente, i Repubblicani credono o almeno danno l’impressione di credere, che gli effetti direttamente distruttivi di occupazione delle loro proposte sarebbero più che compensati da una crescita di fiducia da parte delle imprese. Come mi piace dire, essi credono che la Fata Turchina della Fiducia metterà ogni cosa a posto.

Ma non c’è alcuna ragione perché noi altri si creda a quella specie di magia. In primo luogo, è difficile vedere come un programma così evidentemente irresponsabile – da quando lesinare i fondi alla Agenzia Esattoriale Federale[109] aiuta a ridurre il deficit? – possa migliorare la fiducia.

Oltre a ciò, abbiamo un sacco di prove da altri paesi a proposito delle prospettive di una “austerità espansiva”, e sono tutte prove negative. Lo scorso ottobre, una studio riassuntivo del Fondo Monetario Internazionale era giunto alla conclusione che “l’idea secondo la quale l’austerità finanziaria stimola nel breve periodo l’attività economica trova scarso supporto nei dati”.

Vi ricordate gli elogi sperticati con i quali venne ricoperto il governo conservatore inglese, che annunciò dure misure di austerità appena entrato in funzione, lo scorso maggio? Come sta andando? Ebbene, la fiducia delle imprese, in effetti, non aumentò al momento in cui il piano fu annunciato; essa sprofondò, né si è ancora ripresa. E studi recenti suggeriscono che quella fiducia è ulteriormente calata sia tra le imprese che tra i consumatori, indicando, come un rapporto sottolinea, che il settore privato “è impreparato a colmare il buco aperto dai tagli del settore pubblico”.

La qual cosa mi riporta al dibattito sul bilancio degli Stati Uniti.

Nel corso delle prossime settimane[110], i Repubblicani alla Camera cercheranno di costringere con il ricatto la amministrazione Obama ad accettare i tagli da loro proposti, utilizzando la minaccia del ‘blocco’ delle funzioni di governo. [111] Essi sosterranno che quei tagli avrebbero un effetto positivo per l’America, nel breve come nel lungo termine.

Ma la verità è esattamente opposta: i Repubblicani sono riusciti a inventare tagli alla spesa pubblica che farebbero un doppio servizio: minerebbero il futuro dell’America e minaccerebbero di ammazzare sul nascere la ripresa dell’economia.

 

 

 

Degrees and Dollars

By PAUL KRUGMAN
Published: March 6, 2011
 

It is a truth universally acknowledged that education is the key to economic success. Everyone knows that the jobs of the future will require ever higher levels of skill. That’s why, in an appearance Friday with former Florida Gov. Jeb Bush, President Obama declared that “If we want more good news on the jobs front then we’ve got to make more investments in education.”

 

But what everyone knows is wrong.

The day after the Obama-Bush event, The Times published an article about the growing use of software to perform legal research. Computers, it turns out, can quickly analyze millions of documents, cheaply performing a task that used to require armies of lawyers and paralegals. In this case, then, technological progress is actually reducing the demand for highly educated workers.

 

And legal research isn’t an isolated example. As the article points out, software has also been replacing engineers in such tasks as chip design. More broadly, the idea that modern technology eliminates only menial jobs, that well-educated workers are clear winners, may dominate popular discussion, but it’s actually decades out of date.

The fact is that since 1990 or so the U.S. job market has been characterized not by a general rise in the demand for skill, but by “hollowing out”: both high-wage and low-wage employment have grown rapidly, but medium-wage jobs — the kinds of jobs we count on to support a strong middle class — have lagged behind. And the hole in the middle has been getting wider: many of the high-wage occupations that grew rapidly in the 1990s have seen much slower growth recently, even as growth in low-wage employment has accelerated.

 

 

 

Why is this happening? The belief that education is becoming ever more important rests on the plausible-sounding notion that advances in technology increase job opportunities for those who work with information — loosely speaking, that computers help those who work with their minds, while hurting those who work with their hands.

Some years ago, however, the economists David Autor, Frank Levy and Richard Murnane argued that this was the wrong way to think about it. Computers, they pointed out, excel at routine tasks, “cognitive and manual tasks that can be accomplished by following explicit rules.” Therefore, any routine task — a category that includes many white-collar, nonmanual jobs — is in the firing line. Conversely, jobs that can’t be carried out by following explicit rules — a category that includes many kinds of manual labor, from truck drivers to janitors — will tend to grow even in the face of technological progress.

 

And here’s the thing: Most of the manual labor still being done in our economy seems to be of the kind that’s hard to automate. Notably, with production workers in manufacturing down to about 6 percent of U.S. employment, there aren’t many assembly-line jobs left to lose. Meanwhile, quite a lot of white-collar work currently carried out by well-educated, relatively well-paid workers may soon be computerized. Roombas are cute, but robot janitors are a long way off; computerized legal research and computer-aided medical diagnosis are already here.

 

And then there’s globalization. Once, only manufacturing workers needed to worry about competition from overseas, but the combination of computers and telecommunications has made it possible to provide many services at long range. And research by my Princeton colleagues Alan Blinder and Alan Krueger suggests that high-wage jobs performed by highly educated workers are, if anything, more “offshorable” than jobs done by low-paid, less-educated workers. If they’re right, growing international trade in services will further hollow out the U.S. job market.

So what does all this say about policy?

Yes, we need to fix American education. In particular, the inequalities Americans face at the starting line — bright children from poor families are less likely to finish college than much less able children of the affluent — aren’t just an outrage; they represent a huge waste of the nation’s human potential.

 

But there are things education can’t do. In particular, the notion that putting more kids through college can restore the middle-class society we used to have is wishful thinking. It’s no longer true that having a college degree guarantees that you’ll get a good job, and it’s becoming less true with each passing decade.

 

So if we want a society of broadly shared prosperity, education isn’t the answer — we’ll have to go about building that society directly. We need to restore the bargaining power that labor has lost over the last 30 years, so that ordinary workers as well as superstars have the power to bargain for good wages. We need to guarantee the essentials, above all health care, to every citizen.

 

What we can’t do is get where we need to go just by giving workers college degrees, which may be no more than tickets to jobs that don’t exist or don’t pay middle-class wages.

 

Gradi e dollari, di Paul Krugman

New York Times 6 marzo 2011

 

 

E’ una verità riconosciuta universalmente che l’istruzione sia la chiave del successo economico. Tutti sanno che i lavori del futuro richiederanno livelli più elevati di competenza. Questa è la ragione per la quale, in una apparizione di venerdì con il passato Governatore della Florida Jeb Bush, il Presidente Obama ha dichiarato che “se vogliamo maggiori buone notizie sul fronte del lavoro, dobbiamo fare in modo di realizzare maggiori investimenti nel sistema educativo”.

Sennonché, quello che sanno tutti è sbagliato.

Il giorno successivo all’evento Obama-Bush, The Times ha pubblicato un articolo a proposito del crescente utilizzo del software nella esecuzione delle ricerche legali. I computer, a quanto pare, possono analizzare con rapidità milioni di documenti, adempiendo economicamente al compito che si era soliti affidare ad armate di avvocati e di impiegati del settore legale. In questo caso, dunque, il progresso tecnologico sta in effetti riducendo la domanda di operatori altamente istruiti.

E la ricerca legale non è un caso isolato. Come sottolinea l’articolo, il software sta anche rimpiazzando gli ingegneri in materie quali la progettazione dei circuiti informatici. Più in generale, l’idea che la moderna tecnologia elimini soltanto i lavori umili, che i lavoratori istruiti siano indiscutibilmente vincenti, può imperversare nel dibattito popolare, ma è effettivamente arretrata di decenni.

Il fatto è che a partire dal 1990 o giù di lì, il mercato del lavoro non è stato caratterizzato da una crescita generale della domanda di competenze, bensì da uno “svuotamento”[112]: sono cresciute rapidamente le occupazioni caratterizzate  da retribuzioni elevate o basse, ma i lavori di media retribuzione – quel genere di lavori sui quali si fa affidamento a sostegno di una classe media robusta – sono rimasti indietro. E il buco nel mezzo sta diventando più grande: molte delle occupazioni ad elevata retribuzione che aumentarono rapidamente negli anni ’90 hanno conosciuto una crescita molto più lenta nei tempi recenti, anche se l’occupazione a bassa retribuzione ha avuto una accelerazione.

Perché sta accadendo questo? La convinzione che l’istruzione sia diventando sempre più importante si basa sul concetto, che sembra convincente, secondo il quale gli sviluppi della tecnologia aumentano le possibilità di impiego per coloro che lavorano con le informazioni – per dirla in modo approssimativo, che i computer aiutino coloro che lavorano con il loro cervello, mentre danneggino coloro che lavorano con le loro mani.

