Articoli sul NYT

Articoli sul New York Times dal 20 marzo 2011 al 18 settembre 2011.

The War on WarrenBy PAUL KRUGMANPublished: March 20, 2011 Last week, at a House hearing on financial institutions and consumer credit, Republicans lined up to grill and attack Elizabeth Warren, the law professor and bankruptcy expert who is in charge of setting up the new Consumer Financial Protection Bureau. Ostensibly, they believed that Ms. Warren had overstepped her legal authority by helping state attorneys general put together a proposed settlement with mortgage servicers, which are charged with a number of abuses.

 

 

But the accusations made no sense. Since when is it illegal for a federal official to talk with state officials, giving them the benefit of her expertise? Anyway, everyone knew that the real purpose of the attack on Ms. Warren was to ensure that neither she nor anyone with similar views ends up actually protecting consumers.

 

And Republicans were clearly also hoping that if they threw enough mud, some of it would stick. For people like Ms. Warren — people who warned that we were heading for a debt crisis before it happened — threaten, by their very existence, attempts by conservatives to sustain their antiregulation dogma. Such people must therefore be demonized, using whatever tools are at hand.

 

Let me expand on that for a moment. When the 2008 financial crisis struck, many observers — myself included — thought that it would force opponents of financial regulation to rethink their position. After all, conservatives hailed the debt boom of the Bush years as a triumph of free-market finance right up to the moment it turned into a disastrous bust.

But we underestimated the speed and determination with which opponents of regulation would rewrite history. Almost instantly, that free-market boom was retroactively reinterpreted; it became a disaster brought on by, you guessed it, excessive government intervention.

 

There remained, however, the inconvenient fact that some of those calling for stronger regulation have a track record that gives them a lot of credibility. And few have as much credibility as Ms. Warren.

Household debt doubled as a share of personal income over the 30 years preceding the crisis, and these days high levels of debt are widely seen as a major barrier to recovery. But only a handful of people appreciated the dangers posed by rising debt as the rise was happening. And Ms. Warren was among the foresighted few. More than a decade ago, when politicians of both parties were celebrating the wonders of modern banking and widening access to consumer credit, she was already warning that high debt levels could bring widespread financial disaster in the face of an economic downturn.

 

 

Later, she took the lead in pushing for consumer protection as an integral part of financial reform, arguing that many debt problems were created when lenders pushed borrowers into taking on obligations they didn’t understand. And she was right. As the late Edward Gramlich of the Federal Reserve — another unheeded expert, who tried in vain to get Alan Greenspan to rein in predatory lending — asked in 2007, “Why are the most risky loan products sold to the least sophisticated borrowers?” And he continued, “The question answers itself — the least sophisticated borrowers are probably duped into taking these products.”

 

Given Ms. Warren’s prescience and her role in shaping financial reform legislation — not to mention her effective performance running the Congressional panel exercising oversight over federal financial bailouts — it was only natural that she be appointed to get the new consumer protection agency up and running. And it’s hard to think of anyone better qualified to head the agency once it goes into action.

The fact that she’s so well qualified is, of course, the reason she’s being attacked so fiercely. Nothing could be worse, from the point of view of bankers and the politicians who serve them, than to have consumers protected by someone who knows what she’s doing and has the personal credibility to stand up to pressure.

The interesting question now is whether the Obama administration will see the war on Elizabeth Warren for what it is: a second chance to change public perceptions.

 

In retrospect, the financial crisis of 2008 was a missed opportunity. Yes, the White House succeeded in passing significant new financial regulation. But for whatever reason, it failed to change the terms of debate: bankers and the disaster they wrought have faded from view, and Republicans are back to denouncing the evils of regulation as if the crisis never happened.

 

 

By the sheer craziness of their attacks on Ms. Warren, however, Republicans are offering the administration a perfect opportunity to revive the debate over financial reform, not to mention highlighting exactly who’s really in Wall Street’s pocket these days. And that’s an opportunity the White House should welcome. 

 

La guerra sulla Warren, di Paul Krugman

New York Times 20 marzo 2011

 

La scorsa settimana, nel corso di una seduta della Camera sulle istituzioni finanziarie e gli utenti del settore creditizio, i repubblicani i Repubblicani si sono schierati per mettere sotto torchio ed attaccare Elizabeth Warren, la professoressa in Legge e l’esperta di bancarotte che ha la responsabilità di organizzare il nuovo Ufficio per la protezione degli utenti del sistema finanziario. Apparentemente, credevano che la signora Warren avesse oltrepassato i limiti  della sua autorità legale nell’aiutare le procure generali dello Stato a coordinarsi su una proposta di transazione con gli istituti di concessione dei mutui, che sono accusati di un buon numero di abusi.

Ma quelle accuse non hanno senso. Da quando è illegale, per un dirigente federale, parlare con altri pubblici ufficiali, mettendo a loro disposizione il beneficio della propria esperienza? In ogni modo, tutti sanno che l’obbiettivo reale dell’attacco alla signora Warren era garantire che né lei né nessun altro con punti di vista simili ai suoi ottenesse effettivamente il risultato di proteggere gli utenti.

E i Repubblicani speravano, con tutta evidenza, che se avessero gettato fango a sufficienza, un po’ sarebbe andato a segno. Giacché persone come la signora Warren – persone che avevano messo in guardia su fatto che stavamo incamminandoci verso una crisi del debito prima che ciò avvenisse – sono una minaccia, solo in quanto esistono, per i tentativi dei conservatori di sostenere il loro dogma contrario ad ogni regolamentazione. Di conseguenza, individui del genere devono essere demonizzati, usando tutti gli strumenti disponibili.

Consentitemi di divagare un attimo da questo aspetto. Quando la crisi finanziaria del 2008 si fece sentire, molti osservatori – incluso il sottoscritto – pensavano che questo avrebbe costretto gli avversari della regolamentazione del sistema finanziario a ripensare la loro posizione. Dopo tutto, i conservatori avevano acclamato il boom del debito degli anni di Bush come un trionfo della finanza del libero mercato, sino al momento in cui non si era trasformato in un fiasco disastroso.

Ma sottovalutavamo la velocità e la determinazione con la quale gli oppositori di ogni regola avrebbero riscritto la storia. Quasi all’istante, quel boom del libero mercato venne retroattivamente reinterpretato: esso era diventato un disastro provocato, indovinate un po’, dall’eccessivo intervento dello Stato.

Rimaneva, tuttavia, l’inconveniente che alcuni di coloro che chiedevano una regolamentazione più forte avevano una carriera che stava a garanzia della loro notevole credibilità. E pochi avevano altrettanta credibilità della signora Warren.

Il debiti delle famiglie erano raddoppiati come quota sul reddito delle persone nel corso dei trent’anni che avevano preceduto la crisi, e in quei giorni gli alti livelli del debito venivano generalmente considerati come un ostacolo importante alla ripresa. Ma solo un piccolo gruppo di persone aveva correttamente stimato i pericoli provocati dalla crescita del debito nel momento in cui tale crescita aveva luogo. E la signora Warren era tra quei pochi preveggenti. Più di un decennio prima, quando gli uomini politici di entrambi i partiti celebravano le meraviglie del moderno sistema bancario e dell’accresciuto accesso al credito da parte degli utenti, ella aveva già messo in guardia sul fatto che alti livelli di debito avrebbero condotto ad un generale disastro finanziario, di fronte ad una flessione dell’economia.

Successivamente, si era messa alla testa nel sollecitare la protezione degli utenti come parte integrante della riforma finanziaria, sostenendo che molti problemi connessi al debito erano derivati dal fatto che i prestatori avevano indotto i creditori ad assumersi obbligazioni che non potevano comprendere. Ed aveva ragione. Come nel 2007 aveva chiesto lo scomparso Edward Gramlich, della Federal Reserve (altro inascoltato esperto che aveva cercato invano di spingere Alan Greenspan ad un controllo del sistema dei prestiti ‘di rapina’). “Perché il genere dei prestiti maggiormente rischiosi vengono acquistati dai creditori meno avvertiti di tutti?”. E continuava: “E’ una domanda che trova da sola la risposta – gli utenti meno avvertiti sono probabilmente indotti a prendere quei prodotti con l’inganno”.

Data la preveggenza della signora Warren ed il suo ruolo nel modellare una legislazione di riforma del sistema finanziario – per non fare menzione del suo ruolo efficace nell’investire la apposita commissione del Congresso del compito di una supervisione dei salvataggi finanziari del governo federale – era semplicemente naturale che essa venisse incaricata di metter su e far funzionare la nuova agenzia di protezione degli utenti. E’ difficile pensare che qualcuno più qualificato di lei diriga l’agenzia, una volta attivata.

Il fatto che ella sia così qualificata, ovviamente, è la ragione per la quale viene attaccata con tanta veemenza. Niente potrebbe essere peggio, dal punto di vista dei banchieri e degli uomini politici al loro servizio, che ritrovarsi con gli utenti protetti da qualcuno che ha le sue competenze e la sua personale affidabilità nel  resistere alle pressioni.

La questione interessante è se la amministrazione Obama sarà ora capace di riconoscere la guerra alla signora Warren nel suo reale significato: una seconda occasione per modificare le percezioni dell’opinione pubblica.

Retrospettivamente, la crisi finanziaria del 2008 è stata un’opportunità persa. E’ vero, la Casa Bianca ha avuto successo nel far approvare una significativa nuova regolamentazione finanziaria. Ma per una qualche ragione, essa non ha saputo evitare una trasformazione del termini del dibattito: i banchieri ed il disastro da essi provocato sono svaniti dall’orizzonte, ed i Repubblicani sono tornati a denunciare i mali della regolamentazione come se la crisi non ci fosse stata.

Tuttavia, a causa della follia pura dei loro attacchi alla signora Warren, i Repubblicani stano offrendo alla amministrazione una perfetta opportunità per ravvivare il dibattito sulla riforma del sistema finanziario, per non dire di mettere in luce con precisione chi sia di questi tempi nel libro-paga di Wall Street[1]. La Casa Bianca dovrebbe dare il benvenuto ad una opportunità del genere.    

 

 

 

 

The Austerity Delusion

By PAUL KRUGMAN
Published: March 24, 2011

Portugal’s government has just fallen in a dispute over austerity proposals. Irish bond yields have topped 10 percent for the first time. And the British government has just marked its economic forecast down and its deficit forecast up.

What do these events have in common? They’re all evidence that slashing spending in the face of high unemployment is a mistake. Austerity advocates predicted that spending cuts would bring quick dividends in the form of rising confidence, and that there would be few, if any, adverse effects on growth and jobs; but they were wrong.

It’s too bad, then, that these days you’re not considered serious in Washington unless you profess allegiance to the same doctrine that’s failing so dismally in Europe.

It was not always thus. Two years ago, faced with soaring unemployment and large budget deficits — both the consequences of a severe financial crisis — most advanced-country leaders seemingly understood that the problems had to be tackled in sequence, with an immediate focus on creating jobs combined with a long-run strategy of deficit reduction.

 

Why not slash deficits immediately? Because tax increases and cuts in government spending would depress economies further, worsening unemployment. And cutting spending in a deeply depressed economy is largely self-defeating even in purely fiscal terms: any savings achieved at the front end are partly offset by lower revenue, as the economy shrinks.

 

So jobs now, deficits later was and is the right strategy. Unfortunately, it’s a strategy that has been abandoned in the face of phantom risks and delusional hopes. On one side, we’re constantly told that if we don’t slash spending immediately we’ll end up just like Greece, unable to borrow except at exorbitant interest rates. On the other, we’re told not to worry about the impact of spending cuts on jobs because fiscal austerity will actually create jobs by raising confidence.

 

How’s that story working out so far?

Self-styled deficit hawks have been crying wolf over U.S. interest rates more or less continuously since the financial crisis began to ease, taking every uptick in rates as a sign that markets were turning on America. But the truth is that rates have fluctuated, not with debt fears, but with rising and falling hope for economic recovery. And with full recovery still seeming very distant, rates are lower now than they were two years ago.

 

But couldn’t America still end up like Greece? Yes, of course. If investors decide that we’re a banana republic whose politicians can’t or won’t come to grips with long-term problems, they will indeed stop buying our debt. But that’s not a prospect that hinges, one way or another, on whether we punish ourselves with short-run spending cuts.

 

Just ask the Irish, whose government — having taken on an unsustainable debt burden by trying to bail out runaway banks — tried to reassure markets by imposing savage austerity measures on ordinary citizens. The same people urging spending cuts on America cheered. “Ireland offers an admirable lesson in fiscal responsibility,” declared Alan Reynolds of the Cato Institute, who said that the spending cuts had removed fears over Irish solvency and predicted rapid economic recovery.

 

That was in June 2009. Since then, the interest rate on Irish debt has doubled; Ireland’s unemployment rate now stands at 13.5 percent.

And then there’s the British experience. Like America, Britain is still perceived as solvent by financial markets, giving it room to pursue a strategy of jobs first, deficits later. But the government of Prime Minister David Cameron chose instead to move to immediate, unforced austerity, in the belief that private spending would more than make up for the government’s pullback. As I like to put it, the Cameron plan was based on belief that the confidence fairy would make everything all right.

 

But she hasn’t: British growth has stalled, and the government has marked up its deficit projections as a result.

Which brings me back to what passes for budget debate in Washington these days.

A serious fiscal plan for America would address the long-run drivers of spending, above all health care costs, and it would almost certainly include some kind of tax increase. But we’re not serious: any talk of using Medicare funds effectively is met with shrieks of “death panels,” and the official G.O.P. position — barely challenged by Democrats — appears to be that nobody should ever pay higher taxes. Instead, all the talk is about short-run spending cuts.

 

 

In short, we have a political climate in which self-styled deficit hawks want to punish the unemployed even as they oppose any action that would address our long-run budget problems. And here’s what we know from experience abroad: The confidence fairy won’t save us from the consequences of our folly.

 

La delusione dell’austerità, di Paul Krugman

New York Times 24 marzo 2011

 

Il Governo del Portogallo è appena caduto per contrasti su proposte di austerità. La resa dei bond irlandesi ha toccato per la prima volta il 10 per cento. Ed il governo britannico ha appena ribassato le sue previsioni sull’economia e rialzato quelle sul deficit.

Cosa hanno in comune questi eventi? Sono tutti insieme la prova che il taglio della spesa pubblica di fronte ad una disoccupazione elevata è uno sbaglio. I sostenitori dell’austerità prevedevano che i tagli alla spesa avrebbero portato rapidamente vantaggi, nella forma di una crescita di fiducia, e che ci sarebbero stati pochi o punti effetti sulla crescita e sui posti di lavoro: ma avevano torto.

E’ parimenti negativo, dunque, che di questi tempi non si sia considerati persone serie a Washington, se non si fa professione della stessa dottrina che sta fallendo in modo così penoso in Europa.

Non è sempre stato così. Due anni orsono, di fronte alla impennata della disoccupazione e a grandi deficit di bilancio – entrambi conseguenza della aspra crisi finanziaria – i dirigenti dei paesi più avanzati sembravano aver compreso che i problemi avrebbero dovuto essere affrontati in sequenza, concentrandosi nell’immediato sulla creazione di posti di lavoro, in combinazione con una strategia a lungo termine di riduzione del deficit.

Perché non si doveva aggredire da subito il deficit? Perché inasprimenti fiscali e tagli nella spesa pubblica avrebbero ulteriormente depresso le economie, ed aggravato la disoccupazione. Inoltre la riduzione della spesa pubblica in una economia profondamente depressa ha effetti auto punitivi anche in termini di equilibrio puro e semplice della finanza pubblica: ogni risparmio che si ottiene da una parte, viene parzialmente bilanciato da un reddito più basso, dal momento che l’economia si restringe.

Dunque i posti di lavoro subito e i deficit successivamente, erano e sono la strategia giusta. Malauguratamente, è una strategia che è stata messa da parte a fronte di rischi inesistenti e di speranze deliranti. Da una parte, ci è stato detto ossessivamente che se non avessimo provveduto da subito a tagli sulla spesa pubblica saremmo finiti come la Grecia, impossibilitati ad ottenere prestiti se non a tassi di interesse esorbitanti. Dall’altra, ci è stato detto che non avevamo da preoccuparci dell’impatto dei tagli alla spesa sull’occupazione, giacché sarebbe stata nei fatti la austerità finanziaria a creare posti di lavoro, accrescendo la fiducia.

Cosa resta, a questo punto, di queste favole?

Praticamente in continuità, i sedicenti falchi del deficit hanno gridato al lupo sui tassi di interesse dal momento in cui la crisi finanziaria ha cominciato ad attenuarsi, considerando ogni ritocco nei tassi come il segno che i mercati si stavano ribellando all’America. Ma la verità è che i tassi oscillavano non per timore del deficit, bensì per la altalenante speranza della ripresa dell’economia. E con una ripresa che ancora resta assai lontana, i tassi sono oggi più bassi di quanto non fossero due anni orsono.

E tuttavia, l’America non correva il rischio di finire come la Grecia? Lo correva, ovviamente. Se gli investitori si fanno l’opinione che siamo una ‘repubblica delle banane’, dove gli uomini politici non vogliono o non sanno prendere per le corna i problemi di lungo periodo, alla fine la smetteranno per davvero di acquistare il nostro debito. Ma quella non è una possibilità che dipenda, in un modo o nell’altro, dal fatto che ci si infligga la sofferenza di tagli alla spesa nel breve periodo.

Lo si chieda agli Irlandesi, il cui governo – essendosi assunto un peso del debito insostenibile per aver provato a salvare banche fuori controllo – ha cercato di rassicurare i mercati, con l’imposizione di misure feroci di austerità sulla gente comune. Gli stessi che spingono a tagli della spesa in America, avevano esultato. “L’Irlanda sta offrendo una eccellente lezione di responsabilità finanziaria”, dichiarò Alan Reynolds del Cato Institute, ed aggiunse che i tagli alla spesa avevano dissolto i timori sulla solvibilità dell’Irlanda, pronosticando una rapida ripresa dell’economia.

 

 

Si era nel giugno del 2009. Da quel momento, il tasso di interesse sul debito irlandese è raddoppiato; il tasso di disoccupazione dell’Irlanda ora si attesta sul 13,5 per cento.

C’è poi l’esperienza inglese. Come l’America, l’Inghilterra è ancora considerata solvibile dai mercati finanziari, il che le darebbe margini per perseguire una strategia fondata sul lavoro nell’immediato e sul deficit in un secondo tempo. Ma il Governo del Primo Ministro David Cameron, senza che niente lo costringesse, ha invece scelto di andare nella direzione di una austerità immediata, nella convinzione che la spesa privata avrebbe più che riequilibrato la ritirata di quella pubblica. Come dico io, il piano di Cameron era basato sul convincimento che la ‘fata turchina’ della fiducia avrebbe rimesso ogni cosa a posto.

Ma la ‘fata turchina’ non s’è mossa: la crescita inglese si è bloccata, e di conseguenza il governo inglese ha rivisto le sue previsioni sul deficit.

Il che mi riporta a quello che, in questi giorni, sembra essere il dibattito sul bilancio a Washington.

Un serio programma finanziario per l’America dovrebbe concernere i fattori che muovono la spesa pubblica nel lungo periodo, primo tra tutti i costi dell’assistenza sanitaria, e dovrebbe includere quasi certamente qualche forma di incremento della tassazione. Ma non ci riesce di essere seri: ogni discorso sull’utilizzo dei fondi di Medicare va ineluttabilmente a scontrarsi con gli strilli sulle “giurie della morte”[2], e la posizione ufficiale dei repubblicani – contrastata con molta timidezza dai Democratici – sembra essere che nessuno debba in nessun caso pagare tasse più elevate. Tutto il confronto, invece, è sui tagli immediati alla spesa.

In poche parole, abbiamo un clima politico nel quale i sedicenti falchi del deficit intendono punire i disoccupati, nel mentre si oppongono ad ogni iniziativa rivolta ad affrontare i problemi di lungo periodo del bilancio. E tutto quanto sappiamo della esperienza degli altri paesi è che la ‘fata turchina’ della fiducia non ci salverà dalle conseguenze della nostra follia.        

 

 

 

American Thought Police

By PAUL KRUGMAN
Published: March 27, 2011

 

Recently William Cronon, a historian who teaches at the University of Wisconsin, decided to weigh in on his state’s political turmoil. He started a blog, “Scholar as Citizen,” devoting his first post to the role of the shadowy American Legislative Exchange Council in pushing hard-line conservative legislation at the state level. Then he published an opinion piece in The Times, suggesting that Wisconsin’s Republican governor has turned his back on the state’s long tradition of “neighborliness, decency and mutual respect.”

So what was the G.O.P.’s response? A demand for copies of all e-mails sent to or from Mr. Cronon’s university mail account containing any of a wide range of terms, including the word “Republican” and the names of a number of Republican politicians.

If this action strikes you as no big deal, you’re missing the point. The hard right — which these days is more or less synonymous with the Republican Party — has a modus operandi when it comes to scholars expressing views it dislikes: never mind the substance, go for the smear. And that demand for copies of e-mails is obviously motivated by no more than a hope that it will provide something, anything, that can be used to subject Mr. Cronon to the usual treatment.

The Cronon affair, then, is one more indicator of just how reflexively vindictive, how un-American, one of our two great political parties has become.

The demand for Mr. Cronon’s correspondence has obvious parallels with the ongoing smear campaign against climate science and climate scientists, which has lately relied heavily on supposedly damaging quotations found in e-mail records.

 

Back in 2009 climate skeptics got hold of more than a thousand e-mails between researchers at the Climate Research Unit at Britain’s University of East Anglia. Nothing in the correspondence suggested any kind of scientific impropriety; at most, we learned — I know this will shock you — that scientists are human beings, who occasionally say snide things about people they dislike.

 

But that didn’t stop the usual suspects from proclaiming that they had uncovered “Climategate,” a scientific scandal that somehow invalidates the vast array of evidence for man-made climate change. And this fake scandal gives an indication of what the Wisconsin G.O.P. presumably hopes to do to Mr. Cronon.

 

After all, if you go through a large number of messages looking for lines that can be made to sound bad, you’re bound to find a few. In fact, it’s surprising how few such lines the critics managed to find in the “Climategate” trove: much of the smear has focused on just one e-mail, in which a researcher talks about using a “trick” to “hide the decline” in a particular series. In context, it’s clear that he’s talking about making an effective graphical presentation, not about suppressing evidence. But the right wants a scandal, and won’t take no for an answer.

 

Is there any doubt that Wisconsin Republicans are hoping for a similar “success” against Mr. Cronon?

Now, in this case they’ll probably come up dry. Mr. Cronon writes on his blog that he has been careful never to use his university e-mail for personal business, exhibiting a scrupulousness that’s neither common nor expected in the academic world. (Full disclosure: I have, at times, used my university e-mail to remind my wife to feed the cats, confirm dinner plans with friends, etc.)

Beyond that, Mr. Cronon — the president-elect of the American Historical Association — has a secure reputation as a towering figure in his field. His magnificent “Nature’s Metropolis: Chicago and the Great West” is the best work of economic and business history I’ve ever read — and I read a lot of that kind of thing.

 

So we don’t need to worry about Mr. Cronon — but we should worry a lot about the wider effect of attacks like the one he’s facing.

Legally, Republicans may be within their rights: Wisconsin’s open records law provides public access to e-mails of government employees, although the law was clearly intended to apply to state officials, not university professors. But there’s a clear chilling effect when scholars know that they may face witch hunts whenever they say things the G.O.P. doesn’t like.

 

 

Someone like Mr. Cronon can stand up to the pressure. But less eminent and established researchers won’t just become reluctant to act as concerned citizens, weighing in on current debates; they’ll be deterred from even doing research on topics that might get them in trouble.

What’s at stake here, in other words, is whether we’re going to have an open national discourse in which scholars feel free to go wherever the evidence takes them, and to contribute to public understanding. Republicans, in Wisconsin and elsewhere, are trying to shut that kind of discourse down. It’s up to the rest of us to see that they don’t succeed.

 

America: controllo poliziesco sul pensiero,

di Paul Krugman

New York Times 27 marzo 2011

 

Di recente William Cronon, uno storico che insegna all’Università del Wisconsin, ha deciso di intervenire nel tumulto politico del suo Stato. Egli ha dato vita ad un blog, “Intellettuale come cittadino”, dedicando il suo primo messaggio al ruolo dell’oscuro American Legislative Exchange Council [3] nel premere per una legislazione ottusamente conservatrice al livello dello Stato. Successivamente, ha pubblicato un articolo di opinione su The Times, nel quale si avanza l’idea che il Governatore del Wisconsin abbia tradito la lunga tradizione dello Stato di “buon vicinato, moralità [4] e reciproco rispetto”.

Quale è stata, a quel punto, la risposta repubblicana? Una domanda di copie di tutte le e-mail spedite da o all’indirizzo di posta elettronica dell’Università del signor Cronon, contenente un’ampia gamma di termini, inclusa la parola “repubblicano” ed i nomi di un certo numero di uomini politici americani.

Se una iniziativa del genere non vi appare molto importante, non avete capito il punto. La destra estrema – che di questi tempi è più o meno sinonimo di Partito Repubblicano – ha un modo di comportarsi sgradevole, quando si tratta delle opinioni espresse dagli studiosi: non conta il merito, si consideri l’aspetto calunnioso. Quella domanda di copie della corrispondenza elettronica corrisponde a nient’altro che alla speranza che essa fornirà qualcosa, una cosa di qualsiasi genere, che possa essere utilizzata per sottoporre il signor Cronon al trattamento consueto.

L’affare Cronon, dunque, è un indicatore ulteriore di quanto sia divenuto istintivamente vendicativo, ‘non-americano[5]’, uno dei due nostri grandi partiti politici.

La richiesta della corrispondenza del signor Cronon ha chiare analogie con la campagna calunniosa in corso contro la scienza e gli scienziati degli andamenti metereologici, che si è pesantemente basata, di recente, su citazioni rintracciate negli archivi di posta elettronica che si supponeva potessero recare danno.

Nel passato 2009 gli scettici degli andamenti climatici[6] si sono impossessati di oltre un migliaio di messaggi di posta elettronica tra ricercatori presso la Climate Research Unit dell’Università inglese dell’East Anglia[7]. Niente nella corrispondenza suggeriva improprietà scientifiche di qualsiasi genere; al massimo, si apprendeva – per quanto questo vi stupirà – che gli scienziati sono esseri umani, che di tanto in tanto dicono malignità su individui che non hanno in simpatia.

Ma questo non ha fermato quegli ambienti ben noti dal dichiarare d’aver scoperto un “Climagate”, uno scandalo scientifico che in qualche modo invalidava la vasta gamma di prove relative al cambiamento di clima provocato dal genere umano. E questo falso scandalo dà una traccia di quello che i Repubblicani del Wisconsin presumibilmente sperano di fare nei confronti del signor Cronon.

Dopotutto, se si va a cercare, in mezzo ad un numero imponente di messaggi, tracce che possono sembrare antipatiche, succede che se ne trovi un po’. In fin dei conti, è sorprendente quante poche tracce del genere i critici siano riusciti a trovare nel tesoro nascosto del ‘Climagate’; gran parte delle accuse calunniose si sono concentrate in un’unica e-mail, nella quale un ricercatore fa menzione di un “trucco” per “nascondere il declino” in una particolare sequenza di dati. Dal contesto, è chiaro che egli si sta riferendo a come restituire una efficace rappresentazione grafica, e non ad una soppressione di una prova. Ma la destra è in cerca di scandali, non di risposte.

C’è ancora qualche dubbio sul fatto che i repubblicani del Wisconsin stiano sperando in un ‘successo’ del genere, nei confronti del signor Cronon?

Ora, in questo caso essi probabilmente resteranno all’asciutto. Il signor Cronon scrive sul suo blog di aver avuto cura di non utilizzare in nessuna circostanza il suo indirizzo universitario di posta elettronica per affari personali, mostrando uno scrupolo che non è comune e che non ci si aspetterebbe nel mondo accademico (rivelo senza esitazione che, di quando in quando, ho utilizzato il mio indirizzo universitario per ricordare a mia moglie di dare da mangiare ai gatti, di confermare cene programmate con amici, e cose del genere).

Oltre a ciò, il signor Cronon – presidente eletto della American Historical Association –  ha la fama sicura che gli deriva da una posizione preminente nella sua disciplina. Il suo magnifico “Chicago e il Grande West: la Metropoli della natura” è il miglior lavoro di storia dell’economia e dell’impresa che abbia mai letto – ed ho letto un bel po’ di cose del genere.

Dunque, non abbiamo bisogno di essere preoccupati per il signor Cronon, invece dovremmo preoccuparci assai degli effetti più generali che provocano aggressioni quale quella cui lui sta facendo fronte.

Può darsi che i Repubblicani, dal punto di vista legale, siano nei loro diritti: la legge sulla accessibilità agli archivi del Wisconsin garantisce l’accesso pubblico alla corrispondenza elettronica dei dipendenti governativi, sebbene la legge sia chiaramente indirizzata ad una applicazione nei confronti dei pubblici ufficiali e non dei professori universitari. Ma, se gli studiosi apprendono di poter fare i conti con caccie alle streghe, ogni qualvolta dicono cose che non piacciono ai repubblicani, l’effetto fa chiaramente venire i brividi.

Individui come il professor Cronon possono reggere a pressioni del genere. Ma ricercatori meno eminenti ed affermati potrebbero essere dei tutto restii a comportarsi come cittadini impegnati[8], intervenendo in dibattiti di attualità; essi potrebbero essere addirittura dissuasi dal condurre ricerche su argomenti che potrebbero metterli nei guai.

 

Quello che è in gioco, in altre parole, e se ci stiamo avviando verso un confronto nazionale aperto, nel quale gli studiosi si sentano liberi di andare dovunque li porti la coerenza ai fatti, e di contribuire così alla comprensione comune. I Repubblicani, nel Wisconsin ed altrove, stanno cercando di chiudere un confronto di quella natura. Tocca al resto dei noi fare in modo che essi non abbiano successo.

 

 

 

    

 

 

 

The Mellon Doctrine

By PAUL KRUGMAN
Published: March 31, 2011

 “Liquidate labor, liquidate stocks, liquidate the farmers, liquidate real estate.” That, according to Herbert Hoover, was the advice he received from Andrew Mellon, the Treasury secretary, as America plunged into depression. To be fair, there’s some question about whether Mellon actually said that; all we have is Hoover’s version, written many years later.

 

Two weeks ago, Republican staff at the Congressional Joint Economic Committee released a report, “Spend Less, Owe Less, Grow the Economy,” that argued that slashing government spending and employment in the face of a deeply depressed economy would actually create jobs. In part, they invoked the aid of the confidence fairy; more on that in a minute. But the leading argument was pure Mellon.

 

 

 

 

Here’s the report’s explanation of how layoffs would create jobs: “A smaller government work force increases the available supply of educated, skilled workers for private firms, thus lowering labor costs.” Dropping the euphemisms, what this says is that by increasing unemployment, particularly of “educated, skilled workers” — in case you’re wondering, that mainly means schoolteachers — we can drive down wages, which would encourage hiring.

 

 

 

 

There is, if you think about it, an immediate logical problem here: Republicans are saying that job destruction leads to lower wages, which leads to job creation. But won’t this job creation lead to higher wages, which leads to job destruction, which leads to …? I need some aspirin.

 

 

 

Beyond that, why would lower wages promote higher employment?

 

There’s a fallacy of composition here: since workers at any individual company may be able to save their jobs by accepting a pay cut, you might think that we can increase overall employment by cutting everyone’s wages. But pay cuts at, say, General Motors have helped save some workers’ jobs by making G.M. more competitive with other companies whose wage costs haven’t fallen. There’s no comparable benefit when you cut everyone’s wages at the same time.

 

 

 

 

 

In fact, across-the-board wage cuts would almost certainly reduce, not increase, employment. Why? Because while earnings would fall, debts would not, so a general fall in wages would worsen the debt problems that are, at this point, the principal obstacle to recovery.

 

 

In short, Mellonism is as wrong now as it was fourscore years ago.

Now, liquidationism isn’t the only argument the G.O.P. report advances to support the claim that reducing employment actually creates jobs. It also invokes the confidence fairy; that is, it suggests that cuts in public spending will stimulate private spending by raising consumer and business confidence, leading to economic expansion.

 

 

 

Or maybe “suggests” isn’t the right word; “insinuates” may be closer to the mark. For a funny thing has happened lately to the doctrine of “expansionary austerity,” the notion that cutting government spending, even in a slump, leads to faster economic growth.

 

 

A year ago, conservatives gleefully trumpeted statistical studies supposedly showing many successful examples of expansionary austerity. Since then, however, those studies have been more or less thoroughly debunked by careful researchers, notably at the International Monetary Fund.

To their credit, the staffers who wrote that G.O.P. report were clearly aware that the evidence no longer supports their position. To their discredit, their response was to make the same old arguments, while adding weasel words to cover themselves: instead of asserting outright that spending cuts are expansionary, the report says that confidence effects of austerity “can boost G.D.P. growth.” Can under what circumstances? Boost relative to what? It doesn’t say.

 

 

 

Did I mention that in Britain, where the government that took power last May bought completely into the doctrine of expansionary austerity, the economy has stalled and business confidence has fallen to a two-year low? And even the government’s new, more pessimistic projections are based on the assumption that highly indebted British households will take on even more debt in the years ahead.

 

 

But never mind the lessons of history, or events unfolding across the Atlantic: Republicans are now fully committed to the doctrine that we must destroy employment in order to save it.

 

And Democrats are offering little pushback. The White House, in particular, has effectively surrendered in the war of ideas; it no longer even tries to make the case against sharp spending cuts in the face of high unemployment.

 

So that’s the state of policy debate in the world’s greatest nation: one party has embraced 80-year-old economic fallacies, while the other has lost the will to fight. And American families will pay the price.

 

La Dottrina Mellon, di Paul Krugman

New York Times 31 marzo 2011

 

“Far fuori il lavoro, i capitali azionari, i coltivatori, il patrimonio immobiliare”. Questo, secondo la ricostruzione di Herbert Hoover[9], fu il consiglio che egli ricevette da Andrew Mellon, Segretario al Tesoro, mentre l’America sprofondava nella depressione. Ad essere onesti, c’è qualche dubbio su fatto che Mellon si fosse espresso davvero in tal modo; abbiamo soltanto la versione di Hoover, peraltro scritta molti anni dopo.

Due settimane fa, la componente repubblicana nel Comitato Congiunto sull’Economia del Congresso ha pubblicato un rapporto, “Spendere meno, indebitarsi di meno, far crescere l’economia”, nel quale si sostiene che la riduzione della spesa pubblica e dell’occupazione a fronte di un’economia profondamente depressa potrebbe effettivamente produrre posti di lavoro. In parte, essi hanno invocato l’ausilio della ‘fata turchina’ della fiducia; per il quale aspetto torno tra un attimo. Ma l’argomento principale riecheggiava completamente Mellon.

Ed ecco la spiegazione contenuta nel rapporto su come i licenziamenti potrebbero creare posti di lavoro: “Una forza lavoro più piccola nel settore pubblico, accrescerebbe l’offerta disponibile di lavoratori dotati di esperienza e di professionalità per le imprese private, e di conseguenza ridurrebbe il costo del lavoro”. Eufemismi a parte, ciò che questo significa è che accrescendo la disoccupazione, in particolare di “lavoratori dotati di esperienza e professionalità” – nel caso che ciò vi meravigli, l’espressione sta a significare principalmente gli insegnanti delle scuole – si può ottenere di abbassare i salari, la qualcosa incoraggerebbe le assunzioni.

Si apre subito, se ci riflettete, un problema logico: i Repubblicani ci dicono che la distruzione di posti di lavoro porta a salari più bassi, la qualcosa porta alla creazione di posti di lavoro. Ma questa creazione di posti di lavoro non porterebbe a salari più elevati, il che porterebbe alla distruzione di posti di lavoro, che a sua volta condurrebbe a …? Ho bisogno di qualche aspirina.

A parte questo, perché salari più bassi promuoverebbero un’occupazione più elevata?

Qua c’è qualcosa che non torna: dal momento che è possibile che i lavoratori di una qualsiasi impresa privata siano nelle condizioni di tutelare i loro posti di lavoro accettando tagli ai salari, si potrebbe pensare che si possa accrescere l’occupazione generale tagliando i salari di ciascuno. Sennonché, tagliare i salari, per fare un esempio, alla General Motors, ha aiutato a salvare il posto di un certo numero di lavoratori, rendendo la G.M. più competitiva rispetto ad altre imprese i cui costi di lavoro non sono scesi. Non c’è alcun beneficio paragonabile, allorché si tagliano contemporaneamente i salari di tutti i lavoratori.

Di fatto, tagliare i salari a tutti i livelli, comporterebbe quasi sicuramente la riduzione, non la crescita, dell’occupazione. Perché? Perché mentre le retribuzioni cadrebbero, i debiti non cadrebbero affatto, cosicché una generale riduzione dei salari peggiorerebbe i problemi del debito che sono, a questo punto, il problema principale della ripresa.

In poche parole, il “Mellonismo” è sbagliato oggi come lo era ottant’anni fa.

Ora, il “distruzionismo [10]” non è l’unico argomento che il rapporto repubblicano avanza a sostegno della pretesa che riducendo l’occupazione effettivamente si creerebbero posti di lavoro. Quel rapporto fa anche riferimento alla ‘fata turchina’ della fiducia; vale a dire, suggerisce che i tagli alla spesa pubblica stimolerebbero la spesa privata accrescendo la fiducia dei consumatori e delle imprese, con ciò provocando una espansione dell’economia.

In effetti, forse “suggerisce” non è la parola giusta; sarebbe più indicativo del significato cui si allude, dire “insinua”. Giacché è accaduta di recente una cosa curiosa alla dottrina della “austerità espansiva”, ovvero al concetto secondo il quale tagliando la spesa pubblica, persino nel contesto di una depressione, conduce ad una crescita economica più rapida.

Un anno fa, i conservatori strombazzavano gioiosamente studi statistici che si supponeva mostrassero molteplici esempi  di ‘austerità espansiva’. Da allora, tuttavia, quegli studi sono stati più o meno completamente sfatati da ricercatori scrupolosi, specialmente presso il Fondo Monetario Internazionale.

A suo credito, il gruppo di lavoro che ha scritto il rapporto del G.O.P.[11]si è mostrato chiaramente consapevole che non vi sono più prove a sostegno della propria posizione. A suo discredito, la risposta a ciò è consistita nell’opporre i soliti vecchi argomenti, usando espressioni ambigue per darsi una rispettabilità: anziché asserire categoricamente che il tagli alla spesa hanno effetti espansivi, il rapporto afferma che la fiducia sugli effetti dell’austerità “può dare una spinta alla crescita del PIL”. Può. A quali circostanze? Dare una spinta in che modo? Il rapporto non lo dice.

E’ il caso che ricordi che in Gran Bretagna, dove il governo che entrò in carica lo scorso maggio aveva completamente fatto propria[12] la dottrina della austerità espansiva, l’economia è rimasta stagnante e la fiducia delle imprese è regredita ai livelli di due anni prima? Per non dire che anche le nuove, più pessimistiche proiezioni del governo, sono fondate sul presupposto che le altamente indebitate famiglie inglesi si caricheranno di un debito ancora più elevato, negli anni avvenire.

Ma le lezioni della storia, o gli eventi che germinano aldilà dell’Atlantico, non valgono niente: i Repubblicani sono al momento interamente dediti alla dottrina secondo la quale occorre distruggere occupazione per metterla in salvo.

E i Democratici mostrano una reazione tiepida. La Casa Bianca in particolare si è sostanzialmente arresa nella battaglia delle idee; essa non cerca nemmeno più di perorare la causa di una politica opposta al brusco taglio della spesa pubblica, nonostante la disoccupazione elevata.

Questa, dunque, è la condizione del dibattito pubblico nella nazione più potente del mondo: un Partito ha abbracciato teorie economiche fallimentari di 80 anni fa, l’altro ha perso anche la voglia di combattere. E le famiglie americane pagheranno il conto.

 

 

 

 

The Truth, Still Inconvenient

By PAUL KRUGMAN
Published: April 3, 2011

So the joke begins like this: An economist, a lawyer and a professor of marketing walk into a room. What’s the punch line? They were three of the five “expert witnesses” Republicans called for last week’s Congressional hearing on climate science.

 

But the joke actually ended up being on the Republicans, when one of the two actual scientists they invited to testify went off script.

Prof. Richard Muller of Berkeley, a physicist who has gotten into the climate skeptic game, has been leading the Berkeley Earth Surface Temperature project, an effort partially financed by none other than the Koch foundation. And climate deniers — who claim that researchers at NASA and other groups analyzing climate trends have massaged and distorted the data — had been hoping that the Berkeley project would conclude that global warming is a myth.

 

Instead, however, Professor Muller reported that his group’s preliminary results find a global warming trend “very similar to that reported by the prior groups.”

The deniers’ response was both predictable and revealing; more on that shortly. But first, let’s talk a bit more about that list of witnesses, which raised the same question I and others have had about a number of committee hearings held since the G.O.P. retook control of the House — namely, where do they find these people?

 

 

 

My favorite, still, was Ron Paul’s first hearing on monetary policy, in which the lead witness was someone best known for writing a book denouncing Abraham Lincoln as a “horrific tyrant” — and for advocating a new secessionist movement as the appropriate response to the “new American fascialistic state.”

The ringers (i.e., nonscientists) at last week’s hearing weren’t of quite the same caliber, but their prepared testimony still had some memorable moments. One was the lawyer’s declaration that the E.P.A. can’t declare that greenhouse gas emissions are a health threat, because these emissions have been rising for a century, but public health has improved over the same period. I am not making this up.

 

Oh, and the marketing professor, in providing a list of past cases of “analogies to the alarm over dangerous manmade global warming” — presumably intended to show why we should ignore the worriers — included problems such as acid rain and the ozone hole that have been contained precisely thanks to environmental regulation.

 

But back to Professor Muller. His climate-skeptic credentials are pretty strong: he has denounced both Al Gore and my colleague Tom Friedman as “exaggerators,” and he has participated in a number of attacks on climate research, including the witch hunt over innocuous e-mails from British climate researchers. Not surprisingly, then, climate deniers had high hopes that his new project would support their case.

 

You can guess what happened when those hopes were dashed.

Just a few weeks ago Anthony Watts, who runs a prominent climate denialist Web site, praised the Berkeley project and piously declared himself “prepared to accept whatever result they produce, even if it proves my premise wrong.” But never mind: once he knew that Professor Muller was going to present those preliminary results, Mr. Watts dismissed the hearing as “post normal science political theater.” And one of the regular contributors on his site dismissed Professor Muller as “a man driven by a very serious agenda.”

 

Of course, it’s actually the climate deniers who have the agenda, and nobody who’s been following this discussion believed for a moment that they would accept a result confirming global warming. But it’s worth stepping back for a moment and thinking not just about the science here, but about the morality.

 

For years now, large numbers of prominent scientists have been warning, with increasing urgency, that if we continue with business as usual, the results will be very bad, perhaps catastrophic. They could be wrong. But if you’re going to assert that they are in fact wrong, you have a moral responsibility to approach the topic with high seriousness and an open mind. After all, if the scientists are right, you’ll be doing a great deal of damage.

 

But what we had, instead of high seriousness, was a farce: a supposedly crucial hearing stacked with people who had no business being there and instant ostracism for a climate skeptic who was actually willing to change his mind in the face of evidence. As I said, no surprise: as Upton Sinclair pointed out long ago, it’s difficult to get a man to understand something when his salary depends on his not understanding it.

 

But it’s terrifying to realize that this kind of cynical careerism — for that’s what it is — has probably ensured that we won’t do anything about climate change until catastrophe is already upon us.

 

So on second thought, I was wrong when I said that the joke was on the G.O.P.; actually, the joke is on the human race. 

 

La verità sempre scomoda, di Paul Krugman

New York Times 3 aprile 2011

 

Dunque, il gioco comincia in questo modo: un economista, un dottore in legge ed un professore di marketing entrano in una stanza. Come va a finire? [13] Essi erano tre dei cinque “testimoni accreditati[14]” che i Repubblicani avevano convocato in occasione della audizione del Congresso della scorsa settimana sulla scienza del clima.

Sennonché, il gioco ha finito in effetti col riguardare i Repubblicani, al momento in cui uno dei due scienziati veri e propri che erano stati invitati a testimoniare, è uscito dal seminato[15].

Il professor Richard Muller di Berkeley, un fisico che era stato incluso nel gioco degli scettici del cambiamento climatico, ha diretto il programma ‘Temperatura della superficie terrestre’ dell’Università di Berkeley, uno sforzo finanziati in parte nientedimeno che dalla Fondazione Koch[16]. E i ‘negazionisti’ del cambiamento climatico – coloro che pretendono che i ricercatori della NASA e degli altri gruppi che analizzano le tendenze del clima abbiano manipolato e distorto i dati – avevano sperato che il programma di Berkeley fosse giunto alla conclusione che il riscaldamento climatico è una favola.

Invece, nonostante ciò, il professor Muller ha reso noto che i risultati preliminari del suo gruppo hanno individuato una tendenza al cambiamento climatico “assai simile a quella riferita dai gruppi che si erano occupati del tema in precedenza”.

La reazione dei ‘negazionisti’ è stata a un tempo prevedibile e rivelatrice; ma torno su questo aspetto tra un attimo. Prima  consentitemi di dire qualcosa su quella lista di ‘testimoni’, che ha messo in evidenza lo stesso problema che il sottoscritto ed altri avevano sollevato a proposito di un certo numero di audizioni tenute da commissioni, sin dal momento in cui i repubblicani hanno riconquistato il controllo della Camera: precisamente, dove vanno a trovare gente del genere?

 

Il mio caso preferito fu quello della prima audizione organizzata da Ron Paul sulla politica monetaria, nella quale il testimone principale era un individuo meglio conosciuto per aver scritto un libro nel quale denunciava Abram Lincoln come un “terribile tiranno”, nonché per aver sostenuto un nuovo movimento secessionista, quale risposta appropriata al “nuovo Stato socialfascista americano”.

I sedicenti scienziati [17] della audizione della scorsa settimana erano più o meno dello stesso calibro, ma le testimonianze predisposte hanno prodotto effetti persino memorabili. Uno di questi è stata la dichiarazione dell’esperto di diritto, secondo la quale l’E.P.A. [18] non potrebbe dichiarare che le emissioni dei gas serra costituiscono una minaccia alla salute, giacché queste emissioni sono cresciute nel corso di un secolo, ma nello stesso periodo la salute pubblica è migliorata. Concetto del quale ancora non mi capacito[19].

Per non dire del professore di marketing, il quale, nel fornire un elenco di casi trascorsi di “analogie con l’allarme a proposito del riscaldamento globale prodotto dall’uomo” – presumibilmente rivolto a dimostrare che dovremmo ignorare gli allarmisti – ha incluso le piogge acide e il buco dell’ozono, problemi che sono stati contenuti precisamente grazie a regolamenti ambientali.

Ma torniamo al professor Muller. Le sua credenziali di scettico del ‘riscaldamento globale’ sono piuttosto solide: egli ha denunciato sia Al Gore che il mio collega Tom Friedman come “allarmisti” ed ha partecipato ad un certo numero di aggressioni contro i ricercatori dei fenomeni climatici, inclusa la caccia alle streghe su una innocua corrispondenza elettronica da parte di ricercatori inglesi sul clima. Non per niente, dunque, i ‘negazionisti’ del cambiamento climatico nutrivano grandi speranze che le sue nuove stime avrebbero supportato le loro tesi.

Potete immaginare cosa è successo quando quelle speranze sono finite in frantumi.

Solo poche settimane prima, Anthony Watts, che dirige un influente sito web di negazionisti del cambiamento climatico, aveva elogiato il progetto di Berkeley e si era rispettosamente detto “pronto ad accettare qualsiasi conclusione alla quale esso fosse arrivato, anche se essa avesse smentito i miei convincimenti”. Parole vuote: una volta che ha saputo  che il professor Muller avrebbe presentato quei risultati preliminari, il signor Watts ha liquidato l’audizione come “un luogo del teatrino politico dei soliti scienziati[20]”. Ed uno dei collaboratori fissi del suo sito si è limitato a definire il professor Muller come un “individuo guidato da un programma di ricerca assai serio”.

Naturalmente, sono i ‘negazionisti’ del cambiamento climatico che effettivamente possiedono una agenda del genere, e nessuno che segue quel dibattito ha creduto per un momento che essi avrebbero mai accettato un risultato che confermasse il riscaldamento globale. Ma è utile fare per un attimo un passo indietro, sviluppando a questo punto una riflessione non tanto sulla scienza, quanto sulla moralità.

Per anni un vasto numero di influenti scienziati ha ammonito, con crescente drammaticità, che se avessimo proseguito con i nostri affari consueti, il risultato sarebbe stato assai negativo, forse catastrofico. Può darsi che si siano sbagliati. Ma se intendete asserire che essi si sono davvero sbagliati, dovete assumervi la responsabilità morale di affrontare quel tema con il massimo scrupolo e  con la mente scevra da condizionamenti. In fin dei conti, se gli scienziati hanno ragione, voi sareste causa di una grande quantità di danni.

Ma quello che abbiamo avuto, al posto del massimo scrupolo, è stata una farsa: una audizione, che si supponeva fondamentale, abborracciata con individui che con essa non avevano niente da spartire[21] ed un immediato ostracismo nei confronti di uno ‘scettico’ del cambiamento climatico che si era mostrato disponibile a modificare il suo punto di vista di fronte alla evidenza dei fatti. Come avevo detto, nessuna sorpresa: come disse Upton Sinclair molto tempo fa, è difficile ottenere da un individuo la comprensione di qualcosa, se la sua retribuzione dipende dal fatto che non la comprenda.

Sennonché è terrificante prendere atto che un cinico carrierismo di questa natura – giacché di questo si tratta – in sostanza conti sul fatto[22] che noi non faremo alcunché sul cambiamento del clima, finché la catastrofe non incomberà sulle nostre teste.

Dal che derivo un secondo pensiero: ho sbagliato a dire che quel gioco riguardava il partito repubblicano; in effetti, esso riguarda il genere umano.

 

 

 

 

Ludicrous and Cruel

By PAUL KRUGMAN
Published: April 7, 2011

 

Many commentators swooned earlier this week after House Republicans, led by the Budget Committee chairman, Paul Ryan, unveiled their budget proposals. They lavished praise on Mr. Ryan, asserting that his plan set a new standard of fiscal seriousness.

Well, they should have waited until people who know how to read budget numbers had a chance to study the proposal. For the G.O.P. plan turns out not to be serious at all. Instead, it’s simultaneously ridiculous and heartless.

How ridiculous is it? Let me count the ways — or rather a few of the ways, because there are more howlers in the plan than I can cover in one column.

First, Republicans have once again gone all in for voodoo economics — the claim, refuted by experience, that tax cuts pay for themselves.

Specifically, the Ryan proposal trumpets the results of an economic projection from the Heritage Foundation, which claims that the plan’s tax cuts would set off a gigantic boom. Indeed, the foundation initially predicted that the G.O.P. plan would bring the unemployment rate down to 2.8 percent — a number we haven’t achieved since the Korean War. After widespread jeering, the unemployment projection vanished from the Heritage Foundation’s Web site, but voodoo still permeates the rest of the analysis.

 

In particular, the original voodoo proposition — the claim that lower taxes mean higher revenue — is still very much there. The Heritage Foundation projection has large tax cuts actually increasing revenue by almost $600 billion over the next 10 years.

 

A more sober assessment from the nonpartisan Congressional Budget Office tells a different story. It finds that a large part of the supposed savings from spending cuts would go, not to reduce the deficit, but to pay for tax cuts. In fact, the budget office finds that over the next decade the plan would lead to bigger deficits and more debt than current law.

 

And about those spending cuts: leave health care on one side for a moment and focus on the rest of the proposal. It turns out that Mr. Ryan and his colleagues are assuming drastic cuts in nonhealth spending without explaining how that is supposed to happen.

How drastic? According to the budget office, which analyzed the plan using assumptions dictated by House Republicans, the proposal calls for spending on items other than Social Security, Medicare and Medicaid — but including defense — to fall from 12 percent of G.D.P. last year to 6 percent of G.D.P. in 2022, and just 3.5 percent of G.D.P. in the long run.

That last number is less than we currently spend on defense alone; it’s not much bigger than federal spending when Calvin Coolidge was president, and the United States, among other things, had only a tiny military establishment. How could such a drastic shrinking of government take place without crippling essential public functions? The plan doesn’t say.

And then there’s the much-ballyhooed proposal to abolish Medicare and replace it with vouchers that can be used to buy private health insurance.

 

The point here is that privatizing Medicare does nothing, in itself, to limit health-care costs. In fact, it almost surely raises them by adding a layer of middlemen. Yet the House plan assumes that we can cut health-care spending as a percentage of G.D.P. despite an aging population and rising health care costs.

 

The only way that can happen is if those vouchers are worth much less than the cost of health insurance. In fact, the Congressional Budget Office estimates that by 2030 the value of a voucher would cover only a third of the cost of a private insurance policy equivalent to Medicare as we know it. So the plan would deprive many and probably most seniors of adequate health care.

 

And that neither should nor will happen. Mr. Ryan and his colleagues can write down whatever numbers they like, but seniors vote. And when they find that their health-care vouchers are grossly inadequate, they’ll demand and get bigger vouchers — wiping out the plan’s supposed savings.

 

In short, this plan isn’t remotely serious; on the contrary, it’s ludicrous.

And it’s also cruel.

In the past, Mr. Ryan has talked a good game about taking care of those in need. But as the Center on Budget and Policy Priorities points out, of the $4 trillion in spending cuts he proposes over the next decade, two-thirds involve cutting programs that mainly serve low-income Americans. And by repealing last year’s health reform, without any replacement, the plan would also deprive an estimated 34 million nonelderly Americans of health insurance.

 

So the pundits who praised this proposal when it was released were punked. The G.O.P. budget plan isn’t a good-faith effort to put America’s fiscal house in order; it’s voodoo economics, with an extra dose of fantasy, and a large helping of mean-spiritedness. 

 

Ridicolo e crudele, di Paul Krugman

New York Times 7 aprile 2011

 

 

 

Agli inizi di questa settimana, vari commentatori sono andati in deliquio dopo che i Repubblicani della Camera, guidati dal Presidente della Commissione Bilancio Paul Ryan, hanno svelato i loro propositi in materia di bilancio. Costoro si sono profusi in elogi nei confronti del signor Ryan, sostenendo che il suo progetto configura un nuovo criterio di serietà fiscale.

Ebbene, avrebbero fatto meglio ad aspettare che quelli che sanno come si leggono i numeri dei bilanci avessero la possibilità di studiare la proposta. Giacché il progetto del Partito Repubblicano non risulta affatto serio. Piuttosto è insieme ridicolo e spietato.

In che senso è ridicolo? Fatemi esporre gli esempi – o meglio alcuni esempi, perché ci sono in quel progetto tanti strafalcioni in più, dei quali non potrei dar conto in un articolo.

 

In primo luogo, i Repubblicani una volta in più si sono buttati su un’economia da ‘magia nera’[23] – la pretesa, confutata dalla esperienza, che gli sgravi fiscali si ripaghino da soli.

In particolare, il progetto Ryan strombazza con gran clamore i risultati di una proiezione economica della Heritage Foundation, secondo la quale gli sgravi fiscali predisporrebbero ad un boom gigantesco. In effetti, la fondazione aveva agli inizi previsto che il progetto repubblicano avrebbe portato il tasso di disoccupazione al 2,8 per cento – un livello che non si era più ottenuto dai tempi della guerra di Corea. A seguito dell’ilarità generale, la proiezioni sulla disoccupazione è scomparsa dal sito web della Heritage Foundation, ma la ‘magia nera’ continua ad ispirare il resto dell’analisi.

In particolare, è ancora assai presente la concezione magica originaria, ovvero la pretesa che tasse più basse comportino redditi più elevati. La proiezione della  Heritage Foundation contiene ampi sgravi fiscali, che in buona sostanza accrescerebbero il reddito per circa 600 miliardi di dollari nel prossimo decennio.

Una valutazione più equilibrata da parte del ‘non schierato’ Congressional Budget Office ci racconta una storia diversa. Essa scopre che una larga parte dei supposti risparmi provenienti dai tagli alla spesa pubblica non se ne andrebbero alla riduzione del deficit, bensì servirebbero a pagare gli sgravi fiscali. In effetti, l’ufficio del bilancio scopre che il progetto porterebbe, nel prossimo decennio, a deficit più elevati e ad un debito maggiore di quello consentito dalla legislazione attuale.[24]

Per quanto concerne questi tagli alla spesa: lasciamo per un attimo da un parte la assistenza sanitaria e concentriamoci sul resto della proposta. Si dà il caso che il signor Ryan ed i suoi colleghi abbiano assunto drastici tagli alla spesa non sanitaria, senza spiegare come tutto ciò possa aver luogo.

Quanto drastici? Secondo l’ufficio del bilancio, il quale ha analizzato il piano sulla base delle premesse indicate dai repubblicani della Camera, la proposta comporta che la spesa su tematiche eccedenti la Previdenza Sociale, Medicare e Medicaid – ma inclusa la difesa – si riduca dal 12 per cento del PIL dell’anno passato al 6 per cento del PIL nel 2022, sino solo ad un 6 per cento del PIL nel lungo periodo.

L’ultimo numero è inferiore a quanto attualmente si spende soltanto per la difesa; è di poco superiore alla spesa federale di quando Calvin Coolidge era Presidente, e gli Stati Uniti, per non dire altro, avevano una struttura militare assai ridotta. Come dovrebbe avvenire una tale contrazione della spesa statale, senza smantellare essenziali funzioni pubbliche? Il progetto non ne fa parola.

E c’è poi la tanto strombazzata proposta della abolizione di Medicare  e della sua sostituzione con un meccanismo di vouchers[25] che potrebbero essere utilizzati per acquistare assicurazioni sanitarie private.

Il fatto è che la privatizzazione di Medicare, in sé, non cambia niente quanto al contenimento dei costi della assistenza sanitaria. Nei fatti, essa quasi certamente li accresce, per effetto dell’aggiunta di uno strato di intermediari. Tuttavia il progetto alla Camera assume che si possa tagliare la spesa per la assistenza sanitaria in percentuale sul PIL, nonostante una popolazione che invecchia e costi di assistenza sanitaria crescenti.

L’unico modo nel quale ciò potrebbe avvenire è se quei vouchers avessero un valore molto inferiore al costo della assicurazione sanitaria. Di fatto, il Congressional Budget Office stima che attorno al 2030 il valore di un voucher coprirebbe soltanto un terzo del costo di una assicurazione privata corrispondente al Medicare che conosciamo. Dunque, il progetto priverebbe molte persone di una adeguata assistenza sanitaria, probabilmente una gran parte delle persone anziane.

Ora, tutto ciò non dovrebbe accadere, né in effetti accadrà. Il signor Ryan ed i suoi colleghi possono buttar giù tutti i numeri che vogliono, ma gli anziani votano. E quando scopriranno che il loro vouchers di assistenza sanitaria sono del tutto inadeguati, essi chiederanno di avere vouchers più capienti, facendo piazza pulita dei supposti risparmi del progetto.

In breve, questo progetto è lungi dall’essere serio: al contrario, è ridicolo.

Ed è, per giunta, crudele.

 

 

Nel passato, il signor Ryan aveva fatto un gran parlare[26] a proposito dell’assistenza a coloro che ne hanno bisogno. Ma, come sottolinea il Center on Budget and Policy Priorities[27], dei 4 mila miliardi di dollari di tagli alla spesa pubblica che egli propone per il prossimo decennio, due terzi riguardano tagli che in modo rilevante assistono gli americani a basso reddito. E con l’abrogazione della riforma sanitaria dell’anno passato, senza alcuna sostituzione, il progetto priverebbe della assicurazione sanitaria anche un numero di americani non anziani stimato in 34 milioni.

Cosicché, gli addetti ai lavoro che si sono sperticati in elogi verso questa proposta al momento in cui è stata resa nota, sono stati presi per i fondelli[28]. Il progetto di bilancio dei Repubblicani non è un sforzo in buona fede per rimettere in ordine la finanza pubblica americana; è economia del genere di quella della ‘magia nera’, in sovraggiunta ad una dose extra di fantasia e ad un cospicuo sostegno di meschinità[29]

 

         

 

 

 

The President Is Missing

By PAUL KRUGMAN
Published: April 10, 2011

What have they done with President Obama? What happened to the inspirational figure his supporters thought they elected? Who is this bland, timid guy who doesn’t seem to stand for anything in particular?

I realize that with hostile Republicans controlling the House, there’s not much Mr. Obama can get done in the way of concrete policy. Arguably, all he has left is the bully pulpit. But he isn’t even using that — or, rather, he’s using it to reinforce his enemies’ narrative.

His remarks after last week’s budget deal were a case in point.

Maybe that terrible deal, in which Republicans ended up getting more than their opening bid, was the best he could achieve — although it looks from here as if the president’s idea of how to bargain is to start by negotiating with himself, making pre-emptive concessions, then pursue a second round of negotiation with the G.O.P., leading to further concessions.

And bear in mind that this was just the first of several chances for Republicans to hold the budget hostage and threaten a government shutdown; by caving in so completely on the first round, Mr. Obama set a baseline for even bigger concessions over the next few months.

But let’s give the president the benefit of the doubt, and suppose that $38 billion in spending cuts — and a much larger cut relative to his own budget proposals — was the best deal available. Even so, did Mr. Obama have to celebrate his defeat? Did he have to praise Congress for enacting “the largest annual spending cut in our history,” as if shortsighted budget cuts in the face of high unemployment — cuts that will slow growth and increase unemployment — are actually a good idea?

 

Among other things, the latest budget deal more than wipes out any positive economic effects of the big prize Mr. Obama supposedly won from last December’s deal, a temporary extension of his 2009 tax cuts for working Americans. And the price of that deal, let’s remember, was a two-year extension of the Bush tax cuts, at an immediate cost of $363 billion, and a potential cost that’s much larger — because it’s now looking increasingly likely that those irresponsible tax cuts will be made permanent.

 

More broadly, Mr. Obama is conspicuously failing to mount any kind of challenge to the philosophy now dominating Washington discussion — a philosophy that says the poor must accept big cuts in Medicaid and food stamps; the middle class must accept big cuts in Medicare (actually a dismantling of the whole program); and corporations and the rich must accept big cuts in the taxes they have to pay. Shared sacrifice!

