Articoli sul NYT

Articoli sul New York Times dal 10 maggio 2012 al 21 giugno 2012

Easy Useless EconomicsBy PAUL KRUGMANPublished: May 10, 2012 A few days ago, I read an authoritative-sounding paper in The American Economic Review, one of the leading journals in the field, arguing at length that the nation’s high unemployment rate had deep structural roots and wasn’t amenable to any quick solution. The author’s diagnosis was that the U.S. economy just wasn’t flexible enough to cope with rapid technological change. The paper was especially critical of programs like unemployment insurance, which it argued actually hurt workers because they reduced the incentive to adjust.

 

 

O.K., there’s something I didn’t tell you: The paper in question was published in June 1939. Just a few months later, World War II broke out, and the United States — though not yet at war itself — began a large military buildup, finally providing fiscal stimulus on a scale commensurate with the depth of the slump. And, in the two years after that article about the impossibility of rapid job creation was published, U.S. nonfarm employment rose 20 percent — the equivalent of creating 26 million jobs today.

 

So now we’re in another depression, not as bad as the last one, but bad enough. And, once again, authoritative-sounding figures insist that our problems are “structural,” that they can’t be fixed quickly. We must focus on the long run, such people say, believing that they are being responsible. But the reality is that they’re being deeply irresponsible.

What does it mean to say that we have a structural unemployment problem? The usual version involves the claim that American workers are stuck in the wrong industries or with the wrong skills. A widely cited recent article by Raghuram Rajan of the University of Chicago asserts that the problem is the need to move workers out of the “bloated” housing, finance and government sectors.

 

Actually, government employment per capita has been more or less flat for decades, but never mind — the main point is that contrary to what such stories suggest, job losses since the crisis began haven’t mainly been in industries that arguably got too big in the bubble years. Instead, the economy has bled jobs across the board, in just about every sector and every occupation, just as it did in the 1930s. Also, if the problem was that many workers have the wrong skills or are in the wrong place, you’d expect workers with the right skills in the right place to be getting big wage increases; in reality, there are very few winners in the work force.

 

 

All of this strongly suggests that we’re suffering not from the teething pains of some kind of structural transition that must gradually run its course but rather from an overall lack of sufficient demand — the kind of lack that could and should be cured quickly with government programs designed to boost spending.

So what’s with the obsessive push to declare our problems “structural”? And, yes, I mean obsessive. Economists have been debating this issue for several years, and the structuralistas won’t take no for an answer, no matter how much contrary evidence is presented.

The answer, I’d suggest, lies in the way claims that our problems are deep and structural offer an excuse for not acting, for doing nothing to alleviate the plight of the unemployed.

Of course, structuralistas say they are not making excuses. They say that their real point is that we should focus not on quick fixes but on the long run — although it’s usually far from clear what, exactly, the long-run policy is supposed to be, other than the fact that it involves inflicting pain on workers and the poor.

Anyway, John Maynard Keynes had these peoples’ number more than 80 years ago. “But this long run,” he wrote, “is a misleading guide to current affairs. In the long run we are all dead. Economists set themselves too easy, too useless a task if in tempestuous seasons they can only tell us that when the storm is long past the sea is flat again.”

I would only add that inventing reasons not to do anything about current unemployment isn’t just cruel and wasteful, it’s bad long-run policy, too. For there is growing evidence that the corrosive effects of high unemployment will cast a shadow over the economy for many years to come. Every time some self-important politician or pundit starts going on about how deficits are a burden on the next generation, remember that the biggest problem facing young Americans today isn’t the future burden of debt — a burden, by the way, that premature spending cuts probably make worse, not better. It is, rather, the lack of jobs, which is preventing many graduates from getting started on their working lives.

So all this talk about structural unemployment isn’t about facing up to our real problems; it’s about avoiding them, and taking the easy, useless way out. And it’s time for it to stop.

 

Economia facile e inutile, di Paul Krugman

New York Times 10 maggio 2012

 

Pochi giorni fa leggevo un apparentemente autorevole saggio su The American Economic Review, una delle riviste di punta nel settore, che sosteneva sin nei dettagli come l’elevato tasso di disoccupazione nazionale avesse profonde radici strutturali e non fosse suscettibile di una qualsiasi rapida soluzione. La diagnosi dell’autore era che l’economia degli Stati Uniti non è proprio sufficientemente flessibile per far fronte al rapido cambiamento delle tecnologie. In particolare il saggio era critico nei confronti di programmi come la assicurazione per la disoccupazione, che ad avviso dell’autore farebbero del male ai lavoratori, riducendo l’incentivo ad adattarsi.

E’ vero, c’è qualcosa che non vi ho detto: il saggio in questione fu pubblicato nel giugno del 1939. Appena pochi mesi dopo ebbe inizio la Seconda Guerra Mondiale e gli Stati Uniti – sebbene non ancora direttamente coinvolti nella guerra – diedero inizio ad un vasto sforzo militare, alla fine fornendo un sostegno di finanza pubblica di dimensioni adeguate alla profondità della depressione. E nei due anni successivi alla pubblicazione di quell’articolo sulla impossibilità di una rapida creazione di posti di lavoro, l’occupazione non agricola crebbe del 20 per cento – l’equivalente della creazione di 26 milioni di posti di lavoro al giorno d’oggi.

Si, oggi siamo in una depressione diversa, non così negativa come quella di allora, ma grave a sufficienza. E ancora una volta personaggi apparentemente autorevoli ribadiscono che i nostri problemi sono “strutturali”, che non possono essere risolti rapidamente. Dobbiamo concentrarci sul lungo periodo, dicono quelle persone, credendo di essere responsabili. Eppure la realtà è che sono profondamente irresponsabili.