Alcuni anni orsono, tuttavia, gli economisti David Autor, Frank Levy e Richard Murnane sostennero che questo era il modo sbagliato di affrontare la questione. I computer, sottolinearono, eccellono nelle funzioni routinarie, “compiti cognitivi e manuali che possono essere eseguiti a seguito di precise regole”. Di conseguenza, ogni funzione routinaria – una categoria che include molti lavori non manuali da ‘colletti-bianchi’ – è sotto tiro. Di converso, i lavori che non possono essere eseguiti seguendo istruzioni precise – una categoria che include molti generi di attività manuali, dai camionisti ai guardiani[113] – tenderanno a crescere anche a fronte del progresso tecnologico.

E qua è il punto: una gran parte delle attività manuali che ancora si svolgono nella nostra economia sembrano essere del genere che non è possibile automatizzare. In particolare, con i lavoratori della produzione nel settore manifatturiero che calano a circa il 6 per cento della occupazione degli Stati Uniti, non ci sono molti posti di lavoro alle catene di montaggio che restano da perdere. Di contro, un bel po’ di lavoro da ‘colletti-bianchi’ attualmente eseguito da lavoratori ben istruiti e relativamente ben pagati, potrà essere presto sostituito da computers. I robot aspirapolvere[114] sono carini, ma i guardiani robot sono ancora lontani a venire; la ricerca legale e le diagnosi mediche  tramite computer sono già qua.   

E poi c’è la globalizzazione. Un tempo, solo gli operai del manifatturiero dovevano preoccuparsi per la competizione dei paesi stranieri, ma la combinazione di computer e telecomunicazioni ha reso possibile fornire molti servizi a grande distanza. E una ricerca dei miei colleghi di Princeton Alan Blinder ed Alan Krueger indica che i lavori ad elevata retribuzione eseguiti da lavoratori altamente istruiti sono, se possibile, più “esportabili”[115] che i lavori a bassa retribuzione di lavoratori meni istruiti. Se essi hanno ragione, la crescita del commercio internazionale dei servizi ‘svuoterà’ ancora di più il mercato del lavoro statunitense.

In termini politici, tutto questo cosa significa?

E’ certo, dobbiamo riformare il sistema americano dell’istruzione. In particolare, le ineguaglianze americane in fatto di opportunità di partenza – ragazzi intelligenti che provengono da famiglie povere hanno molte meno possibilità di laurearsi che ragazzi assai meno capaci provenienti da famiglie ricche – non sono soltanto una ingiustizia; rappresentano un grande spreco del potenziale umano nazionale.

Ma ci sono cose che l’istruzione non può fare. In particolare, l’idea alla quale siamo abituati secondo la quale inviare il maggior numero di ragazzi alla laurea sia un modo per ridare vigore alla società delle classi medie è una pia aspirazione. Non è più vero che possedere una laurea sia una garanzia di ottenimento di un buon lavoro, e sta diventando sempre meno vero col passare dei decenni.

Dunque, se vogliamo una società con una prosperità più generalmente condivisa, l’istruzione non è la risposta – avremo bisogno di occuparci niente di meno che della ricostruzione di quella società[116]. Abbiamo bisogno di ripristinare il potere d’acquisto che il lavoro ha perduto nel corso degli ultimi trent’anni, in modo tale che i lavoratori ordinari abbiano lo stesso potere dei superfavoriti di contrattare buone retribuzioni. Abbiamo bisogno di garantire le cose essenziali, soprattutto la assistenza sanitaria, ad ogni cittadino.

Quello che non possiamo fare è arrivare dove abbiamo bisogno di andare solo consegnando ai lavoratori i gradi della laurea, che non possono più essere una sorta di tessera per lavori che non esistono o che non danno retribuzioni da classe media.

 

 

 

Dumbing Deficits Down

By PAUL KRUGMAN
Published: March 10, 2011

Like anyone who writes regularly about what passes for economic and fiscal debate in American politics, I’ve developed a strong tolerance for nonsense. After all, if I got upset every time powerful people were illogical and/or dishonest, I’d spend every waking hour in a state of raging despair.

 

Yet there are still moments when I find myself saying, “They can’t really be that stupid,” or maybe, “They can’t really think the rest of us are that stupid.” And I had one of those moments reading about a recent conference on national health policy, which featured a bipartisan dialogue among Congressional staffers.

According to a column in Kaiser Health News, Republican staffers jeered at any and all proposals to use Medicare and Medicaid funds better. Spending money on prevention was no more than a “slush fund.” Research on innovation was “an oxymoron.” And there was no reason to pay for “so-called effectiveness research.”

 

To put this in context, you have to realize two things about the fiscal state of America. First, the nation is not, in fact, “broke.” The federal government is having no trouble raising money, and the price of that money — the interest rate on federal borrowing — is very low by historical standards. So there’s no need to scramble to slash spending now now now; we can and should be willing to spend now if it will produce savings in the long run.

 

 

Second, while the government does have a long-run fiscal problem, that problem is overwhelmingly driven by rising health care costs. The Congressional Budget Office expects Social Security outlays as a percentage of G.D.P. to rise 30 percent over the next quarter-century, as the population ages, but it expects a near doubling of the share of G.D.P. spent on Medicare and Medicaid.

So if you’re serious about deficits, you shouldn’t be pinching pennies now; you should be looking for ways to rein in health spending over the long term. And that means taking exactly the steps that had those G.O.P. staffers sneering.

Think of it this way: Congress could, with a stroke of a pen, cut Social Security benefits in half. But it couldn’t do the same with health spending: Medicare can’t suddenly start paying to replace only half a heart valve or mandate that bypass operations stop halfway through.

Limiting health costs, therefore, requires a smarter approach. We need to work harder on prevention, which can be much cheaper than a cure. We need to find innovative ways of managing health care. And, above all, we need to know what works and what doesn’t so that Medicare and Medicaid can say no to expensive procedures with little or no medical benefit. “So-called comparative effectiveness research” is central to any rational attempt to deal with America’s fiscal problems.

 

But today’s Republicans just aren’t into rationality. They claim to care deeply about deficits — but they’ve spent the past two years putting cynical, demagogic attacks on any attempt to actually deal with long-run deficits at the heart of their campaign strategy.

Here’s a recent example. In his new book, Mike Huckabee — the current leader in polls asking Republicans whom they want to nominate in 2012 — attacks the Obama stimulus because it included funds for, yes, comparative effectiveness research: “The stimulus didn’t just waste your money; it planted the seeds from which the poisonous tree of death panels will grow.” Will others in the G.O.P. stand up and say that Mr. Huckabee is wrong, that Medicare needs to know which medical procedures actually work? Don’t hold your breath.

 

Of course, Republicans aren’t the only cynics. As the national debate over fiscal policy descends ever deeper into penny-pinching, future-killing absurdity, one voice is curiously muted — that of President Obama.

The president and his aides know that the G.O.P. approach to the budget is wrongheaded and destructive. But they’ve stopped making the case for an alternative approach; instead, they’ve positioned themselves as know-nothings lite, accepting the notion that spending must be slashed immediately — just not as much as Republicans want.

Mr. Obama’s political advisers clearly believe that this strategy of protective camouflage offers the president his best chance at re-election — and they may be right. But that doesn’t change the fact that the White House is aiding and abetting the dumbing down of our deficit debate.

And this dumbing down bodes ill for the nation’s future. Health care is only one of the large and difficult problems America needs to deal with, ranging from infrastructure to climate change, all of which demand that we engage in a lot of hard thinking. Yet what we have instead is a political culture in which one side sneers at knowledge and exalts ignorance, while the other side hunkers down and pretends to halfway agree.

 

Banalizzare i deficit, di Paul Krugman

New York Times 10 marzo 2011

 

Come tutti quelli che scrivono regolarmente su quello che è[117] il dibattito economico e finanziario nella politica americana, ho sviluppato una forte tolleranza per le scemenze. Dopo tutto, se dovessi turbarmi ogni volta dell’illogicità e della disonestà delle persone potenti, dovrei trascorrere ogni ora che sto sveglio in una condizione di rabbiosa disperazione.

Tuttavia ci sono ancora momenti nei quali mi ritrovo a dire “Non possono essere davvero così stupidi”, o meglio “Non possono davvero pensare che tutti noi si sia così stupidi”. Ho avuto uno di questi momenti nel leggere di una recente conferenza sulla politica sanitaria nazionale, che doveva rappresentare un dialogo bipartisan tra addetti ai lavori del Congresso.