I’m not exaggerating. The House budget proposal that was unveiled last week — and was praised as “bold” and “serious” by all of Washington’s Very Serious People — includes savage cuts in Medicaid and other programs that help the neediest, which would among other things deprive 34 million Americans of health insurance. It includes a plan to privatize and defund Medicare that would leave many if not most seniors unable to afford health care. And it includes a plan to sharply cut taxes on corporations and to bring the tax rate on high earners down to its lowest level since 1931.

 

 

The nonpartisan Tax Policy Center puts the revenue loss from these tax cuts at $2.9 trillion over the next decade. House Republicans claim that the tax cuts can be made “revenue neutral” by “broadening the tax base” — that is, by closing loopholes and ending exemptions. But you’d need to close a lot of loopholes to close a $3 trillion gap; for example, even completely eliminating one of the biggest exemptions, the mortgage interest deduction, wouldn’t come close. And G.O.P. leaders have not, of course, called for anything that drastic. I haven’t seen them name any significant exemptions they would end.

 

 

 

You might have expected the president’s team not just to reject this proposal, but to see it as a big fat political target. But while the G.O.P. proposal has drawn fire from a number of Democrats — including a harsh condemnation from Senator Max Baucus, a centrist who has often worked with Republicans — the White House response was a statement from the press secretary expressing mild disapproval.

 

 

What’s going on here? Despite the ferocious opposition he has faced since the day he took office, Mr. Obama is clearly still clinging to his vision of himself as a figure who can transcend America’s partisan differences. And his political strategists seem to believe that he can win re-election by positioning himself as being conciliatory and reasonable, by always being willing to compromise.

But if you ask me, I’d say that the nation wants — and more important, the nation needs — a president who believes in something, and is willing to take a stand. And that’s not what we’re seeing. 

 

Il Presidente è perduto, di Paul Krugman

New York Times 10 aprile 2011

 

Cosa ne hanno fatto di Obama? Cosa ne è stato di quella figura ispirata che i suoi sostenitori pensavano di aver eletto? Chi è questo insipido, timido individuo che sembra non prendere posizione per nessuna cosa in particolare?

Io comprendo che con l’ostilità dei Repubblicani che controllano la Camera, non c’è molto che Obama possa portare a compimento, nel senso di una concreta politica. Senza dubbio, tutto quello che gli è rimasto è il potere di ‘parlare all’America’[30]. Ma egli non l’ha neppure usata – o piuttosto, l’ha usata per rafforzare la propaganda dei suoi avversari.

Il suo commento dopo l’accordo della scorsa settimana sul bilancio è, a tal proposito, esemplare.

Può darsi che il terribile accordo, con il quale i Repubblicani hanno finito per ottenere di più della loro offerta iniziale, fosse il massimo che poteva ottenere – sebbene ai nostri occhi sembra che l’idea che ha il presidente del negoziare consista nel farlo anzitutto con se stesso, facendo concessioni preliminari, per poi proseguire un secondo round di trattative con i Repubblicani, che portano a concessioni ulteriori.

E si tenga a mente che questa era soltanto la prima di una certo numero di possibilità che i Repubblicani hanno di prendere il bilancio in ostaggio e di minacciare il blocco delle attività di governo; capitolando in modo così completo al primo round, Obama ha posto le premesse per concessioni anche più grandi nel corso dei prossimi mesi.

Ma diamo al Presidente il beneficio del dubbio, ed ammettiamo che 38 miliardi di dollari in tagli alla spesa pubblica – e tagli maggiori alle sue personali proposte di bilancio – fossero il miglior accordo a disposizione. Anche in questo modo, doveva proprio Obama celebrare la sua sconfitta? Doveva elogiare il Congresso per aver decretato “il più ampio taglio sulla spesa annuale della nostra storia”, come se quei poco lungimiranti tagli al bilancio a fronte di una disoccupazione elevata – tagli che rallenteranno la crescita ed aumenteranno la disoccupazione – fossero effettivamente una buona idea?

Tra le altre cose, l’ultimo accordo sul bilancio fa piazza pulita di tutti gli effetti economici positivi di quel gran premio che Obama supponeva di  aver portato a casa con l’accordo del dicembre scorso, la temporanea proroga dei suoi sgravi fiscali del 2009 ai lavoratori americani. E il prezzo di quell’accordo, ricordiamolo, furono due anni di proroga degli sgravi fiscali di Bush, per un costo immediato di 363 miliardi di dollari, ed un costo potenziale che sarà assai maggiore – giacché ora appare sempre più probabile che quegli irresponsabili sgravi fiscali verranno resi permanenti.

Più in generale, Obama sta registrando un vistoso fallimento nell’allestire in qualche modo una sfida alla filosofia che è al momento imperante a Washington – una filosofia secondo la quale la povera gente deve accettare grandi tagli su Medicaid e sui buoni pasto; la classe media deve accettare grandi tagli su Medicare (in pratica, uno smantellamento dell’intero programma); e le grandi imprese e la gente ricca devono accettare grandi sgravi sulle tasse che gli spetterebbero. Sacrifici condivisi!

Non sto esagerando. La proposta di bilancio della Camera[31] che è stata resa nota la scorsa settimana – ed è stata elogiata come “coraggiosa” e “seria” da tutte le Persone Estremamente Serie[32] di Washington – include tagli selvaggi a Medicaid e in altri programmi che aiutano le persone bisognose, il che tra le altre cose priverebbe 34 milioni di americani della assicurazione sanitaria. Essa include un piano per la privatizzazione ed il ritiro dei finanziamenti pubblici a Medicare che lascerebbe molti anziani, se non la maggior parte di essi, nella condizione di non potersi più permettere l’assistenza sanitaria. Ed include un programma per vertiginosi sgravi fiscali alle grandi imprese e per abbassare le aliquote fiscali sui grandi redditi ai livelli più bassi dall’anno 1931.

 

Il ‘non-schierato Tax Policy Center indica la perdita di entrate da questi sgravi fiscali in 2.900 miliardi di dollari nel corso del prossimo decennio. I Repubblicani della Camera sostengono che questi sgravi fiscali dovranno essere resi “privi di effetto sulle entrate” attraverso “l’allargamento della base contributiva” – ovvero, attraverso l’impedimento delle pratiche elusive e la fissazione di un termine per le esenzioni. Sennonché si dovrebbero interrompere un bel po’ di pratiche elusive per colmare un divario di 3.000 miliardi di dollari; ad esempio, anche eliminando completamente una delle maggiori esenzioni, la deducibilità degli interessi sui mutui, non si arriverebbe al pareggio. E i leaders repubblicani, ovviamente, non si sono riferiti a niente di così drastico. Non li ho sentiti chiamare per nome alcuna significativa esenzione alla quale si proporrebbero di porre un termine.

Vi sareste aspettati che i collaboratori del Presidente non solo respingessero proposte del genere, ma anche ci vedessero il tentativo di colpire un bersaglio politico davvero grosso[33].  Ma mentre le proposte repubblicane hanno provocato la reazione ostile di un certo numero di democratici – compresa una aspra condanna da parte del Senatore Max Baucus, un centrista che aveva spesso collaborato con i Repubblicani – la risposta della Casa Bianca è consistita in una dichiarazione del responsabile dell’ufficio stampa con la quale è stata espressa leggera disapprovazione.

Tutto questo a cosa porterà? Nonostante la feroce opposizione cui ha dovuto far fronte dal momento che ha assunto l’incarico, Obama sta ancora aggrappandosi ad una idea di se stesso come l’individuo che può andare oltre le faziosità dei partiti. Ed i suoi strateghi politici sembrano ritenere che egli possa guadagnare la rielezione presentandosi come uomo dell’accordo e della ragionevolezza, sempre disponibile al compromesso.

Ma se volete ascoltarmi, la mia opinione è che la nazione vuole – più importante ancora, la nazione ha bisogno – di un Presidente che creda in qualcosa, e che abbia voglia di prendere posizione. Non è quello a cui stiamo assistendo.

 

 

 

 

 

 

Who’s Serious Now?

By PAUL KRUGMAN
Published: April 14, 2011

Paul Ryan, the chairman of the House Budget Committee, sounds upset. And you can see why: President Obama, to the great relief of progressives, has called his bluff.

Last week, Mr. Ryan unveiled his budget proposal, and the initial reaction of much of the punditocracy was best summed up (sarcastically) by the blogger John Cole: “The plan is bold! It is serious! It took courage! It re-frames the debate! The ball is in Obama’s court! Very wonky! It is a game-changer! Did I mention it is serious?”

Then people who actually understand budget numbers went to work, and it became clear that the proposal wasn’t serious at all. In fact, it was a sick joke. The only real things in it were savage cuts in aid to the needy and the uninsured, huge tax cuts for corporations and the rich, and Medicare privatization. All the alleged cost savings were pure fantasy.

 

On Wednesday, as I said, the president called Mr. Ryan’s bluff: after offering a spirited (and reassuring) defense of social insurance, he declared, “There’s nothing serious about a plan that claims to reduce the deficit by spending a trillion dollars on tax cuts for millionaires and billionaires. And I don’t think there’s anything courageous about asking for sacrifice from those who can least afford it and don’t have any clout on Capitol Hill.” Actually, the Ryan plan calls for $2.9 trillion in tax cuts, but who’s counting?

 

And then Mr. Obama laid out a budget plan that really is serious.

The president’s proposal isn’t perfect, by a long shot. My own view is that while the spending controls on Medicare he proposed are exactly the right way to go, he’s probably expecting too much payoff in the near term. And over the longer run, I believe that we’ll need modestly higher taxes on the middle class as well as the rich to pay for the kind of society we want. But the vision was right, and the numbers were far more credible than anything in the Ryan sales pitch.

 

And the hissy fit — I mean, criticism — the Obama plan provoked from Mr. Ryan was deeply revealing, as the man who proposes using budget deficits as an excuse to cut taxes on the rich accused the president of being “partisan.” Mr. Ryan also accused the president of being “dramatically inaccurate” — this from someone whose plan included a $200 billion error in its calculation of interest costs and appears to have made an even bigger error on Medicaid costs. He didn’t say what the inaccuracies were.

 

And now for something completely wonkish: Can we talk, briefly, about politicians talking about drugs?

For the contrast between Mr. Ryan last week and Mr. Obama on Wednesday wasn’t just about visions of society. There was also a difference in visions of how the world works. And nowhere was that clearer than in the issue of how Medicare should pay for drugs.

Mr. Obama declared, “We will cut spending on prescription drugs by using Medicare’s purchasing power to drive greater efficiency.” Meanwhile, Mr. Ryan held up the existing Medicare drug benefit — a program run through private insurance companies, under legislation that specifically prohibits Medicare from using its bargaining power — as an example of the efficiencies that could be gained from privatizing the whole system.

 

Mr. Obama has it right. Medicare Part D has been less expensive than expected, at least so far, but that’s because overall prescription drug spending has fallen short of expectations, largely thanks to a dearth of new drugs and the growing use of generics. The right way to assess Part D is by comparing it with programs where the government is allowed to use its purchasing power. And such comparisons suggest that if there’s any magic in privatization, it’s the magical way it makes drug companies richer and taxpayers poorer. For example, the Department of Veterans Affairs pays about 40 percent less for drugs than the private plans in Part D.

 

 

Did I mention that Medicare Advantage, which closely resembles the privatized system that Republicans want to impose on all seniors, currently costs taxpayers 12 percent more per recipient than traditional Medicare?

But back to the president’s speech. His plan isn’t about to become law; neither is Mr. Ryan’s. And given the hysterical Republican reaction, it doesn’t look likely that we’ll see negotiations trying to narrow the difference. That’s a good thing because Mr. Obama’s plan already relies more on spending cuts than it should, and moving it significantly in the G.O.P.’s direction would produce something unworkable and unacceptable.

What happened over the past two weeks, then, was more about staking out positions than about enacting policies. On one side you had a combination of mean-spiritedness and fantasy; on the other you had a reaffirmation of American compassion and community, coupled with fairly realistic numbers. Which would you choose? 

 

Chi è serio, adesso?, di Paul Krugman

New York Times 14 aprile 2011

 

Paul Ryan, il Presidente della Commissione Bilancio della Camera, sembra agitato. E se ne capisce il motivo: il Presidente Obama, con grande sollievo dei progressisti, è andato a ‘vedere’ il suo bluff.

La scorsa settimana, Ryan rese note le sue proposte sul bilancio e la reazione iniziale di gran parte della corte degli ‘addetti ai lavori’ [34] è stata riassunta (in modo sarcastico) dal blogger John Cole: “Il piano è audace! E’ serio! Infonde coraggio! Riapre il dibattito! La palla ora è nel campo di Obama! Davvero competente [35]! I giochi sono riaperti! Ho già detto che è serio?”.

Le persone che effettivamente capiscono i numeri del bilancio si misero al lavoro, e apparve subito chiaro che la proposta era tutt’altro che seria. Era piuttosto un trucco un po’ disgustoso. I suoi unici veri contenuti erano tagli selvaggi negli aiuti alla gente bisognosa e priva di assistenza, grandi sgravi fiscali per le grandi imprese ed i ricchi e la privatizzazione di Medicare. Tutti i pretesi risparmi sui costi erano fantasia pura.

Mercoledì, come ho detto, il Presidente è andato a vedere il bluff del signor Ryan: dopo aver offerto una difesa combattiva (e rassicurante) del sistema della sicurezza sociale[36], egli ha dichiarato: “Non c’è niente di serio in un piano che pretende di ridurre il deficit spendendo migliaia di miliardi di dollari in sgravi ai milionari ed ai miliardari. E io credo che non ci sia niente di coraggioso nel chiedere sacrifici a coloro che meno possono permetterseli e che non hanno nessuna influenza su Capitol Hill [37]”. Effettivamente, il piano di Ryan propone 2.900 miliardi di dollari di sgravi fiscali, ma chi li ha considerati [38]?

 

E a quel punto Obama ha messo sul tavolo una proposta di bilancio, quella sì effettivamente seria.

La proposta del Presidente non è perfetta, ad una analisi più dettagliata. La mia personale opinione è che i controlli sulla spesa di Medicare da lui proposti siano esattamente la strada giusta da percorrere, ma probabilmente egli si aspetta effetti troppo grandi nel breve periodo. E nel lungo termine, io credo che sarà indispensabile un modesto rialzo delle tasse, sul ceto medio come sui più abbienti, per pagare i costi di quel genere di società alla quale aspiriamo. Ma la visione generale è giusta, e i numeri sono di gran lunga più credibili di tutti i riferimenti della parlantina di Ryan.

E la reazione velenosa [39] che il piano ha provocato in Ryan è stata profondamente rivelatrice, se si considera che colui che propone di utilizzare il deficit di bilancio come una scusa per tagliare le tasse ai ricchi ha accusato il Presidente di essere “fazioso”. Il signor Ryan ha anche accusato il Presidente di essere “vistosamente impreciso” – e questa viene da un individuo il cui piano contiene un errore per 200 miliardi di dollari nel calcolo dei costi degli interessi, per non dire che pare abbia fatto un errore anche più grande sui costi di Medicaid. Non ha precisato dove fossero le imprecisioni.

Ed ora occupiamoci di qualcosa del tutto specifico [40]: possiamo, brevemente, ragionare di ciò che i politici intendono parlando di farmaci?

Giacché il contrasto tra il signor Ryan della settimana scorsa ed Obama di mercoledì non ha riguardato soltanto le visioni della società. Esso ha riguardato anche diverse visioni di come funziona il mondo. E, più che altrove, ciò è risultato assai chiaro sul tema dei modi in cui Medicare dovrebbe pagare i farmaci.

Obama ha dichiarato: “Taglieremo il costi sui farmaci prescritti utilizzando il potere contrattuale di Medicare sugli acquisti per raggiungere una maggiore efficienza”. Di contro, Ryan ha sostenuto l’attuale indennizzo sui farmaci di Medicare – un programma che opera attraverso le imprese assicuratrici private, sotto una legislazione che proibisce specificamente a Medicare di utilizzare il proprio potere contrattuale – come un esempio delle efficienze che potrebbero essere guadagnate per effetto della privatizzazione dell’intero sistema.

Ha ragione Obama. La “Area D” di Medicare è stata, almeno sinora, meno costosa di quello che ci si aspettava, ma questo è accaduto a causa del fatto che  la spesa complessiva sui farmaci prescritti è stata minore rispetto alle aspettative, in gran parte grazie alla scarsità dei nuovi farmaci e all’uso crescente di farmaci generici. Il modo giusto di valutare l’ “Area D” è commisurarla con i suoi programmi, una volta che al Governo fosse concesso di utilizzare il proprio potere di contrattazione. Confronti del genere indicano che se c’è una qualche forma di magia nella privatizzazione, essa consiste nel magico sistema attraverso il quale si renderebbero le imprese farmaceutiche più ricche ed i contribuenti più poveri.  Ad esempio, il Department of Veterans Affairs [41] paga per i farmaci circa il 40 per cento in meno di quanto pagano i privati nell’ “Area D”.

Per non dire che Medicare Advantage [42], che somiglia abbastanza da vicino al sistema privatizzato che i Repubblicani vorrebbero imporre agli anziani, attualmente costa ai contribuenti il 12 per cento in più per utente, rispetto al tradizionale Medicare.

Ma torniamo al discorso del Presidente. Il suo piano non è sul punto di diventare legge, come non lo è quello di Ryan. E, date le reazioni isteriche dei Repubblicani, non sembra probabile che ci saranno trattative per ridurre le differenze. Questa è una cosa buona giacché il piano di Obama già conta su tagli alla spesa pubblica maggiori di quanto dovrebbe, e spostandosi in modo significativo nella direzione dei repubblicani si produrrebbe un effetto impraticabile ed inaccettabile.

Ciò che è accaduto nelle due settimane passate, dunque, ha più riguardato la delimitazione delle rispettive posizioni, che non la concreta deliberazione delle scelte politiche. Da una parte avete constatato una combinazione di gretta determinazione e di illusionismo; dall’altra la riaffermazione dell’umanità[43] e dello spirito comunitario americani, coniugata con numeri onestamente realistici. Cosa scegliereste?

 

 

 

Let’s Not Be Civil

By PAUL KRUGMAN
Published: April 17, 2011

 

Last week, President Obama offered a spirited defense of his party’s values — in effect, of the legacy of the New Deal and the Great Society. Immediately thereafter, as always happens when Democrats take a stand, the civility police came out in force. The president, we were told, was being too partisan; he needs to treat his opponents with respect; he should have lunch with them, and work out a consensus.

That’s a bad idea. Equally important, it’s an undemocratic idea.

Let’s review the story so far.

Two weeks ago, House Republicans released their big budget proposal, selling it to credulous pundits as a statement of necessity, not ideology — a document telling America What Must Be Done.

 

But it was, in fact, a deeply partisan document, which you might have guessed from the opening sentence: “Where the president has failed, House Republicans will lead.” It hyped the danger of deficits, yet even on its own (not at all credible) accounting, spending cuts were used mainly to pay for tax cuts rather than deficit reduction. The transparent and obvious goal was to use deficit fears to impose a vision of small government and low taxes, especially on the wealthy.

 

 

 

So the House budget proposal revealed a yawning gap between the two parties’ priorities. And it revealed a deep difference in views about how the world works.

When the proposal was released, it was praised as a “wonk-approved” plan that had been run by the experts. But the “experts” in question, it turned out, were at the Heritage Foundation, and few people outside the hard right found their conclusions credible. In the words of the consulting firm Macroeconomic Advisers — which makes its living telling businesses what they need to know, not telling politicians what they want to hear — the Heritage analysis was “both flawed and contrived.” Basically, Heritage went all in on the much-refuted claim that cutting taxes on the wealthy produces miraculous economic results, including a surge in revenue that actually reduces the deficit.

 

 

By the way, Heritage is always like this. Whenever there’s something the G.O.P. doesn’t like — say, environmental protection — Heritage can be counted on to produce a report, based on no economic model anyone else recognizes, claiming that this policy would cause huge job losses. Correspondingly, whenever there’s something Republicans want, like tax cuts for the wealthy or for corporations, Heritage can be counted on to claim that this policy would yield immense economic benefits.

 

The point is that the two parties don’t just live in different moral universes, they also live in different intellectual universes, with Republicans in particular having a stable of supposed experts who reliably endorse whatever they propose.

So when pundits call on the parties to sit down together and talk, the obvious question is, what are they supposed to talk about? Where’s the common ground?

Eventually, of course, America must choose between these differing visions. And we have a way of doing that. It’s called democracy.

Now, Republicans claim that last year’s midterms gave them a mandate for the vision embodied in their budget. But last year the G.O.P. ran against what it called the “massive Medicare cuts” contained in the health reform law. How, then, can the election have provided a mandate for a plan that not only would preserve all of those cuts, but would go on, over time, to dismantle Medicare completely?

 

For what it’s worth, polls suggest that the public’s priorities are nothing like those embodied in the Republican budget. Large majorities support higher, not lower, taxes on the wealthy. Large majorities — including a majority of Republicans — also oppose major changes to Medicare. Of course, the poll that matters is the one on Election Day. But that’s all the more reason to make the 2012 election a clear choice between visions.

 

Which brings me to those calls for a bipartisan solution. Sorry to be cynical, but right now “bipartisan” is usually code for assembling some conservative Democrats and ultraconservative Republicans — all of them with close ties to the wealthy, and many who are wealthy themselves — and having them proclaim that low taxes on high incomes and drastic cuts in social insurance are the only possible solution.

 

This would be a corrupt, undemocratic way to make decisions about the shape of our society even if those involved really were wise men with a deep grasp of the issues. It’s much worse when many of those at the table are the sort of people who solicit and believe the kind of policy analyses that the Heritage Foundation supplies.

 

 

So let’s not be civil. Instead, let’s have a frank discussion of our differences. In particular, if Democrats believe that Republicans are talking cruel nonsense, they should say so — and take their case to the voters.

 

Lasciamo stare la correttezza[44], di Paul Krugman

New York Times 17 aprile 2011

 

La scorsa settimana, il Presidente Obama ha offerto una vigorosa difesa dei valori del suo Partito – ovvero, dell’eredità del New Deal e della Great Society[45]. Subito dopo, come spesso accade quando i Democratici assumono posizioni di principio, i ‘guardiani’ del  civile confronto politico[46] sono venuti in forze allo scoperto. Il Presidente che avevamo ascoltato sarebbe stato troppo partigiano; egli deve trattare i suoi avversari con rispetto; dovrebbe portarli a pranzo e trovare soluzioni sulla base del consenso.

Questa non è una buona idea. Ed è altrettanto importante che non sia una idea democratica.

Facciamo la storia di cosa è successo fino a questo punto.

Due settimane fa, i Repubblicani della Camera rilasciarono la loro grande proposta in materia di bilancio, rivendendola ad ossequienti addetti ai lavori come una presa di posizione oggettiva e dettata dalla necessità, non ideologica –  un documento che annunciava Quello Che Deve Essere Fatto per l’America.

Sennonché si trattava, in effetti, di un documento profondamente fazioso, come ci si poteva rendere conto sin dalla frase iniziale: “Dato che il Presidente ha fallito, i Repubblicani della Camera prenderanno il comando”. In esso si insisteva in modo martellante sul pericolo dei deficit, tuttavia, persino per gli aspetti specificamente contabili (niente affatto credibili), i tagli alla spesa pubblica venivano utilizzati principalmente per pagare sgravi fiscali e non per la riduzione del deficit. L’obbiettivo chiaro e trasparente era quello di usare i timori per il deficit al fine di imporre una visione da ‘piccolo’ governo[47] e bassa tassazione, specialmente nei confronti dei ceti più abbienti.

In tal modo, la proposta di bilancio alla Camera rivelava l’abisso esistente tra le priorità dei due partiti. E rivelava una diversità profonda dei loro punti di vista sul funzionamento effettivo delle cose quotidiane.

Al momento in cui la proposta venne resa nota, essa venne elogiata come un programma “di riconosciuta competenza” che era stato predisposto da persone esperte. Ma gli “esperti” in questione, come si venne a sapere, provenivano dalla Heritage Foundation[48], e poche persone trovarono le loro conclusioni credibili, a parte la destra più accanita. Con le parole della società di consulenza Macroeconomic Advisers – che si guadagna da vivere raccontando alle imprese cosa hanno bisogno di sapere, e non raccontando ai politici quello che hanno l’esigenza di ascoltare – la analisi dell’Heritage era “sia difettosa che forzata”. In ultima analisi, l’Heritage faceva sua la assai discussa pretesa secondo la quale gli sgravi fiscali sui ricchi producono risultati economici miracolosi, compresa una crescita delle entrate che di fatto riduce il deficit.

Va detto che Heritage si comporta spesso in questo modo. Ogni qual volta c’è qualcosa che ai Repubblicani non piace – diciamo, la protezione dell’ambiente – si può contare sul fatto che  Heritage sforni un rapporto, non fondato su alcun modello economico riconoscibile da altri, con il quale si afferma che questa politica potrebbe provocare una grande perdita di costi di lavoro. Di contro, ogni qual volta c’è qualcosa che i Repubblicani desiderano, come gli sgravi fiscali per i ricchi o per le grandi imprese, si può contare sul fatto che Heritage sostenga che una politica del genere produrrebbe immensi benefici economici.

Il punto è che i due partiti non solo vivono in universi separati dal punto di vista etico, ma vivono anche in diversi universi intellettuali, con i Repubblicani che in particolare dispongono di una scuderia di supposti esperti che in modo affidabile sostengono qualsiasi cosa essi propongano.

Cosicché, quando gli addetti ai lavori invitano i due partiti a sedersi assieme ed a parlare, la domanda naturale è: di cosa suppongono che si parli? Dov’è il loro terreno comune?

In ultima analisi, è chiaro, l’America deve scegliere tra quelle due diverse concezioni. Ed abbiamo un modo per farlo, che si chiama democrazia.

Ora, i Repubblicani affermano che le elezioni di medio-termine dell’anno passato hanno conferito loro un mandato per la concezione che è contenuta nel loro bilancio. Ma l’anno passato i Repubblicani si scontravano contro quelli che definivano “i tagli massici su Medicare” contenuti nella legge di riforma sanitaria. Come possono, dunque, le elezioni aver fornito un mandato per un programma che non solo conserverebbe tutti quei tagli, ma procederebbe, nel tempo, allo smantellamento integrale di Medicare?

Per quello che valgono, i sondaggi suggeriscono che le priorità dell’opinione pubblica non sono quelle contenute nel bilancio dei Repubblicani. Una ampia maggioranza si dichiara a favore di una tassazione superiore, non inferiore, sui ceti più abbienti. Larghe maggioranze – compresa una maggioranza di repubblicani – si oppongono anche ad importanti cambiamenti su Medicare. Naturalmente, il sondaggio che conta è quello del giorno delle elezioni. Tanto più questa è una ragione per fare delle elezioni del 2012 una chiara occasione di scelta tra le due concezioni.

Il che mi riporta al tema di coloro che sostengono soluzioni bipartisan. Mi dispiace apparire cinico, ma al momento “bipartisan” è normalmente una espressione in codice per indicare l’alleanza tra alcuni democratici conservatori ed i repubblicani ultraconservatori – che hanno tutti strette relazioni con i ceti abbienti e molti dei quali sono ricchi in prima persona – nonché per ottenere che essi dichiarino che le basse tasse sui redditi elevati ed i drastici tagli alla sicurezza sociale sono l’unica soluzione possibile.

Questo sarebbe un modo degradante e non democratico di prendere decisioni sulla configurazione della nostra società, anche se le persone implicate fossero effettivamente persone sagge e dotate di una profonda padronanza sui problemi in questione. Peggio ancora, quando molti di coloro che siedono al tavolo sono quel tipo di persone che sollecitano e fanno proprie le analisi politiche del genere di quelle fornite dalla Heritage Foundation.

Dunque, lasciamo stare la correttezza. Piuttosto, cerchiamo di avere un confronto franco sulle nostre divergenze. In particolare, se i Democratici credono che i Repubblicani stiano discutendo nei termini di una insensata crudeltà sociale, dovrebbero dirlo – e portare le loro ragioni agli elettori. 

 

 

 

 

Patients Are Not Consumers

By PAUL KRUGMAN
Published: April 21, 2011

 

Earlier this week, The Times reported on Congressional backlash against the Independent Payment Advisory Board, a key part of efforts to rein in health care costs. This backlash was predictable; it is also profoundly irresponsible, as I’ll explain in a minute.

 

But something else struck me as I looked at Republican arguments against the board, which hinge on the notion that what we really need to do, as the House budget proposal put it, is to “make government health care programs more responsive to consumer choice.”

Here’s my question: How did it become normal, or for that matter even acceptable, to refer to medical patients as “consumers”? The relationship between patient and doctor used to be considered something special, almost sacred. Now politicians and supposed reformers talk about the act of receiving care as if it were no different from a commercial transaction, like buying a car — and their only complaint is that it isn’t commercial enough.

What has gone wrong with us?

About that advisory board: We have to do something about health care costs, which means that we have to find a way to start saying no. In particular, given continuing medical innovation, we can’t maintain a system in which Medicare essentially pays for anything a doctor recommends. And that’s especially true when that blank-check approach is combined with a system that gives doctors and hospitals — who aren’t saints — a strong financial incentive to engage in excessive care.

Hence the advisory board, whose creation was mandated by last year’s health reform. The board, composed of health-care experts, would be given a target rate of growth in Medicare spending. To keep spending at or below this target, the board would submit “fast-track” recommendations for cost control that would go into effect automatically unless overruled by Congress.

 

 

Before you start yelling about “rationing” and “death panels,” bear in mind that we’re not talking about limits on what health care you’re allowed to buy with your own (or your insurance company’s) money. We’re talking only about what will be paid for with taxpayers’ money. And the last time I looked at it, the Declaration of Independence didn’t declare that we had the right to life, liberty, and the all-expenses-paid pursuit of happiness.

And the point is that choices must be made; one way or another, government spending on health care must be limited.

 

Now, what House Republicans propose is that the government simply push the problem of rising health care costs on to seniors; that is, that we replace Medicare with vouchers that can be applied to private insurance, and that we count on seniors and insurance companies to work it out somehow. This, they claim, would be superior to expert review because it would open health care to the wonders of “consumer choice.”

 

What’s wrong with this idea (aside from the grossly inadequate value of the proposed vouchers)? One answer is that it wouldn’t work. “Consumer-based” medicine has been a bust everywhere it has been tried. To take the most directly relevant example, Medicare Advantage, which was originally called Medicare + Choice, was supposed to save money; it ended up costing substantially more than traditional Medicare. America has the most “consumer-driven” health care system in the advanced world. It also has by far the highest costs yet provides a quality of care no better than far cheaper systems in other countries.

 

But the fact that Republicans are demanding that we literally stake our health, even our lives, on an already failed approach is only part of what’s wrong here. As I said earlier, there’s something terribly wrong with the whole notion of patients as “consumers” and health care as simply a financial transaction.

 

Medical care, after all, is an area in which crucial decisions — life and death decisions — must be made. Yet making such decisions intelligently requires a vast amount of specialized knowledge. Furthermore, those decisions often must be made under conditions in which the patient is incapacitated, under severe stress, or needs action immediately, with no time for discussion, let alone comparison shopping.

 

That’s why we have medical ethics. That’s why doctors have traditionally both been viewed as something special and been expected to behave according to higher standards than the average professional. There’s a reason we have TV series about heroic doctors, while we don’t have TV series about heroic middle managers.

The idea that all this can be reduced to money — that doctors are just “providers” selling services to health care “consumers” — is, well, sickening. And the prevalence of this kind of language is a sign that something has gone very wrong not just with this discussion, but with our society’s values.

 

I pazienti non sono consumatori, di Paul Krugman

New York Times 21 aprile 2011

 

Agli inizi di questa settimana, The Times ha dato notizia della forte reazione negativa del Congresso nei confronti del Consiglio Indipendente di Consulenza sui Pagamenti, un punto chiave dei tentativi di mettere sotto controllo i costi della assistenza sanitaria. Era una reazione prevedibile; essa è anche del tutto irresponsabile, e lo spiegherò tra un attimo.

Ma qualcos’altro mi ha colpito quando ho constatato gli argomenti dei Repubblicani contro il Consiglio, che dipende dal concetto secondo il quale, come afferma la proposta di bilancio della Camera, abbiamo bisogno di “rendere i programmi governativi sulla assistenza sanitaria più ricettivi verso le scelte dei consumatori”.

Il mio problema è il seguente: come è diventato normale, o per quell’aspetto persino accettabile, riferirsi ai pazienti come “consumatori”? Eravamo abituati a considerare la relazione tra il dottore ed il medico come qualcosa di speciale, quasi di sacro. Oggi i politici ed i sedicenti riformatori parlano dell’atto del ricevere cure come se non vi fosse alcuna differenza con una normale transazione commerciale, come acquistare un’autovettura – e l’unica loro lamentela è che non sarebbe sufficientemente commerciale.

Che cosa c’è successo di sbagliato?

Per quanto riguarda il Consiglio di consulenza: noi dobbiamo fare qualcosa sui costi della assistenza sanitaria, il che significa che dobbiamo trovare un modo per cominciare a dire dei no. In particolare, considerata la continua innovazione medica, non possiamo mantenere un sistema nel quale Medicare sostanzialmente paga per ogni cosa raccomandata da un dottore. La qualcosa è particolarmente vera nel momento in cui quel metodo da ‘assegno-in-bianco’ si combina con un sistema che fornisce ai medici generici ed ospedalieri – che non sono santi – un forte incentivo finanziario ad impegnarsi in cure eccessive.

Da qua il Consiglio di consulenza, la cui costituzione era stata stabilita dalla riforma sanitaria dell’anno passato. Al Consiglio, composto da esperti di assistenza sanitaria, verrebbe dato l’obbiettivo di un tasso di crescita della spesa per Medicare da rispettare. Per mantenere la spesa in quell’obbiettivo programmato, o anche sotto di esso, il Consiglio dovrebbe disporre raccomandazioni di ‘rapido-effetto’ sul controllo dei costi che produrrebbero conseguenze automatiche, purché non eccepite da parte del Congresso.

Prima di gridare al “razionamento” ed ai “tribunali della morte”[49], tenete di conto che non stiamo parlando di limiti alla possibilità di ciascuno di acquistare cure sanitarie con il proprio denaro, o con quello della propria assicurazione. Stiamo solo parlando del fatto che quelle cure vengano pagate dai contribuenti. E, l’ultima volta che ci ho dato un’occhiata, la Dichiarazione di Indipendenza non recita che noi avremmo il diritto alla vita, alla libertà, ed alla ricerca della felicità con tutte le spese pagate.

Il punto è che quelle scelte devono essere fatte: in un modo o nell’altro la spesa governativa sulla assistenza sanitaria deve essere limitata.

Ora, quello che i Repubblicani della Camera propongono è semplicemente che il governo avanzi il problema dei costi crescenti della assistenza nel caso degli anziani; cioè, che si debba sostituire Medicare con vouchers collegati alle assicurazioni private, e si faccia conto sul fatto che gli anziani e le compagnie assicuratrici si regolino in qualche modo. Questa soluzione, sostengono, sarebbe superiore a quella della supervisione degli esperti, poiché aprirebbe l’assistenza sanitaria alle meraviglie della “scelta del consumatore”.

Cosa c’è di sbagliato in questa idea (a parte il valore scandalosamente inadeguato dei vouchers proposti)? Una risposta è che essa non funzionerebbe. La medicina “basata sul consumatore” è stata un fallimento ovunque sia stata tentata. Prendendo l’esempio più direttamente attinente, Medicare Advantage[50], che alle origini veniva chiamato ‘Medicare + Scelta’, si supponeva comportasse un risparmio; esso ha finito per costare sostanzialmente di più del tradizionale Medicare. L’America ha il sistema di assistenza sanitaria più ‘dipendente’ dai consumatori di tutto il mondo avanzato. Ha anche di gran lunga i costi più elevati, pur fornendo una qualità della assistenza che non è migliore di quella di sistemi più economici in altri paesi.

Ma il fatto che i Repubblicani stiano chiedendo che letteralmente si scommetta sulla nostra salute, ed anche sulle nostre vite, sulla base di un metodo fallito, è solo una parte di ciò che c’è di sbagliato. Come ho detto in precedenza, c’è qualcosa di terribilmente inaccettabile nell’intero concetto dei pazienti come “consumatori” e della assistenza sanitaria ridotta ad una transazione finanziaria.

L’assistenza medica, dopo tutto, è un’area nelle quale devono essere prese decisioni cruciali, decisioni di vita o di morte. Inoltre, per prendere tali decisioni in modo accorto, è necessario un grande bagaglio di conoscenze specializzate. Oltretutto, quelle decisioni devono essere spesso assunte in condizioni nelle quali il paziente non è nelle condizioni di intendere e di volere, è sottoposto ad una grave tensione, o ha bisogno di un intervento immediato, senza che vi sia alcun tempo per discutere: non c’è alcun confronto possibile con lo shopping.

Questo è il motivo per il quale abbiamo un’etica della medicina. Questa è la ragione per la quale i medici sono stati considerati tradizionalmente come individui speciali, e ci si è sempre attesi da loro un comportamento in linea con standards più elevati della media dei professionisti. Questa è la ragione per la quale abbiamo serie televisive su medici eroici, mentre non abbiamo serie televisive sui piccoli impresari eroici.

L’idea che tutto questo possa essere ‘monetizzato’ – che i dottori siano semplicemente dei ‘fornitori’ che vendono servizi ai ‘consumatori’ della assistenza sanitaria – è davvero ripugnante. E il fatto che prevalga un linguaggio di questo genere è una prova che qualcosa è andato davvero storto, non solo in questo dibattito, ma nei valori della nostra società. 

 

 

 

 

 

Let’s Take a Hike

By PAUL KRUGMAN
Published: April 24, 2011

 

When I listen to current discussions of the federal budget, the message I hear sounds like this: We’re in crisis! We must take drastic action immediately! And we must keep taxes low, if not actually cut them further!

You have to wonder: If things are that serious, shouldn’t we be raising taxes, not cutting them?

My description of the budget debate is in no way an exaggeration. Consider the Ryan budget proposal, which all the Very Serious People assured us was courageous and important. That proposal begins by warning that “a major debt crisis is inevitable” unless we confront the deficit. It then calls, not for tax increases, but for tax cuts, with taxes on the wealthy falling to their lowest level since 1931.

And because of those large tax cuts, the only way the Ryan proposal can even claim to reduce the deficit is through savage cuts in spending, mainly falling on the poor and vulnerable. (A realistic assessment suggests that the proposal would actually increase the deficit.)

President Obama’s proposal is a lot better. At least it calls for raising taxes on high incomes back to Clinton-era levels. But it preserves the rest of the Bush tax cuts — cuts that were originally sold as a way to dispose of a large budget surplus. And, as a result, it still relies heavily on spending cuts, even as it falls short of actually balancing the budget.

 

 

So why isn’t someone offering a proposal reflecting the reality that the Bush tax cuts were a huge mistake, and suggesting that increased revenue play a major role in deficit reduction? Actually, someone is — and I’ll get to that in a moment. First, though, let’s talk about the current state of American taxes.

From the tone of much budget discussion, you might think that we were groaning under crushing, unprecedented levels of taxation. The reality is that effective federal tax rates at every level of income have fallen significantly over the past 30 years, especially at the top. And, over all, U.S. taxes are much lower as a percentage of national income than taxes in most other wealthy nations.

 

The point is that we aren’t that heavily taxed, either by historical standards or in comparison with other nations. So if you’re truly horrified by the budget deficit, why not propose tax increases as part of the solution?

Wait, there’s more. The core of the Ryan proposal is a plan to privatize and defund Medicare. Yet this would do nothing to reduce the deficit over the next 10 years, which is why all the near-term deficit reduction comes from brutal reductions in aid to the needy and unspecified cuts in discretionary spending. Tax increases, by contrast, can be fast-acting remedies for red ink.

 

And that’s why the only major budget proposal out there offering a plausible path to balancing the budget is the one that includes significant tax increases: the “People’s Budget” from the Congressional Progressive Caucus, which — unlike the Ryan plan, which was just right-wing orthodoxy with an added dose of magical thinking — is genuinely courageous because it calls for shared sacrifice.

 

True, it increases revenue partly by imposing substantially higher taxes on the wealthy, which is popular everywhere except inside the Beltway. But it also calls for a rise in the Social Security cap, significantly raising taxes on around 6 percent of workers. And, by rescinding many of the Bush tax cuts, not just those affecting top incomes, it would modestly raise taxes even on middle-income families.

 

All of this, combined with spending cuts mostly focused on defense, is projected to yield a balanced budget by 2021. And the proposal achieves this without dismantling the legacy of the New Deal, which gave us Social Security, and the Great Society, which gave us Medicare and Medicaid.

 

But if the progressive proposal has all these virtues, why isn’t it getting anywhere near as much attention as the much less serious Ryan proposal? It’s true that it has no chance of becoming law anytime soon. But that’s equally true of the Ryan proposal.

The answer, I’m sorry to say, is the insincerity of many if not most self-proclaimed deficit hawks. To the extent that they care about the deficit at all, it takes second place to their desire to do precisely what the People’s Budget avoids doing, namely, tear up our current social contract, turning the clock back 80 years under the guise of necessity. They don’t want to be told that such a radical turn to the right is not, in fact, necessary.

 

But, it isn’t, as the progressive budget proposal shows. We do need to bring the deficit down, although we aren’t facing an immediate crisis. How we go about stemming the tide of red ink is, however, a choice — and by making tax increases part of the solution, we can avoid savaging the poor and undermining the security of the middle class.  

 

Un colpo d’ala[51], di Paul Krugman

New York Times 24 aprile 2011

 

 

Quando ascolto i dibattiti in corso sul bilancio federale, il messaggio che mi arriva è il seguente: siamo in crisi! Occorre subito una iniziativa decisa! Dobbiamo tener basse le tasse, e magari[52] tagliarle in un secondo tempo!

 

Pensateci: se le cose sono così serie, non dovremmo alzare le tasse, anziché tagliarle?

 

La mia descrizione del dibattito sul bilancio non è affatto esagerata. Si consideri la proposta di bilancio di Ryan, che tutte le Persone Davvero Serie[53] ci assicurano essere coraggiosa e importante. Quella proposta prende spunto dal fatto che “una seria crisi da debito è inevitabile”. Dopodiché si pronuncia non per incrementi fiscali, ma per sgravi, con le tasse sui ceti abbienti che ricadrebbero al livello più basso dal 1931.

 

 

Ed a causa di questi ampi sgravi, l’unica soluzione che resta[54] alla proposta di Ryan per ridurre il deficit è quella di tagli selvaggi alla spesa pubblica, che vanno a colpire i poveri ed i più deboli (una stima realistica peraltro suggerisce che la proposta aumenterebbe il deficit).

 

La proposta del Presidente Obama è assai più ragionevole. Almeno si pronuncia per un ritorno della tassazione sui redditi elevati ai livelli più alti del periodo di Clinton. Ma essa mantiene tutti gli altri sgravi fiscali del periodo di Bush – tagli che all’origine vennero spiegati[55] come un modo per sbarazzarsi di un ampio surplus di bilancio. Nei suoi effetti, anch’essa si affida a tagli pesanti alla spesa pubblica, anche se non si propone il pieno equilibrio di bilancio.

 

Perché dunque non c’è nessuno che avanza una proposta che rifletta il dato di fatto secondo il quale gli sgravi di Bush furono un errore grave, e che spieghi che l’incremento delle entrate gioca un ruolo importante nella riduzione del deficit? In realtà, qualcuno c’è, e ci verrò tra un momento. Ma consentitemi prima di intrattenermi sulla attuale condizione fiscale dell’America.

Dal tono di gran parte del dibattito, si potrebbe ritenere che gli americani stiano scricchiolando sotto livelli fiscali insopportabili e senza precedenti. La realtà è che le effettive tasse federali per ogni tipologia di reddito sono, nei trent’anni trascorsi, cadute in modo significativo, in particolare per i redditi più alti. E, soprattutto, le tasse negli Stati Uniti sono, in percentuale sul reddito nazionale, assai più basse di gran parte delle altre nazioni ricche.

Il fatto è che noi non siamo così pesantemente tassati, sia secondo gli standards storici che sulla base di un confronto con altre nazioni. Se, dunque, si è atterriti in buona fede dal deficit di bilancio, perché non si propone, come un aspetto della soluzione,  un aumento delle tasse?

Aspettate, perché c’è dell’altro. Il cuore della proposta di Ryan è un programma per privatizzare e togliere finanziamenti a Medicare. Tuttavia, in questo modo non si produrrebbe una riduzione del deficit nel corso dei prossimi dieci anni, e questo è il motivo per il quale tutta la riduzione del deficit a breve termine deriva da tagli brutali negli aiuti alle persone bisognose ed alla spesa pubblica discrezionale. Incrementi fiscali, invece, sarebbero rimedi di rapida efficacia  per il passivo del bilancio.

E questa è la ragione per la quale l’unica importante proposta per un percorso credibile di riequilibrio di bilancio è quella che include significativi incrementi fiscali; ovvero, il “Bilancio della Nazione” proposto dal Raggruppamento dei Progressisti del Congresso[56], che è l’unica proposta effettivamente coraggiosa, giacché si pronuncia per sacrifici condivisi (diversamente dal piano Ryan, che ha rappresentato semplicemente l’ortodossia della destra con una dose aggiuntiva di pensiero magico[57]).  

E’ vero, quella proposta accresce le entrate in parte per l’effetto della imposizione di tasse sostanzialmente più elevate sui ricchi, la qualcosa è popolare dappertutto, ad eccezione che nei quartieri alti di Washington[58]. Ma essa si pronuncia anche per una crescita del tetto della Previdenza Sociale, con significativi incrementi fiscali per circa il 6 per cento dei lavoratori. Inoltre, dismettendo gran parte degli sgravi fiscali di Bush, e non solo quelli riguardanti i redditi elevati, essa accrescerebbe in misura modesta le tasse anche sulle famiglie a medio reddito.

Tutto questo, in combinazione con tagli alla spesa soprattutto focalizzati sulla difesa, nella prospettiva di ottenere un bilancio in equilibrio nel 2021. La qualcosa verrebbe ottenuta senza alcuno smantellamento dell’eredità del New Deal, che ci portò la Previdenza Sociale, né della Great Society[59], che ci dette Medicare e Medicaid[60].

 

Ma, se la proposta dei Progressisti ha tutte queste virtù, perché non sta ottenendo una attenzione neppure paragonabile a quella della molto meno seria proposta di Ryan? E’ vero che essa non ha alcuna possibilità di diventare legge in tempi brevi. Ma quello è vero anche per la proposta di Ryan.

La risposta, mi dispiace dirlo, è l’insincerità di molti se non di quasi tutti i sedicenti ‘falchi’ del deficit. Dato che essi non si preoccupano affatto del deficit, esso viene in second’ordine rispetto alla loro vera intenzione di realizzare proprio quello che “Il Bilancio della Nazione” impedisce che accada, ovvero, letteralmente, il fare a pezzi il nostro attuale contratto sociale, riportando l’orologio indietro di 80 anni nella forma di uno stato di necessità. Essi non vogliono sentirsi dire che una svolta a destra così radicale non è, nei fatti, necessaria.

   

E invece non lo è, come dimostra la proposta di bilancio dei progressisti. Abbiamo effettivamente la necessità di abbassare il deficit, seppure non siamo dinanzi ad una crisi incombente. Tuttavia, il modo in cui ci comportiamo nel contrastare l’ondata del passivo di bilancio, è una scelta; e facendo diventare gli incrementi fiscali parte della soluzione, possiamo evitare di imperversare sui poveri e di mettere a repentaglio la sicurezza dei ceti medi.

 

 

 

 

The Intimidated Fed

By PAUL KRUGMAN
Published: April 28, 2011

Last month more than 14 million Americans were unemployed by the official definition — that is, seeking work but unable to find it. Millions more were stuck in part-time work because they couldn’t find full-time jobs. And we’re not talking about temporary hardship. Long-term unemployment, once rare in this country, has become all too normal: More than four million Americans have been out of work for a year or more.

Given this dismal picture, you might have expected unemployment, and what to do about it, to have been a major focus of Wednesday’s press conference with Ben Bernanke, the chairman of the Federal Reserve. And it should have been. But it wasn’t.

After the conference, Reuters put together a “word cloud” of Mr. Bernanke’s remarks, a visual representation of the frequency with which he used various words. The cloud is dominated by the word “inflation.” “Unemployment,” in much smaller type, is tucked in the background.

This misplaced emphasis wasn’t entirely Mr. Bernanke’s fault, since he was responding to questions — and those questions focused much more on inflation than on unemployment. But that focus was, in itself, a symptom of the extent to which Washington has lost interest in the plight of the unemployed. And the Bernanke Fed, which should be taking a firm stand against these skewed priorities, is instead letting itself be bullied into following the herd.

 

 

Some background: The Fed normally takes primary responsibility for short-term economic management, using its influence over interest rates to cool the economy when it’s running too hot, which raises the threat of inflation, and to heat it up when it’s running too cold, leading to high unemployment. And the Fed has more or less explicitly indicated what it considers a Goldilocks outcome, neither too hot nor too cold: inflation at 2 percent or a bit lower, unemployment at 5 percent or a bit higher.

But Goldilocks has left the building, and shows no sign of returning soon. The Fed’s latest forecasts, unveiled at that press conference, show low inflation and high unemployment for the foreseeable future.

 

True, the Fed expects inflation this year to run a bit above target, but Mr. Bernanke declared (and I agree) that we’re looking at a temporary bulge from higher raw material prices; measures of underlying inflation remain well below target, and the forecast sees inflation falling sharply next year and remaining low at least through 2013.

Meanwhile, as I’ve already pointed out, unemployment — although down from its 2009 peak — remains devastatingly high. And the Fed expects only slow improvement, with unemployment at the end of 2013 expected to still be around 7 percent.

It all adds up to a clear case for more action. Yet Mr. Bernanke indicated that he has done all he’s likely to do. Why?

He could have argued that he lacks the ability to do more, that he and his colleagues no longer have much traction over the economy. But he didn’t. On the contrary, he argued that the Fed’s recent policy of buying long-term bonds, generally referred to as “quantitative easing,” has been effective. So why not do more?

Mr. Bernanke’s answer was deeply disheartening. He declared that further expansion might lead to higher inflation.

What you need to bear in mind here is that the Fed’s own forecasts say that inflation will be below target over the next few years, so that some rise in inflation would actually be a good thing, not a reason to avoid tackling unemployment. Those forecasts could, of course, be wrong, but they could be too high as well as too low.

 

The only way to make sense of Mr. Bernanke’s aversion to further action is to say that he’s deathly afraid of overshooting the inflation target, while being far less worried about undershooting — even though doing too little means condemning millions of Americans to the nightmare of long-term unemployment.

 

What’s going on here? My interpretation is that Mr. Bernanke is allowing himself to be bullied by the inflationistas: the people who keep seeing runaway inflation just around the corner and are undeterred by the fact that they keep on being wrong.

Lately the inflationistas have seized on rising oil prices as evidence in their favor, even though — as Mr. Bernanke himself pointed out — these prices have nothing to do with Fed policy. The way oil prices are coloring the discussion led the economist Tim Duy to suggest, sarcastically, that basic Fed policy is now to do nothing about unemployment “because some people in the Middle East are seeking democracy.”

 

But I’d put it differently. I’d say that the Fed’s policy is to do nothing about unemployment because Ron Paul is now the chairman of the House subcommittee on monetary policy.

So much for the Fed’s independence. And so much for the future of America’s increasingly desperate jobless. 

 

La Fed intimidita, di Paul Krugman

New York Times 28 aprile 2011

 

Il mese scorso più di 14 milioni di americani erano, secondo la definizione ufficiale disoccupati – cioè, cercavano lavoro ma erano incapaci di trovarlo. Altri milioni sono bloccati in lavori a tempo parziale perché non troverebbero posti a tempo pieno. E non stiamo parlando di difficoltà temporanee. La disoccupazione di lungo periodo, una volta rara in questo paese, è diventata sin troppo normale: più di quattro milioni di americani sono rimasti fuori dal lavoro per un anno o più.

Dato questo triste quadro, ci si sarebbe aspettati che la disoccupazione, e ciò che si può fare per essa, avrebbe avuto una importante considerazione nell’incontro con la stampa di mercoledì di Ben Bernanke. Così avrebbe dovuto essere. Ma così non è stato.

Dopo la conferenza, la Reuters ha fornito una rappresentazione visiva nella forma di una nuvoletta delle osservazioni di Bernanke, ovvero delle parole che egli ha usato con maggiore frequenza[61]. La nuvola è dominata dalla parole “inflazione”. La parola “disoccupazione” ha caratteri molto più piccoli, nascosta sul fondo.

L’enfasi mal riposta non è stata solo colpa di Bernanke, dal momento che egli stava rispondendo a domande e le domande riguardavano molto di più l’inflazione che non la disoccupazione. Ma, in sé e per sé, la diversa attenzione è stata il sintomo della misura in cui Washington ha perso interesse alla condizione dei disoccupati. E la Fed di Bernanke, che dovrebbe prendere una posizione ferma contro queste priorità  pregiudiziali [62], si concede  invece di andar dietro al gregge.

 

 

Un passo indietro: normalmente alla Fed tocca la responsabilità primaria nella gestione economica di breve termine, utilizzando la sua influenza sui tassi di interesse per raffreddare l’economia quando essa si surriscalda, il che aumenta la minaccia di inflazione, e di riscaldarla quando è troppo fredda e produce elevata disoccupazione. E la Fed ha più o meno esplicitamente indicato quelli che considera – come nella favola di Riccioli d’Oro –  i migliori risultati attesi [63], una condizione né di surriscaldamento né di congelamento: inflazione al 2 per cento o un po’ sotto, disoccupazione al 5 per cento o un po’ sopra.

Però Riccioli d’Oro aveva abbandonato la casa degli orsi, né mostrava alcuna voglia di tornarci a beve. Le recenti previsioni della Fed, rese note nel corso della conferenza stampa, mostrano bassa inflazione ed elevata disoccupazione per il futuro prevedibile[64].

E’ vero, la Fed si aspetta che quest’anno l’inflazione si collochi un po’ sopra l’obbiettivo, ma Bernanke ha dichiarato (ed io concordo) che stiamo assistendo ad un rialzo temporaneo derivante dai prezzi più alti delle materie prime; i dati della inflazione sottostante restano sotto l’obbiettivo, e le previsioni mostrano un’inflazione in netta caduta l’anno prossimo, che resterà bassa almeno per il 2013.

Nel frattempo, come ho già sottolineato, la disoccupazione – sebbene più bassa del suo picco del 2009 – resta elevata in termini devastanti. E la Fed si aspetta soltanto un lento miglioramento, con una disoccupazione attesa per la fine del 2013 ancora attorno al 7 per cento.

Sono tutti chiari indizi che chiedono una più forte iniziativa. Tuttavia Bernanke ha dichiarato d’aver fatto tutto quello che poteva[65] fare. Perché?

Poteva dire che gli manca la possibilità per fare di più, che lui ed i suoi collaboratori non esercitano più una particolare presa sull’economia. Ma non l’ha fatto. Al contrario, ha sostenuto che la recente politica della Fed consistente nell’acquisto di bonds a lungo termine, definita di solito come “facilitazione quantitativa”, è stata efficace. Dunque, perché non fare di più?

La risposta di Bernanke è stata profondamente scoraggiante. Egli ha dichiarato che una ulteriore espansione potrebbe portare ad una inflazione più alta.

Si deve considerare che sono proprio le previsioni curate dalla Fed ad indicare che l’inflazione resterà i prossimi anni al di sotto dell’obbiettivo programmato, dunque che una qualche crescita nell’inflazione sarebbe in effetti una buona cosa, e non una ragione per evitare di misurarsi con la disoccupazione. Naturalmente, queste previsioni potrebbero essere sbagliate, ma come potrebbero essere troppo alte potrebbero anche essere troppo basse.

L’unico modo per dare un significato alla avversione di Bernanke per una iniziativa ulteriore, consiste nel dire che egli è mortalmente spaventato dalla possibilità che l’inflazione superi l’obbiettivo atteso, mentre è molto meno preoccupato dalla possibilità che si collochi al di sotto – anche se fare troppo poco significa condannare milioni di americani all’incubo di una disoccupazione di lungo periodo.

Cosa sta dunque accadendo? La mia interpretazione è che Bernanke si sta facendo intimorire dagli ‘inflazionisti’: coloro che continuano a vedere dietro l’angolo un’inflazione fuori controllo e non si scoraggiano per il fatto di continuare a sbagliare.

Recentemente, gli ‘inflazionisti’ si sono appigliati, come prova a loro favore, alla crescita dei prezzi del petrolio, anche se – come lo stesso Bernanke ha sottolineato – quei prezzi non hanno niente a che fare con la politica della Fed. Il modo in cui i prezzi del petrolio stanno vivacizzando il dibattito, ha consentito all’economista Tim Duy di suggerire, sarcasticamente, che la attuale politica della Fed sarebbe quella di non far niente per la disoccupazione “a causa del fatto che nel Medio Oriente c’è gente alla ricerca della democrazia”.

   

Ma io direi diversamente. Direi che la politica della Fed è quella di non far niente per la disoccupazione perché Ron Paul [66] è l’attuale Presidente del sottocomitato sulla politica monetaria della Camera dei Rappresentanti.

Tanto basta per l’indipendenza della Fed. E tanto basta per il futuro sempre più disperato dei disoccupati d’America.

      

 

 

 

Springtime for Bankers

By PAUL KRUGMAN
Published: May 1, 2011
  • Last year the G.O.P. pulled off two spectacular examples of bait-and-switch campaigning. Medicare, where the same people who screamed about death panels are now trying to dismantle the whole program, was the most obvious. But the same thing
    happened with regard to financial reform.

As you may recall, Republicans ran hard against bank bailouts. Among other things, they managed to convince a plurality of voters that the deeply unpopular bailout legislation proposed and passed by the Bush administration was enacted on President Obama’s watch.

And now they’re doing everything they can to ensure that there will be even bigger bailouts in years to come.

What does it take to limit future bailouts? Declaring that we’ll never do it again is no answer: when financial turmoil strikes, standing aside while banks fall like dominoes isn’t an option. After all, that’s what policy makers did in 1931, and the resulting banking crisis turned a mere recession into the Great Depression.

 

And let’s not forget that markets went into free fall when the Bush administration let Lehman Brothers go into liquidation. Only quick action — including passage of the much-hated bailout — prevented a full replay of 1931.

So what’s the solution? The answer is regulation that limits the frequency and size of financial crises, combined with rules that let the government strike a good deal when bailouts become necessary.

Remember, from the 1930s until the 1980s the United States managed to avoid large bailouts of financial institutions. The modern era of bailouts only began in the Reagan years, when politicians started dismantling 1930s-vintage regulation.

Moreover, regulation wasn’t updated as the financial system evolved. The institutions that were rescued in 2008-9 weren’t old-fashioned banks; they were complex financial empires, many of whose activities were effectively unregulated — and it was these unregulated activities that brought the U.S. economy to its knees.

 

Worse yet, officials lacked clear authority to seize these failing empires the way the F.D.I.C. can seize a conventional bank when it goes bust. That’s one reason the bailout looked so much like a giveaway: officials felt they lacked the legal tools to save the financial system without letting the people who created the crisis off the hook.

 

 

Last year Congressional Democrats enacted a financial reform bill that sought to close these gaps. The bill extended regulation in a number of ways: consumer protection, higher capital standards for major institutions, greater transparency for complex financial instruments. And it created new powers — “resolution authority” — to help officials drive a harder bargain in future crises.

 

There are many criticisms one can make of this legislation, which is arguably much too weak. And the Obama administration has frustrated many people with its too-lenient attitude toward Wall Street — exemplified by last week’s decision to exempt foreign-exchange swaps, a major source of dislocation in 2008, from regulation.

But Republicans are trying to undermine the whole thing.

Back in February G.O.P. legislators admitted frankly that they were trying to cripple financial reform by cutting off funding. And the recent House budget proposal, which calls for privatizing and voucherizing Medicare, also calls for eliminating resolution authority, in effect setting things up so that the bankers will get as good a deal in the next crisis as they got in 2008.

 

 

Of course, that’s not how Republicans put it. They claim that their goal is to “end the cycle of future bailouts,” under the general rubric of “ending corporate welfare.”

But as we’ve already seen, future bailouts will happen whatever today’s politicians say — and they’ll be bigger, more frequent and more expensive without effective regulation.

To see what’s really going on, follow the money. Wall Street used to favor Democrats, perhaps because financiers tend to be liberal on social issues. But greed trumps gay rights, and financial industry contributions swung sharply toward the Republicans in the 2010 elections. Apparently Wall Street, unlike the voters, had no trouble divining the party’s real intentions.

 

And one more thing: by standing in the way of regulations that would limit future financial crises, Republicans are giving further evidence that they don’t really care about budget deficits.

For our current deficit is overwhelmingly the result of the 2008 financial
crisis, which devastated revenue and
increased the cost of programs like unemployment insurance. And while we managed to avoid large direct bailout costs (a fact not appreciated in public debate), we might not be lucky next time.

 

 

More and bigger crises; more and bigger bailouts; more and bigger deficits. If you like that prospect, you should love what the G.O.P. is doing to financial reform.

 

Per i banchieri è primavera, di Paul Krugman

New York Times 1 maggio 2011

 

L’anno scorso il Partito Repubblicano lasciò due spettacolari esempi di una campagna elettorale condotta su ‘prodotti – civetta’[67]. Il più evidente fu quello di Medicare, dove le stesse persone che avevano gridato ai ‘tribunali della morte’ ora stanno tentando di smantellare l’intero programma.  Ma la medesima cosa accadde per la riforma del sistema finanziario.

Come ricorderete, i Repubblicani fecero molto chiasso contro i salvataggi delle banche. Tra le altre cose, essi riuscirono a convincere che la profondamente impopolare legislazione sui salvataggi, proposta ed approvata dalla amministrazione Bush, fosse stata deliberata sotto la amministrazione Obama.

Ed ora stanno cercando di far di tutto per assicurare che ci saranno salvataggi persino maggiori negli anni avvenire.

Cos’è che comporta un limite ai salvataggi futuri? Dichiarare che non se ne faranno più non è una risposta: quando si è colpiti dal disastro finanziario, starsene con le mani in mano mentre le banche cascano come tessere del domino non è una scelta possibile. Dopo tutto, quello fu quanto gli operatori politici fecero nel 1931, e la conseguente crisi bancaria trasformò una semplice recessione nella Grande Depressione.

Né si può dimenticare che i mercati finirono in caduta libera quando la amministrazione Bush lasciò che Lehman Brothers andasse in liquidazione. Solo una azione di emergenza – inclusa l’approvazione dei molto invisi salvataggi – prevenne una completa riedizione del 1931.