Cosa significa dire che abbiamo un problema di disoccupazione strutturale? La versione comune implica la pretesa che i lavoratori americani siano bloccati nelle industrie sbagliate e siano dotati delle competenze sbagliate. Un recente articolo ampiamente citato di Raghuram Rajan dell’Università di Chicago, afferma che il problema consiste nella necessità di spostare i lavoratori fuori dai settori “gonfiati” dell’edilizia, della finanza e del pubblico impiego.

In effetti, l’occupazione pubblica sul complesso della popolazione è stata più o meno stagnante per decenni, ma non è questo il punto; il punto principale è che contrariamente a quello che suggeriscono quelle ricostruzioni, i posti di lavoro persi dall’inizio della crisi non sono stati principalmente nei settori che si suppone fossero diventati troppo grandi negli anni della bolla. Piuttosto, l’economia ha subito un salasso di posti di lavoro un po’ dappertutto, precisamente in ogni settore ed in ogni mansione, proprio come fece negli anni Trenta. Inoltre, se il problema fosse che molti lavoratori hanno competenze inutili o sono nei posti sbagliati, ci si aspetterebbe che lavoratori con le competenze giuste e nei posti giusti ottengano notevoli incrementi di salario; mentre nel mondo del lavoro i vincitori sono davvero pochi.

Tutto questo indica con forza che non stiamo soffrendo dei prodromi [1] di una qualche transizione strutturale che deve gradualmente fare il suo corso, ma piuttosto di una carenza generale di adeguata domanda – il genere di carenza che dovrebbe e potrebbe essere curata con programmi governativi rivolti ad incoraggiare la spesa pubblica.

Dunque, cos’è questa spinta ossessiva a sostenere che abbiamo problemi “strutturali”? Intendo per davvero  ‘ossessiva’. Gli economisti hanno discusso su quel tema per svariati anni, e gli ‘strutturalisti’ non vorranno negarlo, per non dire delle prove contrarie sono state addotte.

 

La risposta che suggerirei sta nel fatto che pretendere che i nostri problemi siano profondi e strutturali offre una scusa per non agire, per non far niente per alleviare la condizione dei disoccupati.

Naturalmente, gli ‘strutturalisti’ dicono di non accampare scusanti. Sostengono che il loro argomento è che non dovremmo concentrarci sui rimedi immediati ma sul lungo periodo – sebbene di solito sia tutt’altro che chiaro cosa esattamente si intenda per politica del lungo periodo, se non il fatto che abbia a che fare con altra sofferenza sui lavoratori e sulla povera gente.

In ogni modo, John Maynard Keynes , più di 80 anni fa, sapeva come rivolgersi a queste persone. “Ma questo lungo periodo”, scrisse “è un indirizzo fuorviante per i problemi dell’oggi. Nel lungo periodo saremo tutti morti. Gli economisti si dispongono ad un compito troppo semplice e del tutto inutile se nelle stagioni tempestose sanno solo dirci che quando la tempesta sarà lontana, l’oceano tornerà calmo”.

Vorrei solo aggiungere che inventare motivi per non far niente sulla disoccupazione attuale non è solo crudele e distruttivo, è anche una cattiva politica in prospettiva. Giacché c’è una crescente evidenza che gli effetti corrosivi della elevata disoccupazione getterà un’ombra sull’economia per molti anni avvenire. Tutte le volte che politici o esperti pieni di considerazione per se stessi partono con il ritornello su come i deficit siano un fardello sulle future generazioni, ricordate  che il più grande problema dinanzi al quale si trovano i giovani americani di oggi non è il futuro peso del debito – un peso, per inciso, che frettolosi tagli alla spesa pubblica rendono peggiore, non migliore. E’ piuttosto la mancanza di posti di lavoro, che sta impedendo a molti laureati di partire con la loro esperienza del lavoro.

Dunque, tutto questo parlare di disoccupazione strutturale non riguarda il fare i conti con i nostri problemi reali; è un modo per evitarli, una facile ed inutile scappatoia. Ed è il momento di smetterla.

 

 

 

 

 

 

 

Why We Regulate

By PAUL KRUGMAN
Published: May 13, 2012

 

One of the characters in the classic 1939 film “Stagecoach” is a banker named Gatewood who lectures his captive audience on the evils of big government, especially bank regulation — “As if we bankers don’t know how to run our own banks!” he exclaims. As the film progresses, we learn that Gatewood is in fact skipping town with a satchel full of embezzled cash.

 

As far as we know, Jamie Dimon, the chairman and C.E.O. of JPMorgan Chase, isn’t planning anything similar. He has, however, been fond of giving Gatewood-like speeches about how he and his colleagues know what they’re doing, and don’t need the government looking over their shoulders. So there’s a large heap of poetic justice — and a major policy lesson — in JPMorgan’s shock announcement that it somehow managed to lose $2 billion in a failed bit of financial wheeling-dealing.

 

Just to be clear, businessmen are human — although the Lords of finance have a tendency to forget that — and they make money-losing mistakes all the time. That in itself is no reason for the government to get involved. But banks are special, because the risks they take are borne, in large part, by taxpayers and the economy as a whole. And what JPMorgan has just demonstrated is that even supposedly smart bankers must be sharply limited in the kinds of risk they’re allowed to take on.

 

Why, exactly, are banks special? Because history tells us that banking is and always has been subject to occasional destructive “panics,” which can wreak havoc with the economy as a whole. Current right-wing mythology has it that bad banking is always the result of government intervention, whether from the Federal Reserve or meddling liberals in Congress. In fact, however, Gilded Age America — a land with minimal government and no Fed — was subject to panics roughly once every six years. And some of these panics inflicted major economic losses.