Secondo un articolo della rivista Kaiser Health News, gli addetti ai lavori repubblicani hanno  messo in ridicolo qualsiasi proposta andasse nel senso di utilizzare meglio i fondi di Medicare e Medicaid[118]. Spendere soldi per la prevenzione non sarebbe altro che “corruzione”[119]. La ricerca sull’innovazione sarebbe un “ossimoro”. Non ci sarebbe alcun motivo per spendere nelle “cosiddette analisi di efficacia”.

Per collocare tutto ciò in un qualche contesto, si devono conoscere due cose a proposito della condizione della finanza pubblica dell’America. La prima è che il paese, in verità, non è “sull’orlo del fallimento”. Il governo federale non incontra alcun problema nel raccogliere denaro, e il prezzo di quel denaro – il tasso di interesse sul debito federale – è, secondo i livelli storici, assai basso. Dunque, non c’è alcuna necessità di precipitarsi senza perdere un istante al taglio della spesa pubblica; abbiamo la possibilità e dovremmo essere disposti a spendere su ciò che produrrà risparmi nel lungo termine.

La seconda: il governo ha invece[120] un problema di finanza pubblica nel lungo termine, e quel problema è in misura schiacciante provocato dalla crescita dei costi della assistenza sanitaria. Il Congressional Budget Office prevede che le spese in percentuale sul PIL crescano del 30 per cento nel prossimo quarto di secolo, con l’invecchiamento della popolazione, ma prevede quasi un raddoppio della quota di PIL che sarà spesa per Medicare e Medicaid.

Dunque, se si è seri al riguardo del deficit, non si dovrebbe lesinare sulle lire in questo momento; si dovrebbero cercare i modi per tenere sotto controllo le spese sanitarie nel lungo termine. Il che significa esattamente fare quelle scelte che provocano la derisione degli addetti ai lavori repubblicani.

Mettiamola in questo modo: il Congresso potrebbe, con un tratto di penna, dimezzare i benefici della Sicurezza Sociale[121]. Ma non potrebbe fare la stessa cosa con la spesa sanitaria: Medicare non può all’improvviso cominciare a pagare solo la metà delle valvole cardiache o disporre che le operazioni per i bypass si interrompano a metà dell’opera.

Limitare i costi della sanità, di conseguenza, richiede un approccio più sottile. Abbiamo bisogno di lavorare con più impegno sulla prevenzione, che può essere assai più conveniente della cura. E, soprattutto, abbiamo bisogno di conoscere quello che funziona e quello che non funziona, in modo che Medicare e Medicaid  possano dire di no alle procedure costose che hanno un modesto ritorno in termini di salute. Le “cosiddette analisi comparative di efficacia” sono decisive per ogni razionale tentativo di misurarsi con i problemi della finanza pubblica americana.

Ma i repubblicani di oggi non si appassionano alla razionalità. Essi pretendono di essere seriamente preoccupati dei deficit, ma hanno speso i due anni passati – questo è stato il cuore della loro strategia elettorale – ad opporre attacchi cinici e demagogici ad ogni tentativo di misurarsi sul serio con i deficit di lungo periodo.

 

C’è qua un esempio recente. Nel suo nuovo libro, Mike Huckabee –  l’attuale uomo di punta secondo i sondaggi nell’elettorato repubblicano sulla persona che vorrebbero candidare[122] nel 2012 – attacca il programma di sostegno di Obama perché includeva fondi, per l’appunto,  per le analisi comparative di efficacia:  “il programma di sostegno non ha solo sprecato il vostro denaro; esso ha piantato i semi dai quale cresceranno gli alberi dei “tribunali della morte”[123]. Si alzerà qualcuno, tra i Repubblicani, a dire che il signor Huckabee sbaglia e che Medicare ha bisogno di conoscere quali procedure sanitarie effettivamente funzionino? Inutile che restiate col fiato sospeso[124].

Naturalmente, i Repubblicani non sono i soli ad essere cinici. Nel mentre il dibattito sulla politica finanziaria si approfondisce sempre di più sul risparmio dei centesimi, in un assurdo tiro al bersaglio sul futuro[125], una voce è curiosamente muta: quella del Presidente Obama.

Il Presidente ed i suoi collaboratori sanno che l’approccio repubblicano al bilancio è sbagliato e distruttivo. Ma hanno escluso di cogliere l’occasione per proporre una approccio alternativo: piuttosto, si sono collocati in una posizione da superficiali agnostici[126], accettando il concetto secondo il quale la spesa pubblica deve essere tagliata con effetto immediato, ma non così tanto quanto vorrebbero i Repubblicani.

Chiaramente, i consiglieri politici di Obama credono che questa strategia di mimetizzazione preventiva[127] offra al Presidente le sue migliori possibilità di rielezione, e può darsi che abbiano ragione. Ma questo niente toglie al fatto che la Casa Bianca concorra e sia corresponsabile della banalizzazione del dibattito sul deficit.

E questa banalizzazione è di cattivo augurio per il futuro del paese. La assistenza sanitaria è solo uno dei grandi e difficili problemi che l’America ha bisogno di affrontare, spaziando dalle infrastrutture ai mutamenti climatici, e ognuno di essi ci chiede un impegno rilevante di discernimento. Invece, quello che abbiamo è piuttosto una cultura politica nella quale un versante si prende gioco della conoscenza ed esalta l’ignoranza, e l’altro versante si accuccia[128] e si immagina compromessi modesti[129].

 

 

 

 

 

Another Inside Job

By PAUL KRUGMAN
Published: March 13, 2011

Count me among those who were glad to see the documentary “Inside Job” win an Oscar. The film reminded us that the financial crisis of 2008, whose aftereffects are still blighting the lives of millions of Americans, didn’t just happen — it was made possible by bad behavior on the part of bankers, regulators and, yes, economists.

What the film didn’t point out, however, is that the crisis has spawned a whole new set of abuses, many of them illegal as well as immoral. And leading political figures are, at long last, showing some outrage. Unfortunately, this outrage is directed, not at banking abuses, but at those trying to hold banks accountable for these abuses.

 

The immediate flashpoint is a proposed settlement between state attorneys general and the mortgage servicing industry. That settlement is a “shakedown,” says Senator Richard Shelby of Alabama. The money banks would be required to allot to mortgage modification would be “extorted,” declares The Wall Street Journal. And the bankers themselves warn that any action against them would place economic recovery at risk.

 

All of which goes to confirm that the rich are different from you and me: when they break the law, it’s the prosecutors who find themselves on trial.

To get an idea of what we’re talking about here, look at the complaint filed by Nevada’s attorney general against Bank of America. The complaint charges the bank with luring families into its loan-modification program — supposedly to help them keep their homes — under false pretenses; with giving false information about the program’s requirements (for example, telling them that they had to default on their mortgages before receiving a modification); with stringing families along with promises of action, then “sending foreclosure notices, scheduling auction dates, and even selling consumers’ homes while they waited for decisions”; and, in general, with exploiting the program to enrich itself at those families’ expense.

 

The end result, the complaint charges, was that “many Nevada consumers continued to make mortgage payments they could not afford, running through their savings, their retirement funds, or their children’s education funds. Additionally, due to Bank of America’s misleading assurances, consumers deferred short-sales and passed on other attempts to mitigate their losses. And they waited anxiously, month after month, calling Bank of America and submitting their paperwork again and again, not knowing whether or when they would lose their homes.”

Still, things like this only happen to losers who can’t keep up their mortgage payments, right? Wrong. Recently Dana Milbank, the Washington Post columnist, wrote about his own experience: a routine mortgage refinance with Citibank somehow turned into a nightmare of misquoted rates, improper interest charges, and frozen bank accounts. And all the evidence suggests that Mr. Milbank’s experience wasn’t unusual.

 

Notice, by the way, that we’re not talking about the business practices of fly-by-night operators; we’re talking about two of our three largest financial companies, with roughly $2 trillion each in assets. Yet politicians would have you believe that any attempt to get these abusive banking giants to make modest restitution is a “shakedown.” The only real question is whether the proposed settlement lets them off far too lightly.

 

What about the argument that placing any demand on the banks would endanger the recovery? There’s a lot to be said about that argument, none of it good. But let me emphasize two points.

First, the proposed settlement only calls for loan modifications that would produce a greater “net present value” than foreclosure — that is, for offering deals that are in the interest of both homeowners and investors. The outrageous truth is that in many cases banks are blocking such mutually beneficial deals, so that they can continue to extract fees. How could ending this highway robbery be bad for the economy?

 

 

Second, the biggest obstacle to recovery isn’t the financial condition of major banks, which were bailed out once and are now profiting from the widespread perception that they’ll be bailed out again if anything goes wrong. It is, instead, the overhang of household debt combined with paralysis in the housing market. Getting banks to clear up mortgage debts — instead of stringing families along to extract a few more dollars — would help, not hurt, the economy.