Qual’è, dunque, la soluzione? La risposta è: una regolamentazione che limiti frequenza e dimensioni delle crisi finanziarie, assieme a regole che consentano ai governi di concludere buoni accordi quando i salvataggi divengono necessari.

Ricordiamo che dal 1930 al 1980 gli Stati Uniti riuscirono ad evitare grandi salvataggi degli istituti finanziari. L’epoca moderna dei salvataggi ricominciò soltanto negli anni di Reagan, quando gli uomini politici presero a smantellare le regole del periodo degli anni ’30.

 

Inoltre, quelle regole non erano state aggiornate alla evoluzione del sistema finanziario. Gli istituti che vennero messi in salvo negli anni 2008-9 non erano banche della vecchia maniera; erano imperi finanziari complessi, molte attività dei quali erano  in realtà prive di ogni regolazione – e furono queste attività fuori da ogni regola che misero in ginocchio l’economia americana.

Peggio ancora, ai dirigenti pubblici mancava il potere effettivo di ridimensionare questi imperi finanziari nei modi nei quali la FDIC[68] può ridimensionare una banca  convenzionale quando va in bancarotta. Quella fu una ragione per la quale i salvataggi apparvero come delle donazioni: i dirigenti pubblici erano consapevoli di non avere gli strumenti legali per salvare il sistema finanziario senza consentire alle persone che avevano creato la crisi di farla franca[69].

Lo scorso anno i Democratici del Congresso promossero una legge di riforma del sistema finanziario con la quale si cercava di ridurre questi difetti. La proposta di legge aumentava le regole in un certo numero di casi: la protezione degli utenti, norme di capitalizzazioni più elevate per gli istituti principali, maggiore trasparenza nei casi di strumenti finanziari complessi. Inoltre, creava nuovi poteri – il cosiddetto “potere risolutivo” – che aiutassero i dirigenti pubblici a guidare con più forza i negoziati di crisi future.

A questa legge si possono fare varie critiche, giacché è probabile che sia troppo debole. E la amministrazione Obama ha deluso molta gente con la sua attitudine alla eccessiva indulgenza nei confronti di Wall Street – esemplificata dalla decisione della scorsa settimana di esentare da quelle regole gli scambi in valuta estera, che furono una delle principali cause nel dissesto del 2008.

Ma i Repubblicani stanno cercando semplicemente di far saltare tutto.

Nello scorso febbraio, i legislatori repubblicani ammisero francamente che stavano cercando di paralizzare la riforma del sistema finanziario con il blocco dei fondi. E la recente proposta di Bilancio alla Camera, con la quale si chiede la privatizzazione di Medicare e la sua sostituzione con il sistema dei ‘vouchers”[70], propone anche la eliminazione del “potere risolutivo”, in effetti configurando un assetto in conseguenza del quale i banchieri riceverebbero un trattamento, nella prossima crisi, altrettanto buono di quello che ricevettero nel 2008.

Naturalmente, i Repubblicani non la spiegano in questo modo. Sostengono che il loro obbiettivo sia quello di “chiudere il cerchio dei futuri salvataggi”, sotto la generale rubrica della “fine del regime assistenziale verso le imprese”.

Ma, come abbiamo già visto, nel futuro ci saranno salvataggi, qualsiasi cosa dicano gli uomini politici di oggi – e, senza alcuna efficace regolazione, saranno più imponenti, più frequenti e più costosi.

Per rendersi conto di cosa stia davvero accadendo, si segua l’andamento dei soldi. Wall Street aveva l’abitudine di favorire i Democratici, forse a causa del fatto che gli uomini delle finanze tendono ad essere liberali sulle questioni sociali. Ma l’avidità è più forte dei diritti dei gay, ed i contributi del settore finanziario si spostarono nettamente a vantaggio dei Repubblicani nelle elezioni del 2010. A quanto pare Wall Street, diversamente dagli elettori, non ha alcuna difficoltà ad interpretare le reali intenzioni di quel Partito.

C’è un altro aspetto: mettendosi di traverso ai regolamenti che limiterebbero le future crisi finanziarie, i  Repubblicani offrono una prova ulteriore del loro fondamentale disinteresse ai deficit del bilancio.

Infatti, il nostro deficit attuale è in modo schiacciante il risultato della crisi finanziaria del 2008, che ha prodotti effetti devastanti sulle entrate ed ha incrementato i costi di programmi quali quelli sulle assicurazioni di disoccupazione.  E mentre questa volta abbiamo cercato di evitare ampi costi diretti per i salvataggi (una circostanza non apprezzata nel dibattito pubblico), la prossima volta potremmo non essere fortunati.

Crisi ulteriori e più grandi; salvataggi ulteriori e più grandi; deficit ulteriori e più grandi. Se è una prospettiva di vostro gradimento, dovreste appassionarvi a quello che il Partito Repubblicano sta cercando fare della riforma del sistema finanziario.  

 

  

 

 

 

 

Fears and Failure

By PAUL KRUGMAN
Published: May 5, 2011

From G.D.P. to private-sector payrolls, from business surveys to new claims for unemployment insurance, key economic indicators suggest that the recovery may be sputtering.

And it wasn’t much of a recovery to start with. Employment has risen from its low point, but it has grown no faster than the adult population. And the plight of the unemployed continues to worsen: more than six million Americans have been out of work for six months or longer, and more than four million have been jobless for more than a year.

It would be nice if someone in Washington actually cared.

It’s not as if our political class is feeling complacent. On the contrary, D.C. economic discourse is saturated with fear: fear of a debt crisis, of runaway inflation, of a disastrous plunge in the dollar. Scare stories are very much on politicians’ minds.

 

Yet none of these scare stories reflect anything that is actually happening, or is likely to happen. And while the threats are imaginary, fear of these imaginary threats has real consequences: an absence of any action to deal with the real crisis, the suffering now being experienced by millions of jobless Americans and their families.

What does Washington currently fear? Topping the list is fear that budget deficits will cause a fiscal crisis any day now. In fact, a number of people — like Erskine Bowles and Alan Simpson, the co-chairmen of President Obama’s debt commission — have settled on a specific time frame: terrible things will happen within two years unless we make drastic spending cuts.

 

I have no idea where that two-year deadline comes from. After all, what we do in the next couple of years hardly matters at all for U.S. solvency, which mainly depends on what we’ll do in the long run about Medicare and taxes. And, for what it’s worth, actual investors — people putting real money on the line — are notably unworried about any near-term fiscal crisis: the Treasury Department continues to have no trouble selling debt and remains able to borrow very cheaply, indicating high confidence on the part of investors that debts will be repaid in full.

 

Do the scare-mongers even believe their own stories? Maybe not. As Jonathan Chait of The New Republic notes, the politicians most given to apocalyptic rhetoric about the deficit are also utterly opposed to any tax increase; they argue that debt is destroying America, but they’d rather let that happen than accept even a dime of higher taxes. Yet the inconsistency and probable insincerity of their fear-mongering hasn’t stopped it from having a huge effect on policy debate.

 

The deficit isn’t the only unfounded fear. I’ve written before about misguided inflation fear, but, for now, let me focus on a new issue that has suddenly begun to loom large in opinion pieces and remarks on talk shows: fear of a disastrous plunge in the dollar. (Who sends out the memos telling people what to worry about, and why don’t I get them?)

What you would never know from all the agitated dollar discussion is that the recent dollar slide is actually tiny compared with big drops in the past, notably under the administration of George W. Bush and during Ronald Reagan’s second term. And you’d also never know that those earlier dollar slides, far from hurting the economy, were beneficial, because they helped U.S. manufacturing compete on world markets.

 

Which brings me back to the destructive effect of focusing on invisible monsters. For the clear and present danger to the American economy isn’t what some people imagine might happen one of these days, it’s what is actually happening now.

 

Unemployment isn’t just blighting the lives of millions, it’s undermining America’s future. The longer this goes on, the more workers will find it impossible ever to return to employment, the more young people will find their prospects destroyed because they can’t find a decent starting job. It may not create excited chatter on cable TV, but the unemployment crisis is real, and it’s eating away at our society.

 

 

Yet any action to help the unemployed is vetoed by the fear-mongers. Should we spend modest sums on job creation? No way, say the deficit hawks, who threaten us with the purely hypothetical wrath of financial markets, and, in fact, demand that we slash spending now now now — which might well send us back into recession. Should the Federal Reserve do more to promote expansion? No, say the inflation and dollar hawks, who have been wrong again and again but insist that this time their dire warnings about runaway prices and a plunging dollar really will be vindicated.

 

So we’re paying a heavy price for Washington’s obsession with phantom menaces. By looking for trouble in all the wrong places, our political class is preventing us from dealing with the real crisis: the millions of American men and women who can’t find work.

 

Paure e fallimenti, di Paul Krugman

New York Times 5 maggio 2011

 

Dal PIL alle retribuzioni del settore privato, dalla indagini sulle imprese alle nuove richieste di assicurazione per la disoccupazione, gli indicatori chiave dell’economia indicano che è possibile che la ripresa proceda a sobbalzi.

E, tanto per cominciare, non c’è poi stata quella gran ripresa. L’occupazione è salita dal suo punto più basso, ma non è cresciuta più velocemente della popolazione adulta. E la difficile condizione dei disoccupati continua a peggiorare: più di sei milioni di americani sono rimasti fuori dal lavoro per sei mesi e più, e più di quattro milioni sono senza lavoro da più di un anno.

 

Sarebbe una buona cosa se a Washington qualcuno effettivamente se ne occupasse.

 

Non è che la nostra classe politica se ne compiaccia. Al contrario, il dibattito economico nella capitale è pieno di timori: paura per la crisi del debito, paura per l’inflazione fuori controllo, paura per la disastrosa caduta del dollaro. Storie allarmistiche occupano buona parte della testa degli uomini politici.

Tuttavia nessuna di queste storie allarmistiche riflette in alcun modo quanto sta effettivamente accadendo, o che è probabile che accada. E mentre le minacce sono immaginarie, la paura per queste immaginarie minacce ha conseguenze reali: una assenza di qualsivoglia iniziativa per fronteggiare la crisi vera, il patimento di cui stanno facendo esperienza milioni di americani senza lavoro e le loro famiglie.

Di cosa ha attualmente timore Washington? In cima alla lista c’è la paura che il deficit di bilancio provocherà prima o poi una crisi fiscale. Di fatto, un certo numero di persone – tra le quali Erskine Bowles ed Alan Simpson, i co-presidenti della commissione sul debito voluta da Obama – hanno concordato su un preciso orizzonte temporale: se non si mettono in atto drastici tagli alla spesa pubblica, entro due anni accadranno cose terribili.

 

Non ho alcuna idea da dove provenga questa scadenza dei due anni. Dopo tutto, quanto faremo nei prossimi due anni non influirà proprio per niente sulla solvibilità degli Stati Uniti, la quale principalmente dipende da quanto faremo nel lungo periodo su Medicare e sulle tasse. E, per quanto possa valere, gli investitori veri – la gente che mette moneta sonante nelle ordinazioni di titoli[71] – sono notoriamente non preoccupati di una qualche crisi fiscale a breve termine: il Dipartimento del Tesoro continua a non aver problemi nel vendere titoli di debito pubblico ed è ancora capace di indebitarsi a buon mercato, il che indica una fiducia elevata da parte degli investitori che quei titoli verranno pienamente ripagati.

Ma gli allarmisti credono davvero ai loro racconti? Può darsi di no. Come nota Jonathan Chait su The New Repubblic [72], gli uomini politici più dediti alla retorica  sul deficit sono anche quelli completamente contrari ad ogni incremento delle tasse: sostengono che il debito sta distruggendo l’America, ma sono piuttosto propensi a consentirlo piuttosto che accettare persino dieci centesimi di tasse più elevate. Tuttavia, l’inconsistenza e la probabile insincerità del loro allarmismo non ha impedito che esso avesse un vasto effetto sul dibattito politico.

Il deficit non è la sola paura priva di fondamento. Ho fatto sopra riferimento alla mal riposta paura dell’inflazione, ma, per il momento, fatemi concentrare su un nuovo tema che ha cominciato ad incombere minaccioso sugli articoli di opinione e sui commenti nei talk show: la paura di un crollo disastroso del dollaro (chi è che mette in circolazione gli avvisi che dicono alla gente di cosa ci si deve preoccupare, e perché io non riesco a procurarmeli?).

Quello che non verrete[73] mai a sapere da tutto l’agitato dibattito sul dollaro è che la sua recente flessione è effettivamente minuscola, a confronto con le grandi cadute del passato, specificamente sotto l’amministrazione di George W. Bush e durante il secondo mandato di Ronald Reagan.  E neanche saprete mai che quelle precedenti scivolate del dollaro, lungi dal danneggiare l’economia, furono benefiche, giacché aiutarono il settore manifatturiero degli Stati Uniti a competere sui mercati mondiali.

La qualcosa mi riconduce al tema dell’effetto distruttivo di questo fissarsi su mostri invisibili. Perché il pericolo chiaro e presente per l’economia americana non consiste in quello che alcuni individui si immaginano potrebbe un giorno o l’altro accadere, bensì in quello che sta effettivamente accadendo oggi.

La disoccupazione non sta soltanto rovinando le vite di milioni di persone, sta minando il futuro dell’America. Più a lungo si protrae questa situazione, più un numero sempre più grande di lavoratori troverà impossibile tornar mai ad una occupazione ed un numero sempre maggiore di giovani farà i conti con prospettive compromesse, poiché non riescono a trovare una prima occupazione dignitosa. Può darsi che non provochi l’eccitazione delle chiacchiere televisive, ma la crisi della disoccupazione è reale e sta distruggendo poco a poco la nostra società.   

Tuttavia, gli allarmisti hanno messo il veto verso qualsiasi iniziativa a sostegno dei disoccupati. Dovremmo spendere somme modeste per la creazione di posti di lavoro? Giammai, dicono i falchi del deficit, che ci mettono dinanzi alla minaccia della collera meramente ipotetica dei mercati finanziari, e, in sostanza, chiedono che si tagli con il massimo dell’urgenza la spesa pubblica, la qualcosa ci potrebbe davvero riportare alla recessione. La Federal Reserve dovrebbe promuovere maggiore espansione? No, dicono i falchi dell’inflazione e del dollaro, i quali hanno ripetutamente avuto torto, ma insistono che questa volta i loro terribili ammonimenti sui prezzi fuori controllo e sul crollo del dollaro troveranno effettiva conferma.

Stiamo, dunque, pagando un prezzo elevato alle ossessioni di Washington per le minacce fantasma. Andando a cercar guai in tutti i posti sbagliati, il nostro ceto politico ci impedisce di fare i conti con la crisi vera dei milioni di donne ed uomini americani che non riescono a trovare lavoro.

 

 

 

The Unwisdom of Elites

By PAUL KRUGMAN
Published: May 8, 2011

The past three years have been a disaster for most Western economies. The United States has mass long-term unemployment for the first time since the 1930s. Meanwhile, Europe’s single currency is coming apart at the seams. How did it all go so wrong?

 

Well, what I’ve been hearing with growing frequency from members of the policy elite — self-appointed wise men, officials, and pundits in good standing — is the claim that it’s mostly the public’s fault. The idea is that we got into this mess because voters wanted something for nothing, and weak-minded politicians catered to the electorate’s foolishness.

 

 

 

So this seems like a good time to point out that this blame-the-public view isn’t just self-serving, it’s dead wrong.

 

 

The fact is that what we’re experiencing right now is a top-down disaster. The policies that got us into this mess weren’t responses to public demand. They were, with few exceptions, policies championed by small groups of influential people — in many cases, the same people now lecturing the rest of us on the need to get serious. And by trying to shift the blame to the general populace, elites are ducking some much-needed reflection on their own catastrophic mistakes.

Let me focus mainly on what happened in the United States, then say a few words about Europe.

 

 

These days Americans get constant lectures about the need to reduce the budget deficit. That focus in itself represents distorted priorities, since our immediate concern should be job creation. But suppose we restrict ourselves to talking about the deficit, and ask: What happened to the budget surplus the federal government had in 2000?

 

 

The answer is, three main things. First, there were the Bush tax cuts, which added roughly $2 trillion to the national debt over the last decade. Second, there were the wars in Iraq and Afghanistan, which added an additional $1.1 trillion or so. And third was the Great Recession, which led both to a collapse in revenue and to a sharp rise in spending on unemployment insurance and other safety-net programs.

 

 

 

So who was responsible for these budget busters? It wasn’t the man in the street.

 

President George W. Bush cut taxes in the service of his party’s ideology, not in response to a groundswell of popular demand — and the bulk of the cuts went to a small, affluent minority.

 

 

Similarly, Mr. Bush chose to invade Iraq because that was something he and his advisers wanted to do, not because Americans were clamoring for war against a regime that had nothing to do with 9/11. In fact, it took a highly deceptive sales campaign to get Americans to support the invasion, and even so, voters were never as solidly behind the war as America’s political and pundit elite.

 

 

 

Finally, the Great Recession was brought on by a runaway financial sector, empowered by reckless deregulation. And who was responsible for that deregulation? Powerful people in Washington with close ties to the financial industry, that’s who. Let me give a particular shout-out to Alan Greenspan, who played a crucial role both in financial deregulation and in the passage of the Bush tax cuts — and who is now, of course, among those hectoring us about the deficit.

 

 

So it was the bad judgment of the elite, not the greediness of the common man, that caused America’s deficit. And much the same is true of the European crisis.

Needless to say, that’s not what you hear from European policy makers. The official story in Europe these days is that governments of troubled nations catered too much to the masses, promising too much to voters while collecting too little in taxes. And that is, to be fair, a reasonably accurate story for Greece. But it’s not at all what happened in Ireland and Spain, both of which had low debt and budget surpluses on the eve of the crisis.

 

 

The real story of Europe’s crisis is that leaders created a single currency, the euro, without creating the institutions that were needed to cope with booms and busts within the euro zone. And the drive for a single European currency was the ultimate top-down project, an elite vision imposed on highly reluctant voters.

 

 

Does any of this matter? Why should we be concerned about the effort to shift the blame for bad policies onto the general public?

 

One answer is simple accountability. People who advocated budget-busting policies during the Bush years shouldn’t be allowed to pass themselves off as deficit hawks; people who praised Ireland as a role model shouldn’t be giving lectures on responsible government.

 

 

But the larger answer, I’d argue, is that by making up stories about our current predicament that absolve the people who put us here there, we cut off any chance to learn from the crisis. We need to place the blame where it belongs, to chasten our policy elites. Otherwise, they’ll do even more damage in the years ahead.

 

L’incoscienza delle élites, di Paul Krugman

New York Times 8 maggio 2011

 

Gli ultimi tre anni sono stati un disastro per gran parte delle economie occidentali. Gli Stati Uniti conoscono una disoccupazione di massa di lungo periodo per la prima volta dagli anni ’30. Nel frattempo, la moneta unica europea sta perdendo pezzi[74]. Come è accaduto che tutto finisse in malora?

Ebbene, quello che sento con sempre maggiore frequenza da parte dell’élite politica – sedicenti persone sagge, dirigenti, esperti che godono della massima considerazione – è la pretesa che sia soprattutto dipeso dal fallimento delle amministrazioni pubbliche. L’idea è che siamo finiti in questo disastro perché gli elettori vogliono cose in cambio di niente, e perché uomini politici poco intelligenti sono pronti a soddisfare la stupidità dell’elettorato.

Sembra dunque venuto il momento per richiamare l’attenzione sul fatto che questa opinione che addossa tutta la colpa al pubblico non è soltanto egocentrica, è un errore fatale.

Il fatto è che ciò di cui stiamo facendo esperienza in questo momento è un disastro interamente provocato dai vertici[75]. Le politiche che ci hanno portato in questa grave situazione non sono state risposte a richieste della opinione pubblica. Sono state, con poche eccezioni, politiche delle quali si sono fatti paladini piccoli gruppi di persone influenti – in molti casi, gli stessi individui che ora danno lezioni a tutti gli altri sul bisogno di diventare seri. E tentando di trasferire la responsabilità sulla popolazione in generale, le élites stanno scansando una qualsiasi riflessione sui propri errori catastrofici, che sarebbe del tutto indispensabile.

In questi giorni agli americani sono impartite continue lezioni sul bisogno di ridurre il deficit di bilancio. In se stesso, quell’obbiettivo è indicativo di  priorità distorcenti, dal momento che la nostra preoccupazione immediata sarebbe quella di creare posti di lavoro. Ma supponiamo di ridurci a ragionare del deficit e chiediamoci: cosa è successo del surplus di bilancio che il governo federale realizzava nel 2000?

La risposta consiste in tre principali aspetti. Il primo, ci sono stati gli sgravi fiscali di Bush, che grosso modo aggiunsero due mila miliardi di dollari al debito nazionale nel corso del passato decennio. Il secondo, ci sono state le guerre in Iraq ed in Afghanistan che comportarono una aggiunta di 1.100 miliardi di dollari o giù di lì. E la terza è stata la Grande Recessione, che ha provocato sia un collasso nelle entrate che una crescita improvvisa nelle assicurazioni di disoccupazione e negli altri programmi della rete della sicurezza sociale.

Chi è stato, dunque, responsabile di questi danni rovinosi al bilancio? Non è stato certo l’uomo della strada.

Il Presidente George W. Bush tagliò le tasse in ossequio all’ideologia del suo Partito, non in risposta ad un ondata di richieste dell’opinione pubblica – e la maggior parte dei tagli furono a vantaggio di una minoranza piccola e benestante.

Nello stesso modo, il signor Bush scelse di invadere l’Iraq perché quello era quanto lui ed i suoi consiglieri intendevano fare, non perché gli americani reclamassero una guerra contro un regime che non aveva niente a che fare con l’Undici Settembre. In realtà, fu necessaria una campagna promozionale altamente ingannevole per ottenere che gli americani sostenessero l’invasione, ed anche così gli elettori non si schierarono mai dietro la guerra così compattamente come fece l’élite politica e degli esperti.

Infine, la Grande Recessione fu provocata da un sistema finanziario privo di controlli, reso più gagliardo da una deregolazione sconsiderata. E chi fu responsabile di questa deregolazione? Persone potenti di Washington con stretti legami con il sistema finanziario, questi furono i responsabili. Consentitemi una speciale menzione ad Alan Greenspan, che ebbe un ruolo cruciale sia nella deregolazione del sistema finanziario che nella vicenda degli sgravi fiscali di Bush – e che oggi, naturalmente, è tra coloro che fanno la voce grossa[76] a proposito del deficit.

 

Dunque, fu il giudizio sconsiderato dell’élite, non l’ingordigia dell’uomo comune, che provocò il deficit dell’America. E la stessa cosa è in gran parte vera per la crisi europea.

Non c’è bisogno di aggiungere che non è questo che sentirete dagli uomini politici europei. In questi tempi il racconto ufficiale in Europa è che i governi delle nazioni in crisi sono stati troppo ossequienti verso le masse, promettendo agli elettori troppo, mentre raccoglievano troppo poco in tasse. E questa, ad essere giusti, è una storia ragionevolmente calzante nel caso della Grecia. Ma non è affatto quello che è accaduto in Irlanda e in Spagna, i quali paesi avevano entrambi un debito modesto e surplus di bilancio nell’epoca della crisi.

La storia vera della crisi europea è che quei dirigenti hanno dato vita ad una moneta unica, l’euro, senza creare le istituzioni che erano necessarie per affrontare i successi ed i fallimenti all’interno della zona dell’euro. E il percorso per la moneta unica europea fu massimamente un progetto di vertice, una visione dell’élite imposta ad elettori del tutto riluttanti.

Conta qualcosa tutto questo? Perché dovremmo preoccuparci del tentativo di porre la responsabilità di politiche negative a carico dell’opinione pubblica in generale?

Una risposta è: per una semplice ragione di responsabilità. Agli individui che sostennero politiche rovinose per i bilanci nel corso degli anni di Bush, non dovrebbe essere consentito di farsi passare come falchi del deficit; la gente che rivolgeva elogi sperticati all’Irlanda come un esempio per tutti, non dovrebbe dare lezioni sul governo responsabile.

Ma la risposta più ampia che mi sento di sostenere, è che inventando racconti sulla nostra attuale situazione difficile che assolvono coloro che ci hanno portato a questo punto, ci tagliamo fuori da ogni possibilità di imparare dalla crisi. Abbiamo bisogno di mettere la colpa dove deve essere messa, per stringere i panni addosso[77] alle èlites della politica. Altrimenti faranno danni anche maggiori, negli anni avvenire.       

 

 

 

Seniors, Guns and Money

By PAUL KRUGMAN
Published: May 12, 2011

This has to be one of the funniest political stories of recent weeks: On Tuesday, 42 freshmen Republican members of Congress sent a letter urging President Obama to stop Democrats from engaging in “Mediscare” tactics — that is, to stop saying that the Republican budget plan released early last month, which would end Medicare as we know it, is a plan to end Medicare as we know it.

 

Now, you may recall that the people who signed that letter got their current jobs largely by engaging in “Mediscare” tactics of their own. And bear in mind that what Democrats are saying now is entirely true, while what Republicans were saying last year was completely false. Death panels!

 

Well, it’s time, said the signatories, to “wipe the slate clean.” How very convenient — and how very pathetic.

Anyway, the truth is that older Americans really should fear Republican budget ideas — and not just because of that plan to dismantle Medicare. Given the realities of the federal budget, a party insisting that tax increases of any kind are off the table — as John Boehner, the speaker of the House, says they are — is, necessarily, a party demanding savage cuts in programs that serve older Americans.

 

To explain why, let me answer a rhetorical question posed by Professor John Taylor of Stanford University in a recent op-ed article in The Wall Street Journal. He asked, “If government agencies and programs functioned with 19% to 20% of G.D.P. in 2007” — that is, just before the Great Recession — “why is it so hard for them to function with that percentage in 2021?”

 

Mr. Taylor thought he was making the case for not increasing spending. But if you know anything about the federal budget, you know that there’s a very good answer to his question — an answer that clearly demonstrates just how extremist that no-tax-increase pledge really is. For here’s the quick-and-dirty summary of what the federal government does: It’s a giant insurance company, mainly serving older people, that also has an army.

 

The great bulk of federal spending that isn’t either defense-related or interest on the debt goes to Social Security, Medicare and Medicaid. The first two programs specifically serve seniors. And while Medicaid is often thought of as a poverty program, these days it’s largely about providing nursing care, with about two-thirds of its spending now going to the elderly and/or disabled. By my rough count, in 2007, seniors accounted, one way or another, for about half of federal spending.

 

And in case you hadn’t noticed, there will soon be a lot more seniors around because the baby boomers have started reaching retirement age.

Here are the numbers: In 2007, there were 20.9 Americans 65 and older for every 100 Americans between the ages of 20 and 64 — that is, the people of normal working age who essentially provide the tax base that supports federal spending. The Social Security Administration expects that number to rise to 27.5 by 2020, and 31.7 by 2025. That’s a lot more people relying on federal social insurance programs.

 

Nor is demography the whole story. Over the long term, health care spending has consistently grown faster than the economy, raising the costs of Medicare and Medicaid as a share of G.D.P. Cost-control measures — the very kind of measures Republicans demonized last year, with their cries of death panels — can help slow the rise, but few experts believe that we can avoid some “excess cost growth” over the next decade.

 

 

Between an aging population and rising health costs, then, preserving anything like the programs for seniors we now have will require a significant increase in spending on these programs as a percentage of G.D.P. And unless we offset that rise with drastic cuts in defense spending — which Republicans, needless to say, oppose — this means a substantial rise in overall spending, which we can afford only if taxes rise.

 

So when people like Mr. Boehner reject out of hand any increase in taxes, they are, in effect, declaring that they won’t preserve programs benefiting older Americans in anything like their current form. It’s just a matter of arithmetic.

Which brings me back to those Republican freshmen. Last year, older voters, who split their vote almost evenly between the parties in 2008, swung overwhelmingly to the G.O.P., as Republicans posed successfully as defenders of Medicare. Now Democrats are pointing out that the G.O.P., far from defending Medicare, is actually trying to dismantle the program. So you can see why those Republican freshmen are nervous.

 

 

But the Democrats aren’t engaging in scare tactics, they’re simply telling the truth. Policy details aside, the G.O.P.’s rigid anti-tax position also makes it, necessarily, the enemy of the senior-oriented programs that account for much of federal spending. And that’s something voters ought to know.

 

Anziani, soldi e armamenti, di Paul Krugman

New York Times 12 maggio 2011

 

Questa deve essere una delle vicende politiche più divertenti delle ultime settimane: martedì 42 neoeletti parlamentari repubblicani hanno inviato una lettera con la quale si impegna il Presidente Obama ad impedire che i Democratici si producano in tattiche allarmistiche su Medicare[78] – vale a dire che cessino di affermare che il programma di bilancio dei Repubblicani, che è stato reso noto agli inizi del mese scorso e che segnerebbe la fine di Medicare per come lo conosciamo, sia un programma per por fine a Medicare come lo conosciamo.

Ora, si deve ricordare che tattiche allarmistiche su Medicare hanno costituito una buona parte dell’attività delle persone che hanno firmato, a loro volta, quella lettera. E si tenga presente che quanto stanno dicendo attualmente i Democratici corrisponde interamente alla verità, mentre ciò che dicevano i Repubblicani lo scorso anno era interamente falso.  I “tribunali della morte”[79]!

Ebbene, dicono i firmatari, è tempo di “metterci una pietra sopra”[80]. Comodo per davvero, per non dire davvero patetico.

 

In ogni modo, la verità è che gli americani più anziani hanno tutte le ragioni per spaventarsi delle idee dei repubblicani in materia di bilancio – e non solo perché quel programma smantella Medicare. Date le condizioni reali del bilancio federale, un partito che insiste nel giudicare improponibili incrementi fiscali di qualsiasi genere – come li ha definiti John Boehner, lo speaker [81] della Camera – è, di necessità, un partito che si propone tagli selvaggi per i programmi al servizio degli americani più anziani.

Per spiegare la ragione, mi sia consentito di rispondere ad una domanda retorica che è stata avanzata in un recente articolo di commento sul The Wall Street Journal dal professor John Taylor, dell’Università di Stanford. Egli ha chiesto: “Se le agenzie ed i programmi governativi funzionavano con un percentuale dal 19 al 20 per cento del PIL nel 2007” – ovvero, appena prima della Grande Recessione – “perché è così difficile  che essi funzionino con la stessa percentuale nel 2021?”

Taylor riteneva di avanzare un argomento contrario all’aumento della spesa pubblica. Me, se si conosce un po’ il bilancio federale, si sa che a tale domanda c’è una buona risposta – una risposta che dimostra chiaramente quanto sia, in realtà, proprio estremista quelle promessa di nessun incremento delle tasse. Giacché questa è la sostanza nuda e cruda[82] di come opera il governo federale: si tratta di una gigantesca compagnia di assicurazioni, principalmente al servizio delle persone più anziane, che in più possiede un esercito.

Gran parte della spesa pubblica federale che non dipende dalla Difesa o dall’interesse sul debito, se ne va al programma previdenziale[83], a Medicare ed a Medicaid. I primi due programmi sono specificamente al servizio degli adulti. E mentre un tempo si pensava a Medicaid come ad un programma per la povertà, oggi esso consiste soprattutto nel fornire assistenza infermieristica, con circa due terzi della spesa che va agli anziani e/o agli invalidi[84]. Secondo un mio calcolo grossolano, le persone adulte gravano, in un modo o nell’altro, su circa metà della spesa federale.

E, nel caso non ne siate informati, presto saranno in circolazione un buon numero di anziani in più, a causa del fatto che la generazione dei baby boomers [85] ha cominciato a raggiungere l’età della pensione.

I dati sono i seguenti: nel 2007 c’erano 20,9 americani di sessantacinque anni e più per ogni 100 americani tra  i 20 ed i 64 anni – ovvero le persone normalmente in età lavorativa che sostanzialmente forniscono la base fiscale che sostiene la spesa pubblica federale. La Amministrazione della Sicurezza Sociale si aspetta che questo numero salga a 27,5 entro il 2020 ed a 31,7 entro il 2025. Un buon numero di persone in più stanno facendo affidamento sui programmi assicurativi sociali del governo federale.

Né l’intera vicenda dipende dalla demografia. Nel lungo termine, la spesa per l’assistenza sanitaria è cresciuta in modo assai più veloce dell’economia, innalzando i costi di Medicare e di Medicaid in percentuale sul PIL. Le misure di controllo dei costi – proprio quel genere di misure che i Repubblicani demonizzavano l’anno passato, con i loro strepiti sui “tribunali della morte” – possono contribuire a rallentare la crescita, ma pochi esperti credono che si possa evitare una qualche forma di “crescita fondata su costi eccessivi” nel corso del prossimo decennio.       

Tra una popolazione che invecchia ed i costi sanitari che aumentano, dunque, mantenere qualcosa che assomigli ai programmi per le persone adulte di cui disponiamo oggi, richiederà un incremento della spesa su quei programmi in percentuale sul PIL. E se non si compensa questa crescita con tagli drastici nelle spese per la Difesa – alla qual cosa, non è il caso di dirlo, i Repubblicani si oppongono – questo significa un incremento sostanziale nella spesa generale, che potremo permetterci alla sola condizione di elevare le tasse.

Dunque, quando individui come il signor Boehner respingono su due piedi ogni incremento  delle tasse, in sostanza essi dichiarano che non manterranno i programmi a beneficio delle persone più anziane in alcuna forma paragonabile a quelle attuali. E’ solo una questione aritmetica.

La qual cosa mi riconduce a quei Repubblicani neoeletti. Lo scorso anno, gli elettori più anziani, che suddivisero il loro voto in parti quasi uguali tra i (due) partiti nel 2008, oscillarono in modo massiccio verso il Partito Repubblicano[86], dato che i Repubblicani si accreditarono con successo come i difensori di Medicare. Oggi i Democratici stanno mettendo in evidenza che il Partito Repubblicano, lungi dal difendere Medicare, sta effettivamente cercando di smantellare quel programma. Si può dunque ben constatare quale sia la ragione che rende nervosi i neoeletti repubblicani.

Ma i Democratici non si stanno impegnando in tattiche allarmistiche, stanno solo dicendo la verità. A parte i dettagli politici, è la rigida posizione contro le tasse del Partito Repubblicano che lo rende, di necessità, nemico dei programmi rivolti alla popolazione adulta, che dipendono in gran parte dalla spesa federale. E questo è qualcosa che gli elettori devono pur sapere.

 

 

 

America Held Hostage

By PAUL KRUGMAN
Published: May 15, 2011
  • Six months ago President Obama faced a hostage situation. Republicans threatened to block an extension of middle-class tax cuts unless Mr. Obama gave in and extended tax cuts for the rich too. And the president essentially folded, giving the G.O.P. everything it wanted.

Now, predictably, the hostage-takers are back: blackmail worked well last December, so why not try it again? This time House Republicans say they will refuse to raise the debt ceiling — a step that could inflict major economic damage — unless Mr. Obama agrees to large spending cuts, even as they rule out any tax increase whatsoever. And the question becomes what, if anything, will get the president to say no.

 

The debt ceiling itself is a strange feature of U.S. law: since Congress must vote to authorize spending and choose tax rates, why have a second vote on whether to allow the borrowing that these spending and taxation policies imply? In practice, however, legislators have historically been willing to raise the debt ceiling as necessary, so this quirk in our system hasn’t mattered very much — until now.

 

What has changed? The answer is the radicalization of the Republican Party. Normally, a party controlling neither the White House nor the Senate would acknowledge that it isn’t in a position to impose its agenda on the nation. But the modern G.O.P. doesn’t believe in following normal rules.

So what will happen if the ceiling isn’t raised? It has become fashionable on the right to assert that it would be no big deal. On Saturday the editorial page of The Wall Street Journal ridiculed those worried about the consequences of hitting the ceiling as the “Armageddon lobby.”

It’s hard to know whether the “what, us worry?” types believe what they’re saying, or whether they’re just staking out a bargaining position. But in any case, they’re almost surely wrong: seriously bad consequences will follow if the debt ceiling isn’t raised.

For if we hit the debt ceiling, the government will be forced to stop paying roughly a third of its bills, because that’s the share of spending currently financed by borrowing. So will it stop sending out Social Security checks? Will it stop paying doctors and hospitals that treat Medicare patients? Will it stop paying the contractors supplying fuel and munitions to our military? Or will it stop paying interest on the debt?

 

Don’t say “none of the above.” As I’ve written before, the federal government is basically an insurance company with an army, so I’ve just described all the major components of federal spending. At least one, and probably several, of these components will face payment stoppages if federal borrowing is cut off.

And what would such payment stops do to the economy? Nothing good. Consumer spending would probably crash, as nervous seniors started wondering how to pay for rent and food. Businesses that depend on government purchases would slash payrolls and cancel investments.

 

Furthermore, markets might well panic, especially if interest payments are missed. And the consequences of undermining faith in U.S. debt might be especially severe because that debt plays a crucial role in many financial transactions.

So hitting the debt ceiling would be a very bad thing. Unfortunately, it may be unavoidable.

Why? Because this is a hostage situation. If the president and his allies operate on the principle that failure to raise the debt ceiling is an unthinkable outcome, to be avoided at all cost, then they have ceded all power to those willing to bring that outcome about. In effect, they will have ripped up the Constitution and given control over America’s government to a party that only controls one house of Congress, but claims to be willing to bring down the economy unless it gets what it wants.

 

Now, there are good reasons to believe that the G.O.P. isn’t nearly as willing to burn the house down as it claims. Business interests have made it clear that they’re horrified at the prospect of hitting the debt ceiling. Even the virulently anti-Obama U.S. Chamber of Commerce has urged Congress to raise the ceiling “as expeditiously as possible.” And a confrontation over spending would only highlight the fact that Republicans won big last year largely by promising to protect Medicare, then promptly voted to dismantle the program.

 

But the president can’t call the extortionists’ bluff unless he’s willing to confront them, and accept the associated risks.

According to Harry Reid, the Senate majority leader, Mr. Obama has told Democrats not to draw any “line in the sand” in debt negotiations. Well, count me among those who find this strategy completely baffling. At some point — and sooner rather than later — the president has to draw a line. Otherwise, he might as well move out of the White House, and hand the keys over to the Tea Party.

 

L’America presa in ostaggio, di Paul Krugman

New York Times 15 maggio 2011

 

Sei mesi fa il Presidente Obama si trovava nella condizione di un ostaggio. I Repubblicani minacciavano di bloccare la proroga degli sgravi fiscali ai ceti medi se Obama non avesse ceduto e prorogato gli sgravi anche per i più ricchi. E il Presidente, in sostanza, si piegò, dando al Partito Repubblicano quanto voleva.

Come previsto, adesso i “catturatori” di ostaggi sono tornati: il ricatto ha ben funzionato lo scorso dicembre, perché non provarci ancora? Questa volta i Repubblicani della Camera dicono che rifiuteranno di aumentare il tetto del debito (un passo che potrebbe provocare una grave danno economico) se Obama non concorda ampi tagli alla spesa pubblica, pur escludendo essi qualsiasi incremento delle tasse. E la domanda, a questo punto, diventa cosa otterrà il Presidente, nel caso che egli rifiuti.

In sé, il tetto del debito è una strana creatura della legislazione americana: dato che il Congresso deve votare per autorizzare la spesa e per scegliere le percentuali di tassazione, perché avere una seconda votazione con la quale si consente l’indebitamento che queste spese e queste politiche fiscali comportano? In pratica, tuttavia, i legislatori storicamente hanno mostrato disponibilità ad aumentare il limite del debito quando è stato necessario, dunque questo cavillo del nostro sistema non ha mai contato granché, sino ad oggi.

Che cosa è cambiato? La risposta è: la radicalizzazione del Partito Repubblicano. A cose normali, un partito che non controlla né la Casa Bianca né il Senato, riconoscerebbe di non essere nella condizione di imporre la sua agenda alla Nazione. Ma il moderno Partito Repubblicano non crede di doversi attenere a regole normali.

Cosa accadrà, dunque, se il tetto del debito non viene innalzato? A destra è di moda sostenere che non sarebbe un gran problema. Sabato, l’editoriale del The Wall Street Journal ridicolizzavano coloro che temono le conseguenze del raggiungere il limite del debito come la “lobby dell’Armageddon”.

 

E’ difficile sapere se costoro che negano ogni preoccupazione credano in quanto stanno dicendo, o se stiano semplicemente verificando la loro forza contrattuale. Ma in ogni caso, quasi certamente si sbagliano: se il tetto del debito non viene innalzato, ne deriveranno sul serio gravi conseguenze.

Perché, se si raggiunge il limite del debito, il Governo sarà costretto a fermare circa un terzo dei suoi pagamenti, giacché è quella la parte della spesa attualmente finanziata con l’indebitamento. Si fermerà, dunque, l’invio delle pensioni? Si cesseranno di pagare i medici e gli ospedali che hanno in cura i pazienti di Medicare? Si bloccheranno i pagamenti ai fornitori di combustibile e munizioni alle nostre forze armate? O si bloccheranno i pagamenti degli interessi sul debito?

Non si dica “non accadrà niente del genere”. Come ho scritto in precedenza, il governo federale è fondamentalmente una compagnia di assicurazione con un esercito, dunque ho già illustrato tutte le principali componenti della spesa federale. Almeno una, e probabilmente più di una di queste componenti si troverà dinanzi alla sospensione dei pagamenti, se viene bloccato l’indebitamento federale.

E cosa provocherà all’economia questa sospensione dei pagamenti? Niente di buono. La spesa dei consumatori probabilmente crollerà, quando anziani ansiosi cominceranno a chiedersi come pagare l’affitto o gli alimenti. Le imprese che dipendono dalle commesse del governo potrebbero tagliare gli stipendi e cancellare gli investimenti.

Inoltre, i mercati potrebbero farsi prendere dal panico, specialmente se venissero meno i pagamenti degli interessi. E le conseguenze del compromettere la fiducia su debito degli Stati Uniti potrebbero essere particolarmente dure perché quel debito gioca un ruolo cruciale in molte transazioni finanziarie.

Così, raggiungere il tetto del debito potrebbe rappresentare un fatto assai negativo. Disgraziatamente, tutto ciò potrebbe diventare inevitabile.

E perché? Perché si entrerebbe in una sorta di sindrome dell’ostaggio[87]. Se il presidente ed i suoi sostenitori [88] operano sulla base del principio secondo il quale non riuscire ad ottenere l’innalzamento del tetto del debito è uno scenario impensabile, che deve essere in ogni modo evitato, è come se avessero ceduto tutto il potere a coloro che vogliono provocare quello scenario. Di fatto, essi avrebbero stracciato la Costituzione e consegnato il controllo del Governo degli Stati Uniti ad un partito che ha soltanto il controllo di un ramo del Congresso, ma afferma di essere disposto ad affossare l’economia se non ottiene quello che vuole.

Ora, ci sono buone ragioni per credere che il Partito Repubblicano non abbia affatto voglia di dar fuoco alla casa comune come pretende. Gli interessi dell’imprenditoria hanno chiarito di essere terrorizzati alla prospettiva di raggiungere il tetto del debito. Persino la Camera di Commercio statunitense, violentemente anti-Obama, ha fatto pressione sul Congresso affinché esso innalzi il tetto del debito “prima possibile”. E uno scontro sulla spesa pubblica servirebbe solo a mettere in evidenza che i Repubblicani, che ottennero una grande vittoria l’anno passato in larga parte per la promessa di proteggere Medicare, successivamente hanno subito proposto[89] di smantellare quel programma.

Ma il Presidente non può ‘andare a vedere’ il bluff degli estorsori se non ha la volontà di affrontarli, e di accettare i rischi connessi.

Secondo Harry Reid, il presidente del gruppo di maggioranza al Senato[90], Obama avrebbe detto ai Democratici di non darsi limiti insuperabili[91], nelle trattative sul debito. Ebbene, consideratemi tra coloro che ritengono questa strategia completamente sconcertante. Al punto in cui siamo, il Presidente deve tracciare un confine, e prima che lo fa e meglio è. Altrimenti, tanto varrebbe che se ne uscisse dalla Casa Bianca, e mettesse le chiavi nelle mani del Tea Party[92].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Making Things in America

By PAUL KRUGMAN
Published: May 19, 2011
  • Some years ago, one of my neighbors, an émigré Russian engineer, offered an observation about his adopted country. “America seems very rich,” he said, “but I never see anyone actually making anything.”

That was a bit unfair, but not completely — and as time went by it became increasingly accurate. By the middle years of the last decade, I used to joke that Americans made a living by selling each other houses, which they paid for with money borrowed from China. Manufacturing, once America’s greatest strength, seemed to be in terminal decline.

But that may be changing. Manufacturing is one of the bright spots of a generally disappointing recovery, and there are signs — preliminary, but hopeful, nonetheless — that a sustained comeback may be under way.

And there’s something else you should know: If right-wing critics of efforts to rescue the economy had gotten their way, this comeback wouldn’t be happening.

 

The story so far: In the 1990s, U.S. manufacturing employment was more or less steady. After 2000, however, it entered a steep decline. The 2001 recession hit industry hard, while the bubble-fueled expansion of the decade’s middle years — an expansion marked by a huge rise in the trade deficit — left manufacturing behind. By December 2007, there were 3.5 million fewer U.S. manufacturing workers than there had been in 2000; millions more jobs disappeared in the slump that followed.

Only a handful of these lost jobs have come back, so far. But, as I said, there are indications of a turnaround.

Crucially, the manufacturing trade deficit seems to be coming down. At this point, it’s only about half as large as a share of G.D.P. as it was at the peak of the housing bubble, and further improvements are in the pipeline. The Boston Consulting Group, which is now predicting a U.S. “manufacturing renaissance,” points to major U.S. firms like Caterpillar that once shifted production abroad but are now moving it back. At the same time, companies from other countries, especially European firms, are moving production to America.

 

 

And one potential disaster has been avoided: the U.S. auto industry, which many people were writing off just two years ago, has weathered the storm. In particular, General Motors has now had five consecutive profitable quarters.

America’s industrial heartland is now leading the economic recovery. In August 2009, Michigan had an unemployment rate of 14.1 percent, the highest in the nation. Today, that rate is down to 10.3 percent, still above the national average, but nonetheless a huge improvement.

I don’t want to suggest that everything is wonderful about U.S. manufacturing. So far, the job gains are modest, and many new manufacturing jobs don’t offer good pay or benefits. The manufacturing revival isn’t going to make health reform unnecessary or obviate the need for a strong social safety net.

 

Still, better to have those jobs than none at all. Which brings me to those right-wing critics.

First, what’s driving the turnaround in our manufacturing trade? The main answer is that the U.S. dollar has fallen against other currencies, helping give U.S.-based manufacturing a cost advantage. A weaker dollar, it turns out, was just what U.S. industry needed.

Yet the Federal Reserve finds itself under intense pressure from the right to make the dollar stronger, not weaker. A few months ago, Paul Ryan, the chairman of the House Budget Committee, berated Ben Bernanke for failing to tighten monetary policy, declaring: “There is nothing more insidious that a country can do to its citizens than debase its currency.” If Mr. Bernanke had given in to that kind of pressure, manufacturing would have continued its relentless decline.

 

And then there’s the matter of the auto industry, which probably would have imploded if President Obama hadn’t stepped in to rescue General Motors and Chrysler. For those companies would almost surely have gone into liquidation, closing all their factories. And this liquidation would have undermined the rest of America’s auto industry, as essential suppliers went under, too. Hundreds of thousands of jobs were at stake.

Yet Mr. Obama was fiercely denounced for taking action. One Republican congressman declared the auto rescue part of the administration’s “war on capitalism.” Another insisted that when government gets involved in a company, “the disaster that follows is predictable.” Not so much, it turns out.

So while we still have a deeply troubled economy, one piece of good news is that Americans are, once again, starting to actually make things. And we’re doing that thanks, in large part, to the fact that the Fed and the Obama administration ignored very bad advice from right-wingers — ideologues who still, in the face of all the evidence, claim to know something about creating prosperity.

 

Produrre oggetti in America, di Paul Krugman

New York Times 19 maggio 2011

 

Alcuni anni orsono uno dei miei vicini, un ingegnere russo emigrato, mi fornì una osservazione sul suo paese adottivo: “L’America sembra molto ricca” disse, “ma io non vedo mai nessuno che effettivamente produca qualcosa”.

Era un po’ ingiusto, ma non del tutto – e con il tempo che passa è diventato un giudizio sempre più calzante. Alla metà del decennio passato, ero solito scherzare dicendo che gli americani vivevano vendendosi case l’uno con l’altro, che pagavano con denaro dato in prestito dalla Cina. La manifattura, una volta il punto di forza più grande dell’America, sembrava essere in un declino definitivo.

 

Ma tutto ciò pare che stia cambiando. La manifattura è uno degli aspetti luminosi di una ripresa generalmente deludente, e ci sono segni – iniziali, ma nondimeno incoraggianti – che un ritorno sostenuto possa essere in atto.

 

E c’è qualcos’altro che si deve sapere: se gli sforzi dei critici della destra  nei confronti del salvataggio dell’economia avessero avuto successo, questo ritorno non ci sarebbe stato.

 

Questa è la storia, sino a questo punto: negli anni ’90, l’occupazione manifatturiera statunitense era più o meno stabile. Dopo il 2000, tuttavia, conobbe un forte declino. La recessione del 2001 colpì duramente l’industria, mentre l’espansione alimentata dalla bolla della metà del decennio – una espansione segnata da un ampia crescita del deficit commerciale – lasciò indietro il settore manifatturiero. A dicembre del 2007, c’erano tre milioni e cinquecentomila lavoratori manifatturieri in meno del 2000; milioni di altri posti di lavoro scomparvero nella crisi che seguì.

Sino ad ora, si sono recuperati solo una manciata di questi posti di lavoro perduti. Ma, come ho detto, ci sono indicazioni di una svolta.

 Particolare di grande importanza, il deficit commerciale del settore manifatturiero sembra stia calando. A questo punto, esso è soltanto circa la metà, come percentuale del PIL, di quello che era al momento più alto della bolla immobiliare, e ulteriori miglioramenti sono in corso. Il Boston Consulting Group, che ad oggi prevede una “rinascita manifatturiera” statunitense, porta l’esempio di importanti imprese americane come la Caterpillar, che un tempo aveva spostato le sue produzioni all’estero ma che sta tornando sui suoi passi. Contemporaneamente, società di altri paesi, specialmente imprese europee, portano le loro produzioni in America.

Inoltre, un disastro potenziale è stato scongiurato: l’industria americana dell’automobile, che in molti davano per spacciata soltanto due anni orsono, ha superato la crisi. In particolare, la General Motors ha oggi realizzato il quinto trimestre consecutivo di profitti.

Il cuore industriale dell’America sta guidando oggi la ripresa economica. Nell’agosto del 2009, il Michigan ebbe un tasso di disoccupazione del 14,1 per cento, il più alto del paese. Oggi, quel tasso è sceso al 10,3 per cento, ancora sopra la media nazionale, ma nondimeno un grande miglioramento.

Non sostengo che tutto vada a gonfie vele nel settore manifatturiero statunitense. Sino a questo punto, gli incrementi in posti di lavoro sono modesti, e molti nuovi posti di lavoro manifatturieri non danno buoni salari o indennità. La rinascita manifatturiera non sta andando nella direzione di rendere superflua la riforma sanitaria, o di ovviare al bisogno di una forte rete di protezione sociale.

Tuttavia, meglio avere quei posti di lavoro che non aver niente del tutto. La quale osservazione mi riporta a quei critici della destra.

In primo luogo, cos’è che sta provocando l’inversione nel nostro commercio manifatturiero? La principale risposta è che il dollaro statunitense si è deprezzato rispetto ad altre valute, il che ha conferito al sistema manifatturiero nazionale un vantaggio di costi. Un dollaro più debole, si dimostra, era quello di cui l’industria americana aveva bisogno.

Tuttavia la Federal Reserve si trova sotto forti pressioni da parte della destra, perché agisca a vantaggio di una dollaro più forte, non più debole. Pochi mesi orsono il Presidente della Commissione Bilancio della Camera, Paul Ryan, rimproverava Ben Bernanke per non avere attuato una stretta sulla politica monetaria, dichiarando: “Non c’è niente di più insidioso che un paese può fare ai suoi cittadini che svalutare la propria moneta”. Se Bernanke avesse ceduto a pressioni di questa natura, il settore manifatturiero avrebbe continuato il suo declino inarrestabile.

C’è poi il caso dell’industria automobilistica, che probabilmente sarebbe implosa se il Presidente Obama non fosse intervenuto in salvataggio della General Motors e della Chrysler. Giacché quelle imprese quasi sicuramente sarebbero andate in liquidazione, chiudendo tutti i loro stabilimenti. E questa liquidazione avrebbe messo a repentaglio la restante industria dell’auto americana, dato che sarebbero falliti anche fornitori essenziali. Erano in gioco centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Tuttavia, Obama fu attaccato duramente per aver assunto l’iniziativa. Un congressista repubblicano dichiarò che il salvataggio dell’auto faceva parte della “guerra al capitalismo” della Amministrazione. Un altro ribadì che quando un governo si ritrova coinvolto in una società industriale “il disastro che ne deriva è prevedibile”. Non così prevedibile, a quanto pare.

Dunque, nel mentre abbiamo tuttora un’economia seriamente inguaiata, un esempio di buona notizia è che in effetti gli americani stanno, ancora una volta, ricominciando a produrre oggetti. E lo stiamo facendo, in larga parte, grazie al fatto che la Fed e la Amministrazione Obama hanno ignorato i pessimi consigli che venivano dagli ideologhi della destra, i quali continuano a pretendere, contro ogni evidenza, di sapere il fatto loro nel trovare la strada della prosperità.  

 

 

 


 

When Austerity Fails

By PAUL KRUGMAN
Published: May 22, 2011

I often complain, with reason, about the state of economic discussion in the United States. And the irresponsibility of certain politicians — like those Republicans claiming that defaulting on U.S. debt would be no big deal — is scary.

But at least in America members of the pain caucus, those who claim that raising interest rates and slashing government spending in the face of mass unemployment will somehow make things better instead of worse, get some pushback from the Federal Reserve and the Obama administration.

 

In Europe, by contrast, the pain caucus has been in control for more than a year, insisting that sound money and balanced budgets are the answer to all problems. Underlying this insistence have been economic fantasies, in particular belief in the confidence fairy — that is, belief that slashing spending will actually create jobs, because fiscal austerity will improve private-sector confidence.

Unfortunately, the confidence fairy keeps refusing to make an appearance. And a dispute over how to handle inconvenient reality threatens to make Europe the flashpoint of a new financial crisis.

After the creation of the euro in 1999, European nations that had previously been considered risky, and that therefore faced limits on the amount they could borrow, began experiencing huge inflows of capital. After all, investors apparently thought, Greece/Portugal/Ireland/Spain were members of a European monetary union, so what could go wrong?

 

 

The answer to that question is now, of course, painfully apparent. Greece’s government, finding itself able to borrow at rates only slightly higher than those facing Germany, took on far too much debt. The governments of Ireland and Spain didn’t (Portugal is somewhere in between) — but their banks did, and when the bubble burst, taxpayers found themselves on the hook for bank debts. The problem was made worse by the fact that the 1999-2007 boom left prices and costs in the debtor nations far out of line with those of their neighbors.

 

What to do? European leaders offered emergency loans to nations in crisis, but only in exchange for promises to impose savage austerity programs, mainly consisting of huge spending cuts. Objections that these programs would be self-defeating — not only would they impose large direct pain, but they also would, by worsening the economic slump, reduce revenues — were waved away. Austerity would actually be expansionary, it was claimed, because it would improve confidence.

 

Nobody bought into the doctrine of expansionary austerity more thoroughly than Jean-Claude Trichet, the president of the European Central Bank, or E.C.B. Under his leadership the bank began preaching austerity as a universal economic elixir that should be imposed immediately everywhere, including in countries like Britain and the United States that still have high unemployment and aren’t facing any pressure from the financial markets.

But as I said, the confidence fairy hasn’t shown up. Europe’s troubled debtor nations are, as we should have expected, suffering further economic decline thanks to those austerity programs, and confidence is plunging instead of rising. It’s now clear that Greece, Ireland and Portugal can’t and won’t repay their debts in full, although Spain might manage to tough it out.

Realistically, then, Europe needs to prepare for some kind of debt reduction, involving a combination of aid from stronger economies and “haircuts” imposed on private creditors, who will have to accept less than full repayment. Realism, however, appears to be in short supply.

 

On one side, Germany is taking a hard line against anything resembling aid to its troubled neighbors, even though one important motivation for the current rescue program was an attempt to shield German banks from losses.

On the other side, the E.C.B. is acting as if it is determined to provoke a financial crisis. It has started to raise interest rates despite the terrible state of many European economies. And E.C.B. officials have been warning against any form of debt relief — in fact, last week one member of the governing council suggested that even a mild restructuring of Greek bonds would cause the E.C.B. to stop accepting those bonds as collateral for loans to Greek banks. This amounted to a declaration that if Greece seeks debt relief, the E.C.B. will pull the plug on the Greek banking system, which is crucially dependent on those loans.

 

 

If Greek banks collapse, that might well force Greece out of the euro area — and it’s all too easy to see how it could start financial dominoes falling across much of Europe. So what is the E.C.B. thinking?

My guess is that it’s just not willing to face up to the failure of its fantasies. And if this sounds incredibly foolish, well, who ever said that wisdom rules the world?

 

 

Quando fallisce l’austerità, di Paul Krugman

New York Times 22 maggio 2011

 

Mi lamento spesso, a ragione, sulla condizione del dibattito economico negli Stati Uniti. Ed è allarmante l’irresponsabilità di certi uomini politici – come quei repubblicani che sostengono che se gli Stati Uniti finissero coll’essere inadempienti sul debito, non sarebbe un gran problema.

Ma almeno in America i componenti del ‘partito della sofferenza’, coloro che pretendono che innalzare i tassi di interesse e abbattere la spesa pubblica di fronte ad una disoccupazione di massa renderebbe in qualche modo le cose migliori anziché peggiori, incontrano qualche opposizione da parte della Federal Reserve e dell’Amministrazione Obama.

In Europa, al contrario, il ‘partito della sofferenza’ ha spadroneggiato per più di un anno, ripetendo che una moneta sana e bilanci in pareggio sono la risposta a tutti i problemi. Questa insistenza si è basata su fantasie economiche, in particolare sul dogma della ‘fata turchina della fiducia[93]’ – vale a dire, il convincimento secondo il quale riducendo la spesa pubblica si creerebbero effettivamente posti di lavoro, giacché l’austerità finanziaria migliorerebbe la fiducia del settore privato.

Sfortunatamente, la fata turchina della fiducia continua a rifiutare di materializzarsi. Ed una disputa su come gestire questa disdicevole circostanza minaccia di fare dell’Europa il punto critico di una nuova crisi finanziaria.

Dopo la creazione dell’euro nel 1999, le nazioni europee che erano precedentemente considerate a rischio, e che per quella ragione facevano i conti con limiti sulla quantità possibile di indebitamento, cominciarono a fare esperienza di vasti afflussi di capitali. Dopo tutto, pensarono in apparenza gli investitori, Grecia/Portogallo/Irlanda/Spagna erano membri di un’unione monetaria europea; dunque, cosa non avrebbe dovuto funzionare?

La risposta a quella domanda è oggi, come è evidente, dolorosamente chiara. Il Governo greco, ritrovandosi nelle condizioni di indebitarsi a tassi di interesse solo leggermente superiori a quelli della Germania, si è accollato un debito anche troppo grande. I Governi dell’Irlanda e della Spagna non l’hanno fatto (il Portogallo si trova all’incirca nel mezzo) – ma l’hanno fatto le loro banche, e quando è scoppiata la bolla, i contribuenti si sono ritrovati alle strette[94] per i debiti delle banche. Il problema è stato reso anche peggiore dal fatto che il boom 1999- 2007 aveva permesso che i prezzi ed i costi nelle nazioni debitrici si disallineassero da quelli dei loro vicini.

Che fare? I dirigenti europei hanno offerto prestiti di emergenza alle nazioni in crisi, ma solo in cambio della promessa di imporre forsennati programmi di austerità, principalmente consistenti in vasti tagli alla spesa pubblica. Le obiezioni secondo le quali questi programmi sarebbero risultati autopunitivi – non solo essi avrebbero comportato una grande e diretta sofferenza, avrebbero anche peggiorato la recessione economica e ridotto le entrate –  sono state scartate. L’austerità, si è sostenuto, avrebbe avuto in realtà effetti espansivi, dato che avrebbe migliorato le condizioni della fiducia.

Nessuno ha fatto sua la dottrina dell’austerità espansiva più completamente che Jean-Claude Trichet, il Presidente della Banca Centrale Europea, o BCE. Sotto la sua guida la banca ha esaltato l’austerità come un elisir economico universale, che avrebbe dovuto essere imposto immediatamente dappertutto, compresi quei paesi, come l’Inghilterra e gli Stati Uniti, che avevano ancora un’elevata disoccupazione e non si trovavano a subire pressioni di alcun genere da parte dei mercati finanziari.

Ma, come ho detto, la fata turchina della fiducia non si è materializzata. Le nazioni europee con seri problemi di debito, come ci si doveva aspettare, per effetto di quei programmi di austerità stanno soffrendo un declino economico anche maggiore, e la fiducia è crollata invece di risalire. A questo punto è chiaro che la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo non possono e non vogliono restituire per intero i loro debiti, anche se la Spagna potrebbe riuscire a sopportarlo.

Realisticamente, dunque, l’Europa ha bisogno di prepararsi ad una qualche forma di riduzione del debito, che includa una combinazione di aiuti da parte delle economie più forti e qualche sconto[95] imposto a carico dei creditori privati, i quali dovranno accettare un po’ di meno che una restituzione completa dei prestiti. E tuttavia il realismo sembra che scarseggi.

Da una parte la Germania sta prendendo una posizione dura contro qualsiasi soluzione assomigli ad una aiuto ai suoi vicini inguaiati, anche se una importante motivazione per l’attuale programma di salvataggio sarebbe quella di proteggere le banche tedesche da perdite.

D’altra parte, la BCE si sta comportando come se fosse determinata a provocare una crisi finanziaria. Essa ha cominciato ad innalzare i tassi di interesse a discapito della condizione terribile di molte economie europee. E i dirigenti della BCE hanno messo in guardia contro ogni forma di alleggerimento del debito – di fatto, la scorsa settimana un membro del comitato di gestione della banca ha ipotizzato che anche una lieve ristrutturazione dei bonds  greci indurrebbe la BCE ad interrompere l’accettazione di quei bonds come garanzie collaterali per i prestiti alle banche greche. Il che è come dichiarare che se la Grecia cercasse un alleggerimento del debito, la BCE staccherebbe la spina al sistema bancario greco, che dipende in modo vitale da quei prestiti.