 

So what can be done? In the 1930s, after the mother of all banking panics, we arrived at a workable solution, involving both guarantees and oversight. On one side, the scope for panic was limited via government-backed deposit insurance; on the other, banks were subject to regulations intended to keep them from abusing the privileged status they derived from deposit insurance, which is in effect a government guarantee of their debts. Most notably, banks with government-guaranteed deposits weren’t allowed to engage in the often risky speculation characteristic of investment banks like Lehman Brothers.

 

This system gave us half a century of relative financial stability. Eventually, however, the lessons of history were forgotten. New forms of banking without government guarantees proliferated, while both conventional and newfangled banks were allowed to take on ever-greater risks. Sure enough, we eventually suffered the 21st-century version of a Gilded Age banking panic, with terrible consequences.

 

It’s clear, then, that we need to restore the sorts of safeguards that gave us a couple of generations without major banking panics. It’s clear, that is, to everyone except bankers and the politicians they bankroll — for now that they have been bailed out, the bankers would of course like to go back to business as usual. Did I mention that Wall Street is giving vast sums to Mitt Romney, who has promised to repeal recent financial reforms?

 

Enter Mr. Dimon. JPMorgan, to its — and his — credit, managed to avoid many of the bad investments that brought other banks to their knees. This apparent demonstration of prudence has made Mr. Dimon the point man in Wall Street’s fight to delay, water down and/or repeal financial reform. He has been particularly vocal in his opposition to the so-called Volcker Rule, which would prevent banks with government-guaranteed deposits from engaging in “proprietary trading,” basically speculating with depositors’ money. Just trust us, the JPMorgan chief has in effect been saying; everything’s under control.

 

Apparently not.

What did JPMorgan actually do? As far as we can tell, it used the market for derivatives — complex financial instruments — to make a huge bet on the safety of corporate debt, something like the bets that the insurer A.I.G. made on housing debt a few years ago. The key point is not that the bet went bad; it is that institutions playing a key role in the financial system have no business making such bets, least of all when those institutions are backed by taxpayer guarantees.

 

For the moment Mr. Dimon seems chastened, even admitting that maybe the proponents of stronger regulation have a point. It probably won’t last; I expect Wall Street to be back to its usual arrogance within weeks if not days.

 

But the truth is that we’ve just seen an object demonstration of why Wall Street does, in fact, need to be regulated. Thank you, Mr. Dimon.

 

Perché darsi regole, di Paul Krugman

New York Times 13 maggio 2012

 

 

 

Uno dei personaggi nel film classico del 1939 “Stagecoach” [2] è un banchiere di nome Gatewood,  che ammannisce al suo pubblico involontario paternali sui mali del ‘grande governo’, in particolare sulla regolamentazione delle banche – “Come se noi banchieri non sapessimo come amministrare le nostre banche!” esclama. Con il procedere del film, si viene a sapere che Gatewood di fatto se la sta svignando dalla città con una borsa a tracolla piena di soldi trafugati.

Per quanto si sa, Jamie Dimon, il presidente ed amministratore delegato della JP Morgan Chase, non ha in programma niente del genere. Tuttavia ha la passione per i discorsi alla “Gatewood”, su come lui ed i suoi colleghi sanno quello che fanno e non hanno bisogno che il Governo li controlli da dietro le spalle. Appartiene dunque al genere letterario dei racconti di giustizia [3] – e contiene una importante lezione politica – l’annuncio shock di JP Morgan secondo il quale la banca sarebbe in qualche modo riuscita a perdere 2 miliardi di dollari in un storia di intrallazzi finanziari.

Diciamolo, gli uomini d’affari sono esseri umani – sebbene i lorsignori della finanza abbiano una tendenza a dimenticarsene – e fanno di continuo sbagli dispendiosi. In sé quella non sarebbe una ragione per coinvolgere il Governo. Ma le banche hanno una specialità, giacché i loro rischi sono sopportati in larga parte dai contribuenti e dall’economia nel suo complesso. E quello che JP Morgan ha appena dimostrato è che anche ai banchieri che si suppongono intelligenti deve essere messo un limite, quanto al genere di rischi che sono loro consentiti.

 

Perché le banche sono speciali? Perché la storia ci dice che il sistema bancario è sempre stato ed è soggetto ad occasionali e distruttive crisi di “panico”, che possono avere effetti devastanti per l’economia intera. La odierna mitologia della destra consiste nell’idea che cattive operazioni bancarie siano sempre il risultato dell’intervento statale, che si tratti della Federal Reserve o delle ingerenze dei deputati progressisti. Nei fatti, tuttavia, l’America dell’Età dell’oro – un paese con lo Stato ai minimi termini e senza banca centrale – era soggetta a crisi di panico all’incirca un anno su sei. E alcune di queste crisi di panico comportarono rilevanti perdite economiche.

Dunque, cosa si può fare? Negli anni Trenta, a seguito della madre di tutte le crisi di panico, si giunse ad una soluzione ragionevole, con effetti sia sulle garanzie che sui fenomeni di negligenza. Da una parte, la dimensione delle crisi di panico fu limitata attraverso l’assicurazione sui depositi con la copertura dello Stato; dall’altra, le banche vennero sottoposte a regole con lo scopo di impedire che abusassero della condizione privilegiata di cui godevano in conseguenza della assicurazione sui depositi, che altro non è se non una garanzia statale sui loro debiti. Più in particolare, alle banche con depositi garantiti dallo Stato non fu consentito di impegnarsi nelle speculazioni spesso rischiose caratteristiche delle banche di investimento come Lehman Brothers.

Questo sistema ci regalò mezzo secolo di relativa stabilità finanziaria. Alla fine, tuttavia, le lezioni della storia vennero dimenticate. Proliferarono nuove forme di attività bancarie prive delle garanzie statali, mentre veniva concesso sia alle banche convenzionali che a quelle di nuova concezione di assumere rischi sempre maggiori. Come si poteva prevedere, alla fine dovemmo sopportare la nostra versione del ventunesimo secolo delle crisi di panico bancario dell’Età dell’Oro, con conseguenze terribili.