 

In the days and weeks ahead, we’ll see pro-banker politicians denounce the proposed settlement, asserting that it’s all about defending the rule of law. But what they’re actually defending is the exact opposite — a system in which only the little people have to obey the law, while the rich, and bankers especially, can cheat and defraud without consequences.

 

Un altro “Inside Job”[130], di Paul Krugman

New York Times 13 marzo 2011

 

Consideratemi tra quelli che sarebbero felici di veder vincere un Oscar al documentario “Inside job’. Il film ci ha ricordato che la crisi finanziaria del 2008, le cui conseguenze stanno ancora rovinando le vite di milioni di americani, non è semplicemente capitata – essa è stata resa possibile dalla cattiva condotta di banchieri, di controllori e, diciamolo, di economisti.

Ciò che il film, tuttavia, manca di sottolineare è che la crisi ha generato una intera nuova serie di abusi, molti dei quali altrettanto illegali che immorali. E individui con responsabilità di direzione politica stanno mostrando, con molto ritardo, una qualche indignazione. Sfortunatamente questa indignazione è indirizzata non nei confronti degli abusi del sistema bancario, bensì verso coloro che cercano di fare in modo che le banche rendano conto di quegli abusi.

Il più vicino punto critico è la proposta di una transazione tra le procure generali dello Stato e il settore dei servizi di mutuo. Quella transazione è una specie di estorsione, dice il Senatore Richard Shelby dell’Alabama. I soldi che le banche sarebbero tenute a stanziare per la ricontrattazione dei mutui sarebbero “estorti”, dichiara il Wall Street Journal. E gli stessi banchieri mettono in guardia sul fatto che ogni iniziativa contro di loro metterebbe a rischio la ripresa economica.

Con il che si conferma che i ricchi sono diversi da voi e da me: quando essi infrangono la legge, sono i procuratori che si ritrovano sotto processo.

Per avere un’idea di cosa stiamo parlando, si veda la denuncia inoltrata dal procuratore generale del Nevada contro la Banca d’America. La denuncia accusa la banca di aver allettato con falsi pretesti le famiglie ad aderire ai suoi programmi di ricontrattazione dei mutui, apparentemente aiutandoli  a tenersi le case in proprietà; fornendo informazioni false sulle caratteristiche del programma (ad esempio, dicendo che avrebbero dovuto risultare inadempienti sui loro mutui prima dell’ottenimento di una rimodulazione degli stessi); prendendo in giro le famiglie con promesse di iniziativa, e poi “inviando notizia di pignoramento, mettendo in programma date relative ad aste e persino mettendo in vendita le case dei clienti prima che questi avessero preso una decisione”; e, in generale, sfruttando il programma per arricchirsi a spese di quelle famiglie.

Il risultato finale, accusa la denuncia, sarebbe stato che “molti clienti del Nevada hanno continuato a pagare le rate di mutui che non potevano permettersi, sperperando i loro risparmi, i loro fondi pensionistici, o i fondi per l’istruzione dei loro figli. In aggiunta, a causa delle informazioni fraudolente della Banca d’America, i clienti hanno dilazionato vendite allo scoperto[131] ed hanno messo in atto altri tentativi per mitigare le loro perdite. Ed essi, più di una volta, erano costretti ad attendere ansiosamente, mese dopo mese, di interpellare la Banca d’America e di sottometterle le loro pratiche, non sapendo se e quando avrebbero perduto le loro abitazioni”.

Andiamo avanti: cose del genere possono solo accadere a dei perdenti, che non possono sostenere rate più elevate dei mutui, non è così? Sbagliato. Di recente Dana Milbank, la editorialista del Washington Post, ha raccontato la propria esperienza: un normalissimo rifinanziamento di un mutuo con Citibank in qualche modo trasformato in un incubo di tassi indicati in modo sbagliato, di oneri di interessi impropri e di congelamento di conti correnti. E tante prove dimostrano che l’esperienza della Milbank non è stata inconsueta.

Si noti, di passaggio, che non stiamo parlando di pratiche relative ad imprese o di operatori inaffidabili; stiamo parlando di due delle tre più grandi imprese finanziarie, ciascuna delle quali con circa 2.000 miliardi di dollari di assets. Tuttavia, alcuni uomini politici vorrebbero farvi credere che ogni tentativo di ottenere una modesta restituzione da parte di questi giganti della finanza sarebbe una “estorsione”. L’unica vera domanda è se le transazioni proposte non consentano a costoro di cavarsela troppo comodamente.

Che dire dell’argomento secondo il quale ogni richiesta alle banche metterebbe in pericolo la ripresa? Ci sarebbe molto da dire a proposito di una tesi del genere, nessuna delle quali gradevole. Ma lasciate che sottolinei due aspetti.

Il primo, le transazioni proposte riguardano soltanto ricontrattazioni dei mutui che produrrebbero un “valore attuale netto” superiore del pignoramento – ovvero, riguardano l’offerta di soluzioni che sono nell’interesse sia dei proprietari delle abitazioni che degli investitori. Ciò che davvero indigna è che in molti casi le banche stiano bloccando accordi in tal modo reciprocamente benefici, allo scopo di potere continuare a trarne compensi. In che modo interrompere queste ruberie esorbitanti sarebbe negativo per l’economia?

Il secondo, l’ostacolo più grande alla ripresa non consiste nelle condizioni finanziarie delle principali banche, che a suo tempo sono state fatte oggetto di salvataggi ed oggi godono del vantaggio del generale convincimento che sarebbero di nuovo salvate se qualcosa andasse storto. Consiste, invece, nello strapiombo del debito delle famiglie combinato con la paralisi del mercato degli alloggi. Ottenere dalle banche un rasserenamento delle situazioni debitorie sui prestiti – invece che prendere in giro la famiglie per sottrarre loro pochi dollari in più – non danneggerebbe, bensì aiuterebbe l’economia.

Nei giorni e nelle settimane avvenire, vedremo i politici favorevoli ai banchieri denunciare le transazioni proposte, asserendo che si tratta soltanto di difendere le norme di legge. Ma ciò che essi effettivamente difendono è l’esatto opposto – un sistema nel quale le persone modeste devono obbedire alla legge, mentre i ricchi, e i banchieri in modo particolare, possono ingannare e defraudare senza alcuna conseguenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

The Forgotten Millions

By PAUL KRUGMAN
Published: March 17, 2011

More than three years after we entered the worst economic slump since the 1930s, a strange and disturbing thing has happened to our political discourse: Washington has lost interest in the unemployed.

Jobs do get mentioned now and then — and a few political figures, notably Nancy Pelosi, the Democratic leader in the House, are still trying to get some kind of action. But no jobs bills have been introduced in Congress, no job-creation plans have been advanced by the White House and all the policy focus seems to be on spending cuts.

 

So one-sixth of America’s workers — all those who can’t find any job or are stuck with part-time work when they want a full-time job — have, in effect, been abandoned.

It might not be so bad if the jobless could expect to find new employment fairly soon. But unemployment has become a trap, one that’s very difficult to escape. There are almost five times as many unemployed workers as there are job openings; the average unemployed worker has been jobless for 37 weeks, a post-World War II record.

 

In short, we’re well on the way to creating a permanent underclass of the jobless. Why doesn’t Washington care?

Part of the answer may be that while those who are unemployed tend to stay unemployed, those who still have jobs are feeling more secure than they did a couple of years ago. Layoffs and discharges spiked during the crisis of 2008-2009 but have fallen sharply since then, perhaps reducing the sense of urgency. Put it this way: At this point, the U.S. economy is suffering from low hiring, not high firing, so things don’t look so bad — as long as you’re willing to write off the unemployed.

Yet polls indicate that voters still care much more about jobs than they do about the budget deficit. So it’s quite remarkable that inside the Beltway, it’s just the opposite.

What makes this even more remarkable is the fact that the economic arguments used to justify the D.C. deficit obsession have been repeatedly refuted by experience.

On one side, we’ve been warned, over and over again, that “bond vigilantes” will turn on the U.S. government unless we slash spending immediately. Yet interest rates remain low by historical standards; indeed, they’re lower now than they were in the spring of 2009, when those dire warnings began.

On the other side, we’ve been assured that spending cuts would do wonders for business confidence. But that hasn’t happened in any of the countries currently pursuing harsh austerity programs. Notably, when the Cameron government in Britain announced austerity measures last May, it received fawning praise from U.S. deficit hawks. But British business confidence plunged, and it has not recovered.

 

Yet the obsession with spending cuts flourishes all the same — unchallenged, it must be said, by the White House.