Se le banche greche collassano, la Grecia potrebbe davvero essere costretta ad uscire dalla zona euro – ed è sin troppo facile vedere come si innescherebbe una sorta di domino finanziario con ricadute in gran parte dell’Europa. Che cosa ha, dunque, in mente la BCE?

La mia supposizione è che essa semplicemente non voglia fare i conti con il venir meno della sue fantasie. E, per quanto questo possa apparire incredibilmente stupido, ebbene, chi ha mai detto che sia la saggezza a governare il mondo?

    

 

 

 

 

 

Medicare and Mediscares

By PAUL KRUGMAN
Published: May 26, 2011

Yes, Paul Ryan, the chairman of the House Budget Committee, is a sore loser. Why do you ask?

To be sure, Mr. Ryan had reason to be upset after Tuesday’s special election in New York’s 26th Congressional District. It’s a very conservative district, so much so that last year the Republican candidate took 76 percent of the vote. Yet on Tuesday, Kathy Hochul, a Democrat, took the seat, with a campaign focused squarely on Mr. Ryan’s plan to dismantle Medicare and replace it with a voucher system.

 

How did Ms. Hochul pull off this upset? The Wisconsin congressman blamed Democrats’ willingness to “shamelessly distort and demagogue the issue, trying to scare seniors to win an election,” and he predicted that by November of next year “the American people are going to know they’ve been lied to.”

 

You can understand Mr. Ryan’s bitterness. He has, after all, experienced quite a comedown over the course of the past seven weeks. Until his Medicare plan was rolled out in early April he had spent months bathing in warm approbation from many pundits, who had decided to anoint him as an icon of fiscal responsibility. And the plan itself received rapturous praise in the first couple of days after its release.

 

Then people who actually know how to read a budget proposal started looking at the plan. And that’s when everything started to fall apart.

Mr. Ryan may claim — and he may even believe — that he’s facing a backlash because his opponents are lying about his proposals. But the reality is that the Ryan plan is turning into a political disaster for Republicans, not because the plan’s critics are lying about it, but because they’re describing it accurately.

 

Take, for example, the statement that the Ryan plan would end Medicare as we know it. This may have Republicans screaming “Mediscare!” but it’s the absolute truth: The plan would replace our current system, in which the government pays major health costs, with a voucher system, in which seniors would, in effect, be handed a coupon and told to go find private coverage.

The new program might still be called Medicare — hey, we could replace government coverage of major expenses with an allowance of two free aspirins a day, and still call it “Medicare” — but it wouldn’t be the same program. And if the cost estimates of the Congressional Budget Office are at all right, the inadequate size of the vouchers — which by 2030 would cover only about a third of seniors’ health costs — would leave many if not most older Americans unable to afford essential care.

 

If anyone is lying here, it’s Mr. Ryan himself, who has claimed that his plan would give seniors the same kind of coverage that members of Congress receive — an assertion that is completely false.

And, by the way, the claim that the plan would keep Medicare as we know it intact for Americans currently 55 or older is highly dubious. True, that’s what the plan promises, but if you think about the political dynamics that would emerge once Americans born a year or two too late realize how much better a deal slightly older Americans are getting, you realize that this is a promise unlikely to be fulfilled.

 

Still, are Democrats doing a bad thing by telling the truth about the Ryan plan? “If you demagogue entitlement reform,” says Mr. Ryan, “you’re hastening a debt crisis; you’re bringing about Medicare’s collapse.” Maybe he should have a word with his colleagues who greeted the modest, realistic cost control efforts in the Affordable Care Act with cries of “death panels.”

Anyway, the underlying premise behind statements like that is the assumption that the Ryan plan represents a serious effort to come to grip with America’s long-run fiscal problems. But what became clear soon after that plan was unveiled was that it was no such thing. In fact, it wasn’t really a deficit-reduction plan. Once you remove the absurd assumptions — discretionary spending, including defense, falling to Calvin Coolidge levels, and huge tax cuts for corporations and the rich, with no loss in revenue? — it’s highly questionable whether it would reduce the deficit at all.

 

What the Ryan plan is, instead, is an attempt to snooker Americans into accepting a standard right-wing wish list under the guise of deficit reduction. And Americans, it seems, have seen through the deception.

 

So what happens now? The fight will shift from Medicare to Medicaid — a program that has become an essential lifeline for many Americans, especially children, but which in the Ryan plan is slated for a 44 percent cut in federal aid over the next decade. At this point, however, I’m optimistic that this initiative will also run aground on popular disapproval.

What of Mr. Ryan’s hope that voters will realize that they’ve been lied to? Well, as I see it, that’s already happening. And it’s bad news for the G.O.P.

 

Medicare e i terroristi di Medicare, di Paul Krugman

New York Times, 26 maggio 2011

 

Si, Paul Ryan, il Presidente della Commissione Bilancio della Camera, è un perdente nato[96]. E’ il caso di chiederlo?

Certamente, Ryan aveva ragione d’essere turbato, dopo le elezioni speciali di giovedì nel 26° distretto congressuale di New York. Si tratta di un distretto molto conservatore, al punto tale che l’anno passato il candidato repubblicano prese il 76 per cento dei voti. Eppure giovedì Kathy Hochul, una democratica, ha conquistato il seggio, con una campagna elettorale incentrata proprio sul programma di Ryan per smantellare Medicare e rimpiazzarlo con un sistema basato sui voucher.

Come ha fatto la signora Hochul a strappare un risultato così a sorpresa? Il congressista del Wisconsin [97] ha accusato i Democratici di aver voluto “spudoratamente e demagogicamente distorcere la posta in gioco, cercando di spaventare gli anziani per vincere le elezioni”, ed ha previsto che per novembre del prossimo anno “i cittadini americani finiranno col comprendere di essere stati ingannati”.

Si può capire l’amarezza del signor Ryan. Dopo tutto, egli ha provato una delusione completa nel corso delle ultime sette settimane. Prima che egli dispiegasse la sua proposta nello scorso aprile, aveva passato mesi crogiolandosi[98] nella entusiastica approvazione degli addetti ai lavori, che decisero di consacrarlo come un’icona di responsabilità finanziaria. E lo stesso programma, aveva ricevuto sperticati elogi, nei primi due giorni successivi alla sua pubblicazione.

Dopo di che, le persone che effettivamente sanno come si legge un bilancio, cominciarono a studiarsi quel programma. E fu allora che tutto cominciò ad andare in pezzi.

 

Il signor Ryan può sostenere – e può persino crederci – di aver subito un rovescio  causa delle menzogne dei suoi avversari sulle sue proposte. Ma la verità è che il programma di Ryan si sta trasformando in un disastro politico per i Repubblicani, non perché i critici di quel piano stiano mentendo, ma perché lo stanno descrivendo in modo preciso.

Si prenda, ad esempio, l’affermazione secondo la quale il piano Ryan liquiderebbe Medicare per come lo conosciamo. Questo può aver indotto i repubblicani a gridare al ‘terrorismo’ su Medicare [99], ma si tratta della verità pura e semplice: il piano sostituirebbe il nostro sistema attuale, nel quale il Governo paga una buona parte dei costi sanitari, con un sistema di voucher, nel quale gli anziani riceverebbero un coupon e l’invito ad andarsi a cercare una copertura assicurativa privata.

Il nuovo programma potrebbe ancora essere chiamato Medicare – perché no? Potremmo rimpiazzare la copertura governativa delle spese maggiori, con un sussidio di due aspirine gratuite al giorno, e continuare a chiamarlo “Medicare” – ma non sarebbe lo stesso programma. E se effettivamente le stime dei costi del Congressional Budget Office sono giuste, la dimensione inadeguata dei vouchers – che nel 2030 coprirebbero soltanto un terzo dei costi sanitari degli anziani – lascerebbero molti, se non la massima parte, degli americani più vecchi nelle condizioni di non potersi permettere cure essenziali.

Se c’è qualcuno che mente, è lo stesso Ryan, che ha sostenuto che il suo piano darebbe agli anziani lo stesso genere di copertura che ricevono i membri del Congresso – una asserzione che è completamente falsa.

Peraltro, l’affermazione secondo la quale questo piano manterrebbe intatto il Medicare che conosciamo, per gli americani che hanno oggi 55 anni o più[100], è molto dubbia. E’ vero, quello è quanto il piano promette, ma se si riflette sulle dinamiche politiche che emergerebbero, una volta che gli americani nati con un anno o due di ritardo si rendessero conto del migliore trattamento che stanno ottenendo gli altri americani leggermente più anziani, si comprende che questa è una promessa destinata a non essere mantenuta.

Ancora, stanno facendo qualcosa di disdicevole i Democratici, col dire la verità sul piano Ryan? “Se date una definizione demagogica della riforma[101]” dice il signor Ryan, “voi accelerate una crisi del debito, ovvero provocate il collasso di Medicare”. Forse, egli dovrebbe rivolgere una parola ai suoi colleghi che accolsero gli sforzi per un modesto, realistico controllo dei costi della Legge sulla Assistenza Sostenibile, con gli strepiti sui ‘tribunali della morte’.

In ogni caso, la premessa che è implicita in affermazioni del genere è quella per la quale il piano Ryan rappresenterebbe un serio sforzo per giungere a far presa sui problemi della finanza pubblica americana di lungo periodo. Ma ciò che è apparso subito chiaro, una volta che il piano è stato reso noto, è che esso non è niente del genere. Nei fatti, non si è trattato di un piano di effettiva riduzione del deficit. Una volta che si mettono da parte le sue ipotesi assurde  – la riduzione delle spese discrezionali, inclusa la difesa, ai livelli di Calvin Coolidge [102]; ampi sgravi fiscali alle grandi imprese ed ai ricchi, e in aggiunta la pretesa che tutto ciò non comporti riduzioni nelle entrate – diventa assai discutibile che quel piano possa seriamente ridurre il deficit.

Ciò che il piano Ryan piuttosto rappresenta, è un tentativo di rinchiudere [103] gli americani nella accettazione del tradizionale elenco delle aspirazioni della destra, presentate come una riduzione del deficit. E gli americani, a quanto pare, si sono accorti dell’inganno.

Cosa, dunque, accadrà adesso? La battaglia si sposterà da Medicare a Medicaid – un programma che è diventato una essenziale ancora di salvataggio per molti americani, specialmente bambini, ma che nel programma di Ryan è messo in predicato[104] per un taglio del 44 per cento del contributo federale nel corso del prossimo decennio. Sono tuttavia ottimista che, a questo punto, anche questa iniziativa si arenerà nella generale disapprovazione.

Che dire della speranza del signor Ryan, per la quale gli elettori comprenderanno di essere stati ingannati? Ebbene, per come la vedo io, questo sta già avvenendo. E non è una buona notizia per il Partito Repubblicano.

 

    

   

 

 

 

 

 

Against Learned Helplessness

By PAUL KRUGMAN
Published: May 29, 2011

Unemployment is a terrible scourge across much of the Western world. Almost 14 million Americans are jobless, and millions more are stuck with part-time work or jobs that fail to use their skills. Some European countries have it even worse: 21 percent of Spanish workers are unemployed.

Nor is the situation showing rapid improvement. This is a continuing tragedy, and in a rational world bringing an end to this tragedy would be our top economic priority.

Yet a strange thing has happened to policy discussion: on both sides of the Atlantic, a consensus has emerged among movers and shakers that nothing can or should be done about jobs. Instead of a determination to do something about the ongoing suffering and economic waste, one sees a proliferation of excuses for inaction, garbed in the language of wisdom and responsibility.

So someone needs to say the obvious: inventing reasons not to put the unemployed back to work is neither wise nor responsible. It is, instead, a grotesque abdication of responsibility.

What kinds of excuses am I talking about? Well, consider last week’s release of the latest report on the economic outlook by the Organization for Economic Cooperation and Development, or O.E.C.D. The O.E.C.D. is basically an intergovernmental think tank; while it has no direct ability to set policy, what it says reflects the conventional wisdom of Europe’s policy elite.

So what did the O.E.C.D. have to say about high unemployment in its member countries? “The room for macroeconomic policies to address these complex challenges is largely exhausted,” declared the organization’s secretary general, who called on countries instead to “go structural” — that is, to focus on long-run reforms that would have little impact on the current employment situation.

 

And how do we know that there’s no room for policies to put the unemployed back to work? The secretary general didn’t say — and the report itself never even suggests possible solutions to the employment crisis. All it does is highlight the risks, as it sees them, of any departure from orthodox policy.

But then, who is talking seriously about job creation these days? Not the Republican Party, unless you count its ritual calls for tax cuts and deregulation. Not the Obama administration, which more or less dropped the subject a year and a half ago.

The fact that nobody in power is talking about jobs does not mean, however, that nothing could be done.

Bear in mind that the unemployed aren’t jobless because they don’t want to work, or because they lack the necessary skills. There’s nothing wrong with our workers — remember, just four years ago the unemployment rate was below 5 percent.

The core of our economic problem is, instead, the debt — mainly mortgage debt — that households ran up during the bubble years of the last decade. Now that the bubble has burst, that debt is acting as a persistent drag on the economy, preventing any real recovery in employment. And once you realize that the overhang of private debt is the problem, you realize that there are a number of things that could be done about it.

 

For example, we could have W.P.A.-type programs putting the unemployed to work doing useful things like repairing roads — which would also, by raising incomes, make it easier for households to pay down debt. We could have a serious program of mortgage modification, reducing the debts of troubled homeowners. We could try to get inflation back up to the 4 percent rate that prevailed during Ronald Reagan’s second term, which would help to reduce the real burden of debt.

 

 

So there are policies we could be pursuing to bring unemployment down. These policies would be unorthodox — but so are the economic problems we face. And those who warn about the risks of action must explain why these risks should worry us more than the certainty of continued mass suffering if we do nothing.

 

In pointing out that we could be doing much more about unemployment, I recognize, of course, the political obstacles to actually pursuing any of the policies that might work. In the United States, in particular, any effort to tackle unemployment will run into a stone wall of Republican opposition. Yet that’s not a reason to stop talking about the issue. In fact, looking back at my own writings over the past year or so, it’s clear that I too have sinned: political realism is all very well, but I have said far too little about what we really should be doing to deal with our most important problem.

 

As I see it, policy makers are sinking into a condition of learned helplessness on the jobs issue: the more they fail to do anything about the problem, the more they convince themselves that there’s nothing they could do. And those of us who know better should be doing all we can to break that vicious circle.

 

Contro l’impotenza acquisita [105], di Paul Krugman.

New York Times, 29 maggio 2011

La disoccupazione è un terribile flagello per gran parte del mondo occidentale. Quasi 14 milioni di americani sono senza lavoro, ed altri milioni sono bloccati in lavori a tempo parziale o in occupazioni che non richiedono l’uso della loro professionalità. Alcuni paesi europei stanno ancora peggio: il 21 per cento dei lavoratori spagnoli è disoccupato.

E questa situazione non mostra rapidi miglioramenti. E’ una tragedia continua, e in un mondo razionale mettere fine a questa tragedia dovrebbe essere la nostra principale priorità economica.

 

Accade invece una cosa strana al dibattito politico: è emerso un consenso tra gli uomini di potere, da entrambe le sponde dell’Atlantico, secondo il quale per il lavoro non si può e non si deve far nulla. Al posto di una determinazione a fare qualcosa sulle sofferenze e sullo spreco economico in corso, si assiste ad una proliferazione di pretesti per l’inerzia, mascherati in un linguaggio di saggezza e di responsabilità.

Così è necessario che qualcuno dica una cosa ovvia: inventare scuse per non rimandare i disoccupati al lavoro non è né saggio né responsabile. E’, invece, una grottesca abdicazione dai propri compiti.

Di quale genere di scuse sto parlando? Ebbene, si consideri la pubblicazione della scorsa settimana dell’ultimo rapporto sulle prospettive economiche della Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo, l’OCSE.  L’OCSE è fondamentalmente un gruppo di esperti: mentre non ha diretta responsabilità nelle scelte politiche, ciò che dice riflette l’orientamento convenzionale delle élites della politica.

Cosa ha, dunque, da dire l’OCSE sulla elevata disoccupazione nei paesi che ne fanno parte? “Lo spazio per politiche macroeconomiche che affrontino queste sfide complesse è in gran parte esaurito”, ha dichiarato il Segretario generale dell’organizzazione, che ha invece chiamato i paesi membri ad “andare alla struttura” – ovvero, concentrarsi su riforme di lungo termine che avrebbero un impatto modesto sulla attuale situazione dell’occupazione.

E come sappiamo che non c’è spazio per politiche che rimandino i disoccupati al lavoro? Il Segretario generale non l’ha detto – ed il rapporto stesso non indica alcuna soluzione possibile alla crisi dell’occupazione. Tutto quello che fa è mettere in evidenza i rischi di discostarsi in qualche modo dall’ortodossia politica.

Ma allora, chi si sta, in questi giorni, occupando seriamente della creazione di posti di lavoro? Non il Partito Repubblicano, se non si considerano i suoi inviti rituali ai tagli delle tasse ed alla deregolamentazione. Non l’Amministrazione Obama, che lasciò cadere il tema più o meno un anno fa.

Il fatto che nessuno, nei luoghi del potere, stia parlando di lavoro non significa, tuttavia, che non si potrebbe fare qualcosa.

Si tenga a mente che i disoccupati non sono senza lavoro perché non vogliano lavorare, o perché manchino della necessaria professionalità. Non c’è niente che non funziona nei nostri lavoratori; si ricordi che solo quattro anni fa il tasso di disoccupazione era sotto il 5 per cento.

 

La sostanza del nostro problema economico è, piuttosto, il debito delle famiglie – principalmente il debito connesso con i mutui – che è cresciuto vertiginosamente durante gli anni della bolla del trascorso decennio. Ora che la bolla è scoppiata, quel debito provoca l’effetto di un prolungato dragaggio sull’economia, impedendo ogni effettiva ripresa dell’economia. E, una volta che si comprende che lo sconfinamento del debito privato è il problema, si comprende anche che un certo numero di cose possono essere fatte a tale proposito.

Per esempio, si potrebbero avere programmi per mettere i disoccupati al lavoro facendo cose utili come riparare le strade, del tipo della Works Progress Administration [106]  – nel qual modo si incrementerebbero anche i redditi, rendendo più facile per le famiglie abbattere i debiti. Si potrebbe avere un serio programma di ricontrattazione dei mutui, riducendo i debiti dei proprietari di case in difficoltà. Si potrebbe provare a riportare il tasso di inflazione al 4 per cento che caratterizzò il secondo mandato di Ronald Reagan, il che contribuirebbe a ridurre il peso effettivo del debito.

Ci sono, dunque, politiche che potrebbero essere perseguite per abbassare la disoccupazione. Queste politiche non sarebbero ortodosse – ma non sono tali neppure i problemi economici che fronteggiamo. E coloro che mettono in guardia sui rischi del fare, dovrebbero spiegare perché questi rischi dovrebbero preoccuparci di più delle certezza di una perdurante sofferenza collettiva, se non facciamo nulla.

Nel sottolineare che potremmo fare molto di più per la disoccupazione, riconosco naturalmente gli ostacoli politici a perseguire effettivamente alcune delle politiche che potrebbero produrre effetti. Negli Stati Uniti in particolare, ogni sforzo di misurarsi con la disoccupazione andrebbe a sbattere nel muro di pietra della opposizione repubblicana. Tuttavia, quella non è una ragione per smettere di parlare di quel tema. Di fatto, guardando indietro ai miei stessi scritti dell’ultimo anno o giù di lì, è chiaro che anch’io ho le mie responsabilità: il realismo politico è un’ottima cosa, ma mi sono occupato troppo poco di cosa si dovrebbe fare per misurarci con il nostro problema più grave.

Per quanto posso giudicare, gli operatori politici si sono lasciati cadere, in materia di posti di lavoro, in una condizione di impotenza acquisita: tanto più non fanno niente su quel problema, tanto più si convincono di non dover muovere foglia. E quelli tra noi che comprendono meglio, dovrebbero fare tutto quello che possono per rompere questo circolo vizioso.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

The Mistake of 2010

By PAUL KRUGMAN
Published: June 2, 2011
  •  Earlier this week, the Federal Reserve Bank of New York published a blog post about the “mistake of 1937,” the premature fiscal and monetary pullback that aborted an ongoing economic recovery and prolonged the Great Depression. As Gauti Eggertsson, the post’s author (with whom I have done research) points out, economic conditions today — with output growing, some prices rising, but unemployment still very high — bear a strong resemblance to those in 1936-37. So are modern policy makers going to make the same mistake?

 

Mr. Eggertsson says no, that economists now know better. But I disagree. In fact, in important ways we have already repeated the mistake of 1937. Call it the mistake of 2010: a “pivot” away from jobs to other concerns, whose wrongheadedness has been highlighted by recent economic data.

To be sure, things could be worse — and there’s a strong chance that they will, indeed, get worse.

Back when the original 2009 Obama stimulus was enacted, some of us warned that it was both too small and too short-lived. In particular, the effects of the stimulus would start fading out in 2010 — and given the fact that financial crises are usually followed by prolonged slumps, it was unlikely that the economy would have a vigorous self-sustaining recovery under way by then.

 

By the beginning of 2010, it was already obvious that these concerns had been justified. Yet somehow an overwhelming consensus emerged among policy makers and pundits that nothing more should be done to create jobs, that, on the contrary, there should be a turn toward fiscal austerity.

This consensus was fed by scare stories about an imminent loss of market confidence in U.S. debt. Every uptick in interest rates was interpreted as a sign that the “bond vigilantes” were on the attack, and this interpretation was often reported as a fact, not as a dubious hypothesis.

 

For example, in March 2010, The Wall Street Journal published an article titled “Debt Fears Send Rates Up,” reporting that long-term U.S. interest rates had risen and asserting — without offering any evidence — that this rise, to about 3.9 percent, reflected concerns about the budget deficit. In reality, it probably reflected several months of decent jobs numbers, which temporarily raised optimism about recovery.

 

But never mind. Somehow it became conventional wisdom that the deficit, not unemployment, was Public Enemy No. 1 — a conventional wisdom both reflected in and reinforced by a dramatic shift in news coverage away from unemployment and toward deficit concerns. Job creation effectively dropped off the agenda.

So, here we are, in the middle of 2011. How are things going?

 

Well, the bond vigilantes continue to exist only in the deficit hawks’ imagination. Long-term interest rates have fluctuated with optimism or pessimism about the economy; a recent spate of bad news has sent them down to about 3 percent, not far from historic lows.

 

And the news has, indeed, been bad. As the stimulus has faded out, so have hopes of strong economic recovery. Yes, there has been some job creation — but at a pace barely keeping up with population growth. The percentage of American adults with jobs, which plunged between 2007 and 2009, has barely budged since then. And the latest numbers suggest that even this modest, inadequate job growth is sputtering out.

So, as I said, we have already repeated a version of the mistake of 1937, withdrawing fiscal support much too early and perpetuating high unemployment.

Yet worse things may soon happen.

On the fiscal side, Republicans are demanding immediate spending cuts as the price of raising the debt limit and avoiding a U.S. default. If this blackmail succeeds, it will put a further drag on an already weak economy.

 

Meanwhile, a loud chorus is demanding that the Fed and its counterparts abroad raise interest rates to head off an alleged inflationary threat. As the New York Fed article points out, the rise in consumer price inflation over the past few months — which is already showing signs of tailing off — reflected temporary factors, and underlying inflation remains low. And smart economists like Mr. Eggerstsson understand this. But the European Central Bank is already raising rates, and the Fed is under pressure to do the same. Further attempts to help the economy expand seem out of the question.

So the mistake of 2010 may yet be followed by an even bigger mistake. Even if that doesn’t happen, however, the fact is that the policy response to the crisis was and remains vastly inadequate.

Those who refuse to learn from history are condemned to repeat it; we did, and we are. What we’re experiencing may not be a full replay of the Great Depression, but that’s little consolation for the millions of American families suffering from a slump that just goes on and on.

 

L’errore del 2010, di Paul Krugman

New York Times 2 giugno 2011

 

 

Agli inizi di questa settimana, la Federal Reserve di New York  ha pubblicato un articolo di blog a proposito dell’ “errore del 1937”, la ritirata, dal punto di vista della finanza pubblica e monetario, che provocò l’aborto della ripresa economica in corso e prolungò la Grande Depressione. Come sottolinea Gauti Eggertsson, l’autore dell’articolo (con il quale ho collaborato a ricerche), le condizioni economiche odierne – con la produzione in crescita, alcuni prezzi che salgono, ma la disoccupazione ancora molto elevata – hanno una certa somiglianza con quelle del 1936-37. Dunque, i politici di oggi si stanno indirizzando a fare lo stesso errore?

Eggertsson dice di no, che gli economisti di oggi sono meglio attrezzati. Ma io non sono d’accordo. Di fatto, sotto aspetti importanti, noi abbiamo già ripetuto l’errore del 1937. Chiamiamolo l’errore del 2010: abbiamo spostato il perno dell’iniziativa dai posti di lavoro ad altre preoccupazioni, una scelta sbagliata che è stata ben messa in evidenza dai recenti dati dell’economia.

Certamente, le cose avrebbero potuto andar peggio – e, in effetti, c’è una forte possibilità che andranno peggio.

Tornando al momento in cui venne decretato lo ‘stimolo’ originario di Obama, alcuni di noi misero in guardia dal fatto che era sia troppo piccolo che di troppo breve durata. In particolare, gli effetti dello stimolo avrebbero cominciato a svanire nel 2010 – e considerato il fatto che le crisi finanziarie sono di solito seguite da prolungate fasi negative, era improbabile che l’economia avrebbe avuto, da quel momento in poi,  una ripresa basata esclusivamente sulle sue forze.

Con l’inizio del 2010, era già chiaro che questi timori erano stati giustificati. Tuttavia, in qualche modo emerse uno schiacciante consenso, tra gli operatori politici e gli addetti ai lavori, che non si sarebbe dovuto far niente di più per creare posti di lavoro e che, al contrario,  si sarebbe dovuto operare una svolta verso l’austerità nella finanza pubblica.

 

Questo consenso era alimentato da storie terrificanti a proposito di un’imminente perdita di fiducia da parte del mercato sul debito statunitense. Ogni piccolo ritocco sui tassi di interesse venne interpreto come il segno che i “guardiani dei bonds” erano all’attacco, e questa interpretazione venne riportata come un dato di fatto, non come una ipotesi dubbia.

Ad esempio, nel marzo del 2010 il Wall Street Journal pubblicò un articolo dal titolo “Le paure del debito spingono in alto i tassi”, informando che i tassi di interesse americani di lungo periodo erano cresciuti e sostenendo – senza offrire alcuna prova – che tale crescita, a circa il 3,9 per cento, rifletteva preoccupazioni sul deficit di bilancio. In realtà, essa probabilmente rifletteva alcuni mesi di dati decenti sui posti di lavoro, che accrebbero provvisoriamente l’ottimismo sulla ripresa.

Ma questo non contò. In qualche modo divenne senso comune che il deficit, e non la disoccupazione, era il Nemico Pubblico N. 1 – un senso comune che si rifletteva e veniva rafforzato da uno spettacolare spostamento della attenzione giornalistica dalla disoccupazione alle preoccupazioni per il deficit. La creazione di posti di lavoro, in effetti, venne espunta dall’agenda.

 

In questo modo siamo arrivati a questo punto, alla metà del 2011. Come stanno andando le cose?

 

Ebbene, i guardiani dei bonds continuano ad esistere soltanto nella immaginazione dei falchi del deficit. I tassi di interesse a lungo termine hanno fluttuato a seconda dell’ottimismo o del pessimismo sull’economia: a seguito di una recente serie di notizie negative sono calati a circa il 3 per cento, non lontani dai minimi storici.

E le novità, in effetti, sono state negative. Come è svanito l’effetto dello stimolo, così sono svanite le speranze di una ripresa energica. E’ vero, c’è stata un po’ di creazione di posti di lavoro – ma ad un ritmo che a stento tiene il passo con la crescita della popolazione. La percentuale degli americani adulti che hanno il lavoro, che era crollata dal 2007 al 2009, si è spostata di poco da allora. E gli ultimi dati ci dicono che persino questa crescita, modesta ed inadeguata, dei posti di lavoro procede a singhiozzo.

Così, come ho detto, noi abbiamo già ripetuto una versione dell’errore del 1937, ritirandoci anche troppo prematuramente dal sostegno della finanza pubblica e perpetuando una elevata disoccupazione.

Tuttavia, possono accadere tra non molto cose peggiori.

Sul lato della finanza pubblica, i Repubblicani stanno chiedendo tagli alla spesa immediati, come prezzo per innalzare il limite del debito e scongiurare un blocco delle funzioni di governo[107]. Se questo ricatto avrà successo, esso costituirà un ulteriore prelievo su un’economia già debole.

Nel frattempo, un coro rumoroso sta chiedendo che la Fed e i suoi omologhi all’estero innalzino i tassi di interesse per prendere le distanze da una pretesa minaccia inflazionistica. Come l’articolo della Fed di New York sottolinea, la crescita dell’inflazione dei prezzi al consumo nel corso degli ultimi mesi – che sta già dando segni di un graduale assottigliamento – ha riflettuto fattori temporanei, mentre l’inflazione sottostante resta bassa[108]. Ma la Banca Centrale Europea sta già alzando i tassi, e la Fed è sotto pressione per fare la stessa cosa. Ulteriori tentativi di dare un aiuto all’espansione economica sembrano fuori questione.

 

 

Dunque, l’errore del 2010 può essere seguito da un errore anche più grande. Anche se ciò non accadesse, tuttavia, il fatto è che risposta della politica alla crisi è stata e resta assai inadeguata.

Coloro che si rifiutano di imparare dalla storia, sono condannati a ripeterla; è accaduto ed è quanto accade di continuo. Può essere che quello di cui stiamo facendo esperienza non sia una completa riedizione della Grande Depressione, ma si tratta di una piccola consolazione per le famiglie dei milioni di americani che patiscono una crisi che procede ineluttabile.

 

 

 

Vouchercare Is Not Medicare

By PAUL KRUGMAN
Published: June 5, 2011

What’s in a name? A lot, the National Republican Congressional Committee obviously believes. Last week, the committee sent a letter demanding that a TV station stop running an ad declaring that the House Republican budget plan would “end Medicare.” This, the letter insisted, was a false claim: the plan would simply install a “new, sustainable version of Medicare.”

 

But Comcast, the station’s owner, rejected the demand — and rightly so. For Republicans are indeed seeking to dismantle Medicare as we know it, replacing it with a much worse program.

I’m seeing many attempts to shout down anyone making this obvious point, and not just from Republican politicians. For some reason, many commentators seem to believe that accurately describing what the G.O.P. is actually proposing amounts to demagoguery. But there’s nothing demagogic about telling the truth.

 

Start with the claim that the G.O.P. plan simply reforms Medicare rather than ending it. I’ll just quote the blogger Duncan Black, who summarizes this as saying that “when we replace the Marines with a pizza, we’ll call the pizza the Marines.” The point is that you can name the new program Medicare, but it’s an entirely different program — call it Vouchercare — that would offer nothing like the coverage that the elderly now receive. (Republicans get huffy when you call their plan a voucher scheme, but that’s exactly what it is.)

 

Medicare is a government-run insurance system that directly pays health-care providers. Vouchercare would cut checks to insurance companies instead. Specifically, the program would pay a fixed amount toward private health insurance — higher for the poor, lower for the rich, but not varying at all with the actual level of premiums. If you couldn’t afford a policy adequate for your needs, even with the voucher, that would be your problem.

And most seniors wouldn’t be able to afford adequate coverage. A Congressional Budget Office analysis found that to get coverage equivalent to what they have now, older Americans would have to pay vastly more out of pocket under the Paul Ryan plan than they would if Medicare as we know it was preserved. Based on the budget office estimates, the typical senior would end up paying around $6,000 more out of pocket in the plan’s first year of operation.

 

By the way, defenders of the G.O.P. plan often assert that it resembles other, less unpopular programs. For a while they claimed, falsely, that Vouchercare would be just like the coverage federal employees get. More recently, I’ve been seeing claims that Vouchercare would be just like the system created for Americans under 65 by last year’s health care reform — a fairly remarkable defense from a party that has denounced that reform as evil incarnate.

 

So let me make two points. First, Obamacare was very much a second-best plan, conditioned by perceived political realities. Most of the health reformers I know would have greatly preferred simply expanding Medicare to cover all Americans. Second, the Affordable Care Act is all about making health care, well, affordable, offering subsidies whose size is determined by the need to limit the share of their income that families spend on medical costs.

 

 

Vouchercare, by contrast, would simply hand out vouchers of a fixed size, regardless of the actual cost of insurance. And these vouchers would be grossly inadequate.

But what about the claim that none of this matters, because Medicare as we know it is unsustainable? Nonsense.

 

Yes, Medicare has to get serious about cost control; it has to start saying no to expensive procedures with little or no medical benefits, it has to change the way it pays doctors and hospitals, and so on. And a number of reforms of that kind are, in fact, included in the Affordable Care Act. But with these changes it should be entirely possible to maintain a system that provides all older Americans with guaranteed essential health care.

Consider Canada, which has a national health insurance program, actually called Medicare, that is similar to the program we have for the elderly, but less open-ended and more cost-conscious. In 1970, Canada and the United States both spent about 7 percent of their G.D.P. on health care. Since then, as United States health spending has soared to 16 percent of G.D.P., Canadian spending has risen much more modestly, to only 10.5 percent of G.D.P. And while Canadian health care isn’t perfect, it’s not bad.

Canadian Medicare, then, looks sustainable; why can’t we do the same thing here? Well, you know the answer in the case of the Republicans: They don’t want to make Medicare sustainable, they want to destroy it under the guise of saving it.

So in voting for the House budget plan, Republicans voted to end Medicare. Saying that isn’t demagoguery, it’s just pointing out the truth.

 

L’assistenza con i vouchers non è Medicare, i Paul Krugman

New York Times 5 giugno 2011

Cosa c’è in un nome? Molto, credono sicuramente al Comitato Nazionale dei congressisti repubblicani. La scorsa settimana, il Comitato ha inviato una lettera chiedendo che una stazione televisiva cessi la messa in onda di una propaganda con la quale si afferma che il programma di bilancio dei repubblicani della Camera “eliminerebbe Medicare”. Si tratta, continua la lettera, di una affermazione falsa: il programma semplicemente metterebbe in atto una “versione nuova e sostenibile di Medicare”.

Ma Comcast, il proprietario della stazione, ha respinto la richiesta – e giustamente. Giacché i Repubblicani stanno cercando davvero si smantellare Medicare come lo conosciamo, e di rimpiazzarlo con un programma assai peggiore.

Vedo che sono in atto vari tentativi di far tacere chiunque sostenga questa posizione ovvia, e non solo da parte di uomini politici repubblicani. Per una qualche ragione, molti commentatori sembrano ritenere che la descrizione scrupolosa di quello che il Partito Repubblicano effettivamente sta proponendo, corrisponda a fare demagogia. Ma non c’è niente di demagogico nel dire la verità.

Cominciamo dalla pretesa secondo la quale il programma del Partito Repubblicano sarebbe semplicemente una riforma di Medicare, e non la sua chiusura. Mi limito a riportare una citazione dal blogger Duncan Black, il quale sintetizza la questione dicendo “quando rimpiazzeremo i Marines con una pizza, chiameremo quella pizza ‘i Marines’ ”. Il fatto è che si può dare al nuovo programma il nome di Medicare, giacché si tratta di un programma interamente diverso – chiamiamolo Vouchercare[109] che non offrirebbe agli anziani niente di paragonabile a quello che oggi ricevono (i Repubblicani si stizziscono quando si chiama il loro programma ‘progetto voucher”, ma è esattamente quello di cui si tratta).

Medicare è un sistema assicurativo gestito dal governo che paga direttamente ai fornitori l’assistenza sanitaria. Vouchercare, invece, staccherebbe gli assegni alle compagnie di assicurazione. In particolare, il programma pagherebbe una quota fissa alle assicurazioni sanitarie private – più elevata per i poveri, più bassa per i ricchi, ma per niente diversa dal livello attuale dei premi. Se non potrete permettervi, anche con i vouchers, una conduzione[110] adeguata ai vostri bisogni, sarà affar vostro.

E gran parte degli anziani non sarebbero nelle condizioni di permettersi una copertura adeguata. L’ Ufficio del Bilancio del Congresso ha scoperto che per avere una copertura equivalente a quella che si ottiene oggi, gli americani più anziani dovrebbero pagare di tasca loro molto di più con il ‘piano Ryan’, di quanto pagherebbero se fosse conservato Medicare come lo conosciamo. Basandosi sulle stime dell’ufficio del bilancio, l’anziano medio finirebbe col pagare sei mila dollari in più di tasca propria, nel primo anno di operatività del programma.

Tra parentesi, i sostenitori del piano del Partito Repubblicano spesso affermano che esso somigli ad altri, meno impopolari, programmi. Per un certo periodo, essi hanno sostenuto, falsamente, che Vouchercare sarebbe stato del tutto simile alla assicurazione degli impiegati federali. Più recentemente, ho visto sostenere che Vouchercare sarebbe identico al sistema creato per gli americani sotto i 65 anni dalla riforma della assistenza sanitaria dell’anno passato – una difesa piuttosto rimarchevole, da parte di un partito che aveva denunciato quella riforma come un’incarnazione del maligno.

Lasciatemi, dunque, porre due questioni. La prima: la riforma della assistenza di Obama è stata in buona misura la migliore soluzione di riserva, alla luce dei condizionamenti politici che si percepivano. Gran parte degli esperti di riforme sanitarie che conosco avrebbero volentieri preferito una semplice estensione di Medicare per assicurare tutti gli Americani. La seconda: la Legge sulla Assistenza Sostenibile è interamente dedicata, come dice la parola stessa, a rendere l’assistenza sanitaria sostenibile, offrendo sussidi la cui dimensione e determinata dalla necessità di limitare la quota di reddito che le famiglie destinano ai costi delle cure mediche.

All’opposto, Vouchercare semplicemente distribuirebbe vouchers di dimensioni fisse, senza riguardo ai costi effettivi dell’assicurazione. E questi vouchers sarebbero del tutto inadeguati.

Che dire della affermazione secondo la quale tutti questi argomenti non contano, perché Medicare come lo conosciamo non ce lo possiamo permettere? E’ un giudizio privo di senso.

E’ vero, Medicare deve pervenire ad un serio controllo dei costi; esso deve cominciare a dire dei ‘no’ a procedure costose con benefici sanitari modesti o nulli, deve cambiare i modi di pagamento dei medici e degli ospedali, e così via. E un certo numero di riforme di tal genere sono, di fatto, incluse nella Legge sulla Assistenza Sostenibile. Ma con questi cambiamenti dovrebbe essere del tutto possibile mantenere un sistema che fornisca a tutti gli americani anziani la garanzia di una assistenza sanitaria essenziale.

Si consideri il Canada, che ha un programma di assicurazione sanitaria nazionale, anch’esso chiamato Medicare, che è simile al programma che noi abbiamo per i più anziani, ma meno permissivo[111] e più consapevole dei costi. Nel 1970, sia il Canada che gli Stati Uniti spendevano il 7 per cento del loro PIL in assistenza sanitaria. Da allora, mentre la spesa sanitaria degli Stati Uniti è schizzata al 16 per cento del PIL, la spesa del Canada è cresciuta molto più modestamente, a solo il 10,5 per cento del PIL. E se l’assistenza sanitaria canadese non è perfetta, non è certo cattiva.

Il Medicare canadese, dunque, sembra sostenibile; perché non possiamo fare la stessa cosa qua da noi? Ebbene, a questo proposito voi conoscete la risposta dei Repubblicani: essi non vogliono rendere Medicare sostenibile, vogliono distruggerlo e farlo apparire come un salvataggio.

Così, votando il programma di Bilancio della Camera, i repubblicani hanno votato per la chiusura di Medicare. Dire questo non è fare della demagogia, è soltanto mettere in evidenza la verità.  

      

 

 

 

Rule by Rentiers

By PAUL KRUGMAN
Published: June 9, 2011

The latest economic data have dashed any hope of a quick end to America’s job drought, which has already gone on so long that the average unemployed American has been out of work for almost 40 weeks. Yet there is no political will to do anything about the situation. Far from being ready to spend more on job creation, both parties agree that it’s time to slash spending — destroying jobs in the process — with the only difference being one of degree.

 

Nor is the Federal Reserve riding to the rescue. On Tuesday, Ben Bernanke, the Fed chairman, acknowledged the grimness of the economic picture but indicated that he will do nothing about it.

And debt relief for homeowners — which could have done a lot to promote overall economic recovery — has simply dropped off the agenda. The existing program for mortgage relief has been a bust, spending only a tiny fraction of the funds allocated, but there seems to be no interest in revamping and restarting the effort.

 

The situation is similar in Europe, but arguably even worse. In particular, the European Central Bank’s hard-money, anti-debt-relief rhetoric makes Mr. Bernanke sound like William Jennings Bryan.

What lies behind this trans-Atlantic policy paralysis? I’m increasingly convinced that it’s a response to interest-group pressure. Consciously or not, policy makers are catering almost exclusively to the interests of rentiers — those who derive lots of income from assets, who lent large sums of money in the past, often unwisely, but are now being protected from loss at everyone else’s expense.

 

 

Of course, that’s not the way what I call the Pain Caucus makes its case. Instead, the argument against helping the unemployed is framed in terms of economic risks: Do anything to create jobs and interest rates will soar, runaway inflation will break out, and so on. But these risks keep not materializing. Interest rates remain near historic lows, while inflation outside the price of oil — which is determined by world markets and events, not U.S. policy — remains low.

 

And against these hypothetical risks one must set the reality of an economy that remains deeply depressed, at great cost both to today’s workers and to our nation’s future. After all, how can we expect to prosper two decades from now when millions of young graduates are, in effect, being denied the chance to get started on their careers?

Ask for a coherent theory behind the abandonment of the unemployed and you won’t get an answer. Instead, members of the Pain Caucus seem to be making it up as they go along, inventing ever-changing rationales for their never-changing policy prescriptions.

 

While the ostensible reasons for inflicting pain keep changing, however, the policy prescriptions of the Pain Caucus all have one thing in common: They protect the interests of creditors, no matter the cost. Deficit spending could put the unemployed to work — but it might hurt the interests of existing bondholders. More aggressive action by the Fed could help boost us out of this slump — in fact, even Republican economists have argued that a bit of inflation might be exactly what the doctor ordered — but deflation, not inflation, serves the interests of creditors. And, of course, there’s fierce opposition to anything smacking of debt relief.

 

Who are these creditors I’m talking about? Not hard-working, thrifty small business owners and workers, although it serves the interests of the big players to pretend that it’s all about protecting little guys who play by the rules. The reality is that both small businesses and workers are hurt far more by the weak economy than they would be by, say, modest inflation that helps promote recovery.

No, the only real beneficiaries of Pain Caucus policies (aside from the Chinese government) are the rentiers: bankers and wealthy individuals with lots of bonds in their portfolios.

And that explains why creditor interests bulk so large in policy; not only is this the class that makes big campaign contributions, it’s the class that has personal access to policy makers — many of whom go to work for these people when they exit government through the revolving door. The process of influence doesn’t have to involve raw corruption (although that happens, too). All it requires is the tendency to assume that what’s good for the people you hang out with, the people who seem so impressive in meetings — hey, they’re rich, they’re smart, and they have great tailors — must be good for the economy as a whole.

 

 

But the reality is just the opposite: creditor-friendly policies are crippling the economy. This is a negative-sum game, in which the attempt to protect the rentiers from any losses is inflicting much larger losses on everyone else. And the only way to get a real recovery is to stop playing that game.

 

Governo dei rentiers, di Paul Krugman

New York Times 9 giugno 2011

 

Gli ultimi dati economici hanno annientato ogni speranza di una rapida fine di questa siccità di posti di lavoro in America, che dura già da un tempo tale che, in media, il disoccupato americano risulta fuori dal lavoro da quasi 40 settimane. Tuttavia non si manifesta alcuna volontà politica di fare qualcosa per questa situazione. Lungi dall’essere disposti a spendere di più per la creazione di posti di lavoro, entrambi i partiti concordano che è venuto il tempo di tagliare la spesa pubblica – distruggendo in tal modo posti di lavoro – e si distinguono soltanto quanto all’intensità di quella politica.

Del resto, la Federal Reserve non sta orientandosi ad alcuna azione di soccorso. Il Presidente della Fed Ben Bernanke, giovedì, ha riconosciuto la severità dal quadro economico, ma ha segnalato che non intende fare niente al proposito.

E un alleggerimento del debito per i proprietari di abitazioni – che sarebbe stato assai utile per promuovere una ripresa economica generalizzata – è semplicemente uscito dall’agenda. Il programma esistente per la ristrutturazione dei mutui ha fatto fiasco, con l’utilizzo soltanto di una minuscola frazione dei fondi predisposti, ma non sembra esserci alcun interesse per riaccendere e far ripartire lo sforzo.

In Europa la situazione è simile, se non addirittura peggiore. In particolare, la politica della moneta forte della Banca Centrale Europea, la retorica ostile ad ogni concessione sul debito, fanno di Ben Bernanke una sorta di William Jennings Bryan[112].

Cosa sta dietro questa paralisi politica transatlantica? Mi convinco sempre di più che si tratti di una risposta alla pressione di interessi di gruppo. Consapevoli o meno, gli operatori politici pensano a soddisfare esclusivamente gli interessi dei detentori di rendite – di coloro che derivano grandi redditi dal possesso di beni, che hanno dato in prestito nel passato grandi somme di denaro, spesso incautamente, ma che oggi vengono protetti da perdite  a spese di tutti gli altri.

Naturalmente, non vengono addotti argomenti della specie che io definisco del “partito della sofferenza[113]”. Piuttosto, l’argomento contro il sostegno ai disoccupati è presentato in termini di rischi economici: fate qualcosa per creare posti di lavoro ed i tassi di interesse saliranno alle stelle, si sprigionerà[114] un’inflazione senza controllo, e così via. Ma questi rischi continuano a non materializzarsi. I tassi di interesse rimangono prossimi ai minimi storici, mentre l’inflazione – con l’eccezione del prezzo del petrolio, che è determinato dagli eventi e dai mercati mondiali e non dalla politica degli Stati Uniti – resta bassa.

E, a fronte di questi rischi ipotetici, si deve collocare la realtà di una economia che resta profondamente depressa, con costi grandi sia per i lavoratori di oggi che per l’America di domani. In fin dei conti, come possiamo aspettarci di essere prosperi nei prossimi due decenni, quando a milioni di giovani diplomati viene negata, in pratica, la possibilità di dare avvio alle loro carriere?

 

Chiedetevi quale sia una teoria coerente dietro l’abbandono dei disoccupati e non troverete una risposta. Piuttosto, i componenti del ‘partito della sofferenza’ sembrano attrezzarsi in corso d’opera, inventando concetti in continua evoluzione per le loro ricette politiche che non cambiano mai.

Tuttavia, mentre le verosimili ragioni per infliggere patimenti cambiano in continuazione, le ricette politiche del ‘partito della sofferenza’ hanno tutte una cosa in comune: proteggono, a prescindere dai costi, gli interessi dei creditori. La spesa pubblica in deficit potrebbe mettere al lavoro i disoccupati – ma potrebbe colpire gli interessi degli attuali proprietari di bonds. Una iniziativa più aggressiva da parte della Fed contribuirebbe a spingerci fuori da questa crisi – di fatto, anche economisti repubblicani hanno ammesso che un po’ d’inflazione possa essere precisamente quello che ordinerebbe il dottore – ma è la deflazione, non l’inflazione, che serve agli interessi dei creditori. E, naturalmente, c’è una fiera opposizione a qualsiasi cosa alluda ad un alleggerimento del debito.

Chi sono questi creditori dei quali sto parlando? Non è gente che lavora duro, piccoli imprenditori e lavoratori parsimoniosi, sebbene faccia comodo agli interessi dei principali protagonisti far credere che abbia tutto a che fare con poveri cristi che stanno alle regole. La verità è che sia i piccoli imprenditori che i lavoratori sono molto più colpiti da un’economia debole che non, ad esempio, da una modesta inflazione che contribuirebbe a promuove la ripresa.

No, gli unici veri beneficiari delle politiche del ‘partito della sofferenza’ (a parte il governo cinese) sono i redditieri: banchieri e ricchi individui con un sacco di obbligazioni nei loro portafogli.

E questo spiega perché gli interessi dei creditori occupino una posizione così preminente nella politica: non si tratta soltanto della categoria che fornisce grandi contributi nelle campagne elettorali, si tratta degli individui che hanno un rapporto personale con gli uomini politici – molti dei quali vanno a lavorare al servizio di tali individui allorquando escono per la porta girevole dalle sedi del governo. Non è necessario che i modi di tale influenza abbiano a che fare con la corruzione vera e propria (sebbene accada anche questo). Tutto quello che è richiesto è la attitudine a considerare che quello che è buono per la gente che si frequenta, la gente che fa così colpo nelle manifestazioni – suvvia, sono ricchi, sono eleganti, si riforniscono da rinomati sarti su misura! – debba esser buono per l’economia nel suo complesso.

Ma la realtà è proprio all’opposto: le politiche amichevoli verso i creditori stanno danneggiando l’economia. Questo è un gioco a perdere, nel quale la protezione dei rentiers da qualsiasi perdita sta infliggendo perdite molto più grandi a tutti gli altri. L’unico modo per avere una ripresa effettiva è smetterla con un gioco del genere.

 

 

 

 

 

 

Medicare Saves Money

By PAUL KRUGMAN
Published: June 12, 2011

 

Every once in a while a politician comes up with an idea that’s so bad, so wrongheaded, that you’re almost grateful. For really bad ideas can help illustrate the extent to which policy discourse has gone off the rails.

And so it was with Senator Joseph Lieberman’s proposal, released last week, to raise the age for Medicare eligibility from 65 to 67.

Like Republicans who want to end Medicare as we know it and replace it with (grossly inadequate) insurance vouchers, Mr. Lieberman describes his proposal as a way to save Medicare. It wouldn’t actually do that. But more to the point, our goal shouldn’t be to “save Medicare,” whatever that means. It should be to ensure that Americans get the health care they need, at a cost the nation can afford.

 

 

And here’s what you need to know: Medicare actually saves money — a lot of money — compared with relying on private insurance companies. And this in turn means that pushing people out of Medicare, in addition to depriving many Americans of needed care, would almost surely end up increasing total health care costs.

The idea of Medicare as a money-saving program may seem hard to grasp. After all, hasn’t Medicare spending risen dramatically over time? Yes, it has: adjusting for overall inflation, Medicare spending per beneficiary rose more than 400 percent from 1969 to 2009.

But inflation-adjusted premiums on private health insurance rose more than 700 percent over the same period. So while it’s true that Medicare has done an inadequate job of controlling costs, the private sector has done much worse. And if we deny Medicare to 65- and 66-year-olds, we’ll be forcing them to get private insurance — if they can — that will cost much more than it would have cost to provide the same coverage through Medicare.

By the way, we have direct evidence about the higher costs of private insurance via the Medicare Advantage program, which allows Medicare beneficiaries to get their coverage through the private sector. This was supposed to save money; in fact, the program costs taxpayers substantially more per beneficiary than traditional Medicare.

And then there’s the international evidence. The United States has the most privatized health care system in the advanced world; it also has, by far, the most expensive care, without gaining any clear advantage in quality for all that spending. Health is one area in which the public sector consistently does a better job than the private sector at controlling costs.

Indeed, as the economist (and former Reagan adviser) Bruce Bartlett points out, high U.S. private spending on health care, compared with spending in other advanced countries, just about wipes out any benefit we might receive from our relatively low tax burden. So where’s the gain from pushing seniors out of an admittedly expensive system, Medicare, into even more expensive private health insurance?

Wait, it gets worse. Not every 65- or 66-year-old denied Medicare would be able to get private coverage — in fact, many would find themselves uninsured. So what would these seniors do?

Well, as the health economists Austin Frakt and Aaron Carroll document, right now Americans in their early 60s without health insurance routinely delay needed care, only to become very expensive Medicare recipients once they reach 65. This pattern would be even stronger and more destructive if Medicare eligibility were delayed. As a result, Mr. Frakt and Mr. Carroll suggest, Medicare spending might actually go up, not down, under Mr. Lieberman’s proposal.

 

O.K., the obvious question: If Medicare is so much better than private insurance, why didn’t the Affordable Care Act simply extend Medicare to cover everyone? The answer, of course, was interest-group politics: realistically, given the insurance industry’s power, Medicare for all wasn’t going to pass, so advocates of universal coverage, myself included, were willing to settle for half a loaf. But the fact that it seemed politically necessary to accept a second-best solution for younger Americans is no reason to start dismantling the superior system we already have for those 65 and over.

 

 

 

Now, none of what I have said should be taken as a reason to be complacent about rising health care costs. Both Medicare and private insurance will be unsustainable unless there are major cost-control efforts — the kind of efforts that are actually in the Affordable Care Act, and which Republicans demagogued with cries of “death panels.”

 

 

The point, however, is that privatizing health insurance for seniors, which is what Mr. Lieberman is in effect proposing — and which is the essence of the G.O.P. plan — hurts rather than helps the cause of cost control. If we really want to hold down costs, we should be seeking to offer Medicare-type programs to as many Americans as possible.

 

Con Medicare si risparmia, di Paul Krugman

New York Times 12 giugno 2011

 

 

Di tanto in tanto un uomo politico se ne viene fuori con un’idea così cattiva, così assurda, che c’è quasi da essergli grati. Perché, in effetti, le idee cattive possono contribuire a mostrare la misura nella quale il dibattito politico è uscito dai binari.

Tale è stata la proposta della settimana scorsa, da parte del Senatore Joseph Lieberman[115],  di innalzare da 65 a 67 anni l’età per l’idoneità a Medicare.

 

Nello stesso modo dei Repubblicani, che vogliono liquidare il Medicare che conosciamo e sostituirlo con un sistema assicurativo completamente inadeguato basato sui vouchers, il signor Lieberman descrive la sua proposta come un modo per salvare Medicare. Effettivamente, essa non otterrebbe quello scopo. Ma più precisamente, il nostro obbiettivo non dovrebbe essere quello di “salvare Medicare”, qualsiasi cosa ciò significhi; dovrebbe essere quello di assicurare agli americani la assistenza sanitaria di cui hanno bisogno, ad un costo che la nazione possa sostenere.

Ed ecco quello che si deve sapere: in realtà, a confronto con le compagnie assicurative private, Medicare risparmia denaro, una grande quantità di denaro. Il che a sua volta significa che spingere le persone fuori da Medicare, oltre a privare molti americani delle cure necessarie, quasi sicuramente finirebbe con l’accrescere i costi complessivi della assistenza sanitaria.

L’idea di un Medicare come un programma che fa risparmiare, può sembrare difficile da afferrare. Dopo tutto, la spesa per Medicare non è cresciuta col tempo in modo spettacolare? E’ così, in effetti: la spesa per assistito di Medicare, corretta per l’inflazione complessiva, è cresciuta più del 400 per cento dal 1969 al 2009.

Ma, nello stesso periodo, i premi delle assicurazioni private, corretti per l’inflazione, sono cresciuti più del 700 per cento. Dunque, se è vero che Medicare ha avuto un controllo dei costi inadeguato, il settore privato ha fatto molto peggio. E se si nega agli anziani di 65 e 66 anni Medicare, li si costringerà a cercarsi assicurazioni private – ammesso che possano – la qualcosa costerà loro di più di quanto costerebbe la stessa assistenza attraverso Medicare.

 

Per inciso, noi abbiamo una esperienza diretta dei costi più alti delle assicurazioni private attraverso il programma Medicare Advantage, che permette agli assistiti di Medicare di ottenere la loro copertura per il tramite del settore privato. Si pensava che questo servisse a risparmiare; nei fatti, quel programma costa ai contribuenti, per persona assistita,  sostanzialmente di più del tradizionale Medicare.

Inoltre, c’è la prova degli altri paesi. Gli Stati Uniti hanno il sistema di assistenza sanitaria più privatizzato del mondo avanzato; hanno anche, di gran lunga, l’assistenza più costosa, senza che tutta quella spesa comporti alcun chiaro vantaggio qualitativo. Nel controllo dei costi, la salute è un’area nella quale il settore pubblico svolge un compito notevolmente migliore del settore privato.

In effetti, come nota l’economista Bruce Bartlett (già consigliere di Reagan), l’elevata spesa privata sulla assistenza sanitaria, a confronto con la spesa degli altri paesi avanzati, più o meno spazza via ogni beneficio che possiamo avere dal nostro carico fiscale relativamente basso. Dunque, dove sarebbe il guadagno ad espellere gli anziani da un sistema manifestamente costoso come Medicare, alle persino più costose assicurazioni sanitarie private?

E aspettate, perché ci sarebbe di peggio. Non tutti gli anziani di 65, 66 anni sarebbero nelle condizioni di ottenere una copertura privata – di fatto, molti si ritroverebbero senza assicurazione. E cosa farebbero questi anziani?

Ebbene, come documentano gli economisti Austin Frakt e Aaron Carrol, già oggi gli americani senza assicurazione sanitaria nella fascia d’età dei loro primi anni sessanta rinviano cure necessarie, con il solo risultato di diventare destinatari molto dispendiosi di Medicare una volta che raggiungono i 65 anni. Questa abitudine diventerebbe anche più forte e distruttiva se il diritto a Medicare fosse rinviato nel tempo. Con il risultato, suggeriscono Frakt e Carroll, che con la proposta di Lieberman la spesa pubblica per Medicare effettivamente salirebbe, anziché scendere.

Naturalmente ci si imbatte nella consueta domanda: se Medicare è talmente migliore della assistenza privata, perché la Legge sull’Assistenza Sostenibile non ha semplicemente esteso a tutti la copertura di Medicare? La spiegazione, come si sa, è consistita negli interessi delle corporazioni: realisticamente, considerato il potere dell’industria delle assicurazioni, Medicare per tutti non sarebbe stato approvato, di conseguenza i sostenitori della copertura assicurativa universale, incluso il sottoscritto, hanno scelto di accontentarsi di un mezzo risultato[116]. Ma il fatto che sia sembrato politicamente necessario accettare una soluzione di riserva per gli americani più giovani, non è un motivo per prendere a smantellare il sistema di qualità superiore che già abbiamo per quelli che hanno 65 anni e più.

Ora, nessuna delle cose che ho detto dovrebbero essere considerate come una ragione per essere permissivi sui costi crescenti della assistenza sanitaria. Sia Medicare che le assicurazioni private diventeranno insostenibili senza maggiori sforzi di controllo dei costi – quel genere di sforzi che effettivamente sono previsti dalla Legge sull’Assistenza Sostenibile, e contro i quali i Repubblicani hanno demagogicamente urlato ai “tribunali della morte”.

Il punto, tuttavia, è che la privatizzazione della assistenza sanitaria per gli anziani, che è quanto il signor Lieberman effettivamente sta proponendo – nonché la sostanza del programma del Partito Repubblicano – danneggia anziché aiutare la causa del controllo dei costi. Se vogliamo realmente abbassare i costi, dovremmo cercare di offrire a più americani possibile programmi del genere di  Medicare.      

 

 

 

To the Limit

By PAUL KRUGMAN
Published: June 30, 2011

 

In about a month, if nothing is done, the federal government will hit its legal debt limit. There will be dire consequences if this limit isn’t raised. At best, we’ll suffer an economic slowdown; at worst we’ll plunge back into the depths of the 2008-9 financial crisis.

So is a failure to raise the debt ceiling unthinkable? Not at all.

Many commentators remain complacent about the debt ceiling; the very gravity of the consequences if the ceiling isn’t raised, they say, ensures that in the end politicians will do what must be done. But this complacency misses two important facts about the situation: the extremism of the modern G.O.P., and the urgent need for President Obama to draw a line in the sand against further extortion.

Let’s talk about how we got here.

The federal debt limit is a strange quirk of U.S. budget law: since debt is the consequence of decisions about taxing and spending, and Congress already makes those taxing and spending decisions, why require an additional vote on debt? And traditionally the debt limit has been treated as a minor detail. During the administration of former President George W. Bush — who added more than $4 trillion to the national debt — Congress, with little fanfare, voted to raise the debt ceiling no less than seven times.

 

So the use of the debt ceiling to extort political concessions is something new in American politics. And it seems to have come as a complete surprise to Mr. Obama.

Last December, after Mr. Obama agreed to extend the Bush tax cuts — a move that many people, myself included, viewed as in effect a concession to Republican blackmail — Marc Ambinder of The Atlantic asked why the deal hadn’t included a rise in the debt limit, so as to forestall another hostage situation (my words, not Mr. Ambinder’s).

 

The president’s response seemed clueless even then. He asserted that “nobody, Democrat or Republican, is willing to see the full faith and credit of the United States government collapse,” and that he was sure that John Boehner, as speaker of the House, would accept his “responsibilities to govern.”

Well, we’ve seen how that worked out.

Now, Mr. Obama was right about the dangers of failing to raise the debt limit. In fact, he understated the case, by focusing only on financial confidence.

Not that the confidence issue is trivial. Failure to raise the debt limit — which would, among other things, disrupt payments on existing debt — could convince investors that the United States is no longer a serious, responsible country, with nasty consequences. Furthermore, nobody knows what a U.S. default would do to the world financial system, which is built on the presumption that U.S. government debt is the ultimate safe asset.

But confidence isn’t the only thing at stake. Failure to raise the debt limit would also force the U.S. government to make drastic, immediate spending cuts, on a scale that would dwarf the austerity currently being imposed on Greece. And don’t believe the nonsense about the benefits of spending cuts that has taken over much of our public discourse: slashing spending at a time when the economy is deeply depressed would destroy hundreds of thousands and quite possibly millions of jobs.

 

So failure to reach a debt deal would have very bad consequences. But here’s the thing: Mr. Obama must be prepared to face those consequences if he wants his presidency to survive.

Bear in mind that G.O.P. leaders don’t actually care about the level of debt. Instead, they’re using the threat of a debt crisis to impose an ideological agenda. If you had any doubt about that, last week’s tantrum should have convinced you. Democrats engaged in debt negotiations argued that since we’re supposedly in dire fiscal straits, we should talk about limiting tax breaks for corporate jets and hedge-fund managers as well as slashing aid to the poor and unlucky. And Republicans, in response, walked out of the talks.