E’ chiaro, dunque, che abbiamo bisogno di ripristinare quel genere di salvaguardie che per due generazioni ci misero al riparo da crisi importanti di panico bancario. Per meglio dire, è chiaro a tutti meno che ai banchieri ed agli uomini politici che essi foraggiano – giacché ora che sono stati messi in salvo, ai banchieri naturalmente farebbe piacere tornare ai soliti affari. Devo ricordare che Wall Street sta regalando grandi somme a Mitt Romney, il quale si è impegnato ad abrogare le recenti riforme della finanza?

Ed ora occupiamoci del signor Dimon. La JP Morgan, a suo merito ed a merito del suddetto, aveva cercato di evitare molti di quei pessimi investimenti che misero le altre banche in ginocchio. Questa apparente dimostrazione di prudenza ha fatto del Signor Dimon l’uomo di punta nella battaglia di Wall Street per cancellare, annacquare e/o abrogare la riforma finanziaria. Egli in particolare è stato esplicito nella opposizione alla cosiddetta “Regola Volcker” [4], che impedirebbe alle banche con depositi garantiti dallo Stato di impegnarsi in negoziazioni ‘con mezzi propri’ [5], in sostanza speculando con i soldi dei depositanti. Potete crederci, il capo dell JP Morgan effettivamente ripeteva: tutto è sotto controllo.

Sembra che così non fosse.

Cosa aveva effettivamente fatto JP Morgan? Da quanto si può arguire, essa usava il mercato dei ‘derivati’ – strumenti finanziari complessi – per fare una grande scommessa sulla sicurezza del debito delle società, qualcosa di simile alle scommesse che la società assicuratrice AIG faceva sui debiti immobiliari pochi anni orsono. L’aspetto cruciale non è che queste scommesse  siano andate male, ma che questi istituti che giocano un ruolo chiave nel sistema finanziario non hanno affari che gli consentano di fare scommesse del genere, meno che mai quando questi istituti sono garantiti dai contribuenti.

Per il momento sembra che il signor Dimon sia messo a freno, ammette persino che forse i proponenti di una regolamentazione più severa hanno ragione. Probabilmente non durerà; mi aspetto che Wall Street torni alla sua consueta arroganza in poche settimane se non giorni.

Ma la verità è che abbiamo appena constatato una dimostrazione oggettiva della ragione per cui Wall Street ha, nei fatti, davvero bisogno di essere regolata. Grazie, signor Dimon.

 

 

 

 

 

 

 

Apocalypse Fairly Soon

By PAUL KRUGMAN
Published: May 17, 2012 627 Comments

Suddenly, it has become easy to see how the euro — that grand, flawed experiment in monetary union without political union — could come apart at the seams. We’re not talking about a distant prospect, either. Things could fall apart with stunning speed, in a matter of months, not years. And the costs — both economic and, arguably even more important, political — could be huge.

 

This doesn’t have to happen; the euro (or at least most of it) could still be saved. But this will require that European leaders, especially in Germany and at the European Central Bank, start acting very differently from the way they’ve acted these past few years. They need to stop moralizing and deal with reality; they need to stop temporizing and, for once, get ahead of the curve.

I wish I could say that I was optimistic.

The story so far: When the euro came into existence, there was a great wave of optimism in Europe — and that, it turned out, was the worst thing that could have happened. Money poured into Spain and other nations, which were now seen as safe investments; this flood of capital fueled huge housing bubbles and huge trade deficits. Then, with the financial crisis of 2008, the flood dried up, causing severe slumps in the very nations that had boomed before.

 

At that point, Europe’s lack of political union became a severe liability. Florida and Spain both had housing bubbles, but when Florida’s bubble burst, retirees could still count on getting their Social Security and Medicare checks from Washington. Spain receives no comparable support. So the burst bubble turned into a fiscal crisis, too.

 

Europe’s answer has been austerity: savage spending cuts in an attempt to reassure bond markets. Yet as any sensible economist could have told you (and we did, we did), these cuts deepened the depression in Europe’s troubled economies, which both further undermined investor confidence and led to growing political instability.

 

And now comes the moment of truth.

Greece is, for the moment, the focal point. Voters who are understandably angry at policies that have produced 22 percent unemployment — more than 50 percent among the young — turned on the parties enforcing those policies. And because the entire Greek political establishment was, in effect, bullied into endorsing a doomed economic orthodoxy, the result of voter revulsion has been rising power for extremists. Even if the polls are wrong and the governing coalition somehow ekes out a majority in the next round of voting, this game is basically up: Greece won’t, can’t pursue the policies that Germany and the European Central Bank are demanding.

 

So now what? Right now, Greece is experiencing what’s being called a “bank jog” — a somewhat slow-motion bank run, as more and more depositors pull out their cash in anticipation of a possible Greek exit from the euro. Europe’s central bank is, in effect, financing this bank run by lending Greece the necessary euros; if and (probably) when the central bank decides it can lend no more, Greece will be forced to abandon the euro and issue its own currency again.

 

 

This demonstration that the euro is, in fact, reversible would lead, in turn, to runs on Spanish and Italian banks. Once again the European Central Bank would have to choose whether to provide open-ended financing; if it were to say no, the euro as a whole would blow up.

Yet financing isn’t enough. Italy and, in particular, Spain must be offered hope — an economic environment in which they have some reasonable prospect of emerging from austerity and depression. Realistically, the only way to provide such an environment would be for the central bank to drop its obsession with price stability, to accept and indeed encourage several years of 3 percent or 4 percent inflation in Europe (and more than that in Germany).