I still don’t know why the Obama administration was so quick to accept defeat in the war of ideas, but the fact is that it surrendered very early in the game. In early 2009, John Boehner, now the speaker of the House, was widely and rightly mocked for declaring that since families were suffering, the government should tighten its own belt. That’s Herbert Hoover economics, and it’s as wrong now as it was in the 1930s. But, in the 2010 State of the Union address, President Obama adopted exactly the same metaphor and began using it incessantly.

 

And earlier this week, the White House budget director declared: “There is an agreement that we should be reducing spending,” suggesting that his only quarrel with Republicans is over whether we should be cutting taxes, too. No wonder, then, that according to a new Pew Research Center poll, a majority of Americans see “not much difference” between Mr. Obama’s approach to the deficit and that of Republicans.

So who pays the price for this unfortunate bipartisanship? The increasingly hopeless unemployed, of course. And the worst hit will be young workers — a point made in 2009 by Peter Orszag, then the White House budget director. As he noted, young Americans who graduated during the severe recession of the early 1980s suffered permanent damage to their earnings. And if the average duration of unemployment is any indication, it’s even harder for new graduates to find decent jobs now than it was in 1982 or 1983.

 

So the next time you hear some Republican declaring that he’s concerned about deficits because he cares about his children — or, for that matter, the next time you hear Mr. Obama talk about winning the future — you should remember that the clear and present danger to the prospects of young Americans isn’t the deficit. It’s the absence of jobs.

But, as I said, these days Washington doesn’t seem to care about any of that. And you have to wonder what it will take to get politicians caring again about America’s forgotten millions. 

 

Milioni di dimenticati, di Paul Krugman

New York Times 17 marzo 2011

 

Sono passati più di tre anni dal momento in cui entrammo nella peggiore recessione economica dagli anni ’30 e una cosa strana ed inquietante è accaduta nel nostro dibattito politico: Washington ha perso interesse ai disoccupati.

Di posti di lavoro si parla qua e là – e pochi personaggi della politica, in particolare Nancy Pelosi, leader dei Democratici alla Camera, stanno ancora cercando di ottenere una qualche iniziativa. Ma nessuna proposta di legge sul lavoro è stata presentata al Congresso, nessun programma per la creazione di posti di lavoro è stato avanzato dalla Casa Bianca e tutta l’attenzione della politica sembra rivolta ai tagli sulla spesa pubblica.

Così un sesto dei lavoratori americani – tutti coloro che non riescono a trovare alcun lavoro o che sono bloccati in lavori a tempo parziale mentre vorrebbero il tempo pieno – in sostanza, sono stati abbandonati.

La mancanza di lavoro non sarebbe una cosa così cattiva se si potesse far conto di trovare un nuovo impiego in un tempo abbastanza ragionevole. Ma la disoccupazione è diventata un trappola dalla quale è assai difficile venir fuori. I lavoratori disoccupati sono quasi cinque volte le offerte di lavoro: il lavoratore disoccupato resta senza lavoro in media per 37 settimane, un record dopo la Seconda Guerra Mondiale.

In poche parole, ci stiamo davvero accingendo a dar vita ad una sottoclasse di senza lavoro. Perché Washington non si preoccupa?

In parte la risposta può consistere nel fatto che mentre i disoccupati tendono a restare disoccupati, quelli che hanno ancora il lavoro si sentono più sicuri di quanto non fossero un paio di anni fa. Licenziamenti e congedi sono esplosi durante la crisi degli anni 2008 – 2009 ma da allora sono diminuiti fortemente, forse attenuando il senso di urgenza. Mettiamola così: a questo punto l’economia americana sta soffrendo di un basso livello di assunzioni, non di un alto livello di licenziamenti, dunque le cose non vanno così male – purché  abbiate voglia di non considerare i disoccupati.

Tuttavia i sondaggi indicano che gli elettori si preoccupano molto di più dei posti di lavoro che del deficit di bilancio. Dunque, è abbastanza significativo che nei centri del potere[132] le cose stiano proprio all’opposto.

Quello che rende tutto ciò ancora più significativo è il fatto che gli argomenti economici utilizzati per giustificare l’ossessione di Washington[133] per il deficit sono stati più volte confutati dall’esperienza.

Da una parte, siamo stati più e più volte messi in guardia sul fatto che i “vigilantes dei bonds” si sarebbero ribellati contro il Governo degli Stati Uniti, se esso non avesse tagliato immediatamente la spesa pubblica. Tuttavia, i tassi di interesse restano bassi, a confronto dei dati storici; in effetti, essi sono più bassi oggi di quanto non fossero nella primavera del 2009, quando quei terribili ammonimenti ebbero inizio.

D’altra parte, siamo stati assicurati che i tagli alla spesa pubblica avrebbero fatto miracoli sulla fiducia delle imprese. Ma questo non è accaduto in nessuno dei paesi che in questo momento stanno portando avanti severi programmi di austerità. In particolare, quando in Gran Bretagna  il Governo Cameron annunciò, il maggio scorso, misure di austerità, ricevette elogi sperticati dai ‘falchi’ americani del deficit. Ma la fiducia dell’imprenditoria britannica è crollata, e non si è ripresa.

Tuttavia l’ossessione per i tagli alla spesa pubblica cresce in tutti i modi – non contrastata, si deve dire, da parte della Casa Bianca.

Io ancora non capisco la ragione per la quale la amministrazione Obama sia stata così veloce ad accettare la propria sconfitta nella battaglia delle idee, ma il fatto è che essa è uscita molto presto dalla partita. Agli inizi del 2009, John Boehner, attualmente lo speaker della Camera,  veniva generalmente e giustamente irriso per aver dichiarato che, dato che le famiglie erano in sofferenza, anche il Governo avrebbe dovuto tirare la cintola. Quella fu la politica di Herbert Hoover, ed è sbagliata oggi come lo fu negli anni ’30. Ma, nel Messaggio sullo Stato dell’Unione del 2010, Obama adottò esattamente la stessa metafora, e da allora l’ha usata in modo incessante.

Agli inizi di questa settimana, il direttore del bilancio della Casa Bianca ha dichiarato: “C’è un accordo sul fatto che si debba ridurre la spesa pubblica”, intendendo dire che l’unica discussione con i Repubblicani è sul fatto se si debbano anche tagliare le tasse. Nessuna meraviglia, dunque, se secondo un nuovo sondaggio del Pew Research Center[134] una maggioranza di Americani non vede “grande differenza” tra l’approccio di Obama e quello dei Repubblicani al deficit.

Chi paga, dunque, il prezzo di questa infelice unanimità dei due schieramenti? E’ ovvio, i disoccupati che sono sempre di più senza speranza. E il peggio toccherà ai lavoratori in giovane età, come sottolineò Peter Horszag, allora direttore del bilancio della Casa Bianca. Come egli notò, i giovani americani che si erano diplomati durante la seria recessione dei primi anni ’80, ne ricevettero un danno permanente  nelle retribuzioni. E, se la durata media della disoccupazione offre una qualche indicazione, è anche più difficile per i nuovi diplomati di oggi trovare lavori dignitosi di quanto non lo fosse nel 1982 o 1983.

Dunque, la prossima volta che sentirete dire da qualche repubblicano d’essere preoccupato del deficit, giacché egli ha a cuore i propri figli – o, peraltro, la prossima volta che sentirete Obama parlare di “vincere” il futuro – dovreste ricordarvi che il pericolo indubitabile ed attuale per le prospettive della gioventù americana non è il deficit. E’ l’assenza di posti di lavoro.

Ma, come ho detto, di questi tempi Washington non sembra occuparsene granché. E siete voi che dovete chiedervi che cosa ci vorrà per fare in modo che gli uomini politici tornino ad occuparsi di milioni di americani dimenticati.

 

 

 

 



[1] “Wall Street” whitewash”, lett, significa “l’imbiancatura/la mascheratura di Wall Street”; ovvero, come spiega l’articolo, una lettura della crisi che consente di nascondere le responsabilità del sistema finanziario americano, con una semplice mano di vernice.

[2] “loyalist” nella tradizione politica britannica è sinonimo di “tory”, ovvero di conservatore. Ma anche durante la Rivoluzione Americana, coloro che stavano dalla parte degli Inglesi venivano definiti “Tories” o “loyalists”. E’ probabile che il termine sia rimasto anche nel linguaggio politico attuale, per indicare genericamente il polo conservatore.

[3] “to debunk” lett, significa “dimostrare la falsità di una idea o di una fede in qualcosa”.

[4] “cover story”, in gergo giornalistico  significa “notizia da copertina”, “articolo collegato alla copertina”

[5] “20-20 hindsight” significa “con il senno di poi” (lett.  “retrospettivamente con venti ventesimi”, ovvero con la certezza delle cose già successe).