 

 

So what’s really going on is extortion pure and simple. As Mike Konczal of the Roosevelt Institute puts it, the G.O.P. has, in effect, come around with baseball bats and declared, “Nice economy you have here. A real shame if something happened to it.”

And the reason Republicans are doing this is because they must believe that it will work: Mr. Obama caved in over tax cuts, and they expect him to cave again. They believe that they have the upper hand, because the public will blame the president for the economic crisis they’re threatening to create. In fact, it’s hard to avoid the suspicion that G.O.P. leaders actually want the economy to perform badly.

Republicans believe, in short, that they’ve got Mr. Obama’s number, that he may still live in the White House but that for practical purposes his presidency is already over. It’s time — indeed, long past time — for him to prove them wrong.

 

Verso il limite, di Paul Krugman

New York Times 30 giugno 2011

 

 

Tra circa un mese, se non si fa niente, il Governo federale raggiungerà il limite legale del suo debito. Ci saranno conseguenze terribili se questo limite non sarà aumentato. Nel migliore dei casi, sopporteremo un rallentamento dell’economia; nel peggiore precipiteremo di nuovo negli abissi della crisi finanziaria del 2008-9.

E’ dunque impensabile non ottenere un innalzamento del tetto del debito? Niente affatto.

Molti commentatori restano fiduciosi sul limite del debito: la gravità estrema delle conseguenze se quel tetto non sarà superato, dicono, garantisce che alla fine gli uomini politici faranno quello che si deve fare. Ma questa noncuranza non considera due importanti aspetti della situazione: l’estremismo del Partito Repubblicano dei nostri giorni e il bisogno urgente del Presidente Obama di fissare un limite invalicabile a ulteriori ricatti.

Ragioniamo di come siamo arrivati a questo punto.

Il limite federale del debito è uno strano vezzo della legislazione sul bilancio degli Stati Uniti: dal momento che il debito è la conseguenza di decisioni in materia di tasse e di spesa pubblica, perché chiedere un voto addizionale sul debito? In effetti, tradizionalmente il limite del debito è stato considerato come un dettaglio secondario. Durante la Amministrazione del precedente Presidente George W. Bush – che aggiunse più di 4 mila miliardi di dollari al debito nazionale – il Congresso, senza alcun clamore, votò l’innalzamento del tetto del debito non meno di sette volte.

Dunque, l’utilizzo del tetto del debito per estorcere concessioni politiche è qualcosa di nuovo nella politica americana. E, a quanto pare, è stata una sorpresa assoluta per Obama.

Lo scorso dicembre, dopo che Obama concordò una proroga degli sgravi fiscali di Bush – una mossa che in molti, incluso il sottoscritto, considerarono come una concessione ad un vero e proprio ricatto repubblicano – Marc Ambinder di The Atlantic[117] chiese perché l’accordo non avesse incluso un innalzamento del limite del debito, in modo da prevenire un altro passaggio ricattatorio (parole mie, non del signor Ambinder).

La risposta del Presidente sembrò anche allora piuttosto sprovveduta. Egli dichiarò che “nessuno, Democratico o Repubblicano, desidera assistere al collasso della piena affidabilità e del credito del Governo degli Stati Uniti” e che era sicuro che John Boehner, come speaker della Camera, avrebbe accettato le sue “responsabilità di governo”.

Ebbene, si è visto come si è risolta.

Ora, Obama aveva ragione a proposito dei pericoli in mancanza di un innalzamento del tetto del debito. Semmai, egli sottovalutava la situazione, concentrandosi solo sulla fiducia del sistema finanziario.

Non che la questione della fiducia sia banale. Non innalzare il tetto del debito – che, tra le altre cose, metterebbe in crisi i pagamenti sul debito esistente – potrebbe convincere gli investitori del fatto che gli Stati Uniti non siano più un paese serio e responsabile, con conseguenze sgradevoli. Inoltre, nessuno sa cosa provocherebbe un default degli Stati Uniti su un sistema finanziario mondiale che è costruito sulla presunzione che il debito del Governo americano sia l’estrema risorsa di sicurezza.

Ma la fiducia non è l’unica questione in ballo. Non innalzare il limite del debito costringerebbe il Governo degli Stati Uniti a mettere in atto immediati e drastici tagli alla spesa, in una misura rispetto alla quale l’austerità che attualmente è imposta alla Grecia sembrerebbe poca cosa [118]. E non si creda alle sciocchezze che imperversano in gran parte del nostro dibattito pubblico sui benefici dei tagli alla spesa: abbattere la spesa in un periodo nel quale l’economia è profondamente depressa distruggerebbe centinaia di migliaia e forse milioni di posti di lavoro.

 

Dunque, non riuscire a raggiungere un accordo sul debito avrebbe conseguenze molto negative. Ma il punto è proprio lì: Obama deve essere pronto a fronteggiare conseguenze del genere, se vuole che la sua presidenza sopravviva.

Si tenga a mente che i dirigenti del Partito Repubblicano non si preoccupano affatto del livello del debito. Piuttosto, stanno utilizzando la minaccia di una crisi sul debito per imporre una agenda di carattere ideologico. Se avevate qualche dubbio a proposito, la scenata della scorsa settimana dovrebbe avervi convinto. I Democratici impegnati nelle negoziazioni sul debito hanno sostenuto che dal momento che sembra che siamo in terribili ristrettezze della finanza pubblica, dovremmo ragionare di una limitazione alle agevolazioni fiscali sugli aerei aziendali e sui dirigenti degli hedge-funds, oltre a tagliare gli aiuti ai poveri ed ai disgraziati. E i Repubblicani, per tutta risposta, hanno abbandonato i colloqui.

Dunque, quella che effettivamente è in atto è una estorsione pura e semplice. Come si è espresso Mike Konczal del Roosevelt Institute, in pratica è come se il Partito Repubblicano si fosse avvicinato armato di bastoni da baseball ed avesse dichiarato: “Ma che bella economia che avete! Sarebbe davvero un peccato se gli succedesse qualcosa!”.

E la ragione per la quale i Repubblicani si comportano in questo modo è perché credono che funzioni: Obama ha capitolato sugli sgravi fiscali e si aspettano che capitoli un’altra volta. Credono di poter avere la meglio, perché l’opinione pubblica incolperà il Presidente della crisi economica che essi stanno minacciando di provocare. In effetti, è difficile evitare il sospetto che il dirigenti del Partito Repubblicano vogliano che l’economia vada al peggio.

In breve, i repubblicani credono di aver preso le misure[119] di Obama, che egli possa ancora alloggiare alla Casa Bianca ma che per gli aspetti pratici la sua presidenza sia già superata. E’ il momento per lui di dimostrare che si sbagliano e, per la verità, questo momento è già venuto da un pezzo. 

      

 

 

 

Corporate Cash Con

By PAUL KRUGMAN
Published: July 3, 2011

Watching the evolution of economic discussion in Washington over the past couple of years has been a disheartening experience. Month by month, the discourse has gotten more primitive; with stunning speed, the lessons of the 2008 financial crisis have been forgotten, and the very ideas that got us into the crisis — regulation is always bad, what’s good for the bankers is good for America, tax cuts are the universal elixir — have regained their hold.

 

And now trickle-down economics — specifically, the idea that anything that increases corporate profits is good for the economy — is making a comeback.

On the face of it, this seems bizarre. Over the last two years profits have soared while employment has remained disastrously high. Why should anyone believe that handing even more money to corporations, no strings attached, would lead to faster job creation?

Nonetheless, trickle-down is clearly on the ascendant — and even some Democrats are buying into it. What am I talking about? Consider first the arguments Republicans are using to defend outrageous tax loopholes. How can people simultaneously demand savage cuts in Medicare and Medicaid and defend special tax breaks favoring hedge fund managers and owners of corporate jets?

 

Well, here’s what a spokesman for Eric Cantor, the House majority leader, told Greg Sargent of The Washington Post: “You can’t help the wage earner by taxing the wage payer offering a job.” He went on to imply, disingenuously, that the tax breaks at issue mainly help small businesses (they’re actually mainly for big corporations). But the basic argument was that anything that leaves more money in the hands of corporations will mean more jobs. That is, it’s pure trickle-down.

 

And then there’s the repatriation issue.

U.S. corporations are supposed to pay taxes on the profits of their overseas subsidiaries — but only when those profits are transferred back to the parent company. Now there’s a move afoot — driven, of course, by a major lobbying campaign — to offer an amnesty under which companies could move funds back while paying hardly any taxes. And even some Democrats are supporting this idea, claiming that it would create jobs.

 

As opponents of this plan point out, we’ve already seen this movie: A similar tax holiday was offered in 2004, with a similar sales pitch. And it was a total failure. Companies did indeed take advantage of the amnesty to move a lot of money back to the United States. But they used that money to pay dividends, pay down debt, buy up other companies, buy back their own stock — pretty much everything except increasing investment and creating jobs. Indeed, there’s no evidence that the 2004 tax holiday did anything at all to stimulate the economy.

 

What the tax holiday did do, however, was give big corporations a chance to avoid paying taxes, because they would eventually have repatriated, and paid taxes on, much of the money they brought in under the amnesty. And it also gave these companies an incentive to move even more jobs overseas, since they now know that there’s a good chance that they’ll be able to bring overseas profits home nearly tax-free under future amnesties.

Yet as I said, there’s a push for a repeat of this disastrous performance. And this time around the circumstances are even worse. Think about it: How can anyone imagine that lack of corporate cash is what’s holding back recovery in America right now? After all, it’s widely understood that corporations are already sitting on large amounts of cash that they aren’t investing in their own businesses.

In fact, that idle cash has become a major conservative talking point, with right-wingers claiming that businesses are failing to invest because of political uncertainty. That’s almost surely false: the evidence strongly says that the real reason businesses are sitting on cash is lack of consumer demand. In any case, if corporations already have plenty of cash they’re not using, why would giving them a tax break that adds to this pile of cash do anything to accelerate recovery?

 

It wouldn’t, of course; claims that a corporate tax holiday would create jobs, or that ending the tax break for corporate jets would destroy jobs, are nonsense.

 

So here’s what you should answer to anyone defending big giveaways to corporations: Lack of corporate cash is not the problem facing America. Big business already has the money it needs to expand; what it lacks is a reason to expand with consumers still on the ropes and the government slashing spending.

 

What our economy needs is direct job creation by the government and mortgage-debt relief for stressed consumers. What it very much does not need is a transfer of billions of dollars to corporations that have no intention of hiring anyone except more lobbyists.

 

La fregatura del denaro corrente alle imprese, di Paul Krugman

New York Times 3 luglio 2011

Assistere all’evoluzione del dibattito economico di Washington negli ultimi due anni è stata un’esperienza scoraggiante. Un mese dopo l’altro, gli argomenti sono diventati sempre più primitivi; con stupefacente velocità, la lezione della crisi finanziaria del 2008 è stata dimenticata e proprio le idee che ci hanno portato alla crisi – la regolamentazione è sempre negativa, quello che è buono per i banchieri è buono per l’America, gli sgravi fiscali sono la medicina universale – hanno riguadagnato la loro presa.

A questo punto, l’economia della ‘ricaduta’ [120] – precisamente, l’idea secondo la quale ogni cosa che accresce i profitti delle società è positiva per l’economia – sta tornando alla grande.

In apparenza, questo sembra bizzarro. Nel corso degli ultimi due anni  i profitti sono saliti alle stelle mentre la disoccupazione è rimasta disastrosamente elevata. Perché dovremmo tutti ritenere che consegnando ancora più denaro alle imprese, senza limitazioni, ci porterebbe più rapidamente alla creazione di posti di lavoro?

Nondimeno, l’dea della ‘ricaduta’ è chiaramente in ascesa – ed anche qualche democratico comincia a condividerla. Di cosa sto parlando? Si consideri anzitutto gli argomenti che stanno usando i Repubblicani in difesa di scandalose elusioni fiscali. Come si può contemporaneamente chiedere tagli selvaggi su Medicare e Medicaid e difendere gli sgravi fiscali a favore dei manager degli hedge-funds e dei proprietari di aerei aziendali?

Ebbene, questo è quello che un portavoce di Eric Cantor, il leader di maggioranza alla Camera, ha detto a Greg Sargent di The Washington Post: “non si possono aiutare i salariati tassando quelli che pagano i salari con l’offerta di lavoro”. Egli ha proseguito con il falso argomento secondo il quale gli sgravi fiscali in questione aiutano principalmente i piccoli imprenditori (mentre in effetti sono soprattutto per le grandi imprese). Ma l’argomento di base è stato che ogni soluzione che lascia più denaro nelle mani delle imprese comporterà più posti di lavoro. Questo è la teoria pura della ‘ricaduta’.

C’è poi il tema del rimpatrio dei capitali.

 

Si supponeva che le imprese americane pagassero le tasse sui profitti delle loro succursali oltreoceano – sia pure solo quando quei profitti venivano trasferiti alla casa-madre. Ora è in preparazione una mossa – spinta, naturalmente, da una cospicua campagna lobbistica – per offrire una amnistia per effetto della quale le società potrebbero far tornare i loro capitali praticamente senza pagare tasse. E persino alcuni democratici stanno sostenendo questa idea, affermando che essa produrrebbe posti di lavoro.

 

Come gli oppositori di questo piano sottolineano, si tratta di un film che abbiamo già visto: una simile ‘vacanza’ fiscale venne offerta nel 2004, sostenuta da una identica propaganda[121]. E fu un totale fallimento. In effetti, le società si avvantaggiarono della amnistia per far tornare grandi quantità di denaro negli Stati Uniti. Ma usarono quel denaro per pagare i dividendi, per restituire debiti, per fare incetta di altre imprese, per riscattare il loro proprio capitale azionario – per fare praticamente di tutto ad eccezione che gli investimenti e la creazione di posti di lavoro. In sostanza, non c’è alcuna prova che la ‘vacanza’ fiscale del 2004 abbia sortito alcun effetto di stimolo all’economia.

Quello che la vacanza fiscale fece, tuttavia, fu dare alle grandi imprese una possibilità per evitare di pagare le tasse, giacché alla fine esse avrebbero rimpatriato e pagato le tasse su gran parte del denaro che  riportarono sotto l’amnistia. Il che diede a quelle imprese l’incentivo a spostare un numero persino maggiore di posti di lavoro all’estero, dato che ora sanno che c’è una buona possibilità di portare a casa i profitti esteri praticamente senza tasse, con il beneficio di amnistie successive.

Tuttavia, come ho detto, è in atto una spinta per ripetere quella disastrosa esperienza. E stavolta le circostanze al contorno sono persino peggiori. Si pensi questo: chi, nella condizioni attuali, può immaginare che sia la mancanza di capitali aziendali a trattenere la ripresa economica in America? Dopo tutto, tutti capiscono che le società sono già sedute su grandi somme di contanti che non investono nelle loro imprese.

In effetti, il capitale inattivo è diventato un importante argomento della propaganda conservatrice, con la destra che sta affermando che le imprese rinunciano ad investire a causa della incertezza politica. La qual cosa è quasi sicuramente falsa: le prove dicono con forza che le reali ragioni per le quali le imprese sono sedute sui loro capitali è una carenza di domanda di consumi. In ogni caso, se le società sono già piene di capitali che non utilizzano, perché dar loro sgravi fiscali che aumenterebbero queste montagne di contanti sarebbe in qualche modo utile ad accelerare la ripresa?

Non lo sarebbe, naturalmente; l’affermazione secondo la quale una vacanza fiscale alle imprese creerebbe posti di lavoro, oppure quella secondo la quale l’interruzione degli sgravi fiscali sugli aerei aziendali distruggerebbe posti di lavoro, sono sciocchezze.

Ecco, dunque, quello che si dovrebbe rispondere a coloro che difendono l’idea di grandi concessioni alle società: la mancanza di capitali aziendali non è il problema che l’America ha di fronte. La grande impresa ha già il denaro che le serve per crescere; quello che manca è la ragione per una espansione, con i consumatori che sono ancora alle corde e il Governo che sta tagliando la spesa pubblica.

Quello di cui l’economia ha bisogno è la creazione diretta di posti di lavoro da parte del Governo e l’attenuazione del debito sui mutui per i consumatori in sofferenza. Quello di cui non c’è davvero bisogno è trasferire miliardi di dollari ad imprese che non hanno intenzione di assumere nessuno, se non qualche altro lobbista.

  

 

 

 

What Obama Wants

By PAUL KRUGMAN
Published: July 7, 2011

On Thursday, President Obama met with Republicans to discuss a debt deal. We don’t know exactly what was proposed, but news reports before the meeting suggested that Mr. Obama is offering huge spending cuts, possibly including cuts to Social Security and an end to Medicare’s status as a program available in full to all Americans, regardless of income.

 

Obviously, the details matter a lot, but progressives, and Democrats in general, are understandably very worried. Should they be? In a word, yes.

Now, this might just be theater: Mr. Obama may be pulling an anti-Corleone, making Republicans an offer they can’t accept. The reports say that the Obama plan also involves significant new revenues, a notion that remains anathema to the Republican base. So the goal may be to paint the G.O.P. into a corner, making Republicans look like intransigent extremists — which they are.

 

But let’s be frank. It’s getting harder and harder to trust Mr. Obama’s motives in the budget fight, given the way his economic rhetoric has veered to the right. In fact, if all you did was listen to his speeches, you might conclude that he basically shares the G.O.P.’s diagnosis of what ails our economy and what should be done to fix it. And maybe that’s not a false impression; maybe it’s the simple truth.

One striking example of this rightward shift came in last weekend’s presidential address, in which Mr. Obama had this to say about the economics of the budget: “Government has to start living within its means, just like families do. We have to cut the spending we can’t afford so we can put the economy on sounder footing, and give our businesses the confidence they need to grow and create jobs.”

 

That’s three of the right’s favorite economic fallacies in just two sentences. No, the government shouldn’t budget the way families do; on the contrary, trying to balance the budget in times of economic distress is a recipe for deepening the slump. Spending cuts right now wouldn’t “put the economy on sounder footing.” They would reduce growth and raise unemployment. And last but not least, businesses aren’t holding back because they lack confidence in government policies; they’re holding back because they don’t have enough customers — a problem that would be made worse, not better, by short-term spending cuts.

 

In his brief remarks after Thursday’s meeting, by the way, Mr. Obama seemed to reiterate the Herbert Hooveresque view that deficit reduction is what we need to “grow the economy.”

People have asked me why the president’s economic advisers aren’t telling him not to believe in the confidence fairy — that is, not to believe the assertion, popular on the right but overwhelmingly refuted by the evidence, that slashing spending in the face of a depressed economy will magically create jobs. My answer is, what economic advisers? Almost all the high-profile economists who joined the Obama administration early on have either left or are leaving.

 

 

Nor have they been replaced. As The Wall Street Journal recently noted, there are a “stunning” number of vacancies in important economic posts. So who’s defining the administration’s economic views?

Some of what we’re hearing is presumably coming from the political team, whose members seem to believe that a move toward Republican positions, reminiscent of former President Bill Clinton’s “triangulation” in the 1990s, is the key to Mr. Obama’s re-election. And Mr. Clinton did, indeed, rebound from a big defeat in the 1994 midterms to win big two years later. But some of us think that the rebound had less to do with his rhetorical move to the center than with the five million jobs the economy added over those two years — an achievement not likely to be repeated this time, especially not in the face of harsh spending cuts.

 

 

Anyway, I don’t believe that it’s all political calculation. Watching Mr. Obama and listening to his recent statements, it’s hard not to get the impression that he is now turning for advice to people who really believe that the deficit, not unemployment, is the top issue facing America right now, and who also believe that the great bulk of deficit reduction should come from spending cuts. It’s worth noting that even Republicans weren’t suggesting cuts to Social Security; this is something Mr. Obama and those he listens to apparently want for its own sake.

 

Which raises the big question: If a debt deal does emerge, and it overwhelmingly reflects conservative priorities and ideology, should Democrats in Congress vote for it?

Mr. Obama’s people will no doubt argue that their fellow party members should trust him, that whatever deal emerges was the best he could get. But it’s hard to see why a president who has gone out of his way to echo Republican rhetoric and endorse false conservative views deserves that kind of trust.

 

Quello che vuole Obama, di Paul Krugman

New York Times 7 luglio 2011

 

Giovedì il Presidente Obama si è incontrato con i Repubblicani per discutere un accordo sul debito. Non sappiamo esattamente cosa abbia proposto, ma le notizie d’agenzia successive all’incontro fanno pensare che Obama stia offrendo ampi tagli di spesa, che forse includono riduzioni alla Previdenza Sociale[122] e la fine della caratteristica di Medicare come programma interamente a disposizione di tutti gli Americani, a prescindere dal loro reddito.

Ovviamente, i dettagli hanno molta importanza, ma i progressisti, ed i Democratici in generale, sono comprensibilmente assai preoccupati. Hanno ragione di esserlo? In una parola, si.

In effetti, la scena potrebbe essere semplicemente la seguente: può darsi che Obama si sia messo nei panni di un ‘anti-Corleone[123]’, facendo ai Repubblicani un’offerta che essi non possono accettare. Le agenzie dicono che il piano di Obama comprende anche significative nuove entrate, un concetto che per la base repubblicana resta un anatema. L’obbiettivo sarebbe quello di lasciare il GOP[124] senza via d’uscita, facendo apparire i repubblicani come intransigenti estremisti, quali in effetti sono.

Ma, siamo franchi. Sta diventando sempre più difficile credere alle ragioni di Obama nella lotta sul bilancio, considerato il modo in cui la sua retorica ha sbandato a destra. Di fatto, se vi siete limitati ad ascoltare i suoi discorsi, dovreste concludere che egli sostanzialmente condivide la diagnosi del Partito Repubblicano su cosa affligge la nostra economia e su cosa potrebbe essere fatto per rimetterla in sesto. E può darsi che questa non sia una impressione fuorviante; può darsi che sia semplicemente la verità.

Un esempio impressionante della sua svolta a destra è venuto nel messaggio presidenziale dell’ultimo fine settimana, nel quale Obama, a proposito dell’economia del bilancio, ha sentito il bisogno di dire: “Il Governo deve cominciare a vivere con i suoi mezzi, come fanno le famiglie. Dobbiamo tagliare le spese che non possiamo permetterci in modo da mettere l’economia su basi più sane, e dare alle nostre imprese la fiducia di cui hanno bisogno per crescere e creare posti di lavoro”.

In due soli concetti ci sono i tre errori economici preferiti della destra. No, il Governo non dovrebbe fare programmi nello stesso modo delle famiglie; al contrario, cercare di riequilibrare il bilancio in tempi di difficoltà economiche è la ricetta per aggravare la crisi. I tagli alla spesa a questo punto non “metterebbero l’economia su basi più sane”.  Essi ridurrebbero la crescita ed accrescerebbero la disoccupazione. E infine, ma non meno importante, le imprese non sono trattenute da una mancanza di fiducia nelle politiche governative: piuttosto sono trattenute dal fatto che non hanno abbastanza clienti – problema che sarebbe aggravato, non migliorato, da tagli nell’immediato alla spesa pubblica.

Per inciso, nelle sue brevi considerazioni successive all’incontro di giovedì, Obama è sembrato riproporre il punto di vista herbert-hooveriano [125] secondo il quale la riduzione del deficit è quanto serve per “rimettere in moto l’economia”.

Alcuni mi hanno chiesto perché i consiglieri economici del Presidente non gli stanno dicendo di non affidarsi alla ‘fata turchina’ della fiducia[126] – ovvero, di non credere al concetto, che è un luogo comune della destra ancorché contraddetto in modo eclatante da ogni evidenza, secondo il quale il taglio della spesa pubblica a fronte di un’economia depressa creerebbe magicamente posti di lavoro. La mia risposta è, quali consiglieri economici? Praticamente tutti gli economisti di un certo rilievo che collaboravano inizialmente con la Amministrazione Obama, o se ne sono andati o se ne stanno andando.

 

E neanche sono stati rimpiazzati. Come The Wall Street Journal ha notato di recente, c’è uno stupefacente numero di posti vacanti nei ruoli economici significativi. Dunque, chi sta mettendo a punto le valutazioni economiche della Amministrazione?

Alcuni degli argomenti che stiamo ascoltando, presumibilmente, vengono dal gruppo dei consiglieri politici, i cui componenti sembrano credere che una mossa verso le posizioni repubblicane, in reminiscenza della “triangolazione” del precedente Presidente Bill Clinton negli anni ’90, sia la chiave della rielezione di Obama. Clinton, in effetti, ebbe un impressionante recupero da una grave sconfitta nelle elezioni di medio termine del 1994 alla vittoria di due anni dopo. Ma alcuni di noi pensano che quel recupero aveva più a che fare con i cinque milioni di posti di lavoro che l’economia guadagnò nel corso di quei due anni, che non con lo spostamento verso il centro dei suoi accenti. Un miglioramento che non è probabile che si ripeta questa volta, tantomeno di fronte a severi tagli alla spesa pubblica.

In ogni modo, io non credo che si tratti soltanto di calcoli politici. Seguendo Obama ed ascoltando i suoi discorsi, è difficile non avere l’impressione che in questo momento egli si stia spostando per rivolgersi alle persone che effettivamente credono che il deficit, e non la disoccupazione, sia la questione principale che si trova oggi dinanzi all’America, e che credono anche che la maggior parte della riduzione del deficit dovrebbe venire dai tagli alla spesa pubblica. E’ degno di nota che neppure i Repubblicani vengano suggerendo tagli alla Previdenza Sociale; questa sembra essere farina del suo sacco[127] e di coloro ai quali presta ascolto.

Con il che si arriva alla domanda cruciale: se ci sarà un accordo sul debito, e se esso rifletterà in modo schiacciante le priorità e l’ideologia dei conservatori, i Democratici in Congresso dovrebbero approvarlo?

 

I collaboratori di Obama sostengono senza alcun dubbio che i suoi compagni di partito dovrebbero aver fiducia in lui, che qualsiasi accordo si farà, sarà il migliore che si poteva ottenere. Ma è difficile comprendere in che senso un Presidente che è uscito dalla sua strada per echeggiare la propaganda repubblicana e per sostenere le opinioni fallaci dei conservatori, meriterebbe quel genere di fiducia.  

 

 

 

No, We Can’t? Or Won’t?

By PAUL KRUGMAN
Published: July 10, 2011

 

If you were shocked by Friday’s job report, if you thought we were doing well and were taken aback by the bad news, you haven’t been paying attention. The fact is, the United States economy has been stuck in a rut for a year and a half.

Yet a destructive passivity has overtaken our discourse. Turn on your TV and you’ll see some self-satisfied pundit declaring that nothing much can be done about the economy’s short-run problems (reminder: this “short run” is now in its fourth year), that we should focus on the long run instead.

This gets things exactly wrong. The truth is that creating jobs in a depressed economy is something government could and should be doing. Yes, there are huge political obstacles to action — notably, the fact that the House is controlled by a party that benefits from the economy’s weakness. But political gridlock should not be conflated with economic reality.

Our failure to create jobs is a choice, not a necessity — a choice rationalized by an ever-shifting set of excuses.

Excuse No. 1: Just around the corner, there’s a rainbow in the sky.

Remember “green shoots”? Remember the “summer of recovery”? Policy makers keep declaring that the economy is on the mend — and Lucy keeps snatching the football away. Yet these delusions of recovery have been an excuse for doing nothing as the jobs crisis festers.

Excuse No. 2: Fear the bond market.

Two years ago The Wall Street Journal declared that interest rates on United States debt would soon soar unless Washington stopped trying to fight the economic slump. Ever since, warnings about the imminent attack of the “bond vigilantes” have been used to attack any spending on job creation.

 

But basic economics said that rates would stay low as long as the economy was depressed — and basic economics was right. The interest rate on 10-year bonds was 3.7 percent when The Wall Street Journal issued that warning; at the end of last week it was 3.03 percent.

 

How have the usual suspects responded? By inventing their own reality. Last week, Representative Paul Ryan, the man behind the G.O.P. plan to dismantle Medicare, declared that we must slash government spending to “take pressure off the interest rates” — the same pressure, I suppose, that has pushed those rates to near-record lows.

Excuse No. 3: It’s the workers’ fault.

Unemployment soared during the financial crisis and its aftermath. So it seems bizarre to argue that the real problem lies with the workers — that the millions of Americans who were working four years ago but aren’t working now somehow lack the skills the economy needs.

Yet that’s what you hear from many pundits these days: high unemployment is “structural,” they say, and requires long-term solutions (which means, in practice, doing nothing).

Well, if there really was a mismatch between the workers we have and the workers we need, workers who do have the right skills, and are therefore able to find jobs, should be getting big wage increases. They aren’t. In fact, average wages actually fell last month.

 

Excuse No. 4: We tried to stimulate the economy, and it didn’t work.

Everybody knows that President Obama tried to stimulate the economy with a huge increase in government spending, and that it didn’t work. But what everyone knows is wrong.

Think about it: Where are the big public works projects? Where are the armies of government workers? There are actually half a million fewer government employees now than there were when Mr. Obama took office.

So what happened to the stimulus? Much of it consisted of tax cuts, not spending. Most of the rest consisted either of aid to distressed families or aid to hard-pressed state and local governments. This aid may have mitigated the slump, but it wasn’t the kind of job-creation program we could and should have had. This isn’t 20-20 hindsight: some of us warned from the beginning that tax cuts would be ineffective and that the proposed spending was woefully inadequate. And so it proved.

 

It’s also worth noting that in another area where government could make a big difference — help for troubled homeowners — almost nothing has been done. The Obama administration’s program of mortgage relief has gone nowhere: of $46 billion allotted to help families stay in their homes, less than $2 billion has actually been spent.

 

So let’s summarize: The economy isn’t fixing itself. Nor are there real obstacles to government action: both the bond vigilantes and structural unemployment exist only in the imaginations of pundits. And if stimulus seems to have failed, it’s because it was never actually tried.

Listening to what supposedly serious people say about the economy, you’d think the problem was “no, we can’t.” But the reality is “no, we won’t.” And every pundit who reinforces that destructive passivity is part of the problem.

 

Non possiamo o non vogliamo?, di Paul Krugman

New York Times 1° luglio 2011

 

Se foste rimasti colpiti dal rapporto sui posti di lavoro di venerdì, se avevate pensato che stessimo andando bene e siete rimasti sorpresi dalle cattive notizie, vuol dire che non prestavate attenzione. Il fatto è che gli Stati Uniti da un anno e mezzo sono impantanati nella routine.

 

Tuttavia una inerzia distruttiva ha prevalso nel nostro dibattito. Accendete la vostra televisione e vedrete esperti compiaciuti che dichiarano che non può essere fatto granché sui problemi di breve periodo dell’economia (tenete presente: il ‘breve periodo’ è ora al suo quarto anno). Dovremmo piuttosto concentrarci sul lungo periodo.

E’ proprio questo che porta a sbagliare. La verità è che la creazione di posti di lavoro in un’economia depressa è qualcosa che il Governo potrebbe e dovrebbe fare. E’ vero, sussistono potenti ostacoli politici all’iniziativa – in particolare, il fatto che la Camera è controllata da un Partito che trae benefici dalla debolezza dell’economia. Ma l’ingorgo della politica non dovrebbe essere confuso con la realtà dell’economia.

La nostra inettitudine nel creare posti di lavoro è una scelta, non una necessità – una scelta razionalizzata per effetto di un complesso di scuse in continuo mutamento.

Scusa numero 1: Proprio dietro l’angolo, c’è un arcobaleno in cielo.

Ricordate i “segni di speranza”? Ricordate “l’estate della ripresa”? Gli uomini politici hanno continuato a dichiarare che l’economia era sulla via della guarigione – e Lucy ha continuato a togliere il pallone[128].  E queste illusioni di ripresa sono state una scusa per non fare niente, nel mentre la crisi dei posti di lavoro si acuiva.

Scusa numero 2: La paura per il mercato dei bonds.

Due anni orsono The Wall Street Journal dichiarò che i tassi di interesse sul debito degli Stati Uniti sarebbero in breve schizzati alle stelle, se Washington non avesse cessato di cercar di contrastare la crisi dell’economia. Da allora, gli ammonimenti a proposito di un attacco imminente dei “guardiani dei bonds” sono stati utilizzati per attaccare ogni spesa per la creazione di posti di lavoro.

Ma i fondamenti dell’economia dicevano che i tassi sarebbero rimasti bassi per tutto il tempo in cui l’economia sarebbe stata depressa – e i fondamenti dell’economia avevano ragione. Il tasso di interesse sui bonds decennali era al 3,7 per cento quando The Wall Street Journal pubblicava quell’ammonimento; alla fine della scorsa settimana era al 3,03 per cento.

Come hanno reagito i ‘soliti ignoti’[129]? Inventandosi una loro propria realtà. La scorsa settimana, il congressista Paul Ryan, l’uomo che sta dietro il piano per smantellare Medicare del Partito Repubblicano, ha dichiarato che dobbiamo tagliare la spesa pubblica governativa al fine di “rimuovere la pressione dei tassi di interesse” – la stessa pressione, suppongo, che ha spinto quei tassi quasi ai minimi storici.

Scusa numero 3: E’ colpa dei lavoratori.

 

La disoccupazione si è innalzata durante la crisi finanziaria e nella sua scia. Così, sembra curioso sostenere che il problema vero risieda nei lavoratori – che ai milioni di americani che lavoravano quattro anni orsono e non lavorano oggi faccia difetto la professionalità di cui l’economia ha bisogno.      

Tuttavia, questo è quello che si sente dire in questi giorni da parte di molti esperti: l’elevata disoccupazione è “strutturale”, affermano, e richiede soluzioni di lungo periodo (il che, in pratica, è come far nulla).

 

 

 

Ebbene, se davvero ci fosse una discrepanza tra i lavoratori che abbiamo ed i lavoratori di cui avremmo bisogno, i lavoratori che in effetti hanno la professionalità giusta, e che di conseguenza sono nelle condizioni di trovare posti di lavoro, dovrebbero ottenere aumenti di salario. Non è così. Di fatto, i salari medi sono effettivamente diminuiti il mese scorso.

Scusa numero 4: Abbiamo provato a stimolare l’economia, e non ha funzionato.

 

Tutti sanno che il Presidente Obama ha provato a stimolare l’economia con un’ampia crescita della spesa pubblica federale, e che non ha funzionato. Il fatto è che tutti sanno la cosa sbagliata.

Riflettete: dove sono i grandi progetti di opere pubbliche? Dove sono le armate di lavoratori del Governo? In effetti, ci sono adesso mezzo milione di impiegati federali in meno, rispetto a quando Obama entrò in carica.

 

Dunque, che ne è stato dello stimolo all’economia? In gran parte è consistito in sgravi fiscali, non in spesa pubblica. Il restante in misura prevalente è consistito o in aiuti alle famiglie in difficoltà o in aiuti agli Stati ed agli Enti Locali in difficoltà. Questo aiuto può aver mitigato la crisi, ma non è stato un programma di creazione di posti di lavoro del genere di quello che avremmo potuto e dovuto avere. Non si tratta di un giudizio con il senno di poi[130]: alcuni di noi avevano messo in guardia sin dall’inizio sul fatto che gli sgravi fiscali sarebbero stati inefficaci e che la spesa pubblica proposta era tristemente inadeguata. E così è stato.

E’ anche degno di nota che in un’altra area nella quale il Governo avrebbe fatto una grande differenza – gli aiuti ai proprietari di abitazioni in difficoltà – non sia stato fatto quasi niente. Il programma di sostegno al pagamento dei mutui della amministrazione Obama non è andato da nessuna parte: dei 46 miliardi di dollari stanziati per aiutare le famiglie a restare nelle loro abitazioni, sono effettivamente stati spesi meno di due miliardi.

Dunque, riassumendo: l’economia non si aggiusta da sola. Neppure esistono ostacoli reali alla iniziativa del Governo: sia il guardiani dei bonds che la disoccupazione strutturale esistono soltanto nella immaginazione degli addetti ai lavori. E se lo stimolo all’economia sembra non avere funzionato, è perché in effetti non è stato mai tentato.

Se si ascolta quello che dicono dell’economia le supposte Persone Serie, si potrebbe pensare che il problema sia stato “no, non si può”. In realtà è stato “no, non vogliamo”. Ed ogni addetto ai lavori che contribuisce a quell’inerzia distruttiva è una parte del problema.   

 

 

 

 

Getting to Crazy

By PAUL KRUGMAN
Published: July 14, 2011

There aren’t many positive aspects to the looming possibility of a U.S. debt default. But there has been, I have to admit, an element of comic relief — of the black-humor variety — in the spectacle of so many people who have been in denial suddenly waking up and smelling the crazy.

A number of commentators seem shocked at how unreasonable Republicans are being. “Has the G.O.P. gone insane?” they ask.

Why, yes, it has. But this isn’t something that just happened, it’s the culmination of a process that has been going on for decades. Anyone surprised by the extremism and irresponsibility now on display either hasn’t been paying attention, or has been deliberately turning a blind eye.

And may I say to those suddenly agonizing over the mental health of one of our two major parties: People like you bear some responsibility for that party’s current state.

Let’s talk for a minute about what Republican leaders are rejecting.

President Obama has made it clear that he’s willing to sign on to a deficit-reduction deal that consists overwhelmingly of spending cuts, and includes draconian cuts in key social programs, up to and including a rise in the age of Medicare eligibility. These are extraordinary concessions. As The Times’s Nate Silver points out, the president has offered deals that are far to the right of what the average American voter prefers — in fact, if anything, they’re a bit to the right of what the average Republican voter prefers!

 

Yet Republicans are saying no. Indeed, they’re threatening to force a U.S. default, and create an economic crisis, unless they get a completely one-sided deal. And this was entirely predictable.

First of all, the modern G.O.P. fundamentally does not accept the legitimacy of a Democratic presidency — any Democratic presidency. We saw that under Bill Clinton, and we saw it again as soon as Mr. Obama took office.

As a result, Republicans are automatically against anything the president wants, even if they have supported similar proposals in the past. Mitt Romney’s health care plan became a tyrannical assault on American freedom when put in place by that man in the White House. And the same logic applies to the proposed debt deals.

Put it this way: If a Republican president had managed to extract the kind of concessions on Medicare and Social Security that Mr. Obama is offering, it would have been considered a conservative triumph. But when those concessions come attached to minor increases in revenue, and more important, when they come from a Democratic president, the proposals become unacceptable plans to tax the life out of the U.S. economy.

Beyond that, voodoo economics has taken over the G.O.P.

 

Supply-side voodoo — which claims that tax cuts pay for themselves and/or that any rise in taxes would lead to economic collapse — has been a powerful force within the G.O.P. ever since Ronald Reagan embraced the concept of the Laffer curve. But the voodoo used to be contained. Reagan himself enacted significant tax increases, offsetting to a considerable extent his initial cuts.

 

And even the administration of former President George W. Bush refrained from making extravagant claims about tax-cut magic, at least in part for fear that making such claims would raise questions about the administration’s seriousness.

Recently, however, all restraint has vanished — indeed, it has been driven out of the party. Last year Mitch McConnell, the Senate minority leader, asserted that the Bush tax cuts actually increased revenue — a claim completely at odds with the evidence — and also declared that this was “the view of virtually every Republican on that subject.” And it’s true: even Mr. Romney, widely regarded as the most sensible of the contenders for the 2012 presidential nomination, has endorsed the view that tax cuts can actually reduce the deficit.

 

Which brings me to the culpability of those who are only now facing up to the G.O.P.’s craziness.

Here’s the point: those within the G.O.P. who had misgivings about the embrace of tax-cut fanaticism might have made a stronger stand if there had been any indication that such fanaticism came with a price, if outsiders had been willing to condemn those who took irresponsible positions.

 

 

But there has been no such price. Mr. Bush squandered the surplus of the late Clinton years, yet prominent pundits pretend that the two parties share equal blame for our debt problems. Paul Ryan, the chairman of the House Budget Committee, proposed a supposed deficit-reduction plan that included huge tax cuts for corporations and the wealthy, then received an award for fiscal responsibility.

 

So there has been no pressure on the G.O.P. to show any kind of responsibility, or even rationality — and sure enough, it has gone off the deep end. If you’re surprised, that means that you were part of the problem.

 

L’impazzimento, di Paul Krugman

New York Times 14 luglio 2011

 

Non ci sono molte prospettive positive, quanto alla possibilità incombente di un default del debito americano. Ma devo ammettere che, nello spettacolo di così tante persone che all’improvviso, rendendosi conto e percependo la follia, si sono date a negarla, c’è stata una qualche distensione comica – del genere dell’umore macabro.

Un certo numero di commentatori sembrano sconcertati per quanto stanno diventando irragionevoli i Repubblicani. Si chiedono: “Il Partito Repubblicano è impazzito?”.

Perché, in effetti, di questo si tratta. Ma non è qualcosa che avviene tutt’a un tratto, si tratta dell’apice di un processo che è andato avanti per decenni. Tutti coloro che ora sono sorpresi dalla scena di estremismo e di irresponsabilità, o non avevano prestato attenzione o avevano chiuso un occhio.

E vorrei dire a coloro che all’improvviso si disperano sulla salute mentale di uno o di entrambi i nostri due principali partiti politici: persone come voi portano qualche responsabilità delle condizioni attuali di quel partito.

Ragioniamo per un momento di che cosa stanno respingendo i dirigenti repubblicani.

Il Presidente Obama ha  messo in chiaro di avere la volontà di sottoscrivere un accordo sulla riduzione del deficit che si basi in grandissima parte su tagli alla spesa pubblica, incluse misure draconiane nei programmi sociali fondamentali, che comprendono un innalzamento dell’età nella quale si matura il diritto a Medicare. Si tratta di concessioni straordinarie. Come Nate Silver di The Times sottolinea, il Presidente ha offerto accordi che sono assai a destra rispetto a quello che l’elettore medio americano vorrebbe; e, in effetti, sono addirittura un po’ a destra rispetto a quello che vorrebbe un elettore medio repubblicano.

Tuttavia i Repubblicani stanno rispondendo picche. Per dirla tutta, essi stanno minacciando di provocare un default degli Stati Uniti, e di dar vita ad una crisi economica, se non otterranno un accordo completamente a senso unico. E questo era del tutto prevedibile.

Prima di tutto, fondamentalmente il Partito Repubblicano di oggi non riconosce la legittimità di una Presidenza democratica – di qualsiasi Presidenza democratica. Lo avevamo visto sotto Bill Clinton, l’abbiamo visto un’altra volta dal momento in cui Obama è entrato in carica.

 

Di conseguenza, i Repubblicani sono contro tutto quello che  il Presidente vuole, anche nel caso in cui essi stessi abbiano sostenuto proposte simili nel passato. Il piano di assistenza sanitaria di Mitt Romney[131] è diventato un assalto totalitario alla libertà degli Americani, una volta che è stato messo in funzione dall’inquilino della Casa Bianca.

Mettiamola in questo modo: se un Presidente repubblicano fosse riuscito ad ottenere il tipo di concessioni su Medicare e sulla Previdenza Sociale[132] che Obama sta offrendo, sarebbe stato considerato un trionfo per i conservatori. Ma quando a queste concessioni sono allegate modeste misure di incremento delle entrate, e, più importante ancora, quando provengono da un Presidente democratico, quelle proposte diventano inaccettabili programmi per mettere una tassa sulla vita delle persone, oltre che sull’economia americana.

Oltre a ciò, l’economia della ‘magia nera’ ha contagiato il Partito Repubblicano.

 

La ‘magia nera’ sul lato dell’offerta – secondo la quale gli sgravi fiscali si ripagano da soli e/o ogni incremento fiscale porterebbe al collasso dell’economia – è stata una forza potente, all’interno del Partito Repubblicano, sin da quando Ronald Reagan abbracciò  l’idea della ‘curva di Laffer’[133]. Ma la ‘magia nera’ aveva un suo limite. Reagan stesso deliberò significativi aumenti delle tasse, per bilanciare in misura considerevole i suoi tagli inziali.

 

 

E persino la Amministrazione del precedente Presidente George W. Bush si trattenne dal mettere in atto gli argomenti stravaganti della magia dei tagli fiscali, almeno in parte per il timore che mettendo in atto tali concetti avrebbe sollevato interrogativi sulla serietà della Amministrazione.

Più di recente, tuttavia, ogni senso del limite è stato vanificato – per la verità, è stato proprio messo al bando del Partito. Lo scorso anno Mitch McConnell, il leader della minoranza al Senato[134], sostenne che gli sgravi fiscali di Bush avevano effettivamente aumentato le entrate – una pretesa completamente in contrasto con la realtà – e dichiarò anche che quello era “praticamente il punto di vista di tutti i repubblicani su tale materia”. E così è stato: persino Romney, in genere considerato come il più ragionevole dei candidati repubblicani alle elezioni presidenziali del 2012, ha sostenuto il punto di vista secondo il quale gli sgravi fiscali possono effettivamente ridurre il deficit.

Il che mi riporta al tema della responsabilità di coloro che solo ora fanno i conti con le follie del Partito Repubblicano.

Il punto è questo: coloro, all’interno del Partito Repubblicano, che avevano qualche dubbio a proposito della adesione al fanatismo degli sgravi fiscali avrebbero assunto una posizione più ferma se ci fosse stata una qualche indicazione che un fanatismo del genere avrebbe comportato un qualche prezzo, ovvero se i simpatizzanti esterni[135] al partito avessero manifestato l’intenzione di condannare le posizioni irresponsabili.

Ma non c’è stato alcun prezzo del genere. Bush scialacquò gli avanzi di amministrazione degli ultimi anni di Clinton, ciononostante qualificati commentatori pretendono che i due partiti condividano la stessa responsabilità per i problemi del debito. Paul Ryan, il Presidente della Commissione Bilancio della Camera, che ha proposto un programma cosiddetto di riduzione del deficit, che includeva ampi sgravi fiscali per le grandi imprese ed i ceti più abbienti, a seguito di ciò  ha ricevuto riconoscimenti per la sua responsabilità in materia di finanza pubblica.

Non c’è stata dunque alcuna sollecitazione al Partito repubblicano, affinché dimostrasse una qualche responsabilità, e neppure una qualche razionalità – ed infatti quel partito s’è addirittura esaltato[136]. Se oggi ci si meraviglia, significa che si era una parte del problema.

 

      

 

 

 

Letting Bankers Walk

By PAUL KRUGMAN
Published: July 17, 2011
  • Ever since the current economic crisis began, it has seemed that five words sum up the central principle of United States financial policy: go easy on the bankers.

This principle was on display during the final months of the Bush administration, when a huge lifeline for the banks was made available with few strings attached. It was equally on display in the early months of the Obama administration, when President Obama reneged on his campaign pledge to “change our bankruptcy laws to make it easier for families to stay in their homes.” And the principle is still operating right now, as federal officials press state attorneys general to accept a very modest settlement from banks that engaged in abusive mortgage practices.

 

 

Why the kid-gloves treatment? Money and influence no doubt play their part; Wall Street is a huge source of campaign donations, and agencies that are supposed to regulate banks often end up serving them instead. But officials have also argued at each point of the process that letting banks off the hook serves the interests of the economy as a whole.

It doesn’t. The failure to seek real mortgage relief early in the Obama administration is one reason we still have 9 percent unemployment. And right now, the arguments that officials are reportedly making for a quick, bank-friendly settlement of the mortgage-abuse scandal don’t make sense.

Before I get to that, a word about the current state of the mortgage mess.

Last fall, we learned that many mortgage lenders were engaging in illegal foreclosures. Most conspicuously, “robo-signers” were attesting that banks had the required documentation to seize homes without checking to see whether they actually had the right to do so — and in many cases they didn’t.

How widespread and serious were the abuses? The answer is that we don’t know. Nine months have passed since the robo-signing scandal broke, yet there still hasn’t been a serious investigation of its reach. That’s because states, suffering from severe budget troubles, lack the resources for a full investigation — and federal officials, who do have the resources, have chosen not to use them.

Instead, these officials are pushing for a settlement with mortgage companies that, reports Shahien Nasiripour of The Huffington Post, “would broadly absolve the firms of wrongdoing in exchange for penalties reaching $30 billion and assurances that the firms will adhere to better practices.”

 

Why the rush to settle? As far as I can tell, there are two principal arguments being made for letting the banks off easy. The first is the claim that resolving the mortgage mess quickly is the key to getting the housing market back on its feet. The second, less explicitly stated, is the claim that getting tough with the banks would undermine broader prospects for recovery.

 

Neither of these arguments makes much sense.

The claim that removing the legal cloud over foreclosure would help the housing market — in particular, that it would help support housing prices — leaves me scratching my head. It would just accelerate foreclosures, and if more families were evicted from their homes, that would mean more homes offered for sale — an increase in supply. An increase in the supply of a good usually pushes that good’s price down, not up. Why should the effect on housing go the opposite way?

 

You might point to the mortgage relief that would supposedly be extracted as part of the settlement. But if mortgage relief is that crucial, why isn’t the administration making a major push to reinvigorate its own Home Affordable Modification Program, which has spent only a small fraction of its money? Or if making that program actually work is hard, why should we believe that any program instituted as part of a mortgage-abuse settlement would work any better?

 

Sorry, but the case that letting banks off the hook would help the housing market just doesn’t hold together.

 

What about the argument that getting tough with the banks would threaten the overall economy? Here the question is: What’s holding the economy back?

It’s not the state of the banks. It’s true that fears about bank solvency disrupted financial markets in late 2008 and early 2009. But those markets have long since returned to normal, in large part because everyone now knows that banks will be bailed out if they get in trouble.

The big drag on the economy now is the overhang of household debt, largely created by the $5.6 trillion in mortgage debt that households took on during the bubble years. Serious mortgage relief could make a dent in that problem; a $30 billion settlement from the banks, even if it proved more effective than the government’s modification program, would not.

So when officials tell you that we must rush to settle with the banks for the sake of the economy, don’t believe them. We should do this right, and hold bankers accountable for their actions.

 

Lasciate stare i banchieri, di Paul Krugman

New York Times 17 luglio 2011

 

 

Dal momento in cui è cominciata la crisi attuale, è sembrato che cinque parole riassumessero il principio centrale della politica finanziaria degli Stati Uniti: andiamoci piano con i banchieri.

Questo era il principio che andava in onda durante i mesi finali dell’Amministrazione Bush, quando una robusta àncora di salvataggio fu messa a disposizione delle banche con poche limitazioni. E’ stato egualmente il principio dei primi mesi della Amministrazione Obama, quando il Presidente Obama rinnegò la sua solenne promessa elettorale di “modificare le nostre leggi in materia di fallimenti, in modo da rendere più facile alle famiglie il restare nelle loro abitazioni”. E ancora adesso quel principio è in funzione, allorquando dirigenti federali fanno pressioni sui procuratori generali dello Stato affinché accettino transazioni molto modeste da parte delle banche che si sono distinte in pratiche truffaldine sui mutui.

Perché questo trattamento con i guanti di velluto? Il denaro e l’influenza giocano senza alcun dubbio la loro parte; Wall Street è una fonte generosa di donazioni elettorali, e le agenzie che dovrebbero sorvegliare le banche spesso finiscono piuttosto col servirle. Ma quei dirigenti hanno anche sostenuto che, in ultima analisi, tener fuori le banche da una resa dei conti è negli interessi dell’economia nel suo complesso.

Non è così. Non aver voluto cercare una effettiva attenuazione sui mutui agli inizi della Amministrazione Obama è una delle ragioni per le quali abbiamo una disoccupazione al 9 per cento. Ed oggi gli argomenti che sono attribuiti ai dirigenti a favore di rapide ed amichevoli procedure di transazione nello scandalo degli abusi sui mutui non hanno alcun senso.

Ma prima di arrivare a questo punto, una parola a proposito della situazione attuale del disastro dei mutui.

Lo scorso autunno, avevamo appreso che molti prestatori di mutui si erano resi responsabili di pignoramenti illegali. In forme assai estese, un vero e proprio esercito di improvvisati funzionari[137] aveva attestato che le banche erano in possesso della documentazione richiesta per i pignoramenti delle abitazioni, senza curarsi di controllare se esse avessero il diritto di farlo – e in molti casi non l’avevano.

Quanto erano stati diffusi e seri, quegli abusi? In sostanza, non lo sappiamo. Sono passati nove mesi dal momento in cui è scoppiato lo scandalo di quei funzionari solerti, e tuttavia non c’è ancora stata una seria indagine sulle sue dimensioni. Questo è dipeso dal fatto che agli Stati, in sofferenza per gravi problemi di bilancio, mancano le risorse per una indagine completa – e i dirigenti federali, che avrebbero quelle risorse, hanno scelto di non usarle.

Quei dirigenti stanno piuttosto spingendo per accordi con la imprese che hanno messo i mutui a disposizione, in modo tale che, a quanto riferisce Shahien Nasiripour di The Huffington Post, “ci sarebbe una assoluzione generale delle compagnie responsabili delle malefatte, in cambio di multe sino all’importo di 30 miliardi di dollari e di impegni da parte di quelle imprese ad aderire a migliori pratiche”.

Perché questa fretta a comporre la disputa? Da quanto posso comprendere, ci sono due argomenti principali che sono stati avanzati per consentire alle banche di uscire dall’impaccio. Il primo è la pretesa secondo la quale risolvere rapidamente il disastro dei mutui è la chiave per rimettere in sesto il mercato immobiliare. Il secondo, espresso in modo meno esplicito, è la convinzione che una condotta dura con le banche comprometterebbe le prospettive della ripresa.

Entrambi questi argomenti non hanno molto senso.

La pretesa secondo la quale rimuovere l’imbroglio legale sui pignoramenti aiuterebbe il mercato immobiliare – in particolare, aiuterebbe a sostenere i prezzi delle abitazioni – mi lascia assai perplesso. In quel modo semplicemente si accelererebbero i pignoramenti, e se un numero maggiore di famiglie venissero private delle loro abitazioni, questo significherebbe più case in vendita – un incremento dell’offerta. Normalmente, un incremento dell’offerta di un bene abbassa il prezzo, non lo alza. Perché dovrebbe funzionare all’opposto, nel caso delle abitazioni?

Si potrebbe puntare alla ricontrattazione del mutuo, che in teoria dovrebbe essere un aspetto della transazione.  Ma se la attenuazione del mutuo è così importante, perché la Amministrazione non opera maggiormente per rafforzare il suo Programma di Modifiche per una Abitazione Sostenibile, che ha consumato solo una minima parte della sua dotazione? E invece, se è difficile effettivamente rendere quel programma funzionante, perché si dovrebbe credere che un qualsiasi progetto concepito come un aspetto della transazione sull’abuso dei mutui, dovrebbe funzionare meglio?

Sono spiacente, ma la tesi secondo la quale tenere le banche fuori dagli impicci aiuterebbe il mercato immobiliare, semplicemente riguarda cose che non hanno a che fare l’una con l’altra.

Cosa dire dell’argomento secondo il quale una comportamento duro verso le banche minaccerebbe l’economia nel suo complesso? Qua la domanda è: cos’è che rallenta l’economia?

Non la condizione delle banche. E’ vero che il timore sulla solvibilità delle banche ha avuto effetti distruttivi sui mercati finanziari, alla fine del 2008 ed agli inizi del 2009. Ma è molto tempo che quei mercati sono tornati in condizioni normali, in gran parte perché ognuno oggi sa che le banche sarebbero salvate, nel caso tornassero ad avere problemi.

Oggi il grande peso sull’economia è dato esposizione debitoria della famiglie, in gran parte formatasi a seguito del debito di 5.600 miliardi di dollari in mutui che i proprietari di abitazioni si sono accollati negli anni della bolla. Una seria attenuazione dei mutui provocherebbe un qualche effetto su quel problema: una transazione di 30 miliardi da parte delle banche, anche se si mostrasse più efficace rispetto al programma di modifiche governativo, non lo farebbe.

Così, quando i dirigenti governativi vi dicono che si deve pervenire in fretta ad una composizione con le banche, non è il caso di prestargli fede. Dovremmo fare le cose per bene, e fare in modo che i banchieri rendano conto delle loro azioni.       

 

 

 

The Lesser Depression

By PAUL KRUGMAN
Published: July 21, 2011

These are interesting times — and I mean that in the worst way. Right now we’re looking at not one but two looming crises, either of which could produce a global disaster. In the United States, right-wing fanatics in Congress may block a necessary rise in the debt ceiling, potentially wreaking havoc in world financial markets. Meanwhile, if the plan just agreed to by European heads of state fails to calm markets, we could see falling dominoes all across southern Europe — which would also wreak havoc in world financial markets.

 

We can only hope that the politicians huddled in Washington and Brussels succeed in averting these threats. But here’s the thing: Even if we manage to avoid immediate catastrophe, the deals being struck on both sides of the Atlantic are almost guaranteed to make the broader economic slump worse.

 

In fact, policy makers seem determined to perpetuate what I’ve taken to calling the Lesser Depression, the prolonged era of high unemployment that began with the Great Recession of 2007-2009 and continues to this day, more than two years after the recession supposedly ended.

Let’s talk for a moment about why our economies are (still) so depressed.

The great housing bubble of the last decade, which was both an American and a European phenomenon, was accompanied by a huge rise in household debt. When the bubble burst, home construction plunged, and so did consumer spending as debt-burdened families cut back.

 

Everything might still have been O.K. if other major economic players had stepped up their spending, filling the gap left by the housing plunge and the consumer pullback. But nobody did. In particular, cash-rich corporations see no reason to invest that cash in the face of weak consumer demand.

 

Nor did governments do much to help. Some governments — those of weaker nations in Europe, and state and local governments here — were actually forced to slash spending in the face of falling revenues. And the modest efforts of stronger governments — including, yes, the Obama stimulus plan — were, at best, barely enough to offset this forced austerity.

So we have depressed economies. What are policy makers proposing to do about it? Less than nothing.

 

The disappearance of unemployment from elite policy discourse and its replacement by deficit panic has been truly remarkable. It’s not a response to public opinion. In a recent CBS News/New York Times poll, 53 percent of the public named the economy and jobs as the most important problem we face, while only 7 percent named the deficit. Nor is it a response to market pressure. Interest rates on U.S. debt remain near historic lows.

 

Yet the conversations in Washington and Brussels are all about spending cuts (and maybe tax increases, I mean revisions). That’s obviously true about the various proposals being floated to resolve the debt-ceiling crisis here. But it’s equally true in Europe.

On Thursday, the “heads of state or government of the euro area and the E.U. institutions” — that mouthful tells you, all by itself, how messy European governance has become — issued their big statement. It wasn’t reassuring.

For one thing, it’s hard to believe that the Rube Goldberg financial engineering the statement proposes can really resolve the Greek crisis, let alone the wider European crisis.

 

But, even if it does, then what? The statement calls for sharp deficit reductions “in all countries except those under a programme” to take place “by 2013 at the latest.” Since those countries “under a programme” are being forced into drastic fiscal austerity, this amounts to a plan to have all of Europe slash spending at the same time. And there is nothing in the European data suggesting that the private sector will be ready to take up the slack in less than two years.

 

For those who know their 1930s history, this is all too familiar. If either of the current debt negotiations fails, we could be about to replay 1931, the global banking collapse that made the Great Depression great. But, if the negotiations succeed, we will be set to replay the great mistake of 1937: the premature turn to fiscal contraction that derailed economic recovery and ensured that the Depression would last until World War II finally provided the boost the economy needed.

 

 

Did I mention that the European Central Bank — although not, thankfully, the Federal Reserve — seems determined to make things even worse by raising interest rates?

There’s an old quotation, attributed to various people, that always comes to mind when I look at public policy: “You do not know, my son, with how little wisdom the world is governed.” Now that lack of wisdom is on full display, as policy elites on both sides of the Atlantic bungle the response to economic trauma, ignoring all the lessons of history. And the Lesser Depression goes on.

 

La Depressione Minore, di Paul Krugman

New York Times 21 luglio 2011.

 

Sono tempi interessanti, lo dico nel peggiore dei sensi. Siamo in questo momento dinanzi non ad una ma a due crisi minacciose, entrambi suscettibili di produrre un disastro globale. Negli Stati Uniti, il fanatismo delle destre nel Congresso può impedire un innalzamento indispensabile del tetto del debito, gettando potenzialmente lo scompiglio nei mercati finanziari mondiali. Contemporaneamente, se il piano appena approvato dai capi di Stato europei non riuscisse a calmare i mercati, potremmo assistere alla caduta delle tessere del domino in tutta l’Europa meridionale – la qual cosa porterebbe anch’essa allo scompiglio nei mercati finanziari.

Noi possiamo soltanto sperare che gli uomini politici convenuti in Washington e Bruxelles riescano ad evitare questi esiti minacciosi. Ma qua è il punto: anche se riuscissimo ad evitare una catastrofe immediata, gli accordi che stanno per essere conclusi su entrambe le sponde dell’Atlantico, in pratica garantiscono il peggioramento della più complessiva depressione economica.

Di fatto, i politici sembrano decisi a perpetuare quella che ho preso a definire come la Depressione Minore, l’epoca prolungata di alta disoccupazione che è iniziata con la Grande Recessione del 2007 – 2009 e che è proseguita sino ad oggi, più di due anni dopo il supposto termine della fase recessiva.

 

Esaminiamo per un momento le ragioni per le quali le nostre economie sono (ancora) depresse.

 La grande bolla immobiliare dello scorso decennio, che è stata un fenomeno sia americano che europeo, è stata accompagnata da una vasta crescita del debito delle famiglie. Quando la bolla è scoppiata, la costruzione di alloggi è precipitata, e altrettanto è successo per la spesa in consumi, nel momento in cui ci sono stati i tagli da parte delle famiglie appesantite dai debiti.

Tutto avrebbe potuto proseguire positivamente se altri principali attori dell’economia avessero accresciuto la loro spesa, riempiendo il buco lasciato dalla caduta del settore immobiliare e dalla ritirata dei consumi. Ma nessuno l’ha fatto. In particolare, le imprese ben dotate di capitali non vedono alcuna ragione per investirli, a fronte di una debole domanda di consumi.

Né un gran contributo è venuto dai governi. Alcuni di essi – quelli delle nazioni più deboli dell’Europa, e qua da noi i governi degli Stati e degli Enti Locali – sono stati effettivamente costretti  tagliare le spese a fronte della caduta delle entrate. E gli sforzi modesti dei governi più forti – incluso, in effetti, il programma di stimoli all’economia di Obama – sono stati, al massimo, appena sufficienti a bilanciare questa forzata austerità.

Così ci troviamo con economie depresse. Cosa stanno proponendo di fare gli operatori politici? Meno che niente.