Both the central bankers and the Germans hate this idea, but it’s the only plausible way the euro might be saved. For the past two-and-a-half years, European leaders have responded to crisis with half-measures that buy time, yet they have made no use of that time. Now time has run out.

So will Europe finally rise to the occasion? Let’s hope so — and not just because a euro breakup would have negative ripple effects throughout the world. For the biggest costs of European policy failure would probably be political.

Think of it this way: Failure of the euro would amount to a huge defeat for the broader European project, the attempt to bring peace, prosperity and democracy to a continent with a terrible history. It would also have much the same effect that the failure of austerity is having in Greece, discrediting the political mainstream and empowering extremists.

All of us, then, have a big stake in European success — yet it’s up to the Europeans themselves to deliver that success. The whole world is waiting to see whether they’re up to the task.

 

Tra non molto, un’Apocalisse, di Paul Krugman

New York Times 17 maggio 2012

All’improvviso, è diventato facile vedere come l’euro – il grande ma difettoso esperimento di una unione monetaria assieme ad un’unione politica – potrebbe andare a pezzi. Non stiamo neppure parlando di una lunga prospettiva. Le cose potrebbero andare a pezzi con una velocità sensazionale, questione di mesi, non di anni. E i costi – sia quelli economici che, senza dubbio ancora più importanti, quelli politici – potrebbero essere enormi.

Non è inevitabile: l’euro (almeno in gran parte) potrebbe ancora essere salvato. Ma questo richiederà che i dirigenti europei, specialmente in Germania e presso la Banca Centrale Europea, comincino ad agire in modo del tutto diverso da come hanno fatto in questi ultimi anni. Devono smettere di fare moralismi e misurarsi con la realtà; devono smettere di prendere tempo e, per una volta, anticipare gli eventi.

 

Vorrei poter dire che sono ottimista.

Sinora la storia è stata questa: quando nacque l’euro, ci fu una grande ondata di ottimismo in Europa – e quella, si scoprì in seguito, era la cosa peggiore che potesse accadere. Il denaro invase la Spagna ed altre nazioni, che a quel punto vennero considerate come investimenti sicuri; questo flusso di capitali alimentò ampie bolle immobiliari e grandi deficit commerciali. Poi, con la crisi finanziaria del 2008, quei flussi si essiccarono, provocando gravi crisi in quelle stesse nazioni che avevano sperimentato la grande espansione precedente.

A quel punto, i limiti dell’unione politica dell’Europa divennero un grave inconveniente. La Florida e la Spagna avevano avuto entrambe bolle immobiliari, ma quando la bolla scoppiò in Florida, i pensionati potevano ancora contare sugli assegni della Previdenza sociale e di Medicare che venivano da Washington, mentre la Spagna non aveva nessun sostegno del genere. In questo modo lo scoppio della bolla si trasformò anche in una crisi delle finanze pubbliche.

 

 

La risposta dell’Europa fu l’austerità: tagli indiscriminati alla spesa pubblica nel tentativo di rassicurare i mercati obbligazionari. Eppure qualsiasi ragionevole economista avrebbe potuto dire (e noi lo dicemmo sicuramente) che questi tagli avrebbero approfondito la depressione nelle economie europee in crisi, la qualcosa avrebbe ulteriormente messo a repentaglio la fiducia degli investitori ed accresciuto l’instabilità politica.

Oggi siamo al momento della verità.

La Grecia per il momento è il punto focale. Gli elettori, che sono comprensibilmente adirati con le politiche che hanno prodotto una disoccupazione del 22 per cento – più del 50 per cento tra i giovani – si sono rivoltati contro i partiti che hanno imposto quelle politiche. E poiché l’intero establishment politico greco fu, in buona sostanza, costretto a sostenere una fatale ortodossia economica, il risultato della repulsione degli elettori è stato un potere crescente alle formazioni estreme. Anche se i sondaggi fossero sbagliati e la coalizione di governo in qualche modo riuscisse ad ottenere una maggioranza nel prossimo turno elettorale, questa partita è fondamentalmente conclusa: la Grecia non può e non vorrà proseguire le politiche che sono chieste dalla Germania e dalla Banca Centrale Europea.

Cosa sta accadendo, dunque? In Grecia è in corso quella che viene chiamato un “bank jog[6] – una specie di assalto agli sportelli al rallentatore, nel mentre un numero crescente di depositanti ritira i propri contanti in anticipo rispetto ad una possibile uscita greca dall’euro. Nei fatti, la Banca Centrale Europea sta finanziando questa corsa alle banche prestando alla Grecia gli euro necessari; se e (probabilmente) quando la banca centrale deciderà che non può concedere altri prestiti, la Grecia sarà costretta ad abbandonare l’euro e a mettere in corso nuovamente una propria moneta nazionale.

 

 Questa pratica dimostrazione della reversibilità dell’euro comporterà, a sua volta, la corsa alle banche spagnole ed italiane. Nuovamente la Banca Centrale Europea dovrà scegliere se fornire un finanziamento illimitato; se dicesse di no, l’euro in quanto tale salterebbe in aria.

Tuttavia quel finanziamento non sarà sufficiente. All’Italia e, in particolare, alla Spagna deve essere offerta una speranza – un contesto economico nel quale abbiano qualche ragionevole prospettiva di venir fuori dall’austerità e dalla recessione. L’unico modo realistico per la banca centrale per fornire un tale contesto sarebbe quello di mettere da parte la propria ossessione per la stabilità dei prezzi, accettare ed anzi incoraggiare alcuni anni di inflazione al 3 o al 4 per cento in Europa (e ancora maggiore in Germania).

Sia i banchieri centrali che i tedeschi aborriscono quest’idea, ma essa è l’unico modo plausibile nel quale l’euro potrebbe essere salvato. Nei due anni e mezzo passati, i dirigenti europei hanno risposto alla crisi con mezze misure per guadagnare tempo, ma di quel tempo non hanno fatto alcun uso. Ora il tempo è scaduto.