[6] La disinflazione è una riduzione del tasso di inflazione, che dunque cala nella sua crescita; mentre la deflazione corrisponde a  una effettiva riduzione dei prezzi.

[7] “core inflation” è un metodo di calcolo dell’inflazione che, appunto, consiste nelle esclusione dal “paniere” di alcuni prezzi particolarmente ‘volatili’.

[8] George Osborne è attualmente Cancelliere dello Scacchiere in Inghilterra. E’ stato parlamentare e ‘ministro ombra’ del partito conservatore inglese durante i governi laburisti. Il giudizio riferito sull’Irlanda lo espresse in un articolo su The Sunday Times del febbraio del 2006.

[9] “to give ground” è una espressione con significati molteplici (causare, impartire, produrre, concedere). Tra di essi: “assecondare una spinta/pressione, anziché resistere o rompere”.

[10] “to reach across the aisle” significa lett. “protendersi sulla navata”.

[11] “The Hambug Express” può essere tradotto, alla lettera, come “la balla bella e buona” (“express”, oltre a “rapido”, ha il significato di “chiaro, dichiarato”). Con l’utilizzo delle maiuscole – nel titolo come nella frase finale di questo articolo – si intende, in aggiunta, utilizzare l’espressione per denominare qualcosa di intenzionale ed  ‘organizzato’.

[12] “Rightly”, lett. “con buona ragione”.

[13] Uomo politico repubblicani.

[14] Public policy.

[15] “Let me walk you through”, lett. “consentitemi di accompagnarvi attraverso”.

[16] Ovvero con l’interventismo pubblico nell’economia in risposta alla depressione.

[17] “cherry-picking the data” significa “selezionare i dati utilizzando quelli più convenienti ad una tesi”.

[18] “delivery”, oltre che “consegna, recapito” significa anche “parto”.

[19] “to pass off as” significa “farsi passare per”.

[20] Nel libro di Dickens, il vecchio Ebenezer Scrooge usa l’espressione “Bah, hambug!” (che si potrebbe tradurre con “Scempiaggini!”, oppure, in aderenza all’articolo, con “Balle!”) come commento alla festività del Natale. Krugman, dunque, dice che gli Americani almeno dovrebbero avere il coraggio di chiamare le “balle” col loro nome. Implicitamente, forse intende anche dire che, nel contesto della cruda indifferenza di gran parte del mondo politico americano agli effetti sociali della crisi, tanto varrebbe, come Scrooge, considerare le festività natalizie come una “balla”.

[21] “Commodity” può significare “raw material” (“materia prima”; lett. “materia grezza” ) o “primary agricoltural product” (“prodotto primario dell’agricoltura”). Ha anche il significato più generale di “cosa utile o di valore”. Ma in questo caso, avendo peraltro già fatto menzione dell’andamento del grano e dei cereali, mi pare che ci si riferisca alle materie prime in generale, e il fatto che sia al singolare si spiega, mi pare, con un suo uso ‘aggettivale’; come, subito dopo, con “commodity markets”.

[22] “is … just a bystander” significa lett. “è … solo un passante”.

[23] “this” può anche essere un avverbio (“it’s this big”, “è grande così”).

[24] “claimed vindication”, lett. “pretesero giustificazione”.

[25] “to feel like a recession”, “sentirsi come/aver voglia di una recessione” .

[26] “to buy up” significa “acquistare grandi quantitativi, fare incetta”.

[27] “inflation worrier” significa “(individuo) apprensivo di inflazione”; nel linguaggio krugmaniano ha assunto il significato di un vero e proprio “partito dell’inflazione”.

[28] “just around the corner”, “proprio nei pressi dell’angolo”.

[29] “for”, oltre che preposizione, può essere congiunzione (“poiché, dal momento che”). In quanto congiunzione, in italiano è assai meglio non collocarla in un periodo separato. Inoltre, la congiunzione “for” regge anche la seconda parte della frase.

[30] Le “tar sands” del Canada sono terre composte da sabbie, argille, acqua e una forma di petrolio densa ed estremamente vischiosa. Le riserve si trovano in Canada (le “Athabasca Oil sands” dello Stato di Alberta) ed in Venezuela. “Tar” significa “catrame, bitume”, e il nome deriva dalla somiglianza tra quel composto e questa forma di petrolio.

[31] “let alone”, lett. “figurarsi, figuriamoci”

[32] Mad Max è il nome dell’ex poliziotto eroe e protagonista di una serie di films ambientati in un futuro post-apocalittico.

[33] Traduzione in lingua “native”! Lett. “linguaggio ambiguo, contorto”.

[34] “It’s the greatest thing since sliced bread” è una espressione idiomatica che significa “è la cosa migliore in assoluto/del mondo” (lett. “è la cosa più grande dal/dopo il pane a fette”).

[35] “Still” può essere anche congiunzione (“eppure” etc.).

[36] “nomination”, in effetti, ha il significato di “selezione, designazione, candidatura”; mentre per nomina è preferibile “appointment”.

[37] Uno degli svariati significati di “to run” è “estendere, espandere, sciogliersi” (“to spread”).

[38] “Pay-as-you-go” è una espressione idiomatica che corrisponde al nostro “pagare in contanti”. Nel linguaggio congressuale, si tratta di regole che si riferiscono all’obbligo di copertura delle nuove spese o con maggiori entrate o con minori altre spese.

[39] “to weather the storm” significa lett. “resistere alla tempesta”.

[40] “Morning in America” è una espressione che si riferisce ad un celeberrimo programma televisivo mattutino (“Good morning America”) , che si basava su uno stile di comunicazione delle notizie della giornata ‘alla mano’ e non drammatizzante. Una traduzione letterale sarebbe impossibile.

[41] “to shave off” significa limare, raschiare, spuntare.

[42] Come è noto, la Pelin è accreditata di una candidatura repubblicana alle elezioni del 2012, in alternativa ad altri candidati di quel partito meno forsennati; dunque il primo periodo presidenziale terminerebbe nel 2016. Considerato che viene ipotizzata una discesa di un punto di disoccupazione all’anno, nell’ipotesi ottimistica di un aumento del PIL nel periodo di un 4 per cento all’anno, con l’anno 2016 il tasso di disoccupazione scenderebbe al 4 per cento, che viene considerato normalmente un discreto livello di ‘occupazione piena’. Naturalmente, il riferimento al successo della Pelin è sul filo del paradosso, come annuncia subito dopo l’avverbio “seriously”..

[43] “to long to do” significa “essere impazienti di fare, non veder l’ora di …”.

[44] Uno degli strumneti della politica di occupazione del New Deal.

[45] Si tratta di un gioco di parole, nel senso che “Job one” – dove “one” è avverbio, e dunque lett. significa “Lavoro insieme” – è sinonimo di programmi di indirizzo al lavoro e, al tempo stesso, nel linguaggio del repubblicano, ha il significato irrisorio di ‘lavoro urgente, importante da fare’.

[46] “to bully to …”, lett “fare il prepotente verso …”.

[47] “full-court press” è una tecnica di gioco delle squadre di basket, consistente nel “coprire” ogni avversario in tutte le zone del campo, e non solo sotto il proprio canestro.

[48] “Smoke and mirrors” – lett. “fumo e specchietti”.

[49] “Short-change” significa precisamente “un imbroglio consistente nel dare insufficiente denaro in cambio/un trattamento ingiusto consistente nel privare qualcuno del valore cui ha diritto”. Ovvero, un modo di dire di significato identico allo slogan degli studenti italiani contemporanei.

[50] “to wish away” significa all’incirca “sperare che qualcosa se ne vada ignorandola”.

[51] “dangerous”,  è qualcosa che “è capace (o verosimile) di portare danno od ingiuria”, mentre “minaccioso” si traduce altrimenti. Per cui, la traduzione più fedele sarebbe “armati e capaci di far male”.

[52] “to ostracize”: “mettere al bando, ostracizzare, vietare la parola”

[53] “to be up to”, più frequentemente, significa “essere all’altezza di”. Ma, in fondo, nel senso di “implicare la capacità di”.

[54] “red in tooth and claw” significa lett. “sanguinante nei denti e negli artigli”.

[55] Roe contro Wade o Roe vs Wade (1973) è una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America che rappresenta uno dei principali precedenti riguardo alla legislazione sull’aborto. Secondo la sentenza, la maggior parte delle leggi contro l’aborto negli Stati Uniti d’America violava il diritto alla privacy garantito dal Quattordicesimo Emendamento della Costituzione. Questa decisione ribaltò tutte le leggi statali e federali che proibivano o restringevano la possibilità di abortire in alcuni casi ben precisi.