 

La scomparsa del tema della disoccupazione dal dibattito ai vertici della politica, e la sua sostituzione con il terrore del deficit, sono stati davvero degni di nota. Non si tratta di una risposta all’opinione pubblica. In un recente sondaggio di CBS News/New York Times, il 53 % delle persone indicano l’economia ed il lavoro come i problemi maggiori che ci stanno di fronte, mentre soltanto il 7 per cento indica il deficit. Né si tratta di una risposta alla pressione dei mercati. I tassi di interesse sul debito americano restano attorno ai minimi storici.

Tuttavia le conversazioni a Washington ed a Bruxelles riguardano tutte i tagli alla spesa pubblica (e forse gli incrementi fiscali, intendo dire i rimaneggiamenti). Questo è evidentemente vero per quanto riguarda le varie proposte che sono state messe in circolazione qua da noi per risolvere la crisi del tetto del debito. Ma è egualmente vero in Europa.

Giovedì, i “Capi di Stato o di governo dell’area euro e le istituzioni dell’Unione Europea” – l’espressione è di per sé indicativa di quanto sia divenuta barocca[138] la governance europea – hanno emesso la loro grande dichiarazione. Non è stata rassicurante.

Da una parte, è difficile credere che una ingegneria finanziaria alla Rube Goldberg[139], quale quella proposta dalla dichiarazione, possa davvero risolvere la crisi greca, per non dire della più ampia crisi europea.

 

Ma, anche se lo facesse, poi cosa accadrebbe? La dichiarazione si pronuncia per un severa riduzione del deficit “in tutti i paesi, ad eccezione di quelli inclusi nel programma”, da portare a termine “al massimo entro il 2013”. Dato che i paesi “inclusi nel programma” sono stati costretti ad una drastica austerità della finanza pubblica, questo significa che siamo dinanzi ad un piano che si propone contemporaneamente un taglio alle spesa pubblica in tutta l’Europa. E non c’è niente nei dati europei che indichi che il settore privato sarà pronto, in meno di due anni, a riprendersi dall’inerzia.

Per coloro che conoscono la storia degli anni ’30, tutto questo suona anche troppo familiare. Se entrambe le negoziazioni sul debito in corso fallissero, saremmo dinanzi alla ripetizione del 1931, al collasso del sistema bancario globale che rese “grande” la Grande Depressione. Ma, se le negoziazioni avessero successo, saremmo predisposti a ripetere il grande errore del 1937: la prematura svolta della contrazione della finanza pubblica che provocò il deragliamento della ripresa economica ed assicurò una prosecuzione della Depressione, finché alla fine la Seconda Guerra Mondiale non fornì all’economia la spinta di cui aveva bisogno.

Ho dimenticato di dire che la Banca Centrale Europea – sebbene, fortunatamente, non la Federal Reserve –  sembra determinata a fare cose anche peggiori elevando i tassi di interesse?

 

 

Esiste un vecchio detto, la cui paternità è attribuita a svariate persone, che mi viene sempre alla mente quando osservo il governo della cosa pubblica: “Non sai, figlio mio, con quanta poca saggezza sia governato il mondo”. In questo momento – nel mentre i vertici politici su entrambe le sponde dell’Atlantico sciupano l’occasione di una risposta alla crisi dell’economia, ignorando tutte le lezioni della storia – è quella mancanza di saggezza che sta andando in onda. E la Depressione Minore procede.      

 

   

 

 

 

Messing With Medicare

By PAUL KRUGMAN
Published: July 24, 2011

At the time of writing, President Obama’s hoped-for “Grand Bargain” with Republicans is apparently dead. And I say good riddance. I’m no more eager than other rational people (a category that fails to include many Congressional Republicans) to see what happens if the debt limit isn’t raised. But what the president was offering to the G.O.P., especially on Medicare, was a very bad deal for America.

Specifically, according to many reports, the president offered both means-testing of Medicare benefits and a rise in the age of Medicare eligibility. The first would be bad policy; the second would be terrible policy. And it would almost surely be terrible politics, too.

The crucial thing to remember, when we talk about Medicare, is that our goal isn’t, or at least shouldn’t be, defined in terms of some arbitrary number. Our goal should be, instead, to give Americans the health care they need at a price the country can afford. And throwing Americans in their mid-60s off Medicare moves us away from that goal, not toward it.

 

For Medicare, with all its flaws, works better than private insurance. It has less bureaucracy and, hence, lower administrative costs than private insurers. It has been more successful in controlling costs. While Medicare expenses per beneficiary have soared over the past 40 years, they’ve risen significantly less than private insurance premiums. And since Medicare-type systems in other advanced countries have much lower costs than the uniquely privatized U.S. system, there’s good reason to believe that Medicare reform can do a lot to control costs in the future.

In that case, you may ask, why didn’t the 2010 health care reform simply extend Medicare to cover everyone? The answer, of course, is political realism. Most health reformers I know would have supported Medicare for all if they had considered it politically feasible. But given the power of the insurance lobby and the knee-jerk opposition of many politicians to any expansion of government, they settled for what they thought they could actually get: near-universal coverage through a system of regulation and subsidies.

 

 

It is, however, one thing to accept a second-best system insuring those who currently lack coverage. Throwing millions of Americans off Medicare and pushing them into the arms of private insurers is another story.

Also, did I mention that Republicans are doing all they can to undermine health care reform — they even tried to undermine it as part of the debt negotiations — and may eventually succeed? If they do, many of those losing Medicare coverage would find themselves unable to replace it.

 

So raising the Medicare age is a terrible idea. Means-testing — reducing benefits for wealthier Americans — isn’t equally bad, but it’s still poor policy.

It’s true that Medicare expenses could be reduced by requiring high-income Americans to pay higher premiums, higher co-payments, etc. But why not simply raise taxes on high incomes instead? This would have the great virtue of not adding another layer of bureaucracy by requiring that Medicare establish financial status before paying medical bills.

 

But, you may say, raising taxes would reduce incentives to work and create wealth. Well, so would means-testing: As conservative economists love to point out in other contexts — for example, when criticizing programs like food stamps — benefits that fall as your income rises in effect raise your marginal tax rate. It doesn’t matter whether the government raises your taxes by $1,000 when your income rises or cuts your benefits by the same amount; either way, it reduces the fraction of your additional earnings that you get to keep.

 

So what’s the difference between means-testing Medicare and raising taxes? Well, the truly rich would prefer means-testing, since they would end up sacrificing no more than the merely well-off. But everyone else should prefer a tax-based solution.

 

So why is the president embracing these bad policy ideas? In a forthcoming article in The New York Review of Books, the veteran journalist Elizabeth Drew suggests that members of the White House political team saw the 2010 election as a referendum on government spending and that they believe that cutting spending is the way to win next year.

 

If so, I would respectfully suggest that they are out of their minds. Remember death panels? The G.O.P.’s most potent political weapon last year — the weapon that caused a large swing in the votes of older Americans — was the claim that Mr. Obama was cutting Medicare. Why give Republicans a chance to do it all over again?

Of course, it’s possible that the reason the president is offering to undermine Medicare is that he genuinely believes that this would be a good idea. And that possibility, I have to say, is what really scares me.

 

Il disastro di Medicare, di Paul Krugman

New York Times 24 luglio 2011

 

Nel momento in cui scrivo, la tanto sperata “Grande Intesa” del Presidente Obama con i Repubblicani è in apparenza morta. E io dico che si tratta di una liberazione. Come altre persone razionali (categoria che non include molti congressisti repubblicani), non sono così ansioso di vedere cosa accade se il limite del debito non viene aumentato. Ma quello che il Presidente stava offrendo al Partito Repubblicano, specialmente su Medicare, era una pessimo accordo per l’America.

In particolare, secondo vari resoconti, il Presidente offriva sia l’accertamento dei redditi sui benefici di Medicare, che l’innalzamento dell’età per fruire delle sue prestazioni. Il primo sarebbe stato una cattiva scelta; il secondo una scelta terribile. E quasi sicuramente sarebbe stato terribile anche sul piano delle conseguenze politiche[140].

L’aspetto cruciale da tenere a mente, quando parliamo di Medicare, è che il nostro obbiettivo non è, o almeno non dovrebbe essere, definibile nei termini di una qualche arbitraria grandezza. Il nostro obbiettivo, invece, è quello di dare agli americani l’assistenza sanitaria di cui hanno bisogno ad un prezzo che il paese possa permettersi. Rigettare gli americani nel loro Medicare da anni ’60 ci allontana da quell’obbiettivo, anziché avvicinarci.

Perché Medicare, con tutte le sue imperfezioni, funziona meglio dell’assicurazione privata. Ha meno burocrazia e, di conseguenza, ha minori costi amministrativi degli assicuratori privati. E’ stato più efficace nel controllo dei costi. Se le spese per utente di Medicare  sono assai salite negli ultimi 40 anni, esse sono cresciute significativamente meno dei premi delle assicurazioni private. E dal momento che i sistemi del genere di Medicare negli altri paesi avanzati hanno costi molto minori che non quelli del sistema esclusivamente privatizzato degli Stati Uniti[141], c’è una buona ragione per credere che una riforma di Medicare potrebbe portare a controllarne i costi nel futuro.

Se è così, ci si potrebbe chiedere per quale ragione, con la riforma sanitaria del 2010, non si è semplicemente estesa la protezione di Medicare verso la generalità dei cittadini? Come è noto, la risposta consiste nel realismo politico. La grande maggioranza dei riformatori sanitari che conosco avrebbe sostenuto l’estensione a tutti di Medicare se l’avesse considerata fattibile sul piano della politica. Ma considerato il potere delle lobby assicurative è l’istintiva contrarietà di molti uomini politici ad ogni espansione delle funzioni pubbliche, essi si sono accontentati di quello che potevano effettivamente ottenere: una forma di copertura quasi universalistica, tramite un sistema di regolazioni e di sussidi.

Tuttavia, accettare un sistema di ripiego  che assicuri coloro che attualmente non hanno la copertura è una cosa; scaricare da Medicare milioni di americani e spingerli tra le braccia di assicuratori privati è un’altra storia.

 

Per non dire del fatto che i Repubblicani stanno facendo tutto quello che possono per scardinare la riforma della assistenza sanitaria – hanno addirittura cercato di farla saltare inserendola nella negoziazione sul debito – e non è escluso che ci riescano. Se così fosse, molti tra coloro che perdono la copertura di Medicare si ritroverebbero incapaci di sostituirla con qualcosa d’altro.

Per questo innalzare l’età di accesso a Medicare è un’idea terribile. Gli accertamenti del reddito – che riducono i benefici per gli americani più abbienti – non sono un’idea nello stesso modo cattiva, pur essendo anch’essa una scelta politica modesta.

E’ vero che le spese di Medicare si ridurrebbero richiedendo agli americani con i redditi elevati di pagare premi assicurativi più alti, contribuzioni alla spesa più alte e così via. Ma perché, piuttosto, non elevare semplicemente le tasse sui redditi più alti? Questo avrebbe il grande merito di non aggiungere un altro strato di burocrati, imponendo a Medicare di definire le condizioni del reddito prima di pagare i conti sanitari.

Ma, si può obiettare, aumentare le tasse ridurrebbe gli incentivi a lavorare ed a creare ricchezza. Ebbene,  lo stesso sarebbe per gli accertamenti del reddito: come gli economisti conservatori amano sottolineare in altri contesti – ad esempio, quando criticano programmi come quello dei ‘buoni’ alimentari – i benefici che si perdono se il vostro reddito aumenta, in sostanza accrescono la vostra aliquota fiscale marginale. Non fa differenza se il Governo aumenta le vostre tasse di mille dollari quando il vostro reddito cresce, ovvero se taglia i benefici dello stesso ammontare; in ogni modo, esso riduce la frazione dei guadagni aggiuntivi che state per riscuotere.

Qual è, dunque, la differenza tra gli accertamenti del reddito su Medicare e gli incrementi fiscali? Ebbene, coloro che sono davvero ricchi preferirebbero gli accertamenti sul reddito, dato che finirebbero per sacrificarsi nello stesso modo dei benestanti generici. Ma tutti gli altri dovrebbero preferire una soluzione basata sul fisco.

Perché, dunque, il Presidente sta abbracciando l’idea di queste cattive scelte politiche? In un imminente articolo su The New York Review of Books, la giornalista veterana Elizabeth Drew suggerisce che i componenti del team politico alla Casa Bianca abbiano considerato le elezioni del 2010 come un referendum sulla spesa pubblica del Governo, e che credano che i tagli alla spesa siano il modo per vincere l’anno prossimo.

Se così fosse, vorrei rispettosamente far notare che sono usciti di cervello. Vi ricordate i “tribunali della morte”[142]? La più potente arma politica del Partito Repubblicano l’anno passato – l’arma che provocò un ampio spostamento di voti tra gli americani anziani – fu l’affermazione secondo la quale Obama stava tagliando Medicare. Perché dare ai Repubblicani l’opportunità di farlo un’altra volta?

Naturalmente, è possibile che la ragione per la quale il Presidente sta offrendo di scardinare Medicare consista nel fatto che egli la ritenga una buona idea. Devo dire che questa possibilità è quella che davvero mi spaventa.   

 

 

 

The Centrist Cop-Out

By PAUL KRUGMAN
Published: July 28, 2011

The facts of the crisis over the debt ceiling aren’t complicated. Republicans have, in effect, taken America hostage, threatening to undermine the economy and disrupt the essential business of government unless they get policy concessions they would never have been able to enact through legislation. And Democrats — who would have been justified in rejecting this extortion altogether — have, in fact, gone a long way toward meeting those Republican demands.

 

As I said, it’s not complicated. Yet many people in the news media apparently can’t bring themselves to acknowledge this simple reality. News reports portray the parties as equally intransigent; pundits fantasize about some kind of “centrist” uprising, as if the problem was too much partisanship on both sides.

Some of us have long complained about the cult of “balance,” the insistence on portraying both parties as equally wrong and equally at fault on any issue, never mind the facts. I joked long ago that if one party declared that the earth was flat, the headlines would read “Views Differ on Shape of Planet.” But would that cult still rule in a situation as stark as the one we now face, in which one party is clearly engaged in blackmail and the other is dickering over the size of the ransom?

 

The answer, it turns out, is yes. And this is no laughing matter: The cult of balance has played an important role in bringing us to the edge of disaster. For when reporting on political disputes always implies that both sides are to blame, there is no penalty for extremism. Voters won’t punish you for outrageous behavior if all they ever hear is that both sides are at fault.

 

Let me give you an example of what I’m talking about. As you may know, President Obama initially tried to strike a “Grand Bargain” with Republicans over taxes and spending. To do so, he not only chose not to make an issue of G.O.P. extortion, he offered extraordinary concessions on Democratic priorities: an increase in the age of Medicare eligibility, sharp spending cuts and only small revenue increases. As The Times’s Nate Silver pointed out, Mr. Obama effectively staked out a position that was not only far to the right of the average voter’s preferences, it was if anything a bit to the right of the average Republican voter’s preferences.

 

But Republicans rejected the deal. So what was the headline on an Associated Press analysis of that breakdown in negotiations? “Obama, Republicans Trapped by Inflexible Rhetoric.” A Democratic president who bends over backward to accommodate the other side — or, if you prefer, who leans so far to the right that he’s in danger of falling over — is treated as being just the same as his utterly intransigent opponents. Balance!

Which brings me to those “centrist” fantasies.

Many pundits view taking a position in the middle of the political spectrum as a virtue in itself. I don’t. Wisdom doesn’t necessarily reside in the middle of the road, and I want leaders who do the right thing, not the centrist thing.

But for those who insist that the center is always the place to be, I have an important piece of information: We already have a centrist president. Indeed, Bruce Bartlett, who served as a policy analyst in the Reagan administration, argues that Mr. Obama is in practice a moderate conservative.

Mr. Bartlett has a point. The president, as we’ve seen, was willing, even eager, to strike a budget deal that strongly favored conservative priorities. His health reform was very similar to the reform Mitt Romney installed in Massachusetts. Romneycare, in turn, closely followed the outlines of a plan originally proposed by the right-wing Heritage Foundation. And returning tax rates on high-income Americans to their level during the Roaring Nineties is hardly a socialist proposal.

 

True, Republicans insist that Mr. Obama is a leftist seeking a government takeover of the economy, but they would, wouldn’t they? The facts, should anyone choose to report them, say otherwise.

 

So what’s with the buzz about a centrist uprising? As I see it, it’s coming from people who recognize the dysfunctional nature of modern American politics, but refuse, for whatever reason, to acknowledge the one-sided role of Republican extremists in making our system dysfunctional. And it’s not hard to guess at their motivation. After all, pointing out the obvious truth gets you labeled as a shrill partisan, not just from the right, but from the ranks of self-proclaimed centrists.

But making nebulous calls for centrism, like writing news reports that always place equal blame on both parties, is a big cop-out — a cop-out that only encourages more bad behavior. The problem with American politics right now is Republican extremism, and if you’re not willing to say that, you’re helping make that problem worse.

 

La scusa dei centristi, di Paul Krugman

New York Times 28 luglio 2011

 

I fatti, nella crisi sul tetto del debito, non sono complicati. In sostanza, i Repubblicani hanno preso l’America in ostaggio, minacciando di far saltare l’economia e di distruggere la funzionalità essenziale del Governo se non ottengono concessioni politiche che non sarebbero mai stati nelle condizioni di approvare per via legislativa. Ed i Democratici – che sarebbero stati pienamente giustificati nel rigettare un ricatto del genere – in sostanza hanno fatto un buon tratto di strada per venire incontro alle richieste dei Repubblicani.

Come ho detto, questo non è complicato. Tuttavia molte persone nei media in apparenza non possono mettersi nelle condizioni di riconoscere questa realtà. I resoconti giornalistici forniscono un quadro di Partiti nello stesso modo intransigenti; i commentatori fantasticano di un qualche genere di rivolta dei “centristi”, come se il problema fosse quello di una eccessiva faziosità di entrambi gli schieramenti.

Alcuni di noi da tempo protestano contro questa nuova religione del “bilanciamento”, l’insistenza nel dipingere entrambi i Partiti come egualmente in torto ed egualmente responsabili su ogni questione, a prescindere dai fatti. Tempo fa io scherzavo sul fatto che se un partito dichiarasse che la Terra è piatta, sui titoli dei giornali si leggerebbe “Diversi punti di vista sulla forma del pianeta”. Ma questo nuovo culto può ancora dettar legge in una situazione così forte come quella che stiamo fronteggiando, nella quale un partito è chiaramente impegnato in un ricatto e l’altro mercanteggia sulle dimensioni del riscatto?

La risposta, a quanto pare, è positiva. E non è roba da ridere: il culto del “bilanciamento” ha giocato un ruolo importante nel portarci sull’orlo del disastro, giacché se i resoconti sulle dispute politiche implicano sempre che la responsabilità venga addossata ad entrambi gli schieramenti, non c’è alcuna sanzione per l’estremismo. Gli elettori non vi puniranno per un comportamento oltraggioso se sentono dire in continuazione che la colpa è di entrambi gli schieramenti.

Consentitemi un esempio di quello di cui sto parlando. Come sapete, agli inizi il Presidente Obama cercò di trovare un “Grande Accordo” sulle tasse e sulla spesa pubblica con i Repubblicani. Per farlo, non solo scelse di non fare alcuna questione sul ricatto del Partito Repubblicano, ma offrì concessioni straordinarie dal punto di vista delle priorità dei Democratici: un incremento dell’età per il diritto all’assistenza di Medicare, forti tagli alla spesa e solo piccoli incrementi delle entrate. Come sottolineò Nate Silver su The Times, effettivamente Obama definì una posizione che non solo era molto a destra rispetto alle preferenze dell’elettore medio, ma era addirittura un po’ a destra delle preferenze dell’elettore repubblicano medio.

Ma i Repubblicani respinsero l’accordo. Quale fu dunque il titolo di una analisi di Associated Press sulla rottura delle trattative? “Obama ed[143] i Repubblicani nella trappola di una rigida propaganda”.  Un Presidente democratico che si fa in quattro per venire incontro all’altro schieramento – o, se preferite, che si spinge così a destra da rischiare di cadere – è trattato come se fosse esattamente la stessa cosa dei suoi avversari del tutto intransigenti. Bilanciamento!

Il che mi porta alla questione di quelle fantasie “centriste”.

Molti commentatori ritengono che assumere una posizione di mezzo nella spettro della politica sia in sé una virtù. Io non credo. La saggezza non risiede necessariamente nel mezzo della via, ed io voglio dirigenti politici che facciano le cose giuste, non le cose ‘di centro’.

Ma per coloro che continuano a pensare che il centro sia sempre il posto dove stare, ho una notizia importante: noi già abbiamo un Presidente centrista. In effetti, Bruce Bartlett, che fu al servizio come analista politico della Amministrazione Reagan, sostiene che in pratica Obama è un conservatore moderato.

 

 

Bartlett ha ragione. Il Presidente, come abbiamo visto, era desideroso, persino entusiasta, di trovare un accordo sul bilancio che era chiaramente a favore delle priorità dei conservatori. La sua riforma sanitaria era stata assai simile a quella che Mitt Romney introdusse nel Massachusetts. La riforma di Romney, a sua volta, seguiva da vicino le linee generali di un progetto originariamente proposto dalla conservatrice Heritage Foundation. E il ritorno, per gli americani con redditi elevati, ad aliquote fiscali sui livelli dei ‘Ruggenti Anni ‘90’ difficilmente si può considerare come una proposta socialista.

E’ vero, i Repubblicani insistono che Obama è una persona di sinistra alla ricerca di un controllo governativo sull’economia, ma anche loro lo facevano, non lo facevano forse? I fatti, nel caso qualcuno abbia intenzione di riferirli, dicono diversamente.

Dunque, cos’è tutto questo brusio su una rivolta centrista? Per come la vedo io, esso viene da persone che riconoscono la natura anomala della politica americana moderna, ma rifiutano, per una qualsiasi ragione, di ammettere il ruolo unilaterale degli estremisti repubblicani nel rendere il nostro sistema anomalo. E non è difficile indovinare le loro motivazioni. Dopo tutto, richiamare l’attenzione sulla verità evidente comporterebbe l’essere etichettati come faziosi petulanti, non solo da parte della destra, ma anche da parte delle truppe dei sedicenti centristi.

Ma fare appelli nebulosi a favore del centrismo, così come scrivere resoconti giornalistici che sostengono di continuo l’identica responsabilità di entrambi i partiti, è una grande scusa, un pretesto che incoraggia soltanto comportamenti ancora peggiori. Il problema attuale della politica americana è l’estremismo, e se non avete voglia di dirlo, state dando una mano a rendere quel problema più grave.        

      

 

 

 

The President Surrenders

By PAUL KRUGMAN
Published: July 31, 2011

 

A deal to raise the federal debt ceiling is in the works. If it goes through, many commentators will declare that disaster was avoided. But they will be wrong.

For the deal itself, given the available information, is a disaster, and not just for President Obama and his party. It will damage an already depressed economy; it will probably make America’s long-run deficit problem worse, not better; and most important, by demonstrating that raw extortion works and carries no political cost, it will take America a long way down the road to banana-republic status.

Start with the economics. We currently have a deeply depressed economy. We will almost certainly continue to have a depressed economy all through next year. And we will probably have a depressed economy through 2013 as well, if not beyond.

 

The worst thing you can do in these circumstances is slash government spending, since that will depress the economy even further. Pay no attention to those who invoke the confidence fairy, claiming that tough action on the budget will reassure businesses and consumers, leading them to spend more. It doesn’t work that way, a fact confirmed by many studies of the historical record.

Indeed, slashing spending while the economy is depressed won’t even help the budget situation much, and might well make it worse. On one side, interest rates on federal borrowing are currently very low, so spending cuts now will do little to reduce future interest costs. On the other side, making the economy weaker now will also hurt its long-run prospects, which will in turn reduce future revenue. So those demanding spending cuts now are like medieval doctors who treated the sick by bleeding them, and thereby made them even sicker.

 

And then there are the reported terms of the deal, which amount to an abject surrender on the part of the president. First, there will be big spending cuts, with no increase in revenue. Then a panel will make recommendations for further deficit reduction — and if these recommendations aren’t accepted, there will be more spending cuts.

Republicans will supposedly have an incentive to make concessions the next time around, because defense spending will be among the areas cut. But the G.O.P. has just demonstrated its willingness to risk financial collapse unless it gets everything its most extreme members want. Why expect it to be more reasonable in the next round?

In fact, Republicans will surely be emboldened by the way Mr. Obama keeps folding in the face of their threats. He surrendered last December, extending all the Bush tax cuts; he surrendered in the spring when they threatened to shut down the government; and he has now surrendered on a grand scale to raw extortion over the debt ceiling. Maybe it’s just me, but I see a pattern here.

Did the president have any alternative this time around? Yes.

First of all, he could and should have demanded an increase in the debt ceiling back in December. When asked why he didn’t, he replied that he was sure that Republicans would act responsibly. Great call.

And even now, the Obama administration could have resorted to legal maneuvering to sidestep the debt ceiling, using any of several options. In ordinary circumstances, this might have been an extreme step. But faced with the reality of what is happening, namely raw extortion on the part of a party that, after all, only controls one house of Congress, it would have been totally justifiable.

At the very least, Mr. Obama could have used the possibility of a legal end run to strengthen his bargaining position. Instead, however, he ruled all such options out from the beginning.

But wouldn’t taking a tough stance have worried markets? Probably not. In fact, if I were an investor I would be reassured, not dismayed, by a demonstration that the president is willing and able to stand up to blackmail on the part of right-wing extremists. Instead, he has chosen to demonstrate the opposite.

Make no mistake about it, what we’re witnessing here is a catastrophe on multiple levels.

It is, of course, a political catastrophe for Democrats, who just a few weeks ago seemed to have Republicans on the run over their plan to dismantle Medicare; now Mr. Obama has thrown all that away. And the damage isn’t over: there will be more choke points where Republicans can threaten to create a crisis unless the president surrenders, and they can now act with the confident expectation that he will.

In the long run, however, Democrats won’t be the only losers. What Republicans have just gotten away with calls our whole system of government into question. After all, how can American democracy work if whichever party is most prepared to be ruthless, to threaten the nation’s economic security, gets to dictate policy? And the answer is, maybe it can’t.

 

Il Presidente si arrende, di Paul Krugman

New York Times 31 luglio 2011

 

 

Un accordo per elevare il tetto del debito federale è in via di realizzazione. Se esso arriverà in fondo, molti commentatori dichiareranno che il disastro è stato evitato. Ma avranno torto.

Il fatto è che l’accordo stesso, sulla base delle informazioni disponibili, è un disastro, e non solo per il Presidente Obama e per il suo Partito. Esso danneggerà un’economia già depressa; probabilmente renderà il deficit di lungo periodo dell’America peggiore e non migliore; più importante di tutto, dimostrando che il crudo ricatto funziona e non comporta costi politici, metterà l’America per un buon tratto in avanti sulla strada delle condizioni di una repubblica delle banane.

Cominciamo dagli aspetti economici. Attualmente abbiamo un’economia profondamente depressa. Quasi certamente continueremo ad avere un’economia depressa per il prossimo anno. Probabilmente avremo un’economia depressa anche per tutto il 2013, se non oltre.

La cosa peggiore che si può fare in queste circostanze è ridurre la spesa pubblica, perché in quel modo l’economia si deprimerà anche maggiormente. Non è il caso di dar retta a coloro che invocano la ‘fata turchina’ [144] della fiducia, sostenendo che un’azione decisa sul bilancio rassicurerà le imprese ed i consumatori, inducendoli a spendere di più. Non funziona così, e questo è un fatto che hanno confermato molti studi sugli andamenti storici.

Piuttosto, ridurre la spesa pubblica mentre l’economia è depressa non aiuterà granché neppure la situazione del bilancio, e potrebbe renderla peggiore. Da una parte, i tassi di interesse sui prestiti federali sono in questo momento molto bassi, cosicché in queste condizioni i tagli alla spesa avranno poco effetto nel ridurre i costi dell’interesse futuri. D’altra parte, rendere l’economia più debole in questo momento darà anche un colpo alle prospettive di lungo periodo, con il che a sua volta si ridurranno le entrate future. Così quei tagli alla spesa provocano oggi gli  stessi effetti dei dottori del medioevo, che dissanguavano i loro pazienti e li rendevano, di conseguenza, ancora più malati.

E infine ci sono i resoconti sui termini dell’accordo, che si configura come una resa completa da parte del Presidente. In primo luogo, ci saranno grandi tagli alla spesa, senza alcun incremento delle entrate. Dopodiché una commissione avanzerà raccomandazioni per ulteriori riduzioni del deficit – e se queste raccomandazioni non saranno accettate, ci saranno ulteriori tagli alla spesa.

Si può supporre che i Repubblicani al prossimo passaggio avranno una ragione per fare concessioni, dato che la spesa pubblica per la difesa sarà tra le aree da tagliare. Ma il Partito Repubblicano ha appena dimostrato la sua determinazione a rischiare il collasso finanziario se non ottiene tutto quello che desiderano le sue componenti più estreme. Perché attendersi maggiore ragionevolezza alla prossima occasione?

Di fatto, i Repubblicani saranno sicuramente baldanzosi per il modo in cui Obama ha continuato a piegarsi di fronte alle loro minacce. Si arrese il dicembre scorso, prorogando gli sgravi fiscali di Bush; si arrese in primavera, quando essi minacciarono il blocco delle attività di governo; si è arreso adesso, e in grande misura, dinanzi al ricatto nudo e crudo sul tetto del debito. Può darsi sia una mia impressione, ma in questo vedo un modello.

Il Presidente aveva una qualche alternativa, in questa occasione? La aveva.

Prima di tutto, egli avrebbe potuto e dovuto chiedere un innalzamento del debito lo scorso dicembre. Quando gli fu chiesto perché non l’avesse fatto, rispose che era sicuro che i Repubblicani si sarebbero comportati responsabilmente. Le ultime parole famose.

Ed anche adesso la Amministrazione Obama avrebbe potuto ricorrere a manovre legali per eludere il limite del debito, utilizzando una qualsiasi possibilità tra quelle a disposizione. In circostanze ordinarie, sarebbe stata una soluzione estrema. Ma di fronte alla realtà di quanto stava avvenendo, vale a dire un crudo ricatto da parte di un Partito che, dopo tutto, controlla soltanto un ramo del Congresso, sarebbe stato interamente giustificabile.

Proprio in ultima analisi, Obama avrebbe potuto utilizzare la possibilità di una legale tattica elusiva per rafforzare la sua posizione contrattuale. Tuttavia, egli aveva invece escluso ogni opzione di quella natura sin dagli inizi.

Ma assumere una posizione dura non avrebbe preoccupato i mercati? Probabilmente no. Nei fatti, se fossi un investitore mi sentirei più rassicurato che sgomento da una dimostrazione che il Presidente ha la volontà e la capacità di resistere al ricatto proveniente dagli estremisti della destra. Invece ha scelto di dimostrare l’opposto.

Non si facciano errori a questo proposito, quello a cui stiamo assistendo è un disastro sotto molteplici profili.

E’, ovviamente, un disastro politico per i Democratici, che solo poche settimane fa sembravano aver messo i Repubblicani in rotta a proposito del loro piano per lo smantellamento di Medicare; ora Obama ha sprecato quella possibilità. E il danno non è finito: ci saranno altri passaggi al cardiopalma [145] nei quali i Repubblicani potranno minacciare di creare una crisi se il Presidente non si arrende, ed ora potranno farlo con la fiduciosa attesa che cederà.

Nel lungo periodo, tuttavia, non saranno solo i Democratici a rimetterci. I Repubblicani sono appena riusciti a cavarsela mettendo in causa l’intero nostro sistema di governo. Dopo tutto, come può funzionare la democrazia americana se un qualsiasi partito è più che disposto ad agire spietatamente, a minacciare la sicurezza economica della nazione, per imporre una politica? La risposta è: può darsi che non possa funzionare.

 

    

 

 

 

The Wrong Worries

By PAUL KRUGMAN
Published: August 4, 2011

In case you had any doubts, Thursday’s more than 500-point plunge in the Dow Jones industrial average and the drop in interest rates to near-record lows confirmed it: The economy isn’t recovering, and Washington has been worrying about the wrong things.

It’s not just that the threat of a double-dip recession has become very real. It’s now impossible to deny the obvious, which is that we are not now and have never been on the road to recovery.

 

For two years, officials at the Federal Reserve, international organizations and, sad to say, within the Obama administration have insisted that the economy was on the mend. Every setback was attributed to temporary factors — It’s the Greeks! It’s the tsunami! — that would soon fade away. And the focus of policy turned from jobs and growth to the supposedly urgent issue of deficit reduction.

But the economy wasn’t on the mend.

 

Yes, officially the recession ended two years ago, and the economy did indeed pull out of a terrifying tailspin. But at no point has growth looked remotely adequate given the depth of the initial plunge. In particular, when employment falls as much as it did from 2007 to 2009, you need a lot of job growth to make up the lost ground. And that just hasn’t happened.

Consider one crucial measure, the ratio of employment to population. In June 2007, around 63 percent of adults were employed. In June 2009, the official end of the recession, that number was down to 59.4. As of June 2011, two years into the alleged recovery, the number was: 58.2.

 

These may sound like dry statistics, but they reflect a truly terrible reality. Not only are vast numbers of Americans unemployed or underemployed, for the first time since the Great Depression many American workers are facing the prospect of very-long-term — maybe permanent — unemployment. Among other things, the rise in long-term unemployment will reduce future government revenues, so we’re not even acting sensibly in purely fiscal terms. But, more important, it’s a human catastrophe.

And why should we be surprised at this catastrophe? Where was growth supposed to come from? Consumers, still burdened by the debt that they ran up during the housing bubble, aren’t ready to spend. Businesses see no reason to expand given the lack of consumer demand. And thanks to that deficit obsession, government, which could and should be supporting the economy in its time of need, has been pulling back.

Now it looks as if it’s all about to get even worse. So what’s the response?

 

To turn this disaster around, a lot of people are going to have to admit, to themselves at least, that they’ve been wrong and need to change their priorities, right away.

Of course, some players won’t change. Republicans won’t stop screaming about the deficit because they weren’t sincere in the first place: Their deficit hawkery was a club with which to beat their political opponents, nothing more — as became obvious whenever any rise in taxes on the rich was suggested. And they’re not going to give up that club.

But the policy disaster of the past two years wasn’t just the result of G.O.P. obstructionism, which wouldn’t have been so effective if the policy elite — including at least some senior figures in the Obama administration — hadn’t agreed that deficit reduction, not job creation, should be our main priority. Nor should we let Ben Bernanke and his colleagues off the hook: The Fed has by no means done all it could, partly because it was more concerned with hypothetical inflation than with real unemployment, partly because it let itself be intimidated by the Ron Paul types.

 

Well, it’s time for all that to stop. Those plunging interest rates and stock prices say that the markets aren’t worried about either U.S. solvency or inflation. They’re worried about U.S. lack of growth. And they’re right, even if on Wednesday the White House press secretary chose, inexplicably, to declare that there’s no threat of a double-dip recession.

 

Earlier this week, the word was that the Obama administration would “pivot” to jobs now that the debt ceiling has been raised. But what that pivot would mean, as far as I can tell, was proposing some minor measures that would be more symbolic than substantive. And, at this point, that kind of proposal would just make President Obama look ridiculous.

The point is that it’s now time — long past time — to get serious about the real crisis the economy faces. The Fed needs to stop making excuses, while the president needs to come up with real job-creation proposals. And if Republicans block those proposals, he needs to make a Harry Truman-style campaign against the do-nothing G.O.P.

 

 

This might or might not work. But we already know what isn’t working: the economic policy of the past two years — and the millions of Americans who should have jobs, but don’t.

 

Le preoccupazioni sbagliate, di Paul Krugman

New York Times 4 agosto 2011

 

 

Nel caso aveste avuto qualche dubbio, la caduta di più di 500 punti di giovedì nell’indice medio delle industrie del Dow Jones e la discesa dei tassi di interesse a minimi quasi da record lo ha confermato: l’economia non è in ripresa, e Washington si è preoccupata delle cose sbagliate.

Non si tratta solo del fatto che la minaccia di una ripetizione della recessione [146] è diventata assai seria[147]. Ora è impossibile negare l’evidenza, ovvero che non siamo attualmente e che non siamo mai stati sulla strada della ripresa.

 

Per due anni, tra i dirigenti della Federal Reserve, nelle organizzazioni internazionali e, dispiace dirlo, all’interno della Amministrazione Obama si è insistito a dire che l’economia fosse sulla strada di una guarigione. Ogni battuta d’arresto era attribuita a fattori temporanei – E’ la Grecia! E’ lo tsunami! – che in breve sarebbero svaniti. E il centro della politica si è spostato dai posti di lavoro e dalla crescita, al tema che si supponeva indilazionabile della riduzione del deficit.

Ma l’economia non era sulla strada della ripresa.

 

E’ vero, la recessione è ufficialmente terminata due anni fa, e l’economia effettivamente è venuta fuori da un terribile avvitamento. Ma in nessun senso ha avuto una crescita che apparisse lontanamente adeguata, data la profondità della caduta iniziale. In particolare, quando la disoccupazione scende di così tanto come ha fatto dal 2007 al 2009, c’è bisogno di un bel po’ di crescita dei posti di lavoro per recuperare il tempo perduto.

Si consideri un dato cruciale, il tasso di occupazione della popolazione. Nel giugno del 2007 erano occupati circa il 63 per cento delle persone adulte. Nel giugno del 2009, al termine ufficiale della recessione, quel dato era sceso al 59,4. Dal giugno del 2011, due anni pieni di pretesa ripresa, il numero è diventato 58,2.

 

Sembrano aride statistiche, ma riflettono una realtà veramente terribile. Non sono soltanto moltitudini di americani disoccupati o sottooccupati; per la prima volta dalla Grande Depressione molti lavoratori americani stanno fronteggiando la prospettiva di una disoccupazione davvero a lungo termine e forse permanente. Tra le altre cose, la crescita nella disoccupazione a lungo termine riduce le future entrate dello Stato, al punto che non stiamo agendo sensatamente persino in termini di mera finanza pubblica. Ma, più importante, è una catastrofe da un punto di vista umano.

E perché dovremmo essere sorpresi da questa catastrofe? Da dove si pensava che venisse la crescita? I consumatori, ancora caricati dal debito rapidamente accumulato durante la bolla immobiliare, non erano pronti a spendere. Le imprese non vedevano alcuna ragione di ampliarsi, data la carenza di domanda di consumi. E grazie all’ossessione del deficit, il governo, che avrebbe dovuto e potuto sostenere l’economia nel momento del bisogno, si è tirato indietro.

Ed ora sembra che tutto stia addirittura per peggiorare. Quale è la risposta, dunque?

 

Per risollevarsi da questo disastro, ci sarebbe bisogno che un buon numero di persone ammettessero, almeno con se stesse, di aver sbagliato e riconoscessero la necessità modificare da subito le loro priorità.

E’ naturale che una serie di protagonisti non cambieranno. I Repubblicani non la smetteranno di strillare al deficit, giacché non erano sinceri sin dall’inizio: la loro intransigenza sul deficit era un randello col quale colpire i loro avversari politici; niente di più, come è diventato evidente ogni volta che è stato proposto un qualche aumento sulle tasse dei ricchi. Né hanno intenzione di mettere da parte quel bastone.

 

Ma il disastro politico dei due anni passati non è stata solo la conseguenza dell’ostruzionismo dei Repubblicani, che non sarebbe stato così efficace se il gruppi dirigenti – incluso almeno qualche principale personaggio nella Amministrazione Obama – non avesse concordato sul fatto che la riduzione del deficit, e non la creazione di posti di lavoro, doveva essere la nostra priorità principale. E neanche dobbiamo mettere Ben Bernanke ed i suoi collaboratori fuori dal conto[148]: la Fed non ha fatto in nessun modo quello che poteva, in parte perché era più preoccupata della ipotetica inflazione che della reale disoccupazione, in parte perché si è lasciata intimidire da personaggi come Ron Paul [149].

Ebbene, è venuto il momento che tutto questo abbia termine. Quei tassi di interesse calanti e quei valori azionari dicono che i mercati non sono preoccupati né della solvibilità degli Stati Uniti, né dell’inflazione. Sono preoccupati della mancanza di crescita degli Stati Uniti. Ed hanno ragione, anche se mercoledì, inesplicabilmente, l’addetto alle relazioni della Casa Bianca ha dichiarato che non esiste alcuna minaccia di un ripetersi della recessione.

Agli inizi di questa settimana, la parola d’ordine era che la Amministrazione Obama avrebbe “dato una sterzata”[150] sul tema del lavoro, ora che il tetto del debito era stato rialzato. Ma quella “sterzata”, da quanto posso arguire[151], sarebbe consistita nel proporre alcune misure secondarie, più simboliche che sostanziali. E, a questo punto, proposte di quel genere farebbero semplicemente apparire ridicolo il Presidente Obama.

Il punto è che è venuto il momento – è da un po’ che è venuto –   di essere seri sulla crisi reale dinanzi alla quale si trova l’economia. La Fed ha bisogno di smettere di accampare scuse, e il Presidente ha bisogno di inventarsi qualche proposta effettiva di creazione di posti di lavoro. E se i Repubblicani si metteranno di traverso a quelle proposte, il Presidente ha bisogno di sviluppare una iniziativa politica del genere di quella che Harry Truman oppose al Partito Repubblicano ‘del non far niente’.

Questo potrà o non potrà funzionare. Ma quello che non ha funzionato già lo conosciamo: la politica economica dei due anni trascorsi – e i milioni di americani che dovrebbero lavorare e non lavorano.

 

 

 

Credibility, Chutzpah And Debt

By PAUL KRUGMAN
Published: August 7, 2011
  •  To understand the furor over the decision by Standard & Poor’s, the rating agency, to downgrade U.S. government debt, you have to hold in your mind two seemingly (but not actually) contradictory ideas. The first is that America is indeed no longer the stable, reliable country it once was. The second is that S.& P. itself has even lower credibility; it’s the last place anyone should turn for judgments about our nation’s prospects.

 

Let’s start with S.& P.’s lack of credibility. If there’s a single word that best describes the rating agency’s decision to downgrade America, it’s chutzpah — traditionally defined by the example of the young man who kills his parents, then pleads for mercy because he’s an orphan.

America’s large budget deficit is, after all, primarily the result of the economic slump that followed the 2008 financial crisis. And S.& P., along with its sister rating agencies, played a major role in causing that crisis, by giving AAA ratings to mortgage-backed assets that have since turned into toxic waste.

Nor did the bad judgment stop there. Notoriously, S.& P. gave Lehman Brothers, whose collapse triggered a global panic, an A rating right up to the month of its demise. And how did the rating agency react after this A-rated firm went bankrupt? By issuing a report denying that it had done anything wrong.

So these people are now pronouncing on the creditworthiness of the United States of America?

Wait, it gets better. Before downgrading U.S. debt, S.& P. sent a preliminary draft of its press release to the U.S. Treasury. Officials there quickly spotted a $2 trillion error in S.& P.’s calculations. And the error was the kind of thing any budget expert should have gotten right. After discussion, S.& P. conceded that it was wrong — and downgraded America anyway, after removing some of the economic analysis from its report.

 

As I’ll explain in a minute, such budget estimates shouldn’t be given much weight in any case. But the episode hardly inspires confidence in S.& P.’s judgment.

More broadly, the rating agencies have never given us any reason to take their judgments about national solvency seriously. It’s true that defaulting nations were generally downgraded before the event. But in such cases the rating agencies were just following the markets, which had already turned on these problem debtors.

And in those rare cases where rating agencies have downgraded countries that, like America now, still had the confidence of investors, they have consistently been wrong. Consider, in particular, the case of Japan, which S.& P. downgraded back in 2002. Well, nine years later Japan is still able to borrow freely and cheaply. As of Friday, in fact, the interest rate on Japanese 10-year bonds was just 1 percent.

So there is no reason to take Friday’s downgrade of America seriously. These are the last people whose judgment we should trust.

And yet America does have big problems.

These problems have very little to do with short-term or even medium-term budget arithmetic. The U.S. government is having no trouble borrowing to cover its current deficit. It’s true that we’re building up debt, on which we’ll eventually have to pay interest. But if you actually do the math, instead of intoning big numbers in your best Dr. Evil voice, you discover that even very large deficits over the next few years will have remarkably little impact on U.S. fiscal sustainability.

 

No, what makes America look unreliable isn’t budget math, it’s politics. And please, let’s not have the usual declarations that both sides are at fault. Our problems are almost entirely one-sided — specifically, they’re caused by the rise of an extremist right that is prepared to create repeated crises rather than give an inch on its demands.

 

The truth is that as far as the straight economics goes, America’s long-run fiscal problems shouldn’t be all that hard to fix. It’s true that an aging population and rising health care costs will, under current policies, push spending up faster than tax receipts. But the United States has far higher health costs than any other advanced country, and very low taxes by international standards. If we could move even part way toward international norms on both these fronts, our budget problems would be solved.

 

 

So why can’t we do that? Because we have a powerful political movement in this country that screamed “death panels” in the face of modest efforts to use Medicare funds more effectively, and preferred to risk financial catastrophe rather than agree to even a penny in additional revenues.

The real question facing America, even in purely fiscal terms, isn’t whether we’ll trim a trillion here or a trillion there from deficits. It is whether the extremists now blocking any kind of responsible policy can be defeated and marginalized.

 

Credibilità, debito e faccia tosta[152], di Paul Krugman

New York Times 7 agosto 2011

 

Per capire lo scalpore sulla decisione presa da Standards & Poors, la agenzia di rating, di declassare il debito del Governo americano, dovete mettervi in testa due concetti apparentemente (ma non effettivamente) contraddittori. Il primo è che l’America non è più quel paese stabile ed affidabile che era un tempo. Il secondo è che la stessa S&P ha una credibilità persino inferiore; è l’ultimo posto a cui ci si dovrebbe rivolgerebbe per avere giudizi sulle prospettive della nostra nazione.

Cominciamo dalla mancanza di credibilità di S&P. Se c’è una parola che descrive nel migliore dei modi la decisione della agenzia di rating di retrocedere l’America, essa è “chutzpah” – espressione tradizionalmente illustrata dall’esempio del giovane che uccide i suoi genitori e poi implora compassione in quanto orfano.

L’ampio deficit del bilancio americano è, dopo tutto, principalmente il risultato del crollo economico che è seguito alla crisi finanziaria del 2008. E S&P, assieme alle sue agenzie sorelle di rating, ha giocato un ruolo importante nel provocare quella crisi, assegnando classificazioni AAA agli assets connessi con i mutui che in seguito si trasformarono in rifiuti tossici.

Né la pessima valutazione si fermò a questo punto. Come è noto, S&P dette a Lehman Brothers, il cui collasso innescò il panico globale, una classificazione A proprio sino al mese del suo crollo. E come reagì l’agenzia di rating dopo che questa impresa classificata A giunse alla bancarotta? Mettendo in circolazione un rapporto con il quale si negava di aver fatto alcunché di sbagliato.

Sono dunque costoro che ora si pronunciano sulla mancanza di credito degli Stati Uniti d’America?

 

Aspettate, perché c’è dell’altro. Prima di retrocedere il debito degli Stati Uniti, S&P ha inviato al Tesoro statunitense una bozza preliminare de suo comunicato stampa. I dirigenti ministeriali individuarono rapidamente un errore da due mila miliardi di dollari nei calcoli di S&P.  E l’errore riguardava un genere di cose che ogni esperto di bilanci non può non comprendere. Dopo la discussione, S&P riconobbe che aveva torto – e retrocesse comunque l’America, dopo aver rimosso qualcosa dall’analisi economica del suo rapporto.

Come spiegherò tra un attimo, a quelle stime di bilancio non dovrebbe essere dato in ogni caso alcun peso. Ma l’episodio difficilmente ispira fiducia nei giudizi di S&P.

 

Più in generale, le agenzie di rating non ci hanno mai dato alcuna ragione per prendere sul serio i loro giudizi sulla solvibilità della nazione. E’ vero che le nazioni in corso di default sono state in generale declassificate prima dell’evento. Ma in tali casi, le agenzie di rating sono semplicemente venute dietro ai mercati, che si erano già rivoltati contro quei debitori con problemi.

E nei rari casi nei quali le agenzie di rating hanno retrocesso paesi che, come l’America di oggi, godono ancora della fiducia degli investitori, hanno avuto smaccatamente torto. Si consideri, ad esempio, il caso del Giappone, che S&P retrocesse nel passato 2002. Ebbene, nove anni dopo il Giappone è ancora nelle condizioni di indebitarsi liberamente ed a buon prezzo. Ancora venerdì, di fatto, il tasso di interesse giapponese era esattamente all’1 per cento.

Non c’è alcuna ragione per prendere sul serio la retrocessione dell’America di venerdì. Costoro sono le ultime persone i cui giudizi dovremmo prendere sul serio.

 

E tuttavia l’America ha davvero problemi grandi.

Questi problemi hanno poco a che fare con i numeri del bilancio a breve o persino a medio termine. Il Governo degli Stati Uniti non ha alcuna difficoltà ad avere prestiti per coprire il proprio deficit attuale. E’ vero che stiamo accumulando debito, sul quale dovremo alla fine pagare gli interessi. Ma se adoperate la matematica, anziché intonare grandi numeri nella vostra migliore voce da Dottor Disgrazia, scoprirete che persino deficit molto ampi avrebbero nei prossimi anni un impatto considerevolmente modesto sulla sostenibilità della finanza pubblica degli Stati Uniti.

No, quello che rende l’America inaffidabile non sono i numeri del bilancio, è la politica. E, per favore, risparmiateci le consuete dichiarazioni secondo le quali la responsabilità è di entrambe le parti. I nostri problemi vengono quasi per intero da una parte sola – in particolare sono provocati da una crescita di una destra estremista che è pronta a provocare crisi a ripetizione, piuttosto che spostarsi di un centimetro dalle proprie richieste.

La verità è che per quanto può andare avanti una economia ordinata, i problemi di finanza pubblica di lungo periodo dell’America non dovrebbero essere alla fine così difficili da aggiustare. E’ vero che una popolazione sempre più adulta ed i costi crescenti della assistenza sanitaria, con le politiche attuali, accrescerebbero la spesa pubblica più rapidamente delle entrate fiscali. Ma gli Stati Uniti hanno costi sanitari di gran lunga più elevati delle altre nazioni avanzate, e una fiscalità molto contenuta per gli standards internazionali. Se potessimo incamminarci anche in modo parziale su entrambi questi fronti verso i criteri internazionali, i nostri problemi di bilancio sarebbero risolti.

Perché, dunque, non possiamo farlo? Perché in questo paese abbiamo un potente movimento politico che ha strepitato ai “Tribunali della morte [153]”  di fronte a modesti tentativi di utilizzare con maggiore efficacia i fondi di Medicare, e che ha preferito rischiare una catastrofe finanziaria piuttosto che mettersi d’accordo anche su un centesimo di entrate aggiuntive.  

Il reale problema dinanzi all’America, persino in termini meramente fiscali, non è se potremo ridurre i deficit di un migliaio di miliardi qua o là. E’ se gli estremisti che oggi bloccano ogni genere di politica responsabile potranno essere sconfitti e messi ai margini.

 

 

 

 

The Hijacked Crisis

By PAUL KRUGMAN
Published: August 11, 2011

 

Has market turmoil left you feeling afraid? Well, it should. Clearly, the economic crisis that began in 2008 is by no means over.

But there’s another emotion you should feel: anger. For what we’re seeing now is what happens when influential people exploit a crisis rather than try to solve it.

For more than a year and a half — ever since President Obama chose to make deficits, not jobs, the central focus of the 2010 State of the Union address — we’ve had a public conversation that has been dominated by budget concerns, while almost ignoring unemployment. The supposedly urgent need to reduce deficits has so dominated the discourse that on Monday, in the midst of a market panic, Mr. Obama devoted most of his remarks to the deficit rather than to the clear and present danger of renewed recession.

What made this so bizarre was the fact that markets were signaling, as clearly as anyone could ask, that unemployment rather than deficits is our biggest problem. Bear in mind that deficit hawks have been warning for years that interest rates on U.S. government debt would soar any day now; the threat from the bond market was supposed to be the reason that we must slash the deficit now now now. But that threat keeps not materializing. And, this week, on the heels of a downgrade that was supposed to scare bond investors, those interest rates actually plunged to record lows.

 

 

What the market was saying — almost shouting — was, “We’re not worried about the deficit! We’re worried about the weak economy!” For a weak economy means both low interest rates and a lack of business opportunities, which, in turn, means that government bonds become an attractive investment even at very low yields. If the downgrade of U.S. debt had any effect at all, it was to reinforce fears of austerity policies that will make the economy even weaker.

 

So how did Washington discourse come to be dominated by the wrong issue?

Hard-line Republicans have, of course, played a role. Although they don’t seem to truly care about deficits — try suggesting any rise in taxes on the rich — they have found harping on deficits a useful way to attack government programs.

 

But our discourse wouldn’t have gone so far off-track if other influential people hadn’t been eager to change the subject away from jobs, even in the face of 9 percent unemployment, and to hijack the crisis on behalf of their pre-existing agendas.

Check out the opinion page of any major newspaper, or listen to any news-discussion program, and you’re likely to encounter some self-proclaimed centrist declaring that there are no short-run fixes for our economic difficulties, that the responsible thing is to focus on long-run solutions and, in particular, on “entitlement reform” — that is, cuts in Social Security and Medicare. And when you do encounter such a person, you should be aware that people like that are a major reason we’re in so much trouble.

 

For the fact is that right now the economy desperately needs a short-run fix. When you’re bleeding profusely from an open wound, you want a doctor who binds that wound up, not a doctor who lectures you on the importance of maintaining a healthy lifestyle as you get older. When millions of willing and able workers are unemployed, and economic potential is going to waste to the tune of almost $1 trillion a year, you want policy makers who work on a fast recovery, not people who lecture you on the need for long-run fiscal sustainability.

 

Unfortunately, giving lectures on long-run fiscal sustainability is a fashionable Washington pastime; it’s what people who want to sound serious do to demonstrate their seriousness. So when the crisis struck and led to big budget deficits — because that’s what happens when the economy shrinks and revenue plunges — many members of our policy elite were all too eager to seize on those deficits as an excuse to change the subject from jobs to their favorite hobbyhorse. And the economy continued to bleed.

 

What would a real response to our problems involve? First of all, it would involve more, not less, government spending for the time being — with mass unemployment and incredibly low borrowing costs, we should be rebuilding our schools, our roads, our water systems and more. It would involve aggressive moves to reduce household debt via mortgage forgiveness and refinancing. And it would involve an all-out effort by the Federal Reserve to get the economy moving, with the deliberate goal of generating higher inflation to help alleviate debt problems.

 

The usual suspects will, of course, denounce such ideas as irresponsible. But you know what’s really irresponsible? Hijacking the debate over a crisis to push for the same things you were advocating before the crisis, and letting the economy continue to bleed.

 

La crisi dirottata, di Paul Krugman

New York Times 11 agosto 2011

 

 

Siete rimasti spaventati dal disordine dei mercati? Bene, avreste dovuto. Chiaramente, la crisi economica che iniziò nel 2008 non è in nessun senso alle nostre spalle.

Ma c’è un’altra emozione che dovreste provare: rabbia. Perché quello a cui stiamo oggi assistendo è quanto accade quando le persone importanti strumentalizzano una crisi, piuttosto che provare a risolverla.

Per più di un anno e mezzo – da quando il Presidente Obama scelse di fare del deficit, non dei posti di lavoro, il punto centrale del messaggio sullo stato dell’Unione del 2010 – abbiamo avuto un confronto pubblico dominato dalle preoccupazioni sul bilancio, mentre la disoccupazione veniva quasi ignorata. Il supposto bisogno urgente di ridurre il deficit ha talmente dominato il dibattito che lunedì, nel mezzo ad una crisi di panico dei mercati, Obama ha indirizzato gran parte delle sue osservazioni al deficit, piuttosto che al pericolo chiaro ed attuale del ripetersi di una recessione.

Quello che rendeva tutto ciò così irreale era il fatto che i mercati stavano segnalando, in un modo che non poteva essere più chiaro, che la disoccupazione e non il deficit è il nostro problema più grande. Considerate che i falchi del deficit avevano messo in guardia per anni sul fatto che i tassi di interesse sul debito del Governo Stati Uniti tutt’a un tratto sarebbero saliti alle stelle; si supponeva che la minaccia da parte del mercato dei titoli di stato fosse la ragione per la quale era necessario tagliare il deficit senza perdere un istante. Eppure quella minaccia continua a non materializzarsi. Questa settimana, con una retrocessione alle spalle [154] che si pensava spaventasse gli investitori nei bonds, quei tassi di interesse sono di fatto precipitati ai minimi storici.

Quello che il mercato stava dicendo – praticamente gridando – era: “Non siamo preoccupati del deficit! Siamo preoccupati della debolezza dell’economia!” Giacché un’economia debole significa sia bassi tassi di interesse che mancanza di opportunità per le imprese, la qual cosa, a sua volta, significa che i titoli di stato diventano un investimento attraente anche con rendimenti molto bassi. In fin dei conti, se il declassamento del debito americano ha avuto un qualche effetto, è stato quello di rafforzare il timore che le politiche di austerità renderanno l’economia anche più debole.

Come è successo, dunque, che il dibattito a Washington abbia finito coll’essere dominato dalla questione sbagliata?

La linea dura dei Repubblicani, naturalmente, ha avuto il suo peso. Sebbene non sembri che essi siano per davvero preoccupati dei deficit – si provi a proporre il minimo incremento delle tasse per i ricchi – hanno scoperto che battere sul chiodo dei deficit è una buona strada per attaccare i programmi governativi.

Ma il nostro ragionamento sarebbe stato del tutto deviante se altre persone potenti non fossero state prese dall’ansia di togliere di mezzo il tema dei posti di lavoro, persino di fronte ad una disoccupazione al 9 per cento, e di dirottare la crisi in nome dei loro preesistenti programmi.

Controllate le pagine dei commenti di un qualsiasi importante giornale, o ascoltate un qualsiasi dibattito sui notiziari, ed incontrerete con ogni probabilità un sedicente centrista che afferma che non ci sono a breve termine rimedi di sorta per le difficoltà della nostra economia, che la cosa responsabile da fare è concentrarsi sulle soluzioni di lungo periodo e, in particolare, su una “riforma dei diritti” – vale a dire, sui tagli alla Previdenza Sociale ed a Medicare. E, quando sbattete in una persona del genere, dovreste essere consapevoli che individui come quelli sono la ragione principale per la quale siamo in un guaio così grande.

Perché il fatto è che in questo momento l’economia ha un bisogno disperato di un rimedio urgente. Quando perdete sangue a profusione da una ferita aperta, avete bisogno di un medico che vi faccia una bella fasciatura, non di un medico che vi faccia una lezione sull’importanza di mantenere uno stile di vita salutare quando si diventa anziani. Quando milioni di lavoratori capaci e volenterosi sono disoccupati, e il potenziale dell’economia si avvia a sprecare la bella cifra di mille miliardi di dollari all’anno, avete bisogno di uomini politici che lavorino per una ripresa rapida, non di gente che vi faccia lezione sulla sostenibilità delle finanze pubbliche nel lungo termine.

Sfortunatamente, dare lezioni sulla sostenibilità a lungo termine della finanza pubblica [155] è il passatempo che va di moda a Washington: è quello che la gente che vuole apparire ‘seria’ fa per dimostrare la propria ‘serietà’. Così, quando la crisi è scoppiata ed ha portato a grandi deficit di bilancio – giacché questo è quello che accade quando l’economia è in calo e le entrate scendono in picchiata – molti membri dei nostri gruppi dirigenti sono stati anche troppo solerti nell’attaccarsi a quei deficit come una scusa per cambiare il tema, dai posti di lavoro al loro chiodo fisso preferito. E l’economia ha continuato a sanguinare.

Cosa implicherebbe una effettiva risposta ai nostri problemi? Prima di tutto, richiederebbe nel tempo presente più e non meno spesa pubblica – con la disoccupazione di massa e i costi di indebitamento incredibilmente bassi, noi dovremmo essere impegnati a ricostruire le nostre scuole, le nostre strade, i nostri sistemi idrici ed altro ancora. Richiederebbe iniziative aggressive per ridurre i debiti delle famiglie attraverso il condono ed il rifinanziamento dei mutui. E richiederebbe uno sforzo fuori dal comune da parte della Federal Reserve per rimettere in moto l’economia, nel deliberato obbiettivo di provocare una inflazione più alta che contribuisca ad alleviare i problemi del debito.

I ‘soliti ignoti’ [156], naturalmente, denunceranno idee di questa natura come irresponsabili. Ma sapete cosa è davvero irresponsabile? Usare come ostaggio il dibattito sulla crisi per riproporre le stesse cose che si sostenevano prima della crisi, e lasciare che l’economia continui a dissanguarsi.   

        

 

 

 

 

The Texas Unmiracle

By PAUL KRUGMAN
Published: August 14, 2011

 

As expected, Rick Perry, the governor of Texas, has announced that he is running for president. And we already know what his campaign will be about: faith in miracles.

Some of these miracles will involve things that you’re liable to read in the Bible. But if he wins the Republican nomination, his campaign will probably center on a more secular theme: the alleged economic miracle in Texas, which, it’s often asserted, sailed through the Great Recession almost unscathed thanks to conservative economic policies. And Mr. Perry will claim that he can restore prosperity to America by applying the same policies at a national level.

So what you need to know is that the Texas miracle is a myth, and more broadly that Texan experience offers no useful lessons on how to restore national full employment.

 

It’s true that Texas entered recession a bit later than the rest of America, mainly because the state’s still energy-heavy economy was buoyed by high oil prices through the first half of 2008. Also, Texas was spared the worst of the housing crisis, partly because it turns out to have surprisingly strict regulation of mortgage lending.

Despite all that, however, from mid-2008 onward unemployment soared in Texas, just as it did almost everywhere else.

In June 2011, the Texas unemployment rate was 8.2 percent. That was less than unemployment in collapsed-bubble states like California and Florida, but it was slightly higher than the unemployment rate in New York, and significantly higher than the rate in Massachusetts. By the way, one in four Texans lacks health insurance, the highest proportion in the nation, thanks largely to the state’s small-government approach. Meanwhile, Massachusetts has near-universal coverage thanks to health reform very similar to the “job-killing” Affordable Care Act.

 

So where does the notion of a Texas miracle come from? Mainly from widespread misunderstanding of the economic effects of population growth.

For this much is true about Texas: It has, for many decades, had much faster population growth than the rest of America — about twice as fast since 1990. Several factors underlie this rapid population growth: a high birth rate, immigration from Mexico, and inward migration of Americans from other states, who are attracted to Texas by its warm weather and low cost of living, low housing costs in particular.