Sarà, dunque, l’Europa finalmente all’altezza della situazione? Possiamo sperarlo – e non solo perché un crollo dell’euro alzerebbe un’onda tale da provocare effetti dappertutto nel mondo, ma perché i maggiori costi del fallimento del progetto europeo sarebbero probabilmente politici.

Si rifletta su questo: il fallimento dell’euro equivarrebbe ad una disfatta del più generale progetto europeo, il tentativo di portare pace, prosperità e democrazia in un continente con una storia terribile. Avrebbe anche in buona misura lo stesso effetto che il fallimento dell’austerità sta avendo in Grecia, screditerebbe le principali correnti politiche e rafforzerebbe gli estremismi.

Abbiamo tutti una grande posta in gioco sulle possibilità di riuscita dell’Europa – tuttavia tocca agli stessi europei decidere di quel successo. Il mondo intero sta aspettando di vedere se saranno all’altezza del compito.  

 

 

 

Dimon’s Déjà Vu Debacle

By PAUL KRUGMAN
Published: May 20, 2012 25 Comments

Sometimes it’s hard to explain why we need strong financial regulation — especially in an era saturated with pro-business, pro-market propaganda. So we should always be grateful when someone makes the case for regulation more compelling and easier to understand. And this week, that means offering a special shout-out to two men: Jamie Dimon and Mitt Romney.

 

I’ll come back shortly to the troubles at JPMorgan Chase, the bank Mr. Dimon runs. First, however, let me talk about Mr. Romney, whose remarks about those troubles were so off-point that they constitute a teachable moment.

Here’s what the presumptive Republican presidential nominee said about JPMorgan’s $2 billion loss (which may actually have been $3 billion, or $5 billion, or more, but who’s counting?): “This was a loss to shareholders and owners of JPMorgan and that’s the way America works. Some people experienced a loss in this case because of a bad decision. By the way, there was someone who made a gain.”

What’s wrong with this statement? Well, suppose that someone — say, Jimmy Stewart in the movie “It’s a Wonderful Life” — runs a bank that takes in deposits and invests the money in various ways. And suppose that one of those investments is a risky bet on some complex financial instrument, with Mr. Potter, the evil plutocrat, on the other side.

 

If Jimmy Stewart’s bet pays off, we’re in Romneyworld: he’s made money, Mr. Potter has lost money, and that’s that. But suppose Jimmy Stewart loses his bet. If the bet was big enough, he no longer has enough assets to pay off his depositors. His bank collapses, probably in a chaotic bank run that takes down the whole town’s economy as collateral damage. Mr. Potter makes money on the deal, but so what?

 

The point is that it’s not O.K. for banks to take the kinds of risks that are acceptable for individuals, because when banks take on too much risk they put the whole economy in jeopardy — unless they can count on being bailed out. And the prospect of such bailouts, of course, only strengthens the case that banks shouldn’t be allowed to run wild, since they are in effect gambling with taxpayers’ money.

Incidentally, how is it possible that Mr. Romney doesn’t understand all of this? His whole candidacy is based on the claim that his experience at extracting money from troubled businesses means that he’ll know how to run the economy — yet whenever he talks about economic policy, he comes across as completely clueless.

Anyway, it goes without saying that Jamie Dimon is no Jimmy Stewart. But he has, in a way, been playing Jimmy Stewart on TV, posing as a responsible banker who knows how to manage risk — and therefore the point man in Wall Street’s fight to block any tightening of regulations despite the immense damage deregulated banks have already inflicted on our economy. Trust us, Mr. Dimon has in effect been saying, we’ve got this covered and it won’t happen again.

 

Now the truth is coming out. That multibillion-dollar loss wasn’t an isolated event; it was an accident waiting to happen. For even as Mr. Dimon was giving speeches about responsible banking, his own institution was heaping on the risk. “The unit at the center of JPMorgan’s $2 billion trading loss,” reports The Financial Times, “has built up positions totaling more than $100 billion in asset-backed securities and structured products — the complex, risky bonds at the center of the financial crisis in 2008. These holdings are in addition to those in credit derivatives which led to the losses.”

 

 

And what was going on as these positions were being accumulated? According to a fascinating report in Sunday’s Times, the reality behind JPMorgan’s facade of competence was a scene all too reminiscent of the behavior that brought down firms like A.I.G. in 2008: arrogant executives shouting down anyone who tried to question their activities, top management that didn’t ask questions as long as the money kept rolling in. It really is déjà vu all over again.

The point, again, is that an institution like JPMorgan — a too-big-to-fail bank, not to mention a bank whose deposits are already guaranteed by U.S. taxpayers — shouldn’t be engaged in this kind of speculative investment at all. And that’s why we need a return to much stronger financial regulation, stronger even than the Dodd-Frank regulations passed back in 2010.

 

Will we get that kind of regulation? Not if Mr. Romney wins, obviously; he wants to repeal Dodd-Frank, and in general has made it clear that he would do everything in his power to set us up for another financial crisis. Even if President Obama is re-elected, getting the kind of regulation we need will be an uphill struggle. But as Mr. Dimon’s debacle has just demonstrated, that struggle remains as necessary as ever.

 

La debacle déjà vu di Dimon, di Paul Krugman

20 maggio 2012

Qualche volta è difficile spiegare perché abbiamo bisogno di una forte regolamentazione finanziaria – specialmente in un periodo saturo di propaganda a favore dell’impresa e del mercato. Dovremmo dunque essere riconoscenti quando qualcuno offre l’occasione per rendere il tema della regolamentazione più impellente e più facile da comprendere. Il che significa che questa settimana dobbiamo un pubblico ringraziamento a due uomini: Jamie Dimon e Mitt Romney.