La sentenza Roe vs. Wade è una delle più controverse e politicamente significative nella storia della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America. Il nodo centrale della Roe vs. Wade consiste nello stabilire che l’aborto è possibile per qualsiasi ragione la donna lo voglia fino al punto in cui il feto diventa in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno, anche con l’ausilio di un supporto artificiale. Questa condizione si verifica in media intorno ai sette mesi (28 settimane), ma può presentarsi prima, anche alla 24sima settimana.

La Corte ha inoltre stabilì che in caso di pericolo per la salute della donna, l’aborto è legale anche qualora la soglia oltre il quale il feto è in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno sia stata sorpassata.

 

[56] “slip of the tongue” significa “lapsus” (lett. “errore della lingua”).

[57] Per quanto possa apparire incredibile, pare che davvero nella varie proposte di queste settimane avanzate dai rappresentanti repubblicani alla Camera dei Rappresentanti, l’espressione formalmente utilizzata sia quella di “Job-killing”, ovvero di “uccisione/liquidazione/distruzione di posti di lavoro”; espressione con la quale essi si riferiscono a varie norme approvate nella prima parte della attività legislativa della Presidenza Obama, tra le quali quella relativa alla riforma della assistenza sanitaria.

[58] Lett. “più (che) allo scopo dal punto di vista della prospettiva cinese”.

[59] “my economic history” ha il significato di: “la storia dell’economia che conosco”.

[60] “already” (WRc – en/d offre un secondo significato, nell’uso americano, come “espressione di impazienza”).

[61] “to burst this bubble”, lett. “far scoppiare questa bolla”.

[62] Il verbo è, in realtà, coniugato al tempo presente. C’è una diversa sensibilità, tra le due lingue nel coniugare i tempi di verbi di frasi coordinate. Comunque, in italiano dire “se egli propone” quando si tratta di una eventualità futura, non sarebbe  corretto.

[63] “Big Government” è l’espressione con la quale conservatori e progressisti definiscono le politiche di forte utilizzo della spesa pubblica in chiave anticiclica di origine keynesiana o newdealista.

[64] “to keep a lid” può significare “tenere segreto”, o “tenere sotto silenzio”, o “tenere sotto controllo”.

[65] “have come roaring back from …”, lett. “sono rientrati/ritornati urlando/rombando dalla …”

[66] Normalmente “to be pegged”, nel significato monetario, sta per “essere ancorato”, ma in questo caso il significato è tecnicamente un po’ meno forte.

[67] “is making hawkish noises” significa lett. “sta facendo rumori da falco/aggressivi”.

[68] William Jennings Bryan (Salem, 19 marzo 1860Dayton, 26 luglio 1925) è stato un politico statunitense membro del Partito Democratico. È stato il candidato del suo partito per ben tre volte alle presidenziali del 1896, a quelle del 1900 e del 1908 ma fu sempre sconfitto, da William McKinley prima e poi da William Howard Taft.

 

[69] Il minimo solare (min solare) è il periodo di minore attività del Sole nel ciclo solare; durante questo periodo, l’attività delle macchie solari tende a diminuire, fino a diventare quasi assente per diversi giorni consecutivi. La data precisa del minimo si ricava misurando per dodici mesi l’attività delle macchie solari in un periodo di apparente minore attività, quindi l’identificazione precisa della data può avvenire solamente sei mesi dopo la data reale del minimo. Al minimo solare si contrappone il massimo solare, durante la quale compaiono sulla fotosfera della stella centinaia di macchie solari.

[70] Lett. “i soliti sospetti”. Omaggio a Monicelli.

[71] “Confederazione degli Stati d’America” è il nome che prese il governo degli Stati sudisti negli anni 1861-65, a seguito della secessione di quel grippo di Stati e della conseguente guerra civile.

[72] Tanto è vero che “Greenback” ha assunto il significato generale di “banconota”, pur avendo anche il senso colloquiale-affettivo traducibile con ‘verdone’ (diremmo ‘vecchia lira’).

[73] “Hearing” può essere tradotto con “seduta” e con “audizione”. In questo caso, sembra si sia trattato di entrambe le cose.

[74] “So much for that” significa “chiudiamo il discorso, discorso finito”.

[75] Diminutivo di Abraham.

[76] Espressione impegnativa con la quale si indicano le comunicazioni presentate dalle personalità ‘convocate’ dal Congresso ne corso delle proprie ‘audizioni’.

[77] “gotcha moment” è una caratteristica di un programma o un linguaggio di programmazione, che lavora in un modo che è corretto dal punto di vista delle “regole del gioco”, ma non è quello che ci si aspetta il programma debba fare nella logica delle nostre intenzioni e induce all’errore perché è sia facile da riprodurre che completamente inaspettato. Essendo un storpiatura del termine inglese “I got you” (“ti ho beccato”), il suo significato più complesso come quello più semplice possono essere tradotti con “trabocchetto”.

[78] Notiamo a questo punto – il riferimento è all’intero articolo – che in inglese l’espressione “signore”, diversamente dall’italiano, viene utilizzata generalmente; mentre, in alcuni casi, come in italiano, viene utilizzata in senso vagamente ironico e svalutativo. Per questo, in alcuni casi la confermiamo ed in altri no.

[79] E’ il nome di un centro di ricerca.  “Pew” è il cognome dei fondatori della fondazione di beneficienza che ha sede a Philadelphia-Pennsylvania, da cui il centro di ricerca dipende (altrimenti sarebbe il “bancone”, ovvero quella struttura di legno nella quale, nelle chiese, i fedeli trovano posto a sedere).

[80] L’immagine di donne comuni che guidano Cadillac con i contributi della assistenza pubblica, come se fossero “regine” (“queens”) viene proprio dall’epoca reaganiana. Forse da una battuta dello stesso Reagan.

[81] Il termine “fiscal” ha in America un significato più ampio del termine “fiscale” in Italia; per questo normalmente lo traduciamo con “spesa pubblica” o “finanza pubblica”. In sostanza, “fiscal” non è soltanto quello che gli Stati incamerano con le tasse, ma anche quello che spendono utilizzando le tasse.

[82] “eat seed corn” è una espressione idiomatica, che lett. significa “mangiare il grano della semina”.

[83] “IRS” è l’acronimo di “Internal Revenue Service”, che è una agenzia esattoriale federale che si occupa di evasione fiscale.

[84] “Ever” oltre che “sempre, in ogni momento”, può significare “crescentemente, costantemente”.

[85] Nella polemica dell’anno passato sulla riforma sanitaria l’espressione “tribunali della  morte” veniva utilizzata dalla destra nei confronti della proposta di riforma, in riferimento al fatto che essa – oltre a generalizzare la copertura sanitaria assicurativa –  prevedeva alcuni risparmi di spesa, ad esempio, in casi circostanziati,  evitando i costi pubblici dell’accanimento terapeutico.

[86] Willie Sutton è il nome di una famoso gangster americano nato nel 1901 a Brooklyn, diventato famoso, oltre che per la rapine alle banche,  per la frase con la quale rispondeva alla domanda sul perché le derubasse (“è lì che stanno i soldi!”). “Wept” significa soltanto “lacrimuccia”, ma dal contesto dell’articolo si è autorizzati a tradurla nel senso di una ‘falsa preoccupazione”.

[87] Lett. “ma anche quando il denaro non c’è”.

[88] “To get behind sb/sth” può significare “arrivare in ritardo su qualcuno/qualcosa” o anche “coprirsi le spalle dietro qualcuno/qualcosa”. In questo caso, il senso è che con il metodo dell’ “asterisco” si procrastina l’azione effettiva.

[89] Ovvero, “buoni”.

[90] Vedi nota n. 85.

[91] “scold” come sostantivo è una espressione arcaica che sta per “donna che brontola in continuazione”. “To scold” significa “seccare, avere continue rimostranze”.

[92] “To indulge” significa “fingere, fare finta” o anche “pretendere (di capire)”. “by pretending otherwise”, quindi, significa lett. “fingendo altrimenti”, ovvero presentandosi come seriamente preoccupati del deficit, mentre non si fa niente per risolverlo.

[93] Madison è una città dello Stato del Wisconsin di oltre 500.000 abitanti. Madison è spesso chiamata The City of Four Lakes (“la città dei quattro laghi”), perché intorno si trovano i laghi Mendota, Monona, Wingra e Waubesa e addirittura il centro della città è situato su un istmo compreso tra i laghi Mendota e Monona.

[94] E’ una traduzione possibile per “murderous”, oltre “omicida”.

[95] “To corporatize” significa “convertire una società pubblica in impresa privata”; in italiano identico a “privatizzare”.