 

And just to be clear, there’s nothing wrong with a low cost of living. In particular, there’s a good case to be made that zoning policies in many states unnecessarily restrict the supply of housing, and that this is one area where Texas does in fact do something right.

But what does population growth have to do with job growth? Well, the high rate of population growth translates into above-average job growth through a couple of channels. Many of the people moving to Texas — retirees in search of warm winters, middle-class Mexicans in search of a safer life — bring purchasing power that leads to greater local employment. At the same time, the rapid growth in the Texas work force keeps wages low — almost 10 percent of Texan workers earn the minimum wage or less, well above the national average — and these low wages give corporations an incentive to move production to the Lone Star State.

 

So Texas tends, in good years and bad, to have higher job growth than the rest of America. But it needs lots of new jobs just to keep up with its rising population — and as those unemployment comparisons show, recent employment growth has fallen well short of what’s needed.

 

If this picture doesn’t look very much like the glowing portrait Texas boosters like to paint, there’s a reason: the glowing portrait is false.

Still, does Texas job growth point the way to faster job growth in the nation as a whole? No.

What Texas shows is that a state offering cheap labor and, less important, weak regulation can attract jobs from other states. I believe that the appropriate response to this insight is “Well, duh.” The point is that arguing from this experience that depressing wages and dismantling regulation in America as a whole would create more jobs — which is, whatever Mr. Perry may say, what Perrynomics amounts to in practice — involves a fallacy of composition: every state can’t lure jobs away from every other state.

 

In fact, at a national level lower wages would almost certainly lead to fewer jobs — because they would leave working Americans even less able to cope with the overhang of debt left behind by the housing bubble, an overhang that is at the heart of our economic problem.

So when Mr. Perry presents himself as the candidate who knows how to create jobs, don’t believe him. His prescriptions for job creation would work about as well in practice as his prayer-based attempt to end Texas’s crippling drought.

 

Il ‘non-miracolo’ del Texas, di Paul Krugman,

New York Times 14 agosto 2011

 

 

Come ci si aspettava, Rick Perry, il Governatore del Texas, ha annunciato di essere in corsa per la presidenza. E sappiamo già quale sarà il tema di questa campagna: la fede nei miracoli.

Alcuni di questi miracoli riguarderanno cose che è possibile trovare sulla Bibbia. Ma se egli vince la nomination repubblicana, la sua campagna si concentrerà probabilmente su un tema più secolare: il preteso miracolo economico del Texas, che, si sostiene di solito, avrebbe navigato quasi indenne attraverso la Grande Recessione grazie alle politiche economiche dei conservatori. E il signor Perry, applicando le stesse politiche a livello nazionale, pretenderà di poter ridare la prosperità all’America.

Dunque, quello che avete bisogno di sapere è che il miracolo del Texas è un mito, e più in generale che l’esperienza texana non offre alcuna lezione utile su come ristabilire condizioni di piena occupazione nella nazione.

E’ vero che il Texas è entrato nella recessione un po’ più tardi che il resto dell’America, perché l’economia dello stato, ancora fortemente basata sull’energia, venne tenuta a galla dagli alti prezzi del petrolio per tutta la prima metà del 2008. Inoltre al Texas fu risparmiato il peggio della crisi immobiliare, in parte perché risultò essere dotato di una regolamentazione sulla concessione dei mutui sorprendentemente severa.

Nonostante tutto ciò, tuttavia, a partire dalla metà del 2008 in poi la disoccupazione nel Texas è molto cresciuta, proprio come quasi dappertutto.

A giugno del 2011 il tasso di disoccupazione del Texas era l’8,2 per cento. Era inferiore della disoccupazione negli stati collassati dalla bolla come la California e la Florida, ma era leggermente superiore al tasso di disoccupazione di New York, e significativamente più elevato del tasso di disoccupazione nel Massachusetts. Tra parentesi, un texano su quattro non ha l’assicurazione sanitaria, la percentuale più elevata della nazione, in gran parte grazie alle scelta di un ‘governo-leggero’ da parte di quello Stato [157]. Nel frattempo, il Massachusetts ha una copertura assicurativa quasi universale grazie ad una riforma sanitaria assai simile alla legge sanitaria di Obama, quest’ultima accusata di ‘ammazzare’ il lavoro[158].

Dunque, da dove viene l’idea del miracolo texano? Principalmente da un completo fraintendimento degli effetti economici della crescita della popolazione.

Perché nel Texas soprattutto questo corrisponde al vero: esso ha avuto, per molti decenni, una crescita della popolazione molto più rapida del resto dell’America – circa il doppio a partire dal 1990. Vari fattori hanno determinato questa crescita rapida della popolazione: alti tassi di natalità, l’immigrazione dal Messico e l’immigrazione interna degli americani di altri Stati, che sono stati attratti nel Texas dal suo clima caldo e dal basso costo della vita, in particolare dal basso costo delle abitazioni.

Soltanto per essere chiari, non c’è niente di sbagliato nel basso costo della vita. In particolare, questo è un buon esempio che può essere avanzato a proposito di politiche urbanistiche esageratamente restrittive nell’offerta di alloggi, e questo è un settore nel quale il Texas ha fatto effettivamente cose giuste.

Ma cosa ha a che fare la crescita della popolazione con la crescita dei posti di lavoro? Ebbene, l’alto tasso di crescita della popolazione si trasmette in due modi in una crescita di posti di lavoro sopra la media. Molte delle persone che si trasferiscono in Texas – pensionati in cerca di inverni caldi, ceto-medio messicano in cerca di una vita più sicura – portano un potere di acquisto che produce l’effetto di una occupazione locale più grande. Nello stesso tempo, la rapida crescita della forza di lavoro del Texas tiene bassi i salari – quasi i 10 per cento dei lavoratori texani guadagnano il minimo salariale o meno ancora, assai di più della media nazionale – e questi bassi salari forniscono alle imprese un incentivo a spostare la produzione nello Stato della “Stella Solitaria” [159].

In questo modo il Texas tende, negli anni buoni come nei cattivi, ad avere una crescita dei posti di lavoro superiore al resto dell’America. Ma, solo per stare al passo della sua popolazione crescente, esso ha bisogno di tanti nuovi posti di lavoro – e come mostrano i confronti sulla disoccupazione,  la recente crescita di occupazione è stata molto al di sotto del necessario.

Se questa descrizione non assomiglia granché al radioso ritratto che i pubblicitari del Texas amano dipingere, una ragione c’è: quel radioso ritratto è falso.

Ancora: la crescita dei posti di lavoro in Texas indica la strada per una crescita più rapida dei posti di lavoro nell’intera nazione? No.

Quello che il Texas dimostra è che uno Stato che offre lavoro a più basso prezzo e, con minore importanza, una regolamentazione più debole può attrarre posti di lavoro da altri Stati. Credo che la risposta appropriata a quella [160] opinione sia: “Suvvia, è una scemenza! [161]” Il punto è che dedurre da questa esperienza il fatto che deprimere i salari e smantellare le regole nell’America intera consentirebbe più posti di lavoro – la quale è, qualsiasi cosa ne dica il signor Perry, la sostanza pratica delle economie del suo genere – include un errore di svolgimento: ogni Stato può distogliere posti di lavoro da qualsiasi altro Stato.

Di fatto, un livello più basso dei salari nazionali porterebbe quasi certamente a minori posti di lavoro – perché lascerebbe i lavoratori americani ancora meno nella condizioni di farcela con l’eccesso di debito lasciato dalla bolla immobiliare, eccesso che è il nocciolo del nostro problema economico.

Dunque, quando il signor Perry si presenta come il candidato che sa come creare posti di lavoro, non dategli credito. Le sue ricette per la creazione di posti di lavoro, in pratica, produrrebbero grosso modo gli stessi effetti dei suoi tentativi di interrompere la rovinosa siccità del Texas, fondati sulle preghiere.  

 

 

 

 

 

Bernanke’s Perry Problem

By PAUL KRUGMAN
Published: August 25, 2011

As I write this, investors around the world are anxiously awaiting Ben Bernanke’s speech at the annual Fed gathering at Jackson Hole, Wyo. They want to know whether Mr. Bernanke, the chairman of the Federal Reserve, will unveil new policies that might lift the U.S. economy out of what is looking more and more like a quasi-permanent state of depressed demand and high unemployment.

But I’ll be shocked if Mr. Bernanke proposes anything significant — that is, anything likely to make any serious dent in unemployment or offer any serious boost to growth.

Why don’t I expect much from Mr. Bernanke? In two words: Rick Perry.

O.K., I don’t mean that Mr. Perry, the governor of Texas, is personally standing in the way of effective monetary policy. Not yet, anyway. Instead, I’m using Mr. Perry — who has famously threatened Mr. Bernanke with dire personal consequences if he pursues expansionary monetary policy before the 2012 election — as a symbol of the political intimidation that is killing our last remaining hope for economic recovery.

 

To see what I’m talking about, let’s ask what policies the Fed actually should be pursuing right now.

Obviously, the U.S. economy remains deeply depressed, and under normal conditions we would expect the Fed to pump it up by cutting interest rates. But the interest rates the Fed normally targets — basically rates on short-term U.S. government debt — are already near zero. So what can the Fed do?

 

Well, in 2000 an economist named Ben Bernanke offered a number of proposals for policy at the “zero lower bound.” True, the paper was focused on policy in Japan, not the United States. But America is now very much in a Japan-type economic trap, only more acute. So we learn a lot by asking why Ben Bernanke 2011 isn’t taking the advice of Ben Bernanke 2000.

 

Back then, Mr. Bernanke suggested that the Bank of Japan could get Japan’s economy moving with a variety of unconventional policies. These could include: purchases of long-term government debt (to push interest rates, and hence private borrowing costs, down); an announcement that short-term interest rates would stay near zero for an extended period, to further reduce long-term rates; an announcement that the bank was seeking moderate inflation, “setting a target in the 3-4% range for inflation, to be maintained for a number of years,” which would encourage borrowing and discourage people from hoarding cash; and “an attempt to achieve substantial depreciation of the yen,” that is, to reduce the yen’s value in terms of other currencies.

 

 

Was Mr. Bernanke on the right track? I think so — as well I should, since his paper was partly based on my own earlier work. So why isn’t the Fed pursuing the agenda its own chairman once recommended for Japan?

Part of the answer is internal dissension. Two weeks ago, the committee that sets monetary policy declared that conditions “are likely to warrant exceptionally low levels for the federal funds rate at least through mid-2013” — that is, it didn’t even promise to keep rates low, it just offered an observation about what the state of the economy is likely to be. Yet, even so, the statement faced serious internal opposition, with three inflation hawks on the committee voting against it and calling it a mistake.

 

 

The larger answer, however, is outside political pressure. Last year, the Fed actually did institute a policy of buying long-term debt, generally known as “quantitative easing” (don’t ask). But it faced a political backlash out of all proportion to its modest effect on the economy, culminating in Mr. Perry’s declaration that any further monetary easing before the 2012 election would be “almost treasonous,” and that if Mr. Bernanke went ahead and did it, “we would treat him pretty ugly down in Texas.”

 

 

Now just imagine the reaction if the Fed were to act on the other and arguably more important parts of that Bernanke 2000 agenda, targeting a higher rate of inflation and welcoming a weaker dollar. With prominent Republicans like Representative Paul Ryan already denouncing policies that allegedly “debase the dollar,” a political firestorm would be guaranteed.

So now you see why I don’t expect any substantive policy announcements at Jackson Hole. Back in 2000, Mr. Bernanke accused the Bank of Japan of suffering from “self-induced paralysis”; well, now the Fed is suffering from externally induced paralysis. In effect, it has been politically intimidated into standing by while the economy stagnates. And that’s a very, very bad thing.

Political opposition has already crippled fiscal policy; instead of helping to create jobs, the federal government is pulling back, acting as a drag on output and employment.

 

With the Fed also intimidated into inaction, it’s hard to see any end to the ongoing economic disaster.

 

Bernanke e il problema Perry, di Paul Krugman

New York Times 25 agosto 2011

 

Mentre scrivo, gli investitori in tutto il mondo stanno aspettando il discorso di Ben Bernanke all’incontro annuale della Fed a Jackson Hole [162]. Sono ansiosi di sapere se Bernanke, il Presidente della Federal Reserve, svelerà nuove politiche per tirar fuori l’economia americana da quello che assomiglia sempre di più ad una condizione quasi permanente di domanda depressa e di elevata disoccupazione.

 

Ma sarei stupito se Bernanke proponesse qualcosa di significativo – cioè tale da provocare una qualche modifica nella disoccupazione o da offrire una qualche spinta alla crescita.

 

Perché non mi aspetto granché da Bernanke? La risposta è in due parole: Rick Perry.

 

Va bene, non intendo dire che il signor Perry, il Governatore del Texas, stia effettivamente di traverso ad una efficace politica monetaria. Non ancora, in ogni caso. Piuttosto uso Perry – che ha notoriamente minacciato Bernanke di  serie conseguenze personali se perseguirà una politica monetaria espansiva prima delle elezioni del 2012 – come un simbolo della intimidazione politica che sta liquidando la nostra ultima residua speranza di una ripresa dell’economia.

Per capire di cosa sto parlando, consentitemi di rispondere alla domanda su quali politiche la Fed dovrebbe perseguire in questo momento.

Come è evidente, l’economia statunitense resta profondamente depressa e, in normali condizioni, ci dovremmo aspettare che la Fed la sospinga con una taglio dei tassi di interesse. Ma i tassi di interesse che di regola la Fed si propone come obbiettivo – fondamentalmente i tassi sul debito a breve termine del Governo degli Stati Uniti – sono già prossimi allo zero. Dunque, che può fare la Fed?

Ebbene, nel 2000 un economista di nome Ben Bernanke offrì un certo numero di proposte per una politica presso “il limite inferiore dello zero”[163]. E’ vero, l’articolo riguardava la politica del Giappone, non degli Stati Uniti. Ma l’America si trova oggi in buona misura in una trappola di liquidità del genere di quella del Giappone, semmai più acuta. Dunque, abbiamo molto da imparare se chiediamo al Bernanke del 2011 per quale ragione non prende consigli dal Bernanke del 2000.

A quei tempi, Bernanke suggerì che la Banca del Giappone avrebbe potuto rimettere in moto l’economia giapponese attraverso un certo numero di politiche non convenzionali. Queste avrebbero incluso: acquisti di debito governativo a lungo termine (per spingere in basso i tassi di interesse [164] e conseguentemente i costi dell’indebitamento privato); un annuncio che i tassi di interesse a breve termine sarebbero rimasti prossimi allo zero per un periodo prolungato, in modo da ridurre ulteriormente quelli a lungo termine; un annuncio che la banca si stava orientando verso una inflazione moderata, “definendo per l’inflazione un obbiettivo tra il 3 ed il 4 per cento, per poi mantenerlo per un certo numero di anni”, il che avrebbe incoraggiato a chiedere prestiti e scoraggiato l’accumulazione di contante; infine “un tentativo di ottenere una svalutazione sostanziale dello yen”, vale a dire di ridurre il valore dello yen in rapporto alle altre valute.

Era sulla pista giusta, Bernanke? Credo di si – né posso dire diversamente, dato che il suo saggio era in parte basato su un mio precedente lavoro. Dunque, perché la Fed non sta proponendosi l’agenda che il suo Presidente a suo tempo aveva raccomandato al Giappone?

 

Parte della risposta dipende dalle divisioni interne. Due settimane fa il comitato che predispone la politica monetaria dichiarò che le condizioni era “probabile giustificassero livelli eccezionalmente bassi dei tassi dei finanziamenti federali, almeno per tutta la prima metà del 2013” – il che significa che esso non prometteva neppure di tenerli bassi, si limitava ad offrire una osservazione su quale fosse la situazione probabile  dell’economia. E tuttavia, anche in questo modo, la dichiarazione si è misurata con una seria opposizione interna, con tre ‘falchi’ dell’inflazione[165] membri del comitato che hanno votato contro e l’hanno definita un errore. 

Tuttavia, la risposta più ampia riguarda aspetti che sono estranei alla pressione politica. L’anno scorso, effettivamente la Fed deliberò una politica di acquisto del debito [166] a lungo termine, genericamente conosciuta come “facilitazione quantitativa” (non chiedetemi perché[167]). Ma essa andò incontro a reazioni del tutto sproporzionate, dati i suoi effetti modesti sull’economia, che culminarono nella dichiarazione del signor Perry secondo la quale ogni ulteriore iniziativa del genere prima delle elezioni del 2012 sarebbe stata “quasi un alto tradimento”, e se Bernanke fosse andato avanti e l’avesse fatto “avrebbe ricevuto un trattamento piuttosto sgradevole da parte nostra, giù in Texas”.

Ora, si immagini soltanto quale sarebbe la reazione se la Fed avesse deliberato su altri aspetti senza dubbio più importanti di quella agenda di Bernanke del 2000 [168], dandosi l’obbiettivo di una tasso di inflazione più elevato ed accogliendo positivamente un indebolimento del dollaro. Con repubblicani eminenti come il deputato Paul Ryan che denunciano le politiche sospettate di “svalutare il dollaro”, sarebbe stata garantita une vera e propria tempesta di fuoco politica.

Dunque, ora si capisce perché non mi aspetto sostanziali annunci politici a Jackson Hole. Nel passato 2000, Bernanke accusò la Banca del Giappone di soffrire di una “paralisi auto-indotta”; ebbene, oggi la Fed sta soffrendo di una paralisi indotta dall’esterno. In sostanza, essa è stata politicamente intimidita a non muoversi finché l’economia è stagnante. E questa è una circostanza assolutamente negativa.

L’opposizione politica ha già azzoppato la politica finanziaria pubblica [169]; invece di contribuire a creare posti di lavoro, il Governo Federale sta spingendo indietro, operando sostanzialmente un prelievo sulla produzione e sull’occupazione.

Con la Fed anch’essa intimidita a non agire, è arduo vedere una qualche conclusione del disastro economico in corso.    

 

 

 

Republicans Against Science

By PAUL KRUGMAN
Published: August 28, 2011

 

Jon Huntsman Jr., a former Utah governor and ambassador to China, isn’t a serious contender for the Republican presidential nomination. And that’s too bad, because Mr. Huntsman has been willing to say the unsayable about the G.O.P. — namely, that it is becoming the “anti-science party.” This is an enormously important development. And it should terrify us.

To see what Mr. Huntsman means, consider recent statements by the two men who actually are serious contenders for the G.O.P. nomination: Rick Perry and Mitt Romney.

Mr. Perry, the governor of Texas, recently made headlines by dismissing evolution as “just a theory,” one that has “got some gaps in it” — an observation that will come as news to the vast majority of biologists. But what really got peoples’ attention was what he said about climate change: “I think there are a substantial number of scientists who have manipulated data so that they will have dollars rolling into their projects. And I think we are seeing almost weekly, or even daily, scientists are coming forward and questioning the original idea that man-made global warming is what is causing the climate to change.”

 

That’s a remarkable statement — or maybe the right adjective is “vile.”

 

The second part of Mr. Perry’s statement is, as it happens, just false: the scientific consensus about man-made global warming — which includes 97 percent to 98 percent of researchers in the field, according to the National Academy of Sciences — is getting stronger, not weaker, as the evidence for climate change just keeps mounting.

In fact, if you follow climate science at all you know that the main development over the past few years has been growing concern that projections of future climate are underestimating the likely amount of warming. Warnings that we may face civilization-threatening temperature change by the end of the century, once considered outlandish, are now coming out of mainstream research groups.

 

But never mind that, Mr. Perry suggests; those scientists are just in it for the money, “manipulating data” to create a fake threat. In his book “Fed Up,” he dismissed climate science as a “contrived phony mess that is falling apart.”

I could point out that Mr. Perry is buying into a truly crazy conspiracy theory, which asserts that thousands of scientists all around the world are on the take, with not one willing to break the code of silence. I could also point out that multiple investigations into charges of intellectual malpractice on the part of climate scientists have ended up exonerating the accused researchers of all accusations. But never mind: Mr. Perry and those who think like him know what they want to believe, and their response to anyone who contradicts them is to start a witch hunt.

 

So how has Mr. Romney, the other leading contender for the G.O.P. nomination, responded to Mr. Perry’s challenge? In trademark fashion: By running away. In the past, Mr. Romney, a former governor of Massachusetts, has strongly endorsed the notion that man-made climate change is a real concern. But, last week, he softened that to a statement that he thinks the world is getting hotter, but “I don’t know that” and “I don’t know if it’s mostly caused by humans.” Moral courage!

 

Of course, we know what’s motivating Mr. Romney’s sudden lack of conviction. According to Public Policy Polling, only 21 percent of Republican voters in Iowa believe in global warming (and only 35 percent believe in evolution). Within the G.O.P., willful ignorance has become a litmus test for candidates, one that Mr. Romney is determined to pass at all costs.

 

So it’s now highly likely that the presidential candidate of one of our two major political parties will either be a man who believes what he wants to believe, even in the teeth of scientific evidence, or a man who pretends to believe whatever he thinks the party’s base wants him to believe.

And the deepening anti-intellectualism of the political right, both within and beyond the G.O.P., extends far beyond the issue of climate change.

Lately, for example, The Wall Street Journal’s editorial page has gone beyond its long-term preference for the economic ideas of “charlatans and cranks” — as one of former President George W. Bush’s chief economic advisers famously put it — to a general denigration of hard thinking about matters economic. Pay no attention to “fancy theories” that conflict with “common sense,” the Journal tells us. Because why should anyone imagine that you need more than gut feelings to analyze things like financial crises and recessions?

Now, we don’t know who will win next year’s presidential election. But the odds are that one of these years the world’s greatest nation will find itself ruled by a party that is aggressively anti-science, indeed anti-knowledge. And, in a time of severe challenges — environmental, economic, and more — that’s a terrifying prospect.

 

I Repubblicani contro la scienza, di Paul Krugman

New York Times 28 agosto 2011

 

Jon Huntsman Jr., in passato Governatore dell’Utah e ambasciatore in Cina, non è un serio concorrente alla nomina presidenziale repubblicana. Ed è davvero un peccato, perché il signor Huntsman era disponibile a dire l’indicibile sul Partito Repubblicano – precisamente, che sta diventando un “partito contro la scienza”. E’ uno sviluppo enormemente importante, che ci dovrebbe atterrire.

Per capire quello che il signor Huntsman intende, si considerino i recenti discorsi dei due uomini che effettivamente si contendono la nomina repubblicana: Rick Perry e Mitt Romney.

Il signor Perry, il Governatore del Texas, di recente ha ottenuto i titoli dei giornali liquidando l’evoluzionismo come “una semplice teoria”, di quelle che “hanno parecchi difetti” – osservazione che apparirà originale alla grande maggioranza dei biologi. Ma quello che veramente meritava l’attenzione di tutti è stato quanto ha detto a proposito del cambiamento climatico: “Penso che ci sia un buon numero di scienziati che hanno manipolato i dati al fine di far affluire dollari  ai loro progetti. E penso che siamo in presenza quasi settimanalmente, persino quotidianamente, di scienziati che si fanno avanti e mettono in discussione l’idea originale secondo la quale il riscaldamento globale provocato dall’uomo è quello che sta provocando il cambiamento climatico”.

Si tratta di un discorso rilevante. O forse l’aggettivo giusto sarebbe “ignobile”.

 

La seconda parte delle dichiarazioni di Perry è, come accade di solito, semplicemente falsa: il consenso scientifico attorno al riscaldamento globale provocato dall’uomo – che, secondo i dati della Accademia Nazionale delle scienze, è fatto proprio dal 97 al 98 per cento dei ricercatori di quella disciplina – sta diventando più forte, non più debole, nel mentre le prove del cambiamento climatico continuano ad accumularsi.

 

 

 

Di fatto, chiunque si occupi in qualche modo di scienza del clima sa che il principale sviluppo degli anni più recenti è consistito in una crescente preoccupazione che le previsioni sul clima futuro sottostimino l’impatto probabile del riscaldamento. Gli ammonimenti  riguardo della possibilità che si debba far fronte per la fine del secolo ad un cambiamento di temperature capace di minacciare la nostra civiltà, un tempo considerati stravaganti, ora vengono fuori dai gruppi di ricerca più accreditati.

Ma Perry sostiene che questo non conta; quegli scienziati lo fanno per soldi, manipolano i dati per creare un falso allarme. Nel suo libro “Siamo stanchi” egli liquida la scienza del clima come un “artificioso imbroglio fasullo che sta andando a pezzi”.

Dovrei far notare che il signor Perry in questo modo aderisce ad una davvero pazzesca teoria cospirativa, secondo la quale migliaia di scienziati in tutto il mondo sarebbero passati all’incasso, con nessuno che abbia la voglia di rompere la regola del silenzio. Dovrei anche far notare che le molteplici investigazioni a proposito di disonestà intellettuale da parte di scienziati del clima si sono concluse scagionando i ricercatori accusati da ogni responsabilità. Ma non servirebbe: il signor Perry e quelli che la pensano come lui sanno quello che vogliono credere, e la loro risposta a chiunque li contraddica consiste nell’avviare una caccia alle streghe.

Come ha risposto il signor Romney, l’altro principale concorrente alla nomina repubblicana, alla sfida del signor Perry? Sullo stile del marchio di fabbrica: girando la testa altrove. Nel passato, Romney, un precedente Governatore del Massachusetts, aveva aderito con forza all’idea secondo la quale il cambiamento climatico provocato dall’uomo è una preoccupazione reale. Ma, la scorsa settimana, egli ha ammorbidito la sua posizione con una dichiarazione secondo la quale egli ritiene che il mondo stia diventando più caldo, ma “non lo sa con certezza” e “non sa se questo sia provocato in massima parte dagli uomini”. Coraggio morale!

Come è noto, conosciamo il motivo di questa improvvisa mancanza di convincimento. Secondo Public Policy Polling [170], soltanto il 21 per cento degli elettori repubblicani nello Iowa crede nel riscaldamento globale (e soltanto il 35 per cento crede nell’evoluzionismo). All’interno del Partito Repubblicano, l’ignoranza manifesta è diventata una cortina di tornasole per i candidati, e quello è un test che Romney è intenzionato a passare a tutti i costi.

E’ dunque oggi altamente probabile che il candidato presidenziale di uno dei nostri due principali partiti politici sarà o un uomo che crede a quello che vuol credere, anche alla faccia delle prove della scienza, o un uomo che fa finta di credere a qualsiasi cosa ritenga che la base del Partito vuole che lui creda.  

 

E l’anti-intellettualismo sempre più marcato della destra politica, sia all’interno che all’esterno del Partito Repubblicano, va assai oltre la questione del cambiamento climatico.

Ultimamente, ad esempio, la pagina dell’editoriale del Wall Street Journal è andata ben oltre le sua tradizionali preferenze per le idee economiche di “fanatici e ciarlatani” – come uno dei principali consiglieri economici del precedente Presidente George W. Bush ebbe a dire – sino ad una complessiva denigrazione di ogni riflessione severa in materia di economia. Non prestate attenzione alle “teoria fantasiose” che cozzano contro il buon senso, ci dice il Journal. Perché mai dovreste immaginare di aver bisogno di altro che di un buon istinto nell’analizzare questioni come le crisi finanziarie e le recessioni?

Ora, noi non sappiamo chi vincerà le elezioni presidenziali del prossimo anno. Ma è probabile che in uno dei prossimi anni la più grande nazione del mondo si ritrovi ad essere governata da un partito che è aggressivamente contro la scienza, anzi contro la conoscenza. E, in un’epoca di gravi sfide – ambientali, economiche e di altro genere – quella è una prospettiva che atterrisce.

   

 

 

 

Eric and Irene

By PAUL KRUGMAN
Published: September 1, 2011
 

 “Have you left no sense of decency?” That’s the question Joseph Welch famously asked Joseph McCarthy, as the red-baiting demagogue tried to ruin yet another innocent citizen. And these days, it’s the question I find myself wanting to ask Eric Cantor, the House majority leader, who has done more than anyone else to make policy blackmail — using innocent Americans as hostages — standard operating procedure for the G.O.P.

 

A few weeks ago, Mr. Cantor was the hard man in the confrontation over the debt ceiling; he was willing to endanger America’s financial credibility, putting our whole economy at risk, in order to extract budget concessions from President Obama. Now he’s doing it again, this time over disaster relief, making headlines by insisting that any federal aid to the victims of Hurricane Irene be offset by cuts in other spending. In effect, he is threatening to take Irene’s victims hostage.

 

Mr. Cantor’s critics have been quick to accuse him of hypocrisy, and with good reason. After all, he and his Republican colleagues showed no comparable interest in paying for the Bush administration’s huge unfunded initiatives. In particular, they did nothing to offset the cost of the Iraq war, which now stands at $800 billion and counting.

 

And it turns out that in 2004, when his home state of Virginia was struck by Tropical Storm Gaston, Mr. Cantor voted against a bill that would have required the same pay-as-you-go rule that he now advocates.

But, as I see it, hypocrisy is a secondary issue here. The primary issue should be the extraordinary nihilism now on display by Mr. Cantor and his colleagues — their willingness to flout all the usual conventions of fair play and, well, decency in order to get what they want.

Not long ago, a political party seeking to change U.S. policy would try to achieve that goal by building popular support for its ideas, then implementing those ideas through legislation. That, after all, is how our political system was designed to work.

 

But today’s G.O.P. has decided to bypass all that and go for a quicker route. Never mind getting enough votes to pass legislation; it gets what it wants by threatening to hurt America if its demands aren’t met. That’s what happened with the debt-ceiling fight, and now it’s what’s happening over disaster aid. In effect, Mr. Cantor and his allies are threatening to take hurricane victims hostage, using their suffering as a bargaining chip.

 

Of course, Mr. Cantor would have you believe that he’s just trying to be fiscally responsible. But that’s no more than a cover story.

Should disaster aid, as a matter of sound public finance, be offset by immediate cuts in other spending? No. The time-honored principle, backed by economists right and left, is that temporary bursts of spending — which usually arise when there’s a war to fight, but can also arise from other causes, including financial crises and natural disasters — are a good reason to run temporary budget deficits. Rather than imposing sharp cuts in other spending or sharply raising taxes, governments can and should spread the burden over time, borrowing now and repaying gradually via a combination of lower spending and higher taxes.

 

But can the U.S. government borrow to pay for disaster aid? Isn’t the government broke? Yes, it can, and, no, it isn’t. America has a long-run deficit problem, which should be met with long-run budget measures. But it’s having no problem at all borrowing to pay for current expenses. Moreover, it’s able to borrow funds at extremely low interest rates. Notably, right now the interest rate on the benchmark 10-year U.S. government bond is only slightly more than half what it was in 2004 when Mr. Cantor felt that it wasn’t necessary to pay for disaster relief.

 

 

So the claim that fiscal responsibility requires immediate spending cuts to offset the cost of disaster relief is just wrong, in both theory and practice. As I said, it’s just a cover story for the real game being played here.

Now, Mr. Cantor may end up backing down on this one, if only because several of the hard-hit states have Republican governors, who want and need aid soon, without strings attached. But that won’t put an end to the larger issue: What will happen to America now that people like Mr. Cantor are calling the shots for one of its two major political parties?

And, yes, I mean one of our parties. There are plenty of bad things to be said about the Democrats, who have their fair share of cynics and careerists. There may even be Democrats in Congress who would be as willing as Mr. Cantor to advance their goals through sabotage and blackmail (although I can’t think of any). But, if they exist, they aren’t in important leadership positions. Mr. Cantor is. And that should worry anyone who cares about our nation’s future.

 

Eric ed Irene, di Paul Krugman

New York Times 1 settembre 2011

 

 

“Avete dimenticato ogni senso della decenza?”. E’ questa la famosa domanda che Joseph Welch pose a Joseph McCarthy, quando il demagogo che combatteva ‘i rossi’ stava cercando di mandare in rovina un altro cittadino innocente[171]. E di questi giorni è questa la domanda che vorrei porre a Eric Cantor, il capogruppo della maggioranza alla Camera [172], che più di ogni altro sta facendo di una politica ricattatoria – usando americani innocenti come ostaggi – la procedura operativa normale del Partito Repubblicano.

Poche settimane fa, il signor Cantor era l’uomo forte nello scontro sul tetto del debito; colui che intendeva mettere a repentaglio la credibilità finanziaria degli Stati Uniti, mettendo a rischio l’intera economia, nel tentativo di ottenere concessioni sul bilancio dal Presidente Obama. Ora ci riprova, questa volta a proposito delle misure di attenuazione di una calamità, ottenendo le prime pagine dei giornali con la richiesta reiterata che ogni aiuto federale alle vittime dell’uragano Irene venga compensato da tagli in altre spese pubbliche. In sostanza, sta minacciando di utilizzare le vittime di Irene come ostaggi.

Con buona ragione, le critiche del signor Cantor si ritorcono contro la sua ipocrisia. In fin dei conti, lui ed i suoi colleghi repubblicani non mostrarono alcun paragonabile interesse quando si trattò di pagare il conto delle ampie operazioni fuori bilancio della Amministrazione Bush. In particolare, non fecero niente per bilanciare i costi della guerra in Iraq, che ad oggi assommano a 800 miliardi di dollari, a conti non ancora conclusi.

E viene fuori che nel 2004, quando il suo Stato di origine, la Virginia, venne colpito dalla tempesta tropicale Gastone, Cantor votò contro una legge che si basava sulla medesima regola del ‘pagare ad ogni passo’[173] che egli oggi sostiene.

Ma, per come la vedo io, l’ipocrisia è in questo caso un aspetto secondario. La questione principale dovrebbe essere quella dello straordinario nichilismo[174] che ora è di moda tra il signor Cantor ed i suoi colleghi – la loro volontà di farsi beffe di tutte le normali convenzioni di correttezza e, diciamo pure, di decenza nel tentativo di ottenere quello che gli preme.

Non molto tempo fa, un partito politico che avesse cercato di cambiare la politica degli Stati Uniti avrebbe provato a perseguire il suo obbiettivo costruendo il sostegno della gente alle proprie idee, dopodiché mettendo in pratica tali idee attraverso la legislazione. Quello, dopo tutto, era il modo in cui il nostro sistema era stato congegnato.

Ma il Partito Repubblicano di oggi ha deciso di ovviare a tutto ciò e di prendere una via più rapida. Non conta ottenere voti sufficienti per far passare le proprie proposte di legge; esso ottiene quello che vuole minacciando di colpire l’America se le sue richieste non sono accolte. Che è quanto è avvenuto con la battaglia sul tetto del debito e quanto sta ora accadendo per gli aiuti a seguito della calamità naturale. In pratica, il signor Cantor ed i suoi colleghi stanno minacciando di prendere in ostaggio le vittime dell’uragano, e di usare i loro patimenti come moneta di scambio.

Naturalmente, il signor Cantor vorrebbe farvi credere di stare semplicemente cercando di essere responsabile dal punto di vista degli equilibri finanziari. Ma questo non è niente altro che un racconto di facciata.

Gli aiuti per una calamità naturale dovrebbero, per una questione di sana finanza pubblica, essere bilanciati da tagli immediate in altre spese? No. Il principio tradizionale, sempre seguito dagli economisti di destra e di sinistra, è che temporanee fiammate della spesa pubblica – che normalmente si presentano quando si è impegnati in una guerra, ma anche per altre cause, come le crisi finanziarie e le calamità naturali – sono buone ragioni per contrarre deficit di bilancio. Piuttosto che imporre bruschi tagli in altre spese o improvvisi incrementi fiscali, i Governi hanno la possibilità e il dovere di distribuire l’onere nel tempo, prendendo prestiti sul momento e ripagando gradualmente attraverso una combinazione di minori spese e di tasse più elevate.

Ma il Governo degli Stati Uniti può prendere prestiti per gli interventi sulle calamità naturali? Non è al verde? Si, può prendere prestiti, e no, non è al verde. L’America ha un problema di deficit di lungo periodo, che dovrebbe essere affrontato con misure di bilancio di lungo periodo. Ma non ha affatto alcun problema per prestiti che servano a pagare le spese correnti. In più, è nelle condizioni di ricorrere al prestito a tassi di interesse estremamente bassi. In questo momento, notoriamente, il tasso di interesse di riferimento sulle obbligazioni governative degli Stati Uniti è appena superiore alla metà di quello che era nel 2004, allorquando Cantor ritenne che non fosse necessario il pagamento immediato degli interventi per alleviare le calamità naturali.

Dunque, la pretesa che i tagli immediati alla spesa per bilanciare i costi del sostegno alla calamità siano richiesti dalla responsabilità verso i conti pubblici, è sbagliata sia in teoria che in pratica. Come ho detto, è solo la facciata di una partita vera che si gioca altrove.

Ora, il signor Cantor può finire col cedere su questo punto, semplicemente perché alcuni degli Stati maggiormente colpiti hanno governatori repubblicani, che chiedono ed hanno bisogno di aiuti immediati, senza alcuna condizione. Ma questo non mette la parola fine ad una tema più grande: dove può finire l’America, ora che individui come il signor Cantor hanno il controllo di uno dei due più importanti partiti politici?

E lo confermo, sto parlando di uno dei nostri partiti. C’è un sacco di cose negative che si possono dire dei democratici, che hanno la loro discreta parte di cinici e di carrieristi. Può darsi persino che ci siano nel Congresso esponenti Democratici che avrebbero voglia, come Cantor, di promuovere i loro obbiettivi attraverso boicottaggi e ricatti (sebbene non abbia elementi per pensarlo di alcuno). Ma, se esistono personaggi del genere, non hanno importanti posizioni di direzione. Cantor ce l’ha. E questo dovrebbe impensierire chiunque abbia a cuore il futuro della nostra nazione.          

 

 

 

The Fatal Distraction

By PAUL KRUGMAN
Published: September 4, 2011

Friday brought two numbers that should have everyone in Washington saying, “My God, what have we done?”

One of these numbers was zero — the number of jobs created in August. The other was two — the interest rate on 10-year U.S. bonds, almost as low as this rate has ever gone. Taken together, these numbers almost scream that the inside-the-Beltway crowd has been worrying about the wrong things, and inflicting grievous harm as a result.

Ever since the acute phase of the financial crisis ended, policy discussion in Washington has been dominated not by unemployment, but by the alleged dangers posed by budget deficits. Pundits and media organizations insisted that the biggest risk facing America was the threat that investors would pull the plug on U.S. debt. For example, in May 2009 The Wall Street Journal declared that the “bond vigilantes” were “returning with a vengeance,” telling readers that the Obama administration’s “epic spending spree” would send interest rates soaring.

The interest rate when that editorial was published was 3.7 percent. As of Friday, as I’ve already mentioned, it was only 2 percent.

 

I don’t mean to dismiss concerns about the long-run U.S. budget picture. If you look at fiscal prospects over, say, the next 20 years, they are indeed deeply worrying, largely because of rising health-care costs. But the experience of the past two years has overwhelmingly confirmed what some of us tried to argue from the beginning: The deficits we’re running right now — deficits we should be running, because deficit spending helps support a depressed economy — are no threat at all.

And by obsessing over a nonexistent threat, Washington has been making the real problem — mass unemployment, which is eating away at the foundations of our nation — much worse.

Although you’d never know it listening to the ranters, the past year has actually been a pretty good test of the theory that slashing government spending actually creates jobs. The deficit obsession has blocked a much-needed second round of federal stimulus, and with stimulus spending, such as it was, fading out, we’re experiencing de facto fiscal austerity. State and local governments, in particular, faced with the loss of federal aid, have been sharply cutting many programs and have been laying off a lot of workers, mostly schoolteachers.

 

 

And somehow the private sector hasn’t responded to these layoffs by rejoicing at the sight of a shrinking government and embarking on a hiring spree.

O.K., I know what the usual suspects will say — namely, that fears of regulation and higher taxes are holding businesses back. But this is just a right-wing fantasy. Multiple surveys have shown that lack of demand — a lack that is being exacerbated by government cutbacks — is the overwhelming problem businesses face, with regulation and taxes barely even in the picture.

 

For example, when McClatchy Newspapers recently canvassed a random selection of small-business owners to find out what was hurting them, not a single one complained about regulation of his or her industry, and few complained much about taxes. And did I mention that profits after taxes, as a share of national income, are at record levels?

 

So short-run deficits aren’t a problem; lack of demand is, and spending cuts are making things much worse. Maybe it’s time to change course?

Which brings me to President Obama’s planned speech on the economy.

 

I find it useful to think in terms of three questions: What should we be doing to create jobs? What will Republicans in Congress agree to? And given that political reality, what should the president propose?

The answer to the first question is that we should have a lot of job-creating spending on the part of the federal government, largely in the form of much-needed spending to repair and upgrade the nation’s infrastructure. Oh, and we need more aid to state and local governments, so that they can stop laying off schoolteachers.

 

But what will Republicans agree to? That’s easy: nothing. They will oppose anything Mr. Obama proposes, even if it would clearly help the economy — or maybe I should say, especially if it would help the economy, since high unemployment helps them politically.

 

This reality makes the third question — what the president should propose — hard to answer, since nothing he proposes will actually happen anytime soon. So I’m personally prepared to cut Mr. Obama a lot of slack on the specifics of his proposal, as long as it’s big and bold. For what he mostly needs to do now is to change the conversation — to get Washington talking again about jobs and how the government can help create them.

 

For the sake of the nation, and especially for millions of unemployed Americans who see little prospect of finding another job, I hope he pulls it off.

 

Distrazione fatale, di Paul Krugman

New York Times 4 settembre 2011

 

Il venerdì passato ci ha regalato due numeri che avrebbero dovuto far dire a chiunque a Washington: “Dio mio, che abbiamo fatto?”

 

Uno di questi numeri era zero – il numero dei posti di lavoro creato in agosto. L’altro era due – il tasso di interesse sui bonds decennali degli Stati Uniti, basso come questo tasso non era quasi mai stato.  Considerati assieme, questi numeri è come se urlassero che la gente di Washington[175] si è preoccupata delle cose sbagliate, e come risultato ha provocato un danno tremendo.

Sin da quando la fase acuta della crisi finanziaria è terminata, il dibattito politico a Washington non è stato dominato dalla disoccupazione, ma dai pretesi danni creati dai deficit di bilancio. Gli addetti ai lavoro e le reti dei media ripetevano che il più grande rischio che l’America fronteggiava era la minaccia che gli investitori staccassero la spina per il debito degli Stati Uniti. Ad esempio, nel maggio del 2009 il Wall Street Journal dichiarava che i “guardiani dei bonds” stava “tornando per vendicarsi”, spiegando ai lettori che le “epiche spese folli” della Amministrazione Obama avrebbero fatto schizzare alle stelle i tassi di interesse.

Quando venne pubblicato quell’editoriale il tasso di interesse era al 3,7 per cento. Come ho già detto, venerdì era soltanto al 2 per cento.

Non intendo liquidare ogni preoccupazione sulle condizioni del bilancio americano nel lungo periodo. Se si guarda alle prospettive della finanza pubblica, diciamo, nei prossimi 20 anni, esse sono in effetti profondamente preoccupanti, in gran parte a causa dei costi crescenti della assistenza sanitaria. Ma l’esperienza dei due anni passati ha confermato in modo schiacciante quello che alcuni di noi avevano cercato di sostenere sin dall’inizio: i deficit che stiamo sostenendo in questo momento – deficit che dovrebbero essere sostenuti, giacché la spesa pubblica in deficit contribuisce a sostenere un’economia depressa – non sono affatto una minaccia.

E con l’ossessione di una minaccia inesistente, Washington ha reso il problema vero – la disoccupazione di massa, che sta erodendo a poco a poco le fondamenta della nostra nazione – molto più grave.

Sebbene questo non si sia mai capito dall’ascolto di chi sproloquiava[176], l’anno passato è stato davvero un test assai istruttivo per la teoria secondo la quale tagliare drasticamente la spesa pubblica creerebbe posti di lavoro. L’ossessione del deficit ha bloccato un indispensabile secondo round delle misure di sostegno federali, e con lo svanire di tali misure, come effettivamente è successo, abbiamo fatto una concreta esperienza della austerità della finanza pubblica. Gli Stati ed i governi locali, in particolare, costretti a fare i conti con la perdita degli aiuti federali, hanno tagliato bruscamente molti programmi ed hanno licenziato un gran numero di lavoratori, principalmente insegnanti.

E il settore privato non ha certo risposto a questi licenziamenti rallegrandosi alla vista di una amministrazione pubblica che si restringeva e lasciandosi andare ad una grande campagna di assunzioni.

Va bene, so cosa diranno i soliti sospetti – precisamente che i timori di regole più stringenti e di tasse più alte stanno trattenendo le imprese. Ma questa è solo una fantasia della destra. Molti sondaggi hanno dimostrato che è una carenza di domanda – carenza che è stata esacerbata dalla riduzione delle spese governative – il problema che le imprese in modo preponderante si trovano ad affrontare, mentre alle regole e alle tasse si fa appena cenno.

Ad esempio, quando McClatchy Newspapers[177]  recentemente ha condotto una indagine di mercato su una selezione casuale di proprietari di piccole imprese per stabilire quali fossero i problemi che principalmente li affliggono, nessuno o nessuna si è lamentato delle regolamentazioni che riguardano la propria attività industriale, e pochi si sono lamentati delle tasse. E devo ricordare che i profitti, al netto delle tasse, in proporzione al reddito nazionale, sono a livelli record? Dunque, i deficit non sono un problema; lo è invece la carenza di domanda, e i tagli alla spesa pubblica stanno rendendo la situazione molto peggiore. Forse è venuto il tempo di cambiare registro?

 

Il che mi conduce al tema del previsto discorso del Presidente Obama sull’economia.

Mi è comodo condensare i miei pensieri attorno a tre temi: cosa si deve fare per creare posti di lavoro? Su cosa si troveranno d’accordo i Repubblicani in Congresso? E, dati i condizionamenti della politica, cosa dovrebbe proporre il Presidente?

La risposta alla prima domanda è che si dovrebbe poter contare su un bel po’ di spesa pubblica per la creazione di posti di lavoro da parte del Governo federale, in gran parte nella forma di indispensabili investimenti per riparare e qualificare il sistema infrastrutturale della nazione. Inoltre, abbiamo bisogno di un maggiore aiuto ai governi degli Stati e delle comunità locali, affinché essi possano interrompere i licenziamenti degli insegnanti.

Ma su cosa ci sarà l’accordo dei Repubblicani? Questa è una domanda facile: su niente. Si opporranno a qualsiasi cosa Obama proponga, anche se essa fosse chiaramente utile all’economia – o forse dovrei dire, specialmente se essa aiutasse l’economia, dato che una disoccupazione elevata li agevola sul piano politico.

Questo dato di fatto rende difficile rispondere alla terza domanda – su cosa il Presidente dovrebbe proporre, dato che niente che egli proponga effettivamente potrà materializzarsi in breve tempo. Dunque, personalmente sono disposto a non essere troppo severo con Obama sugli aspetti specifici della sua proposta, purché essa sia cospicua e coraggiosa. Giacché ciò di cui egli ha soprattutto bisogno oggi è modificare i termini del confronto – indurre Washington a ragionare nuovamente di posti di lavoro e di come il Governo possa contribuire a crearli.

 

Nell’interesse della nazione, e in particolare dei milioni di disoccupati americani che vedono poche prospettive di trovare altri lavori, spero che riesca a farcela.

 

    

 

 

 

 

Setting Their Hair on Fire

By PAUL KRUGMAN
Published: September 8, 2011

First things first: I was favorably surprised by the new Obama jobs plan, which is significantly bolder and better than I expected. It’s not nearly as bold as the plan I’d want in an ideal world. But if it actually became law, it would probably make a significant dent in unemployment.

 

Of course, it isn’t likely to become law, thanks to G.O.P. opposition. Nor is anything else likely to happen that will do much to help the 14 million Americans out of work. And that is both a tragedy and an outrage.

Before I get to the Obama plan, let me talk about the other important economic speech of the week, which was given by Charles Evans, the president of the Federal Reserve of Chicago. Mr. Evans said, forthrightly, what some of us have been hoping to hear from Fed officials for years now.

As Mr. Evans pointed out, the Fed, both as a matter of law and as a matter of social responsibility, should try to keep both inflation and unemployment low — and while inflation seems likely to stay near or below the Fed’s target of around 2 percent, unemployment remains extremely high.

 

So how should the Fed be reacting? Mr. Evans: “Imagine that inflation was running at 5 percent against our inflation objective of 2 percent. Is there a doubt that any central banker worth their salt would be reacting strongly to fight this high inflation rate? No, there isn’t any doubt. They would be acting as if their hair was on fire. We should be similarly energized about improving conditions in the labor market.”

 

But the Fed’s hair is manifestly not on fire, nor do most politicians seem to see any urgency about the situation. These days, the best — or at any rate the alleged wise men and women who are supposed to be looking after the nation’s welfare — lack all conviction, while the worst, as represented by much of the G.O.P., are filled with a passionate intensity. So the unemployed are being abandoned.

 

O.K., about the Obama plan: It calls for about $200 billion in new spending — much of it on things we need in any case, like school repair, transportation networks, and avoiding teacher layoffs — and $240 billion in tax cuts. That may sound like a lot, but it actually isn’t. The lingering effects of the housing bust and the overhang of household debt from the bubble years are creating a roughly $1 trillion per year hole in the U.S. economy, and this plan — which wouldn’t deliver all its benefits in the first year — would fill only part of that hole. And it’s unclear, in particular, how effective the tax cuts would be at boosting spending.

 

Still, the plan would be a lot better than nothing, and some of its measures, which are specifically aimed at providing incentives for hiring, might produce relatively a large employment bang for the buck. As I said, it’s much bolder and better than I expected. President Obama’s hair may not be on fire, but it’s definitely smoking; clearly and gratifyingly, he does grasp how desperate the jobs situation is.

 

But his plan isn’t likely to become law, thanks to Republican opposition. And it’s worth noting just how much that opposition has hardened over time, even as the plight of the unemployed has worsened.

 

In early 2009, as the new Obama administration tried to come to grips with the crisis it inherited, you heard two main lines from critics on the right. First, they argued that we should rely on monetary policy rather than fiscal policy — that is, that the job of fighting unemployment should be left to the Fed. Second, they argued that fiscal actions should take the form of tax cuts rather than temporary spending.

 

 

Now, however, leading Republicans are against tax cuts — at least if they benefit working Americans rather than rich people and corporations.

And they’re against monetary policy, too. In Wednesday night’s Republican presidential debate, Mitt Romney declared that he would seek a replacement for Ben Bernanke, the Fed chairman, essentially because Mr. Bernanke has tried to do something (though not enough) about unemployment. And that makes Mr. Romney a moderate by G.O.P. standards, since Rick Perry, his main rival for the presidential nomination, has suggested that Mr. Bernanke should be treated “pretty ugly.”

 

So, at this point, leading Republicans are basically against anything that might help the unemployed. Yes, Mr. Romney has issued a glossy, well-produced “jobs plan,” but it might best be described as 59 bullet points with nothing there — and certainly nothing to justify his assertion, bordering on megalomania, that he would create no fewer than 11 million jobs in four years.

 

 

The good news in all this is that by going bigger and bolder than expected, Mr. Obama may finally have set the stage for a political debate about job creation. For, in the end, nothing will be done until the American people demand action.

 

Se la casa brucia[178], di Paul Krugman

New York Times 8 settembre 2011

 

Anzitutto le cose più importanti: sono rimasto favorevolmente sorpreso dal nuovo piano di Obama per il lavoro, che è in modo significativo più coraggioso e più soddisfacente di quanto non mi aspettassi. Non è proprio così audace come il piano che in teoria avrei voluto. Ma se effettivamente diventasse legge, probabilmente lascerebbe un segno sulla disoccupazione.

Come è noto, non è probabile che diventi legge, grazie all’opposizione del Partito Repubblicano. Non è neanche probabile che avvenga qualcosa d’altro che aiuti in modo significativo i 14 milioni di americani disoccupati. E questa è sia una tragedia che uno scandalo.

Ma prima che mi occupi del piano di Obama, vorrei parlare dell’altro importante discorso economico della settimana, che è stato tenuto da Charles Evans, il Presidente della Federal Reserve di Chicago. Evans ha detto, forte e chiaro, quello che alcuni di noi speravano di sentir dire dai dirigenti della Fed da anni.

Come Evans ha sottolineato, la Fed, sia in termini di legge che di responsabilità sociale, dovrebbe cercare di contenere sia l’inflazione che la disoccupazione – e mentre l’inflazione sembra probabile che resti attorno o sotto l’obbiettivo della Fed di circa il 2 per cento, la disoccupazione rimane estremamente elevata.

 

Dunque, quale dovrebbe essere la reazione della Fed? Con le parole del signor Evans: “Si immagini che l’inflazione stia correndo ad un 5 per cento, di contro al nostro obbiettivo del 2 per cento. C’è qualche dubbio che un qualsiasi banchiere centrale all’altezza del suo ruolo [179] non reagirebbe con forza per combattere questo alto tasso di inflazione? No, non c’è alcun dubbio. Reagirebbe come se la casa stesse andando a fuoco. Noi dovremmo nello stesso modo rafforzare ogni iniziativa per migliorare le condizioni del mercato del lavoro”.

Ma è chiaro che per la Fed la casa non sta andando a fuoco, né gran parte degli uomini politici sembrano avvertire una particolare urgenza nella situazione. Di questi tempi, le persone migliori – o in ogni caso quegli uomini e donne, presunti saggi, che si suppone dovrebbero aver cura del benessere nazionale – mancano del tutto di convinzione; mentre le persone peggiori, rappresentate in gran parte dal Partito Repubblicano, sono colme di intensa passione. E così i disoccupati sono stati lasciati per strada.

Venendo al piano di Obama: esso chiede circa 200 miliardi di dollari di nuova spesa – gran parte dei quali per cose di cui abbiamo in ogni caso bisogno, come mettere a norma le scuole, le reti dei trasporti, evitare di licenziare gli insegnanti – e 240 miliardi di dollari di sgravi fiscali. Potrebbe sembrare tanto, ma in realtà non lo è.  Gli effetti duraturi del fallimento del settore immobiliare e della sovraesposizione della famiglie al debito, a seguito degli anni della bolla, stanno creando nell’economia americana un buco di circa mille miliardi di dollari all’anno, e questo piano –  che non produrrebbe tutti i suoi benefici dal primo anno – riempirebbe solo in parte quel buco. E non è chiaro, in particolare, quanta efficacia avrebbero gli sgravi fiscali nel dare una spinta all’economia.

Tuttavia, il piano sarebbe assai meglio di nulla, ed alcune delle sue misure, che sono specificamente indirizzate a fornire incentivi per le assunzioni, potrebbero produrre ampia occupazione a poco prezzo [180]. Come ho detto, è molto più coraggioso e soddisfacente di quanto mi aspettassi. Può darsi che per il Presidente Obama la casa non stia ancora andando a fuoco, ma certamente egli sente odore di bruciato [181]; è chiaro e fa piacere che egli abbia compreso quanto sia disperata la situazione del lavoro.

Ma questo piano non è probabile che diventi legge, grazie all’opposizione repubblicana. Né è il caso di notare di come quella opposizione si sia incattivita col tempo, peraltro mentre la piaga della disoccupazione diventava sempre peggiore.

Agli inizi del 2009, quando la nuova Amministrazione Obama provò a fare i conti con la crisi che aveva ereditato, si sentivano due principali argomenti critici sul fronte della destra. Nel primo caso, essi sostenevano che ci saremmo dovuti affidare alla politica monetaria, anziché alla politica della finanza pubblica – vale a dire che il lavoro di combattere l’inflazione avrebbe dovuto essere lasciato alla Fed. Nel secondo caso, essi sostenevano che le azioni di finanza pubblica avrebbero dovuto avere la forma di sgravi fiscali piuttosto che di una spesa pubblica eccezionale.

 

Oggi, tuttavia, i dirigenti repubblicani sono contrari agli sgravi fiscali – almeno quando di essi ne traggano beneficio i lavoratori americani, anziché la gente ricca e le grandi imprese.

 

Ed essi sono anche contro la politica monetaria. Nel dibattito presidenziale repubblicano di mercoledì notte, Mitt Romney ha dichiarato che intenderebbe cercare una sostituzione a Bernanke, il Presidente della Fed, fondamentalmente perché Bernanke ha cercato di fare qualcosa, ancorché non abbastanza, a proposito della disoccupazione.  E, in questo modo, Romney passa per un moderato secondo i criteri del Partito Repubblicano, dato che Rick Perry, il suo principale rivale per la candidatura presidenziale, ha suggerito che Bernanke dovrebbe ricevere un trattamento “piuttosto ruvido”[182].

Dunque, a questo punto, coloro che dirigono il Partito Repubblicano, fondamentalmente, sono contro tutto quello che potrebbe essere d’aiuto ai disoccupati. E’ vero, il signor [183] Romney ha messo in circolazione un luccicante e ben confezionato “piano per i posti di lavoro”, ma esso potrebbe essere meglio definito come un vuoto elenco di 59 punti – e certamente niente che giustifichi l’affermazione, che rasenta la megalomania, secondo la quale egli darebbe vita a non meno di 11 milioni di posti di lavoro in quattro anni.

In tutto questo, la buona notizia è che presentandosi con più spessore e con più coraggio di quanto non ci si aspettasse, finalmente Obama può aver creato le condizioni per un dibattito politico sulla creazione di posti di lavoro. Giacché, in fin dei conti, non si farà niente finché l’opinione pubblica americana non pretenderà una iniziativa.

 

 

 

 

 

 

 

An Impeccable Disaster

By PAUL KRUGMAN
Published: September 11, 2011
 

On Thursday Jean-Claude Trichet, the president of the European Central Bank or E.C.B. — Europe’s equivalent to Ben Bernanke — lost his sang-froid. In response to a question about whether the E.C.B. is becoming a “bad bank” thanks to its purchases of troubled nations’ debt, Mr. Trichet, his voice rising, insisted that his institution has performed “impeccably, impeccably!” as a guardian of price stability.

Indeed it has. And that’s why the euro is now at risk of collapse.

Financial turmoil in Europe is no longer a problem of small, peripheral economies like Greece. What’s under way right now is a full-scale market run on the much larger economies of Spain and Italy. At this point countries in crisis account for about a third of the euro area’s G.D.P., so the common European currency itself is under existential threat.

And all indications are that European leaders are unwilling even to acknowledge the nature of that threat, let alone deal with it effectively.

I’ve complained a lot about the “fiscalization” of economic discourse here in America, the way in which a premature focus on budget deficits turned Washington’s attention away from the ongoing jobs disaster. But we’re not unique in that respect, and in fact the Europeans have been much, much worse.

Listen to many European leaders — especially, but by no means only, the Germans — and you’d think that their continent’s troubles are a simple morality tale of debt and punishment: Governments borrowed too much, now they’re paying the price, and fiscal austerity is the only answer.

Yet this story applies, if at all, to Greece and nobody else. Spain in particular had a budget surplus and low debt before the 2008 financial crisis; its fiscal record, one might say, was impeccable. And while it was hit hard by the collapse of its housing boom, it’s still a relatively low-debt country, and it’s hard to make the case that the underlying fiscal condition of Spain’s government is worse than that of, say, Britain’s government.

So why is Spain — along with Italy, which has higher debt but smaller deficits — in so much trouble? The answer is that these countries are facing something very much like a bank run, except that the run is on their governments rather than, or more accurately as well as, their financial institutions.

Here’s how such a run works: Investors, for whatever reason, fear that a country will default on its debt. This makes them unwilling to buy the country’s bonds, or at least not unless offered a very high interest rate. And the fact that the country must roll its debt over at high interest rates worsens its fiscal prospects, making default more likely, so that the crisis of confidence becomes a self-fulfilling prophecy. And as it does, it becomes a banking crisis as well, since a country’s banks are normally heavily invested in government debt.

 

 

Now, a country with its own currency, like Britain, can short-circuit this process: if necessary, the Bank of England can step in to buy government debt with newly created money. This might lead to inflation (although even that is doubtful when the economy is depressed), but inflation poses a much smaller threat to investors than outright default. Spain and Italy, however, have adopted the euro and no longer have their own currencies. As a result, the threat of a self-fulfilling crisis is very real — and interest rates on Spanish and Italian debt are more than twice the rate on British debt.

Which brings us back to the impeccable E.C.B.

What Mr. Trichet and his colleagues should be doing right now is buying up Spanish and Italian debt — that is, doing what these countries would be doing for themselves if they still had their own currencies. In fact, the E.C.B. started doing just that a few weeks ago, and produced a temporary respite for those nations. But the E.C.B. immediately found itself under severe pressure from the moralizers, who hate the idea of letting countries off the hook for their alleged fiscal sins. And the perception that the moralizers will block any further rescue actions has set off a renewed market panic.

 

Adding to the problem is the E.C.B.’s obsession with maintaining its “impeccable” record on price stability: at a time when Europe desperately needs a strong recovery, and modest inflation would actually be helpful, the bank has instead been tightening money, trying to head off inflation risks that exist only in its imagination.

 

And now it’s all coming to a head. We’re not talking about a crisis that will unfold over a year or two; this thing could come apart in a matter of days. And if it does, the whole world will suffer.

So will the E.C.B. do what needs to be done — lend freely and cut rates? Or will European leaders remain too focused on punishing debtors to save themselves? The whole world is watching.

 

Un disastro impeccabile, di Paul Krugman

New York Times 11 settembre 2011

 

 

Giovedì Jean-Claude Trichet, il Presidente della Banca Centrale Europea o BCE – l’equivalente europeo di Ben Bernanke – ha perso il suo sangue freddo. In risposta alla domanda se la BCE stia diventando una “banca a rischio” grazie agli acquisti del debito delle nazioni in difficoltà, il signor Trichet, alzando la voce, ha ripetuto che il suo istituto si è comportato “impeccabilmente, impeccabilmente!” nella vigilanza sulla stabilità dei prezzi.

Così è stato, in effetti. E questa è la ragione per la quale l’euro sta oggi rischiando il collasso.

Il disordine finanziario in Europa non è più un problema di piccole economie periferiche, come la Grecia.  Quello che in questo momento è in atto è una ritirata generalizzata del mercato dalle molto più ampie economie della Spagna e dell’Italia. A questo punto i paesi in crisi valgono circa un terzo del PIL dell’area euro, dunque la stessa valuta comune europea è sotto una minaccia vitale.

E tutte le indicazioni dicono che i dirigenti europei non intendono neppure riconoscere la natura di quella minaccia, a parte il misurarsi effettivamente con essa.