Verrò subito ai guai della JPMorgan Chase, la banca amministrata dal signor Dimon. In primo luogo vorrei, tuttavia, parlare di Mitt Romney, le cui notazioni a proposito di quei guai sono state così fuori luogo da costituire un episodio istruttivo.

Ecco cosa ha detto il presunto candidato repubblicano alle presidenziali a proposito della perdita di 2 miliardi di dollari (che in effetti potrebbero essere 3 miliardi o 5 miliardi o ancora di più, se qualcuno facesse i conti): “Questa è stata una perdita per gli azionisti ed i proprietari della JPMorgan, ed è questo il modo in cui funziona l’America. Nel caso in questione, alcune persone si sono imbattute in una perdita, a causa di una decisione sbagliata. Naturalmente, c’è stato chi ci ha guadagnato”.

Cosa c’è di sbagliato in questo discorso? Ebbene, supponiamo che qualcuno – diciamo il Jimmy Stewart del film “La vita è meravigliosa” [7]– gestisca una banca che in vari modi tiene soldi in deposito e li investe. E supponiamo che uno di quegli investimenti sia una scommessa rischiosa su qualche complicato strumento finanziario, e che dall’altra parte ci sia il signor Potter, il malefico plutocrate.

Se la scommessa di Jimmy Stewart viene ripagata, siamo nel mondo di Romney: lui guadagna denaro e il signor Potter lo perde. Ma supponiamo che Jimmy Stewart perda la sua scommessa. Se la scommessa era abbastanza grande, egli non avrà sufficienti assets per ripagare i depositanti. La sua banca va al collasso, probabilmente in una caotica corsa agli sportelli che abbatte come danno collaterale l’intera economia della cittadina. In quell’affare il signor Potter ci guadagna, ma poi che succede?

Il punto è che non è accettabile che le banche assumano quel genere di rischi che sono ammissibili per le persone singole, perché quando le banche corrono rischi troppo grandi mettono a repentaglio l’intera economia – a meno che esse non possano contare su salvataggi. E la prospettiva di tali salvataggi, ovviamente, non può far altro che rafforzare l’argomento per il quale non dovrebbe essere loro consentito di non aver limiti, dato che stanno in effetti scommettendo con i soldi dei contribuenti.

Tra parentesi, come è possibile che Romney non arrivi proprio a capirlo? Tutta la sua candidatura si fonda sulla pretesa che la sua esperienza nel far soldi con le imprese in crisi provi la sua competenza nel gestire l’economia – tuttavia ogni volta che ragiona di politica economica egli dà prova di completa sprovvedutezza.

 

In ogni modo, è superfluo dire che Jamie Dimon  non è Jimmy Stewart. Eppure ha in qualche modo recitato la parte di Jimmy Stewart alla televisione, presentandosi come un banchiere responsabile che sa come gestire i rischi – e di conseguenza come uomo di punta nella battaglia di Wall Street per bloccare ogni rafforzamento delle regole, nonostante l’enorme danno che banche senza regole hanno già inflitto alla nostra economia. Abbiate fiducia in noi, ha detto in buona sostanza, avevamo la coperture assicurative e non accadrà un’altra volta.

 

Ora la verità sta venendo fuori. Quella perdita multimiliardaria non è stata un evento isolato; è stato un incidente che possiamo aspettarci si ripeta. Perché, anche se Dimon ci ha ammannito discorsi sulla gestione responsabile delle banche, proprio il suo istituto si era coperto di rischi: “Il gruppo al centro della perdita commerciale di 2 miliardi di dollari della JPMorgan” informa The Financial Times “ha consolidato posizioni che totalizzano più di 100 miliardi di dollari in obbligazioni garantite dagli attivi dell’istituto ed in ‘prodotti strutturati’ [8]– le complesse, rischiose obbligazioni al centro della crisi finanziario del 2008. Questi pacchetti azionari sono in aggiunta  a quei derivati sul credito che hanno provocato le perdite”.

E cosa può accadere quando si cumulano queste posizioni? Sulla base di un appassionante resoconto sul Sunday Times, la realtà dietro la facciata di competenza della JPMorgan era una situazione del tutto somigliante alle condotte che portarono al fallimento di imprese come la A.G.C. nel 2008: dirigenti arroganti che zittiscono chiunque cerchi di avanzare domande sulle loro attività, direzioni generali che non pongono problemi finché il denaro continua a girare. Davvero un déjà vu.

Ancora una volta, il punto è che un istituto come JPMorgan – una ‘banca-troppo-grande-per-fallire’, per non dire una banca i cui depositi sono già garantiti dai contribuenti americani – non dovrebbe affatto occuparsi di questo genere di investimenti speculativi. E questo è il motivo per il quale abbiamo bisogno di tornare al una regolamentazione più forte del sistema finanziario, più forte anche dei regolamenti Dodd-Frank [9] approvati nel 2010.

Avremo una regolamentazione del genere? Non se vincerà Romney, ovviamente: egli vuole abrogare la Dodd-Frank, e in generale ha voluto eliminare ogni dubbio sul fatto che farà tutto il possibile per preparare il terreno per un’altra crisi finanziaria. Persino se il Presidente Obama fosse rieletto, ottenere quel genere di regolamentazione di cui abbiamo bisogno sarà una battaglia ardua. Ma come ha dimostrato la debacle del signor Dimon, quella battaglia è più necessaria che mai.

 

 

 

Egos and Immorality

By PAUL KRUGMAN
Published: May 24, 2012
 

In the wake of a devastating financial crisis, President Obama has enacted some modest and obviously needed regulation; he has proposed closing a few outrageous tax loopholes; and he has suggested that Mitt Romney’s history of buying and selling companies, often firing workers and gutting their pensions along the way, doesn’t make him the right man to run America’s economy.