[96] In italiano trodtto con il titolo “Shock Economy”.

[97] Vedi articolo precedente.

[98] “Power grab”, lett. “una presa/invasione/occupazione di potere”.

[99] I numeri si riferiscono alle diposizioni precedenti.

[100] Lett. “solicitation of bids” significa “richieste/domande di appalto/licitazione”.

[101] Ancora i numeri sono relativi alle disposizioni particolari di quella natura.

[102] “at whim” significa “a capriccio”.

[103] “”thare are enough suspicious minds out there …”, lett. “ci sono là fuori abbastanza pensieri sospettosi …”.

[104] “bum’s rush” è un termine idiomatico, grosso modo traducibile con “liquidazione rapida”.

[105] Le espressioni “grande governo” e “piccolo governo” derivano entrambe da una eredità new-dealista; il primo è il governo di un ampio ricorso alle spesa pubblica in funzione antidepressiva, il secondo è il governo dell’austerità. Più in generale: il primo è il governo di grandi programmi pubblici e di tasse cospicue, il secondo  dei programmi modesti e di tassazione modesta.

[106] “Compassion” è un termine cruciale della ideologia politica americana, che fa il paio con l’ “I care” altrettanto noto. Non si potrebbe tradurre con “compassione”, che in italiano non ha sempre il significato di una manifestazione di effettiva condivisione e di “empatia”, quando non ha apertamente un significato irrisorio. Assomiglia di più alla nostra espressione “solidarietà umana”. Tuttavia la nostra “solidarietà umana” è una espressione nella quale l’aggettivo “umana” talora elide l’impegno della “solidarietà”. Si può dire che ad uno va la nostra “solidarietà umana”, intendendo dire che proprio non gli va niente altro. In America la “compassion” è un esercizio politicamente impegnativo (per chi la dà. Cosa ne pensino coloro che la ricevono, è un’altra faccenda).

[107] “Hawk” (“falco”) è da sempre un espressione del linguaggio politico che sta per “sostenitore/combattente irriducibile” etc. Di “falchi”, in contrapposizione alle “colombe”, si ricorderà che si parlava anche all’epoca del Vietnam.

[108] Vedi vari articoli precedenti. La “headline inflation” è la inflazione “da titoli dei giornali” (inflazione “di facciata”, “apparente”), in opposizione alla “core inflation”, che è quella sostanziale. Nella prima sono considerati gli andamenti dei prezzi di petrolio e generi alimentari. Questi prezzi sono assai variabili e volatili, dunque non segnalano necessariamente andamenti stabilmente inflattivi. Ciononostante producono effetti di breve periodo sul potere d’acquisto.

[109] IRS, “Internal Revenue Service”, ovvero “servizio interno delle entrate”.

[110] In genere l’aggettivo “few” (pochi/e) in riferimento ai giorni/settimane passati o futuri, in italiano è superfluo (normalmente non diciamo “nelle poche prossime settimane”, ma “nelle prossime settimane”). Se, invece, il periodo di tempo è più lungo – anni o secoli – allora precisare che sono “pochi” diventa ragionevole.

[111] Il “government shutdown” è una situazione non infrequente che si determina quando, per effetto delle elezioni di medio termine, si ha un Presidenza priva di maggioranza al Congresso (in particolare alla Camera dei Rappresentanti, per le sue particolari competenze in materia di spesa pubblica). In genere, la maggioranza ostile alla Amministrazione può decidere di non approvare la misura periodica di autorizzazione all’esercizio in deficit del bilancio, provocando una specie di blocco temporaneo delle funzioni di governo. Un precedente abbastanza clamoroso avvenne durante la Presidenza Clinton.

[112] “To hallow out” significa svuotare, in particolare anche nel senso di “scavare” la parte centrale di qualcosa (come di un tronco, ad esempio, per realizzare una canoa).

[113] “Janitor” può essere sia il “bidello” che il “guardiano/custode”. La rilevanza di questa categoria, nonché le molteplici competenze “manuali” di tale professione, che torna frequentemente nei riferimenti di Krugman, dipende evidentemente dal suo peso sociale in città organizzate con molti alti edifici. In America il “guardiano” è una figura sociale verosimilmente più diffusa e complessa del nostro stereotipo (non si tratta necessariamente dei ‘bidelli’ delle scuole, né l’esempio adatto è quello di Totò ne condominio romano!). Invece, ci risulta più comprensibile il ‘peso’ sociale dei camionisti, perché anche noi siamo organizzati con un forte peso dei trasporti commerciali su gomma.

[114] “roomba” è il termine commerciale con il quale si indicano quegli strumenti che puliscono i pavimenti delle stanze in modo automatico.

[115] Lett. sarebbe “collocabili in mare aperto”, giacché (quasi) tutto quello che è estero, negli Usa, è “oltreoceanico”.

[116] “directly” – oltre che “direttamente, completamente” – è un avverbio che significa “proprio, addirittura”.

[117] “To pass for, as” significa “essere accettato, riconosciuto per, come”; ovvero ha lo stesso significato che l’italiano “passare per”, o “essere il”.

[118] Come è noto, sono i due principali programmi sanitari pubblici degli USA.

[119] “Slush funds” significa “fondi neri”.

[120] “While”, oltre che “mentre, nello stesso momento in cui”, ha anche il significato di “whereas” – cioè di “while in contrast” – ovvero di “invece, di contro”.

[121] “Social Security” è il programma federale della previdenza sociale.

[122] “To nominate” può significare sia “nominare” che “proporre, candidare”.

[123] I tribunali, o le “giurie”, della morte sono una delle accuse che i repubblicani hanno rivolto negli anni passati alla riforma sanitaria di Obama, riferendosi a quegli aspetti che prevedevano riduzioni delle spese nei casi di ‘accanimento terapeutico’. Secondo le proteste repubblicane – e del Tea Party Movement – affidare a commissioni di medici decisioni di quella natura sarebbe stato equivalente ad istituire “tribunali/giurie della morte”, con il potere di – altra espressione che ha avuto largo utilizzo – “staccare la spina alla nonna”.

[124] Lett. “non trattenete il respiro”.

[125] Lett. “assurdità dell’uccisione del futuro”.

[126] “know-nothings lite”, lett. significa “ignoranti/agnostici leggeri/all’acqua di rose”.

[127] “protective” ha anche il significato di “preventivo”, ad esempio in “protective custody” (“carcere preventivo”).

[128] “hunker down”, lett. “accovacciarsi”.

[129] Lett. “accordi a mezza strada”.

[130] E’, come si chiarisce subito, il titolo di un documentario che sta ottenendo in queste settimane un notevole successo negli Stati Uniti.

[131] La vendita allo scoperto, (in inglese short selling o semplicemente short), è un’operazione finanziaria che consiste nella vendita, effettuata nei confronti di uno o più soggetti terzi, di titoli non direttamente posseduti dal venditore. Più in generale con questa terminologia si denominano tutti i tipi di operatività finanziaria attuata con l’intento di ottenere un profitto a seguito di una tendenza o movimento ribassista delle quotazioni di titoli (azioni, strumenti, beni) prezzati in una borsa valori.

Difatti tali titoli, solitamente forniti da una banca o da un intermediario finanziario, durante la vendita allo scoperto vengono istantaneamente prestati dal loro fornitore al venditore allo scoperto (chiamato anche scopertista, in inglese short seller) e subito venduti da quest’ultimo.

Siccome il venditore allo scoperto vende i titoli prima di riacquistarli, la vendita allo scoperto viene effettuata quando lo scopertista prevede che il costo della loro successiva acquisizione sul mercato sarà inferiore al prezzo a cui ha precedentemente venduto. In questo caso il rendimento complessivo dell’operazione di vendita allo scoperto sarà positivo, generando un profitto.

Se, al contrario, il prezzo dei titoli aumenta durante il tempo del prestito, il rendimento dell’operazione sarà negativo, risultando così in una perdita. Per tale ragione la vendita allo scoperto si effettua principalmente quando il venditore ritiene che i mercati azionari si trovino in una fase discendente. È questa l’origine del termine inglese “short” (breve), poiché storicamente le fasi discendenti dei mercati finanziari hanno una durata più breve e sono meno numerose delle fasi ascendenti.

 

[132] Beltway – lett. “circonvallazione” – indica la parte centrale di Washington, ovvero il luogo dei centri del potere politico (per estensione anche economico, ma Wall Street è a New York).

[133] D.C. significa District of Columbia ed è, per esteso, il nome della capitale (Washington D.C.).

[134] “Pew” è il nome del fondatore di una Fondazione americana, che comprende attività di rilevazioni sociali e di sondaggi.

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