 

Mi sono a lungo lamentato della riduzione del dibattito economico ad una questione di finanze pubbliche qua in America, e sul modo in cui una concentrazione prematura sui deficit di bilancio ha distolto l’attenzione dell’America dal disastro in corso quanto a posti di lavoro. Ma sotto questo aspetto non siamo i soli, e di fatto gli europei si sono comportati assai peggio.

Se si ascoltano molti dirigenti europei – specialmente, ma certamente non soltanto, i tedeschi –  si capisce che i guai del loro continente sono concepiti come una semplice storia di debito e di castigo: i Governi si sono indebitati troppo, ora ne pagano il prezzo, e l’austerità della finanza pubblica è l’unica risposta.

Tuttavia questa storia si applica, semmai, alla Grecia ed a nessun altro. In particolare la Spagna aveva un bilancio in attivo ed un debito basso prima della crisi finanziaria del 2008; le sue prestazioni finanziarie, si direbbe, erano impeccabili. E mentre è stata colpita duramente dal collasso del boom immobiliare, è ancora un paese relativamente a basso debito, ed è difficile considerare le condizioni di base della finanza pubblica del governo della Spagna peggiori di quelle, ad esempio, del governo dell’Inghilterra.

Perché dunque la Spagna – assieme all’Italia, che ha un debito più elevato ma deficit più modesto – è in un guaio così grande?  La risposta è che questi paesi stanno fronteggiando qualcosa che assomiglia molto ad una “fuga dagli sportelli”, sennonché questa fuga è a carico dei loro governi, piuttosto che, o più precisamente, oltre ai loro istituti finanziari.

Ecco qua come funziona una “fuga”: gli investitori, per una qualsiasi ragione, temono che un paese andrà incontro al default sul suo debito. Questo toglie loro la voglia di acquistare i bonds di quel paese, almeno se non viene loro offerto un tasso di interesse molto elevato. E il fatto che quel paese debba sviluppare il proprio debito ad un tasso di interesse elevato peggiora le sue prospettive finanziarie, rendendo il default più probabile, cosicché la crisi di fiducia diventa una sorta di profezia che si autoavvera. E se accade questo, ne deriva anche una crisi del sistema bancario, giacché le banche di un paese hanno normalmente pesanti investimenti nel debito dei governi.

Ora, un paese con la propria valuta, come l’Inghilterra, può provocare un corto-circuito a questo processo: se necessario la Banca di Inghilterra può intervenire acquistando debito governativo attraverso la creazione di nuova moneta. Questo potrebbe condurre all’inflazione (sebbene anche questo sia dubbio in presenza di una economia depressa), ma l’inflazione costituisce una minaccia minore per gli investitori che non un vero e proprio default. La Spagna e l’Italia, tuttavia, hanno adottato l’euro e non dispongono più di loro valute. Il risultato è che la minaccia di una profezia che si autoavvera è molto reale – e i tassi di interesse della Spagna e dell’Italia sono più del doppio del tasso sul debito britannico.

Il che ci riporta alla impeccabile Banca Centrale Europea.

Quello che il signor Trichet ed i suoi colleghi dovrebbero fare in questo momento è acquistare debito spagnolo ed italiano – ovvero, fare quello che queste economie farebbero da sole, se avessero ancora le proprie valute. Di fatto, la BCE ha cominciato a far ciò proprio alcune settimane fa, ed ha provocato un temporaneo sollievo per quelle nazioni. Ma la BCE si è subito trovata nel mirino dei moralizzatori, che non sopportano l’idea di togliere dagli impicci quei paesi che ci sono finiti per presunti peccati della loro finanza pubblica. E la percezione che i moralizzatori potrebbero bloccare ogni ulteriore azione di salvataggio ha provocato nuovo panico sui mercati.

Al quale problema si aggiunge l’ossessione della BCE nel mantenere il proprio “impeccabile” primato nella stabilità dei prezzi: in un momento nel quale l’Europa ha disperatamente bisogno di un forte ripresa, ed una modesta inflazione potrebbe in effetti essere d’aiuto, la banca centrale sta invece restringendo la quantità di moneta in circolazione, cercando di scongiurare rischi di inflazione che esistono soltanto nella sua testa.

Ed ora tutti i nodi stanno venendo al pettine. Non stiamo parlando di una crisi che si svolgerà in un anno o due; questa situazione potrebbe finire a pezzi nel giro di giorni. E se accadrà, il mondo intero ne pagherà le conseguenze.

Dunque, la Banca Centrale Europea farà quello che deve essere fatto – concedendo prestiti adeguati e tagliando i tassi? O i dirigenti europei resteranno troppo concentrati nel punire i debito per salvare se stessi? Il mondo intero sta a guardare.  

    

 

 

 

Free to Die

By PAUL KRUGMAN
Published: September 15, 2011

Back in 1980, just as America was making its political turn to the right, Milton Friedman lent his voice to the change with the famous TV series “Free to Choose.” In episode after episode, the genial economist identified laissez-faire economics with personal choice and empowerment, an upbeat vision that would be echoed and amplified by Ronald Reagan.

But that was then. Today, “free to choose” has become “free to die.”

I’m referring, as you might guess, to what happened during Monday’s G.O.P. presidential debate. CNN’s Wolf Blitzer asked Representative Ron Paul what we should do if a 30-year-old man who chose not to purchase health insurance suddenly found himself in need of six months of intensive care. Mr. Paul replied, “That’s what freedom is all about — taking your own risks.” Mr. Blitzer pressed him again, asking whether “society should just let him die.”

 

And the crowd erupted with cheers and shouts of “Yeah!”

The incident highlighted something that I don’t think most political commentators have fully absorbed: at this point, American politics is fundamentally about different moral visions.

Now, there are two things you should know about the Blitzer-Paul exchange. The first is that after the crowd weighed in, Mr. Paul basically tried to evade the question, asserting that warm-hearted doctors and charitable individuals would always make sure that people received the care they needed — or at least they would if they hadn’t been corrupted by the welfare state. Sorry, but that’s a fantasy. People who can’t afford essential medical care often fail to get it, and always have — and sometimes they die as a result.

 

The second is that very few of those who die from lack of medical care look like Mr. Blitzer’s hypothetical individual who could and should have bought insurance. In reality, most uninsured Americans either have low incomes and cannot afford insurance, or are rejected by insurers because they have chronic conditions.

So would people on the right be willing to let those who are uninsured through no fault of their own die from lack of care? The answer, based on recent history, is a resounding “Yeah!”

 

Think, in particular, of the children.

The day after the debate, the Census Bureau released its latest estimates on income, poverty and health insurance. The overall picture was terrible: the weak economy continues to wreak havoc on American lives. One relatively bright spot, however, was health care for children: the percentage of children without health coverage was lower in 2010 than before the recession, largely thanks to the 2009 expansion of the State Children’s Health Insurance Program, or S-chip.

 

And the reason S-chip was expanded in 2009 but not earlier was, of course, that former President George W. Bush blocked earlier attempts to cover more children — to the cheers of many on the right. Did I mention that one in six children in Texas lacks health insurance, the second-highest rate in the nation?

 

So the freedom to die extends, in practice, to children and the unlucky as well as the improvident. And the right’s embrace of that notion signals an important shift in the nature of American politics.

In the past, conservatives accepted the need for a government-provided safety net on humanitarian grounds. Don’t take it from me, take it from Friedrich Hayek, the conservative intellectual hero, who specifically declared in “The Road to Serfdom” his support for “a comprehensive system of social insurance” to protect citizens against “the common hazards of life,” and singled out health in particular.

 

Given the agreed-upon desirability of protecting citizens against the worst, the question then became one of costs and benefits — and health care was one of those areas where even conservatives used to be willing to accept government intervention in the name of compassion, given the clear evidence that covering the uninsured would not, in fact, cost very much money. As many observers have pointed out, the Obama health care plan was largely based on past Republican plans, and is virtually identical to Mitt Romney’s health reform in Massachusetts.

Now, however, compassion is out of fashion — indeed, lack of compassion has become a matter of principle, at least among the G.O.P.’s base.

And what this means is that modern conservatism is actually a deeply radical movement, one that is hostile to the kind of society we’ve had for the past three generations — that is, a society that, acting through the government, tries to mitigate some of the “common hazards of life” through such programs as Social Security, unemployment insurance, Medicare and Medicaid.

Are voters ready to embrace such a radical rejection of the kind of America we’ve all grown up in? I guess we’ll find out next year.

 

Liberi di morire, di Paul Krugman

New York Times 15 settembre 2011

 

Nel passato 1980, proprio quando l’America stava realizzando il suo spostamento politico a destra, Milton Friedman prestò la sua voce al cambiamento con le famose serie televisive “Liberi di scegliere”. Episodio dopo episodio, il geniale economista identificò l’economia del laissez-faire con la libertà di scegliere e di decidere responsabilmente, una visione piena di ottimismo che sarebbe stata echeggiata e amplificata da Ronald Reagan.

Ma questo avveniva allora. Oggi “liberi di scegliere” si è tramutato in “liberi di morire”

 

Mi riferisco, come potete immaginare, a quello che è accaduto durante la assise presidenziale del Partito Repubblicano di lunedì. Wolf Blitzer della CNN ha chiesto al parlamentare Ron Paul cosa si sarebbe fatto se un uomo di una trentina d’anni che avesse scelto di non acquistare la assicurazione sanitaria si fosse improvvisamente ritrovato nella necessità di sei mesi di cure intensive. Il signor Paul ha replicato: “La libertà è questo – prendere i propri rischi”. Blitzer ha insistito, chiedendo se “la società avrebbe dovuto semplicemente farlo morire”.

 

A quel punto la folla è esplosa con urla ed acclamazioni di consenso: “Certamente!”

 

Il fatto è illuminante di un aspetto che non mi pare che la gran parte dei commentatori politici abbia pienamente compreso: siamo a un punto nel quale la politica americana fondamentalmente concerne diverse concezioni della moralità.

Ora, ci sono due cose che si devono conoscere a proposito dello scambio tra Blitzer e Paul. La prima è che dopo che la folla si era in quel modo pronunciata, Paul in sostanza ha cercato di scansare la domanda, dicendosi convinto che medici di buon cuore e persone caritatevoli avrebbero sempre assicurato a ognuno la cure necessarie – o almeno l’avrebbero fatto se non fossero stati negativamente influenzati dallo stato assistenziale. Spiacente, ma si tratta di una fantasia. La gente che non può permettersi cure mediche essenziali spesso non le ottiene, pur avendone bisogno in continuazione[184] – e in conclusione talvolta muore.

La seconda è che, tra coloro che muoiono per mancanza di assistenza medica, sono molto pochi quelli che, come l’ipotetico individuo del signor Blitzer, avrebbero potuto e dovuto acquistare la assicurazione. In realtà, la gran parte degli americani non assicurati hanno anche redditi bassi e non possono permettersi la assicurazione, oppure sono respinti dagli assicuratori perché hanno condizioni croniche.

E dunque la gente di destra avrebbe intenzione, nei confronti di coloro che non sono assicurati e non per loro responsabilità, di lasciarli morire per mancanza di assistenza? La risposta, stando alla cronaca recente, sta in quel fragoroso “Certamente!”

 

Si pensi, in particolare, ai bambini.

 

Il giorno dopo il dibattito, l’Ufficio del Censimento ha rilasciato le sue ultime stime sul reddito, sulla povertà e sulla assicurazione sanitaria. Il quadro generale era terrificante: la fragilità dell’economia continua a fare scempio della vita degli americani. Un aspetto relativamente confortante, tuttavia, ha riguardato la assistenza sanitaria per i bambini: la percentuale di bambini privi di copertura sanitaria era nel 2010 più bassa del periodo precedente alla recessione, in gran parte grazie alla estensione del programma statale per la assicurazione sanitaria ai bambini, noto come S-chip.

E la ragione per la quale S-chip venne ampliato nel 2009 ma non in precedenza, fu naturalmente che il precedente Presidente George W. Bush aveva bloccato i primi tentativi di dare copertura ad un numero maggiore di bambini – nell’entusiasmo di molte persone della destra. Devo ricordare che nel Texas un bambino su sei non ha la assicurazione sanitaria, la seconda percentuale più alta di tutta la nazione?

 

 

Dunque, la libertà di morire include, in pratica, i bambini, sia che dipenda dalla sfortuna che dalla imprevidenza. E il fatto che la destra faccia propria questa idea segnala una svolta importante nella politica americana.

Nel passato, i conservatori accettavano la necessità di una rete di sicurezza a carico del Governo su basi umanitarie. Non sono io che lo dico, è Friedrich Hayek, il ‘campione’ degli intellettuali dei conservatori, che  precisamente affermò nel libro “La strada per la servitù” il suo sostegno ad un “sistema generalizzato di assicurazione sanitaria” al fine di proteggere i cittadini contro “i normali rischi della vita”, in particolare scegliendo l’esempio della salute.

Data la stabilita convenienza di proteggere i cittadini contro il peggio, la domanda divenne dunque quella dei costi e dei benefici – e la assistenza sanitaria fu una di quelle aree nelle quali anche i conservatori accettarono di buon grado l’intervento del governo in nome della “condivisione”[185], dato che risultava del tutto evidente che proteggere i non assicurati alla fin fine non sarebbe costato molto. Come molti osservatori hanno sottolineato, il piano di assistenza sanitaria di Obama era in gran parte basato su precedenti programmi repubblicani, praticamente identico alla riforma sanitaria di Mitt Romney nel Massachusetts.

Ma ora la “condivisione” è passata di moda e, nei fatti, la mancanza di “condivisione” è diventata una questione di principio, almeno nella base del Partito Repubblicano.

 

Il che significa che quel conservatorismo moderno è effettivamente un movimento radicale, qualcosa di ostile a quel genere di società che abbiamo avuto da tre generazioni – vale a dire, una società che, operando attraverso il governo, cerca di mitigare alcuni dei “normali rischi della vita” attraverso programmi quali la previdenza sociale, la assicurazione dalla disoccupazione, Medicare e Medicaid.

 

 

Saranno pronti gli elettori a far propria una negazione così radicale di quell’America nella quale siamo cresciuti? Suppongo che il prossimo anno lo scopriremo.      

 

 

 

The Bleeding Cure

By PAUL KRUGMAN
Published: September 18, 2011

Doctors used to believe that by draining a patient’s blood they could purge the evil “humors” that were thought to cause disease. In reality, of course, all their bloodletting did was make the patient weaker, and more likely to succumb.

Fortunately, physicians no longer believe that bleeding the sick will make them healthy. Unfortunately, many of the makers of economic policy still do. And economic bloodletting isn’t just inflicting vast pain; it’s starting to undermine our long-run growth prospects.

Some background: For the past year and a half, policy discourse in both Europe and the United States has been dominated by calls for fiscal austerity. By slashing spending and reducing deficits, we were told, nations could restore confidence and drive economic revival.

And the austerity has been real. In Europe, troubled nations like Greece and Ireland have imposed savage cuts, even as stronger nations have imposed milder austerity programs of their own. In the United States, the modest federal stimulus of 2009 has faded out, while state and local governments have slashed their budgets, so that over all we’ve had a de facto move toward austerity not so different from Europe’s.

 

Strange to say, however, confidence hasn’t surged. Somehow, businesses and consumers seem much more concerned about the lack of customers and jobs, respectively, than they are reassured by the fiscal righteousness of their governments. And growth seems to be stalling, while unemployment remains disastrously high on both sides of the Atlantic.

But, say apologists for the bad results so far, shouldn’t we be focused on the long run rather than short-run pain? Actually, no: the economy needs real help now, not hypothetical payoffs a decade from now. In any case, evidence is starting to emerge that the economy’s “short run” troubles — now in their fourth year, and being made worse by the focus on austerity — are taking a toll on its long-run prospects as well.

 

Consider, in particular, what is happening to America’s manufacturing base. In normal times manufacturing capacity rises 2 or 3 percent every year. But faced with a persistently weak economy, industry has been reducing, not increasing, its productive capacity. At this point, according to Federal Reserve estimates, manufacturing capacity is almost 5 percent lower than it was in December 2007.

 

What this means is that if and when a real recovery finally gets going, the economy will run into capacity constraints and production bottlenecks much sooner than it should. That is, the weak economy, which is partly the result of budget-cutting, is hurting the future as well as the present.

 

Furthermore, the decline in manufacturing capacity is probably only the beginning of the bad news. Similar cuts in capacity will probably take place in the service sector — indeed, they may already be taking place. And with long-term unemployment at its highest level since the Great Depression, there is a real risk that many of the unemployed will come to be seen as unemployable.

Oh, and the brunt of those cuts in public spending is falling on education. Somehow, laying off hundreds of thousands of schoolteachers doesn’t seem like a good way to win the future.

In fact, when you combine the growing evidence that fiscal austerity is reducing our future prospects with the very low interest rates on U.S. government debt, it’s hard to avoid a startling conclusion: budget austerity may well be counterproductive even from a purely fiscal point of view, because lower future growth means lower tax receipts.

 

What should be happening? The answer is that we need a major push to get the economy moving, not at some future date, but right now. For the time being we need more, not less, government spending, supported by aggressively expansionary policies from the Federal Reserve and its counterparts abroad. And it’s not just pointy-headed economists saying this; business leaders like Google’s Eric Schmidt are saying the same thing, and the bond market, by buying U.S. debt at such low interest rates, is in effect pleading for a more expansionary policy.

 

 

And to be fair, some policy players seem to get it. President Obama’s new jobs plan is a step in the right direction, while some board members of the Federal Reserve and the Bank of England — though not, sad to say, the European Central Bank — have been calling for much more growth-oriented policies.

What we really need, however, is to convince a substantial number of people with political power or influence that they’ve spent the last year and a half going in exactly the wrong direction, and that they need to make a U-turn.

It’s not going to be easy. But until that U-turn happens, the bleeding — which is making our economy weaker now, and undermining its future at the same time — will continue.

 

Il salasso, di Paul Krugman

New York Times 18 settembre 2011

 

Un tempo i dottori erano abituati a credere che togliendo sangue dai pazienti avrebbero purgato i cattivi “umori” che si pensava fossero le cause delle malattie. In realtà, tutti quei salassi rendevano ovviamente il paziente più debole e più esposto alla morte.

 

Fortunatamente i medici non credono più che dissanguando i malati li si rimetterà in salute. Invece, sfortunatamente, molti di coloro che decidono la politica economica lo credono ancora. E il salasso dell’economia non solo sta provocando un gran danno; esso sta cominciando a mettere a repentaglio le nostre prospettive di lungo periodo.

Un passo indietro: nell’ultimo anno e mezzo il dibattito politico sia in Europa che negli Stati Uniti è stato dominata dalle richieste di austerità nella finanza pubblica. Tagliando la spesa e riducendo i deficit, ci è stato detto, le nazioni avrebbero ritrovato fiducia e aperto la strada alla ripresa economica.

 

E l’austerità è stata effettiva. In Europa, nazioni in difficoltà come la Grecia e l’Irlanda hanno stabilito tagli selvaggi, proprio mentre le nazioni più forti applicavano per loro conto programmi di austerità più leggeri. Negli Stati Uniti il modesto sostegno federale all’economia del 2009 si è consumato, mentre gli Stati ed i governi locali hanno tagliato i loro bilanci, cosicché in conclusione ci siamo indirizzati verso una austerità “de facto”, non molto diversamente dall’Europa.

Tuttavia, strano a dirsi, la fiducia non è aumentata. In qualche modo, gli imprenditori ed i consumatori sembrano molto più preoccupati per la mancanza, rispettivamente, di clientela e di posti di lavoro, di quanto non siano rinfrancati dalla ortodossia finanziaria dei loro governi. E la crescita sembra bloccata, mentre la disoccupazione resta disastrosamente alta su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Ma, dicono a proposito dei cattivi risultati sin qua raggiunti i sostenitori di quelle tesi, non dovremmo concentrarci sul lungo periodo, anziché sulle difficoltà del breve periodo? In effetti, no, non dovremmo: l’economia ha bisogno di aiuti concreti oggi, non di compensi ipotetici tra un decina d’anni. E in ogni caso, comincia ad emergere la prova che i guai dell’economia nel cosiddetto breve periodo – che ora sono al quarto anno e diventano sempre peggiori con l’ossessione dell’austerità – stanno provocando un strage anche nelle prospettive di lungo periodo.

Si consideri, in particolare, cosa sta accadendo alla base dell’industria manifatturiera americana. In tempi normali la capacità produttiva del settore manifatturiero cresce del 2 o 3 per cento all’anno. Ma, a fronte di un economia costantemente fragile, l’industria sta riducendo, non aumentando, la sua capacità produttiva. A questo punto, secondo le stime della Federal Reserve, la capacità produttiva del settore manifatturiero è di quasi il 5 per cento più bassa di quanto non fosse nel dicembre del 2007.

Questo significa che, se e quando alla fine una effettiva ripresa si rimetterà in moto, l’economia dovrà fare i conti con i limiti di produttività e con le strozzature della produzione molto prima di quanto avrebbe dovuto. Ovvero, l’economia debole, che è in parte il risultato dei tagli ai bilanci, sta danneggiando il futuro altrettanto che il presente.

Per di più, il declino della produttività del settore manifatturiero è probabilmente solo l’inizio delle cattive notizie. Tagli analoghi nella produttività interesseranno probabilmente anche il settore dei servizi – in effetti, essi sono già in atto. E con una disoccupazione di lungo periodo ai livelli più alti dalla Grande Depressione, c’è un rischio reale che molti disoccupati finiranno con l’essere considerati come definitivamente non idonei.

 

Non trascurando che la peggiore conseguenza dei tagli alla spesa pubblica è una caduta dei sistemi educativi. In ogni senso, il licenziamento di centinaia di migliaia di insegnanti  non sembra un buon modo per conquistare il futuro.

Di fatto, quando si confronta la prova evidente che l’austerità della finanza pubblica sta riducendo le prospettive future con i  bassissimi tassi di interesse sul debito del governo americano, è difficile evitare una sorprendente conclusione: l’austerità di bilancio anche dal semplice punto di vista della finanza pubblica può ben finire col rivelarsi antiproducente,  perché la minore futura crescita comporterà minori entrate fiscali.

Cosa dovrebbe accadere? La risposta è che abbiamo bisogno di una spinta maggiore per ottenere che l’economia si metta in movimento, e ne abbiamo bisogno oggi, non in un futuro indeterminato. In questo momento, noi abbiamo bisogno di una maggiore, non di una minore, spesa pubblica, sostenuta da politiche risolutamente espansionistiche da parte della Federal Reserve e delle altre Banche Centrali. E non sono solo alcuni economisti di ambienti accademici a dirlo; dirigenti di imprese come Eric Schmidt di Google dicono la stessa cosa, e il mercato obbligazionario, acquistando il debito americano a tassi di interesse talmente bassi, sta in effetti implorando una politica maggiormente espansiva.

A dire il vero, alcuni attori della politica sembrano averlo compreso. Il piano per i nuovi posti di lavoro del Presidente Obama è un passo nella direzione giusta, ed alcuni membri del consiglio della Federal Reserve e la Banca di Inghilterra – ma non,  triste a dirsi, la Banca Centrale Europea – si stanno pronunciando a favore di politiche molto più orientate nel senso della crescita.

Quello di cui abbiamo davvero bisogno, tuttavia, è convincere un numero adeguato di persone provviste di potere e di influenza politica che hanno speso l’ultimo anno e mezzo andando esattamente nella direzione sbagliata, e che hanno bisogno di fare una inversione a “U”.

 

Non sarà facile. Ma finché quella inversione ad “U” non avrà luogo, il salasso – ovvero il rendere più debole la nostra economia oggi, e al tempo stesso compromettere il suo futuro – continuerà.      

 

 

 



[1] “To be in pocket of someone” significa “essere sotto l’influenza del potere finanziario di qualcuno”.

[2] E’ l’espressione usata dai repubblicani e dai seguaci del ‘Tea Party’ per definire le proposte contenute nella riforma sanitaria di Obama relative ad un miglior controllo della spesa sanitaria. Le ‘giurie’ o ‘tribunali’ della morte, sarebbero le commissioni mediche che, secondo quelle proposte, dovrebbero attenuare la spesa, almeno quella pubblica, nei casi di ‘accanimento terapeutico’. Proposta che è stata definita anche, dalla ingegnosa destra americana, come lo “staccare la spina alla nonna”. Non mi è chiaro cosa, di queste idee iniziali, sia effettivamente rimasto nella riforma approvata dal Congresso, ma tali slogan hanno finito per riguardare la riforma nel suo complesso.

[3] Si tratta di una associazione politica “per il cambiamento della legislazione americana”.

[4] “Decency”, oltre al generico “decenza”, ha il significato etico di “condotta degna”.

[5] “Un-american” (“non-americano”) è, in prevalenza nel linguaggio della destra ma talora anche dei progressisti, una espressione ‘risolutiva’ per indicare tutto ciò  che è estraneo ai valori civili nazionali.

[6] Ovvero, coloro che contestano che siano in atto cambiamenti climatici.

[7] Università inglese con sede a Norwich.

[8] Di fatto è una doppia negazione. La traduzione lett.: “non diventeranno proprio riluttanti ad agire come cittadini preoccupati…”; ovvero: “saranno piuttosto riluttanti ad agire …”

[9] Presidente repubblicano dal 1929 al 1933.

[10] Ovvero, il metodo del “to liquidate labor, stocks, farmers etc.” (citazione iniziale di Andrew Mellon); cioè l’idea che il “sopprimere/distruggere” conduca a conseguenze salutari. Nella storia delle teorie economiche questa idea delle ‘crisi distruttive salutari’ – più autorevolmente che da Mellon – venne proposta da Schumpeter.

[11] Il Partito Repubblicano (Great Old Party).

[12] “To buy into” può significare “accept the truth of” (“accettare la verità di”).

[13] Lett.: “Qual è la battuta finale?”.

[14] Lett.: testimoni esperti.

[15] Lett.: “è uscito dal copione”.

[16] La Fondazione Koch è una istituzione culturale di orientamento conservatore.

[17] “ringer”, in americano, ha anche il particolare significato di “concorrente iscritto sotto falso nome” (a proposito di cavalli, o corridori etc.).

[18] Agenzia di Protezione dell’Ambiente.

[19] Uno dei significati di “to make up” è “convincersi (di ql.sa), rassegnarsi a”.

[20] Traduzione piuttosto complicata e abbastanza incerta. “Post” non mi pare ovviamente abbia niente a che fare con “le Poste”, con un “corriere postale” o con un “messaggio internet”, e dunque dovrebbe avere il significato di “lavoro, attività”; o meglio “luogo nel quale qualcuno ha una responsabilità” o “luogo nel quale una attività deve essere portata a termine”.  Il che sarebbe coerente con il fatto che si sta definendo una “audizione” (“hearing”) nella sede della Camera dei Rappresentanti. Ma tra “post” e “theater” non viene utilizzata alcuna preposizione; e del resto “post” non è un aggettivo. Inoltre, nella sequenza “normal science political theater”, “normal” può essere attribuito sia a “science” (normale scienza/soliti scienziati) che a “theater” (solito teatro), Ma la secondo ipotesi è meno probabile, giacché “science” è sostantivo, e se si intendesse alludere al “solito teatro politico” si sarebbe dovuto inserire “scientific” (“solito teatrino politico scientifico”).  Ma il concetto dovrebbe essere, grosso modo, quello. Inoltre al verbo “to dismiss” attribuisco correttamente due gradazioni di significato (“liquidare” e “congedare” nel senso di “limitarsi a definire”; in sostanza: “trattare con freddezza”) lievemente diverse; in effetti “to dismiss” ha una varietà di sensi: “liquidare, mettere da parte, congedare, trattare freddamente etc.”.

[21] “who had no business being here”. Lett. “che non avevano alcun affare ad essere in quel posto”.

[22] “has probably ensured”, lett. “sia stato probabilmente assicurato”.

[23] La pretesa ‘reaganiana’ di una politica economica espansiva ottenuta con il semplice ricorso alla riduzione delle imposte – particolarmente per i ceti più abbienti – viene da oltre un decennio definita da Krugman come “vodoo economics”, ovvero come una politica economica che si presume dotata di poteri magici.

[24] Espressione non strana, poiché nella legislazione americana il livello del debito è, anno per anno, stabilito dal Congresso con specifico provvedimento legislativo.

[25] Coupons, buoni.

[26] “to talk a good game” (lett. “raccontare un buon gioco”) significa “fare promesse senza essere conseguenti”.

[27] Un istituto di ricerca (“Centro sul bilancio e le politiche prioritarie”).

[28] “Punk” normalmente è un aggettivo-sostantivo; come verbo ha il significato di “umiliare (con l’inganno)”.

[29] “mean” significa tra l’altro “avaro, meschino”; “spirited” significa “animato, entusiasta, coraggioso”. Messi insieme nel sostantivo “mean-spiritedness” indicano una sorta di energia negativa, di disposizione alla meschinità.

[30] “the bully pulpit” significa lett. “il pulpito (pre)potente”, ed è una espressione quasi di rango istituzionale, con la quale si allude all’attributo del Presidente degli USA di “parlare all’America” nella pienezza dei suoi poteri, ovvero in condizione di piena autorevolezza.

[31] Si consideri, per una giusta comprensione, che la proposta di bilancio cui si allude è altra cosa dall’accordo che è stato, per il momento, siglato da repubblicani e democratici. Quell’accordo ha sbloccato il pericolo di uno “shutdown” individuando tagli per 38 miliardi di dollari; la proposta, verosimilmente dei repubblicani (come si capisce in seguito), riguarda una ipotesi di riforma del bilancio di lungo periodo. Ovvero, si è passati da una critica all’accordo repubblicani-democratici, ad una valutazione di aspetti più di fondo del dibattito politico, che matureranno in futuro. Per l’appunto, essi avrebbero, come si spiega successivamente, dimensioni circa cento volte superiori (attorno ai 3.000 miliardi di dollari).

[32] Da alcuni mesi Krugman definisce ironicamente il ‘partito’ dei sostenitori della austerità – a un senso unico – come il partito delle Persone Estremamente Serie.

[33] Lett. : “ma di vederla come un grande e grasso bersaglio politico”.

[34] “Punditcracy” lett.: “potere degli esperti/degli addetti ai lavori/ dei sapientoni”.

[35] “Wonky” normalmente sta per “traballante, instabile, vacillante”, ma “wonk”, in gergo scolastico, sta per “studioso, sgobbone”, ed è di uso assai frequente nel blog di Krugman. Il senso della seconda accezione, peraltro, non è necessariamente negativo – come in “sgobbone”. Indica piuttosto una condizione di “particolare competenza”.

[36] Lett. “assicurazione sociale”. Negli Usa indica il complesso dei programmi: Previdenza sociale, Medicare, Medicaid, indennità di disoccupazione etc,.

[37] “il Colle del Campidoglio”, sede del Congresso.

[38] Mi pare che il riferimento sia ancora agli “addetti ai lavori”.

[39] “hissy fit – I mean, criticism …” lett. “attacco sibilante – intendo nel senso della critica …”.  “Hiss” è il sibilo del serpente.

[40] “Wonkish” è nel senso della nota precedente. Lett. “qualcosa di molto (per) competente(i)”.

[41] “Dipartimento per i problemi dei Veterani”. E’ una Agenzia federale che si occupa della assistenza sanitaria ai militari in congedo.

[42]Medicare Advantage”  è la cosiddetta “Area C” di Medicare, nella quale i benefici dei vantaggi del programma federale vengono da programmi di assicurazioni sanitarie e non dal programma originario di Medicare (“Aree A e B”). Come si è visto, il quarto settore (“Area D”) è quello relativo ai farmaci.

[43] Come è noto, “compassion” è una espressione cruciale nel linguaggio politico americano. Il termine italiano “compassione” non è idoneo a tradurla, per varie ragioni. Una di esse è che ridurrebbe ad un sentimento assai privato quello che  si vuole abbia il significato di una virtù  civica.

[44] A proposito del termine “civil” vedi la nota successiva.

[45] “Great Society” era il nome di un complesso di programmi sociali e di diritti civili proposti o deliberati da Lindon Johnson. Essi, in una certa misura, ereditavano idee kennediane;  ma, nella cultura politica americana, si riconosce che varie istanze della “Nuova Frontiera” kennediana furono messe in atto solo con la Presidenza successiva di Johnson. Quest’ultimo non è considerato (soltanto o principalmente) il Presidente della guerra vietnamita, e sono considerati con rilievo i suoi risultati in campo sociale e, in particolare, dei sostanziali diritti elettorali degli americani di colore.

[46] Le politiche della “civility” sono quelle della cooperazione, della comune responsabilità  e del reciproco rispetto, in contrapposizione con quelle della “incivility”, che sono le politiche degli attacchi personali, dei modi strumentali per portare discredito sugli avversari, della indifferenza alla comune responsabilità etc. Si tratta di concetti che mantengono un certo significato, norme di comportamento che vengono richiamate non solo nel linguaggio politico (ad esempio, anche nell’ambiente scolastico). Rispetto alla evoluzione dello stile della politica – almeno dalle aggressioni a  Clinton in poi – parrebbero concetti abbastanza evanescenti, ma un certo peso ha il fatto che qua ci si riferisca allo ‘stile’ del Presidente (il quale ha accesso al “bully pulpit” – il ‘pulpito’ più autorevole – ma deve essere rispettoso con tutte le parti del Congresso).

[47] “Small government” è il contrario del “big government” della tradizione keynesiana e newdealista

[48] Una Fondazione culturale della destra.

[49] L’espressione “tribunali della morte” fu frequentemente e demagogicamente usata l’anno passato dai conservatori (movimento del Tea Party e Repubblicani) in occasione del dibattito sulla riforma della assistenza sanitaria. Era riferita, per l’appunto, a quelle disposizioni che puntavano ad un maggior controllo dei costi della sanità e, in particolare, al supposto effetto che quei controlli avrebbero potuto avere nei casi di ‘accanimento terapeutico’. Il timore che, con una certa efficacia, venne diffuso era relativo al fatto che “tribunali” di burocrati avrebbero potuto, come si disse, prendere la decisione di “staccare la spina alla nonna”

[50] Vedi l’articolo del 14 aprile 2011.

[51] Lett. sarebbe “prendiamoci una escursione/una impennata”. Suppongo che il contesto autorizzi la traduzione.

[52] “if not actually”, lett.: “se non effettivamente”.

[53] Vedi nota in seconda pagina dell’articolo del 10 aprile.

[54] “the only way … can even claim”: “l’unico modo in cui … può ancora/persino sostenere”.

[55] “sold”: “comunicati, fatti accettare”.

[56] Una componente dei Democratici.

[57] Normalmente Krugman definisce “pensiero magico” o “economia vodoo”, l’idea repubblicana (da Reagan in poi) secondo la quale la riduzione delle tasse di per sé comporta ripresa economica.

[58] La “Beltway” è il nome con il quale ci si riferisce alla circonvallazione di Washington, all’interno della quale risiede gran parte del potere politico americano.

[59] Vedi nota all’articolo del 17 aprile.

[60] Ovvero i due principali programmi della sanità pubblica: per la generalità dei cittadini, in particolare degli anziani, il primo; per i più poveri il secondo.

[61] Non so se questo gioco grafico giornalistico sia frequente o se sia stato inventato per la prima volta. Le varie parole vengono, con diversa tipologia di grandezza dipendente dalla loro frequenza, rappresentate in una immagine che ha casualmente la forma di nuvola, in questo modo:

 

[62] “skewed” significa: “obliquo, inclinato”, ed ha però anche il significato di “pregiudizievole, prevenuto”.

[63] “Goldilocks outcome” significa “il risultato di Riccioli d’oro”. La favola di “Riccioli d’oro e dei tre orsetti” narra il modo in cui la bambina visitò, in loro assenza, le stanze della casa degli orsi (Mamma Orso, Babbo Orso e il Bimbo Orso) e, dopo aver constatato che, per vari aspetti (il calore della minestra sul tavolo, le dimensioni delle sedie e dei letti) esse erano assai diverse, scelse la migliore. Sennonché, quando gli orsi tornarono, si accorsero che la loro casa erano state visitate e si indignarono: così Riccioli d’Oro fuggì nella foresta . Il “risultato di Riccioli d’oro” è sinonimo del concetto, in questo contesto economico, di “target” (ovvero, obbiettivo atteso, programmato).

[64] Vale a dire che, mentre Riccioli d’Oro era scappata altrove, la Fed dovrà convivere, nella ‘casa comune’ d’America, con la bassa inflazione e l’elevata disoccupazione che essa stessa prevede.

[65] “likely” (aggettivo o avverbio) significa “probabile”, ma anche “potenziale”.

[66] Ronald Ernest “Ron” Paul (Pittsburgh, 20 agosto 1935) è un politico e medico ginecologo statunitense. È membro del Partito Repubblicano e rappresentante alla Camera dei Rappresentanti per il 14º Distretto (Texas).

 

[67] “bait-and-switch” – lett. “abboccare e spostarsi” – significa “tecnica dell’adescamento” o “prodotto civetta”.

[68] “Federal Deposit Insurance Corporation”: è una Agenzia federale creata dal Congresso allo scopo di mantenere stabilità e fiducia negli istituti finanziari.

[69] “to let sb. off the hook”, lett. “consentire a qualcuno di sganciarsi”.

[70] Per il tema dei “vouchers”, vedi, ad esempio, l’articolo del 21 aprile.

[71] “sulla rete”, ovvero sulla ordinazione di titoli in rete.

[72] E’ una rivista americana bisettimanale, di orientamento neo-liberal.

[73] In inglese si usa, in frasi del genere, il condizionale.

[74] “To come apart at the seams”; lett.: “andare a pezzi nelle giunture”.

[75] “top-down” significa: “controllato dai livelli più alti di governo o dell’impresa/ gerarchico”.

[76] “to hector”, lett.: “tiranneggiare”.

[77] “to chasten” significa: “castigare, censurare”.

[78] “Scare tactics” significa “tattiche allarmistiche”; “Mediscare” è un gioco di parole prodotto dall sostituzione di “care” con “scare”.

[79] Vedi la nota in seconda pagina dell’articolo del 21 aprile 2011.

[80] “wipe the slate clean”, lett,: “pulire con uno straccio la lavagna”.

[81] Ovvero, il Presidente sella Assemblea (in questo caso, della Camera dei Rappresentanti). Ruolo che prima delle ultime elezioni di medio-termine apparteneva alla democratica Nancy Pelosi. .

[82] “quick-and-dirty”, lett.: “veloce e sporca”.

[83] “Social Security” è il nome del programma federale in materia di pensioni.

[84] Mi pare che, nel contesto del ragionamento che riguarda spese di tipo assicurativo e sanitario alle persone più adulte, il termine “disabled” – che potrebbe essere tradotto anche con “disabili, portatori di handicap” – vada soprattutto riferito ai casi della invalidità civile e militare.

[85] Un “baby boomer” è una persona nata tra il 1945 ed il 1964 nel Regno unito, negli Stati Uniti, in Canada o in Australia. Dopo la Seconda guerra mondiale questi paesi evidenziarono un grande incremento nelle nascite, un fenomeno comunemente conosciuto come “baby boom”.

 

[86] “G.O.P.” – “Great Old Party” (“Grande Vecchio Partito”) – e sinonimo di Partito Repubblicano.

[87] In questo caso “situation” ha un significato più forte che non il richiamo ad un semplice evento.

[88] Traduciamo “allies” (“alleati”) con “sostenitori” non per caso. Si deve notare che si tratta di una espressione frequente. Il rapporto tra il Presidente degli Stati Uniti con la sua maggioranza al Congresso viene solitamente espresso con il concetto di “alleanza”, dove in Italia utilizzeremmo al massimo il concetto di “sostegno”. Si tratta di una circostanza linguistica non casuale, evidentemente indicativa del peso costituzionale del Congresso americano.

[89] “to vote” ha anche il significato di “proporre, far voto”, che in questo caso è preferibile, non essendoci ancora stata alcuna votazione sul programma relativo a Medicare.

[90] “leader” di maggioranza o minoranza, equivale all’incarico di presidente del gruppo parlamentare. Harry Reid è dunque un democratico (eletto nel Nevada), dato che al Senato la maggioranza è democratica.

[91] Lett. “di non tracciare nessuna ‘linea sulla sabbia’ “.

[92] Tea Party, non significa, come talora si trova tradotto, “il Partito del tè”; ma “il ricevimento del tè”, ed indica un famoso episodio con il quale ebbe inizio la guerra di indipendenza americana (a Boston, il 16 dicembre del 1773, nel corso di una manifestazione di protesta da parte dei coloni americani contro le leggi sulla tassazione del Governo britannico – tra le quali quella relativa al tè – furono gettate in mare 54 ceste di quella sostanza. Le ceste galleggiarono per vari giorni nel porto. Particolare meno noto, furono poi recuperate dagli inglesi e portate di nuovo in Inghilterra).

[93] “confidence fairy” –lett. “la fata della fiducia” – è un’altra delle invenzioni linguistico-giornalistiche di Krugman (come “voodoo economics”: “economia magica”, ovvero l’economia dal lato dell’offerta di reaganiana memoria; o “bonds vigilantes”: “i guardiani dei bond”; o “pain caucus”: il gruppo/la cricca della sofferenza”, in riferimento ai sostenitori dell’austerità). Espressioni che si rivolgono ad un gruppo di lettori relativamente costante, che anche in tal modo stabiliscono con i suoi articoli di economia e di politica un rapporto di piena consuetudine.

[94] “on the hook”, lett. “al gancio”.

[95] “haircuts”, lett. “tagli dei capelli, tosatine”.

[96] “sore loser”; lett. “perdente disperato”.

[97] Si tratta di Paul Ryan, che è membro della Camera dei rappresentanti eletto nel Wisconsin.

[98] “bathing”. Lett. “facendo il bagno ..”.

[99] Come nel titolo dell’articolo, si tratta di un gioco di parole intraducibile (tra “Medicare” – che è il programma principale della sanità pubblica americana, molto apprezzato dai cittadini, specialmente tra gli anziani – e “Mediscare”, che è un neologismo traducibile con “allarmismo su Medi(care). Ovvero, il gioco di parole è tra “care” (“cura, assistenza”) e “scare” (“allarme, allarmismo, terrorismo verbale”).  

[100]Non è in contraddizione con le affermazioni precedenti, che si riferivano a coloro che saranno anziani nei prossimi decenni. Ora si aggiunge che il piano avrebbe conseguenze negative, con ogni probabilità, anche per gli anziani di oggi, giacché – come spiega la frase seguente – il trattamento più iniquo tra i futuri anziani e gli anziani attuali, finirebbe per livellare al ribasso le stesse condizioni degli anziani odierni.

[101] “entitlement” può significare “diritto”, ma anche “titolo (di un’opera, di un libro etc.). In questo caso, mi pare che il significato sia il secondo. Inoltre, in italiano non esiste un verbo direttamente corrispondente a  “to demagogue” nella forma transitiva (sarebbe “demagogizzare”).

[102] Coolidge fu il Presidente (repubblicano) degli USA, dal 1923 al 1928. Ovviamente, in quegli anni la spesa pubblica era a livelli assai più modesti; inoltre Coolidge si caratterizzò per una politica finanziaria sobria, in un epoca nella quale, in realtà, la società americana non era particolarmente sobria. Non accettò di ricandidarsi alle presidenziali del 1928, nelle quali vinse il repubblicano Hoover (al quale toccò di fronteggiare, con esiti disastrosi, la crisi del 1929).

[103] “snooker” è una variante del gioco del biliardo. Il suo significato particolare consiste però nella particolare posizione che talora si determina, per effetto della quale il giocatore non può colpire direttamente alcuna palla disponibile. Il verbo “to snooker”  ha quindi il significato implicito di una “costrizione per effetto di un impedimento”. Forse, l’espressione più vicina in italiano può  essere “chiudere”, nel senso di costringere in una posizione negativa.

[104] “to slate” significa anche “entrare in lista”.

[105] Il termine “impotenza acquisita” ha uno specifico significato medico, e serve a distinguere – nell’impotenza sessuale maschile – il caso dell’impotenza che si presenta dopo un periodo di normale attività sessuale, da quella “permanente” (quando il problema è presente sin dagli inizi).

[106] “Works progress Administration” (“Amministrazione per l’avanzamento dei posti di lavoro”):  una agenzia di “lavori socialmente utili” creata all’epoca del New Deal. Nel 1939 il nome venne modificato in “Work projects Administration” (“Amministrazione per i progetti di lavoro”).

[107] In questo caso, questo mi pare il senso del termine “default”. Come, infatti, è noto, la minaccia dei Repubblicani alla Camera dei Rappresentanti, consiste nel non approvare il provvedimento annuale di “ritocco” del tetto del debito, con effetti – che potrebbero essere temporanei ma dirompenti – nelle ordinarie funzioni di pagamento da parte del Governo Federale. Si tratta di una situazione che in passato si manifestò (all’epoca del Presidente Clinton e del leader repubblicano Gingrich), provocando effettivamente alcuni mesi di braccio di ferro assai tesi. Dunque, il “default” sarebbe, per così dire, di natura occasionale e non strutturale, anche se provocherebbe effetti gravi all’andamento economico (al proposito, si veda l’articolo del 15 maggio 2011 “America held hostage”).

[108] Il passaggio si comprende meglio se si considera che è in atto un dibattito – del quale ci sono pochi echi in Europa ed in Italia – sull’utilizzo dei dati della “core inflation” o della “headline inflation” (letteralmente: “inflazione al nocciolo” ed “inflazione da titoli dei giornali”. Potremmo dire: inflazione sostanziale o inflazione ordinaria). La prima utilizza dati depurati degli effetti dei prodotti dei generi alimentari e dei prodotti energetici, che invece compaiono nella seconda (da ciò la definizione sopra utilizzata di “inflazione dei prezzi al consumo”). La ragione è la seguente: quei dati sono assai volatili e dunque non consentono adeguate previsioni sull’andamento inflazionistico, perché in breve termine spingono l’inflazione più in alto e più in basso del suo andamento medio reale. In questi giorni, su tale tema si è sviluppato uno scontro piuttosto aspro tra Lorenzo Bini Smaghi (Financial Times del 1 giugno) e Krugman ed altri (sui loro blogs). Si consideri che la Fed, in effetti, utilizza come indicatore di inflazione i dati della “core inflation”.

[109] Ovvero, una forma di assistenza sanitaria basata sui vouchers.

[110] “policy”, in termini generali, significa “una andamento, o un principio di azione adottato da una organizzazione o da un individuo”; non diversamente che in italiano. Ma mi pare che il termine “politica” inteso come “modo di condursi” sia utilizzato più liberamente e diffusamente, mentre in italiano (per ragioni forse comprensibili)  viene adoperato nei casi individuali con più cautela.

[111] “open-ended” significa “illimitato, aperto, indefinito”.

[112] Politico americano democratico, candidato alla Presidenza per tre volte (1896, 1900, 1908) e sempre sconfitto. Probabilmente sta a significare che, a confronto con i dirigenti della BCE, Ben Bernanke sembra un democratico radicale.

 

[113] “Pain Caucus” è una espressione ironica per “raggruppamento/cricca del patimento”.

[114] “to break out” significa “evadere”.

[115] Senatore del Partito Democratico, di orientamento “centrista”.

[116] “half a loaf”; lett. “di mezza pagnotta”.

[117] Rivista americana fondata nel 1857.

[118] “dwarf” significa “nano” e “to dwarf” significa “far sembrare piccolo”.

[119] “to have someone’s number” è una espressione informale che significa “aver capito una persona/aver capito le intenzioni o il carattere di una persona”.

[120] La “trickle-down economics”  è la tesi della politica economica conservatrice, secondo la quale la ricetta per la ripresa  consiste nell’arricchire i ceti più abbienti e nell’attendere i benefici, per effetto di una “ricaduta (letteralmente di uno  “sgocciolamento”) sui ceti sottostanti.

[121] “Sales pitch” significa “parlantina” o “imbonimento”.

[122] Il programma federale denominato “Social Security” riguarda il sistema assicurativo pubblico delle pensioni; corrisponde cioè a quello che in Italia si definisce sistema della Previdenza Sociale.

[123] Il riferimento, naturalmente, è al film Il Padrino; forse ad un qualche particolare passaggio che non mi viene in mente.

[124] Great Old Party, ovvero il Partito Repubblicano.

[125] Ovvero di Herbert Hoover, il Presidente americano repubblicano dei primi anni ’30, che precedette Roosevelt.

[126] Espressione consueta di Krugman, con la quale egli ironizza sul concetto secondo il quale le “aspettative” delle imprese sarebbero influenzabili da un “agente di fiducia” che avrebbe il potere magico (“fairly” significa “fata”) di scuotere l’economia, sulla base di fattori – come la riduzione della spesa pubblica – che, in effetti, sostanzialmente non agiscono sulle valutazioni che determinano tali aspettative.

[127] “want for its own sake”, lett. : “che vuole nel suo proprio interesse”.

[128] Si tratta di Lucy Van Pelt, la sorella maggiore di Linus, che spesso fa a Linus lo scherzo un po’ sadico di togliergli il pallone da football americano al momento del tiro.

 

[129] In realtà, i “soliti sospetti”; ma, come mi è stato fatto notare, il termine viene da un film americano. E allora, con lo stesso significato, possiamo usare il monicelliano “soliti ignoti”.

[130] “20-20 hindsight”, letteralmente, significa “venti/ventesimi di comprensione di qualcosa dopo che sia accaduto”.

[131] Dirigente repubblicano, già Governatore del Massachusetts, che aveva concluso, nel suo Stato, una riforma sanitaria simile a quella che successivamente Obama ha proposto per l’intera America.

[132] “Social Security” è la denominazione del programma federale previdenziale.

[133] La curva di Laffer è una curva a campana che mette in relazione l’aliquota di imposta con le entrate fiscali, che l’economista dell’University of Southern California (California meridionale, Usa) impiegò per convincere l’allora candidato repubblicano alle presidenziali del 1980, Ronald Reagan, a diminuire le imposte dirette. Secondo l’aneddotica, Leffer presentò quella tesi economica disegnando una ‘curva’ su un tovagliolo, durante un pranzo con Reagan, impressionandolo molto.

[134] Dopo le elezioni di medio termine, i Repubblicani sono diventati maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, ma sono sempre minoranza al Senato.

[135] Chiaramente, “outsiders” significa letteralmente “gli esterni”. Ma in questo caso si intende stabilire un rapporto tra i militanti “interni” e gli altri, dunque semplicemente “simpatizzanti”.

[136] “to go off the deep end” significa “farsi coinvolgere emotivamente in una situazione”.

[137] “robo-signers” è il neologismo con il quale, negli anni recenti, sono stati indicati i moltissimi giovani laureati assunti a termine dalle banche per portare a compimento senza tanti scrupoli le procedure di pignoramento delle abitazioni.

[138] Lett. sarebbe in realtà “incasinata”.

[139] Rube Goldberg (1887-1970) , meglio conosciuto come Rube, è stato un autore di fumetti americano. Vinse il Pulitzer per la satira nel 1948. Era famoso per aver inserito nei suoi fumetti macchine complicatissime per operazioni elementari (come strumenti per distendere il dentifricio sugli spazzolini, o mezzi meccanici per pulirsi la bocca dopo pranzo).

[140] La differenza tra “policy” e “politics” è, in fondo, anche traducibile in italiano con la differenza tra la “politica delle cose” e “la politica politicante”.  La prima è espressione più generale (può essere adoperata anche per indicare un ‘genere’ di comportamenti tra loro relativamente organici, anche attinenti alle condotte individuali; oppure per indicare ‘programmi’, come nella espressione ‘politica della casa’); la seconda implica necessariamente un riferimento alle ‘istituzioni’ della politica (sedi rappresentative, Partiti etc.). Per queste ragioni traduco qua la prima con “scelte” e la seconda con “conseguenze politiche”, ovvero effetti sui rapporti politici.

[141] Il modello americano di Medicare – che pure Krugman difende per i suoi aspetti pubblicistici – è “uniquely privatized” (“esclusivamente privatizzato”) nel senso che funziona comunque attraverso operatori privatistici, ovvero non è un sistema sanitario interamente pubblico come in Inghilterra o in Italia. Il suo carattere pubblicistico consiste nel dipendere da un’unica modalità di finanziamento alimentata da un programma del Governo Federale.  Da questo punto di vista, la riforma approvata su iniziativa di Obama avrebbe introdotto alcune ulteriori modalità di carattere pubblicistico – ad esempio, nella forma di maggiori sussidi pubblici o  attraverso i controlli di efficacia di prestazioni e spese – che ne avrebbero rafforzato la natura di ‘programma pubblico’, sul modello di sistemi ‘misti’ quali quelli della Francia o del Canada.

[142] Era la parola d’ordine dei Repubblicani e del Tea Party contro la riforma sanitaria di Obama. La previsione, contenuta in quella riforma, di forme di contenimento dei costi nei casi di ‘accanimento terapeutico’, portò la destra ad una violenta campagna contro i ‘tribunali (o giurie) della morte’; ovvero contro la consegna ai ‘burocrati’ della decisione relativa alle cure terminali. C’è da dire che la questione non riguardava il diritto alle scelta delle cure, ma il fatto che ogni genere di assistenza fosse a carico del sistema pubblico. Tuttavia, secondo la destra, la riforma avrebbe consentito ai burocrati della sanità di “staccare la spina alla nonna”.

[143] Dalla frase successiva sembrerebbe che la virgola debba essere intesa come una congiunzione, anche se mi pare dubbio. Ma, in effetti, il senso del ragionamento successivo si perderebbe se la frase tra virgolette fosse interpretata con “Obama, i Repubblicani nella trappola di una rigida propaganda”.

[144] La “fata della fiducia” – che collodianamente abbiamo sempre tradotto con la “fata turchina” – fa parte del gergo krugmaniano dagli inizi della crisi finanziaria.

[145] “choke points”; lett. “punti strozzati”.

[146] “double-dip recession” significa un fenomeno di “abbassamento” si ripete per due volte in un medesimo ciclo economico (in un diagramma, avrebbe la forma di una W).

[147] “real”, oltre che “reale, effettivo, effettivamente esistente”, può avere il significato di “significativo, serio”, particolarmente in presenza di sostantivi espressivi (“real danger” o, appunto, “real threat”).

[148] In americano (informale) “on the hook for” (lett. “al gancio per”)  significa: “responsabile per”. “Off the hook”, dunque, “non responsabile per”

[149] Ronald Ernest “Ron” Paul (Pittsburgh, 20 agosto 1935) è un politico e medico ginecologo statunitense, del Partito Repubblicano.

[150] “to pivot” si dice di una azione, movimento che si sposta a partire e facendo leva su un perno centrale. Dunque è un termine che nasce dalla tecnologia, che è stato preso a prestito dal gergo sportivo per poi passare a quello giornalistico

[151] “to tell”, oltre che “comunicare (una informazione)”, ha anche il significato di “determinare correttamente o con certezza, percepire”.

[152] “chutzpah” è una espressione yiddish, specialmente newyorkese (“faccia tosta/faccia di bronzo” etc.)”.

[153] Vedi nota n. 2 a pag. 7.

[154] “on the heels”, in realtà, lett. “alla calcagna”.

[155] Come sempre, traduco “fiscal” come qualcosa di attinente alla “finanza pubblica” – e dunque sia alle entrate che alle uscite di una amministrazione -, perché “fiscale” in italiano, diversamente dall’inglese,  significherebbe soltanto ‘attinente alle tasse’.

[156] Vedi nota n. 129 a pag. 114.

[157] “small government” in America è una espressione che ha un significato più preciso, perché è reciproca del “big government” keynesiano, cioè del governo che mette in atto un forte intervento ed una forte spesa pubblica. Normalmente il governo è “small” se repubblicano e “big” se democratico. Ma nel confronto della frase successiva con il Massachusetts, erano repubblicani entrambi. In politica sanitaria, il Texas di Rick Perry è stato autenticamente conservatore, mentre il Massachusetts era all’epoca guidato da un governatore repubblicano ‘centrista’, Mitt Romney.

[158] Si riprende una polemica tradizionale di Krugman contro i repubblicani, che nel Massachusetts vararono in passato una legge sanitaria locale con caratteri simili a quella successivamente proposta all’intera nazione da Obama, che però venne giudicata dai Repubblicani, a quel punto egemonizzati dal Tea Party, come un affossamento dell’economia.

[159] E’ il soprannome del Texas, che con 696.241 km² è il più grande Stato dopo l’Alaska, mentre con 24.782.302 abitanti è il secondo più popoloso dopo la California. Capitale Austin, città più popolosa Houston.

[160] Spesso tra  l’inglese e l’italiano c’è una certa inversione nell’uso di “this … that” (“questo e quello”). Ad esempio, mi pare che nella frase sopra noi diremmo “quella opinione”, giacché è stata espressa nel testo ad una certa distanza, mentre l’uso di “questa” si giustificherebbe meglio se il riferimento fosse del tutto contiguo.

[161] Traduzione in toscano. “Duh” è una espressione, fortemente implementata dall’uso che ne fanno i piccoli Simpson, che corrisponde a “che stupido che sei”.

[162] Località turistica del Wyoming.

[163] E’ il termine tecnico che si utilizza per definire quella situazione, ovvero per indicare la potenziale condizione di una “trappola di liquidità”.

[164] Non è in contraddizione con il fatto che i tassi di interesse siano prossimi allo zero; questi ultimi sono quelli a breve termine, quelli sui bonds decennali sono un po’ superiori al 2 per cento (la ragione è che nel più lungo termine gli investitori suppongono, sia pure molto modestamente, che intervenga qualcosa di nuovo e dunque che l’acquisto di obbligazioni sul debito frutti un po’ di più. Abbassando quei tassi, dunque, non si farebbe la felicità degli investitori in obbligazioni, ma si aiuterebbero gli investitori reali ad avere prestiti dalle banche ancora meno costosi; con il che l’economia ne dovrebbe ricevere un impulso ed anche i tassi di interesse sulle obbligazioni salirebbero poi in modo più sostanziale).

[165] In questo contesto, per ‘falchi’ dell’inflazione non si intende ‘favorevoli ad una inflazione modestamente superiore’ – che è la sostanza delle misure che il Bernanke del 2000 suggeriva e che Krugman approverebbe; si intende invece la posizione di coloro che ritengono essere alle porte una seria minaccia inflazionistica, da scongiurare con una politica di restrizione monetaria e di austerità nella finanza pubblica.

[166] Per ‘acquisto del debito’ si intende ‘acquisto delle obbligazioni sul debito governativo’.

[167] Ovvero, il termine tecnico è poco significativo, se non un po’ scemo. Si definiscono “facilitazioni quantitative” gli acquisti diretti di obbligazioni a lungo termine, che normalmente le Banche Centrali non fanno, se non in situazioni eccezionali. E’ un “facilitazione” perché dovrebbe facilitare … ed è “quantitativa” perché riguarda la quantità degli acquisti. Ovvero, è una espressione che è tutto meno che fantasiosa.

[168] Ovvero della ‘agenda’ di consigli all’economia giapponese che Bernanke aveva indicato nel suo articolo del 2000.

[169] Vedi nota n. 155 a pag. 150.

[170] Una istituzione di ricerche sugli orientamenti anche elettorali dell’opinione pubblica.

[171] Joseph Welch era a capo dei consulenti legali dell’Esercito degli Stati Uniti che fu messo sotto inchiesta da Joseph McCarthy, che presiedeva la famosa  sottocommissione del Senato che indagava sulle cosiddette ‘attività dei comunisti’.

[172] Cantor è un eminente uomo politico repubblicano, eletto nel VII Distretto della Virginia alla Camera dei Rappresentanti. E’ capogruppo della maggioranza perché, come è noto, a seguito delle elezioni di ‘medio termine’ i Repubblicani hanno conquistato la maggioranza alla Camera.

[173] Lett. “paga appena vai/appena ti muovi”. Come si capisce dal seguito, il principio è quello di dare copertura nel bilancio corrente ad ogni spesa imprevista, con tagli proporzionali.

[174] Nel senso, ovviamente, dell’annullamento di ogni regola e criterio.

[175] L’espressione “inside-the-Beltway” significa letteralmente “all’interno della circonvallazione”, ed indica l’area della Capitale degli Stati Uniti nella quale si trovano concentrati gli uffici del potere politico, del Governo e del Congresso.

[176] “listening to the ranters” significa letteralmente “ascoltando coloro che parlano troppo a lungo”.

[177] Non sono riuscito a trovare una descrizione puntuale delle attività di questa società; ciononostante dalle numerosissime pagine di Internet si deduce che deve operare nella gestione di una rete di giornali e nelle ricerche, praticamente in tutto il mondo.

[178] La origine curiosa della espressione “set one’s hair in fire” (mette i propri capelli al fuoco) sembra essere in ambienti della marina e della aereonautica americana. Traduciamo con la più consueta immagine della casa che va a fuoco.

[179] Pare che l’espressione “worth one’s salt”, lett. “meritarsi il proprio salario” venga dal latino, (salario è la “razione di sale”). In senso più generale: “meritevole, all’altezza dei suoi compiti”.

[180] “L’espressione idiomatica “bang for the buck” – lett. “un bel colpo per il dollaro/per il portafoglio” – significa che con poco prezzo si può produrre un buon effetto.

[181] “Smoking”, di una sigaretta, significa “accesa”.

[182] Alcune settimane orsono il Governatore del Texas Perry ebbe a dire che se il Presidente della Fed avesse deliberato nuove misure espansive, se la sarebbe vista brutta nel caso fosse passato dalle parti del Texas.

[183] Il termine “Signore/signora” ha un uso assai inflazionato nel linguaggio americano; per questo ci limitiamo a tradurlo solo quando è indispensabile, o quando esprime in certo qual modo una formale “presa di distanza” dalla persona alla quale ci si riferisce, come in questo caso.

[184] La frase “and always have” non mi è chiara. Se non è saltata qualche parola, l’unica soluzione mi pare quella di darle questo senso: “e l’hanno sempre”, implicitamente riferendosi  al “bisogno” della assistenza medica ed intendendo “always” nel senso della ‘continuità’.

[185] In inglese – e in particolare nel linguaggio politico americano, dove è una espressione assai significativa – “compassion” significa un “atteggiamento di condivisione fondato sulla pietà e sulla preoccupazione per le sofferenze e le sfortune altrui”. Letteralmente è “compassione”, che però nella nostra cultura politica sarebbe un concetto meno probabile, venato com’è da significati di sufficienza, commiserazione se non riprovazione. E’ un tema interessante. Per gli americani i poveri esistono, e magari non c’è niente di male perché sono una faccia della ‘libertà’; per noi non dovrebbero esistere, ma se esistono prevale la tentazione di commiserarli. Di conseguenza, per loro ‘compatire’ è una delle forme della politica; per noi sarebbe un po’ come ‘sfottere’.

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