Wall Street has responded — predictably, I suppose — by whining and throwing temper tantrums. And it has, in a way, been funny to see how childish and thin-skinned the Masters of the Universe turn out to be. Remember when Stephen Schwarzman of the Blackstone Group compared a proposal to limit his tax breaks to Hitler’s invasion of Poland? Remember when Jamie Dimon of JPMorgan Chase characterized any discussion of income inequality as an attack on the very notion of success?

But here’s the thing: If Wall Streeters are spoiled brats, they are spoiled brats with immense power and wealth at their disposal. And what they’re trying to do with that power and wealth right now is buy themselves not just policies that serve their interests, but immunity from criticism.

Actually, before I get to that, let me take a moment to debunk a fairy tale that we’ve been hearing a lot from Wall Street and its reliable defenders — a tale in which the incredible damage runaway finance inflicted on the U.S. economy gets flushed down the memory hole, and financiers instead become the heroes who saved America.

 

Once upon a time, this fairy tale tells us, America was a land of lazy managers and slacker workers. Productivity languished, and American industry was fading away in the face of foreign competition.

Then square-jawed, tough-minded buyout kings like Mitt Romney and the fictional Gordon Gekko came to the rescue, imposing financial and work discipline. Sure, some people didn’t like it, and, sure, they made a lot of money for themselves along the way. But the result was a great economic revival, whose benefits trickled down to everyone.

You can see why Wall Street likes this story. But none of it — except the bit about the Gekkos and the Romneys making lots of money — is true.

For the alleged productivity surge never actually happened. In fact, overall business productivity in America grew faster in the postwar generation, an era in which banks were tightly regulated and private equity barely existed, than it has since our political system decided that greed was good.

What about international competition? We now think of America as a nation doomed to perpetual trade deficits, but it was not always thus. From the 1950s through the 1970s, we generally had more or less balanced trade, exporting about as much as we imported. The big trade deficits only started in the Reagan years, that is, during the era of runaway finance.

And what about that trickle-down? It never took place. There have been significant productivity gains these past three decades, although not on the scale that Wall Street’s self-serving legend would have you believe. However, only a small part of those gains got passed on to American workers.

 

So, no, financial wheeling and dealing did not do wonders for the American economy, and there are real questions about why, exactly, the wheeler-dealers have made so much money while generating such dubious results.

 

Those are, however, questions that the wheeler-dealers don’t want asked — and not, I think, just because they want to defend their tax breaks and other privileges. It’s also an ego thing. Vast wealth isn’t enough; they want deference, too, and they’re doing their best to buy it. It has been amazing to read about erstwhile Democrats on Wall Street going all in for Mitt Romney, not because they believe that he has good policy ideas, but because they’re taking President Obama’s very mild criticism of financial excesses as a personal insult.

And it has been especially sad to see some Democratic politicians with ties to Wall Street, like Newark’s mayor, Cory Booker, dutifully rise to the defense of their friends’ surprisingly fragile egos.

As I said at the beginning, in a way Wall Street’s self-centered, self-absorbed behavior has been kind of funny. But while this behavior may be funny, it is also deeply immoral.

Think about where we are right now, in the fifth year of a slump brought on by irresponsible bankers. The bankers themselves have been bailed out, but the rest of the nation continues to suffer terribly, with long-term unemployment still at levels not seen since the Great Depression, with a whole cohort of young Americans graduating into an abysmal job market.

 

And in the midst of this national nightmare, all too many members of the economic elite seem mainly concerned with the way the president apparently hurt their feelings. That isn’t funny. It’s shameful.

 

Ego e immoralità, di Paul Krugman

New York Times 24 maggio 2012

 

 

Sulla scia di una devastante crisi finanziaria, il Presidente Obama ha promulgato alcune modeste ed evidentemente necessarie regole: ha proposto che si impediscano alcune oltraggiose scappatoie fiscali ed ha suggerito che la storia del comprare e vendere aziende di Mitt Romney, spesso licenziando i lavoratori e saccheggiando strada facendo le loro pensioni, non fa di lui l’uomo giusto per governare l’economia americana.

 

Wall Street h risposto – come era prevedibile, immagino – piagnucolando e distribuendo scatti d’ira. E, in un certo modo, è stato divertente constatare quanto risultano essere  infantili e permalosi i Padroni dell’Universo. Ricordate quando Stephen Schwarzman del Blackstone Group paragonò una proposta di limitazione delle agevolazioni fiscali all’invasione della Polonia da parte di Hitler? O ricordate quando Jamie Dimon della JPMorgan Chase  definì ogni discussione sull’ineguaglianza dei redditi come un attacco alla nozione stessa di successo?

Ma il punto è lì: se i ragazzi di Wall Street sono viziati, sono pur sempre ragazzi viziati con un immenso potere ed una immensa ricchezza a disposizione. E quello che in questo momento vogliono fare con quel potere e quella ricchezza è comprarsi non solo le politiche che servono i loro interessi, ma anche l’esenzione da ogni critica.

A dire il vero, prima di passare a questo, vorrei impiegare in attimo per sfatare una novella che abbiamo ascoltato sino alla noia dagli ambienti di Wall Street e dai loro  fedeli sostenitori – una storia nella quale l’incredibile danno inflitto all’economia americana veniva scaricato in un buco della memoria, e al suo posto gli uomini della finanza diventavano gli eroi che hanno salvato l’America.

Un tempo, ci racconta la novella, l’America era una terra di manager indolenti e di operai lavativi. La produttività languiva e l’industria americana si dissolveva a fronte della competizione straniera.

 

Poi, i re delle acquisizioni del genere di  Mitt Romney e del romanzesco Gordon Gekko, gente risoluta e dalla mascella quadrata, arrivarono a salvarla, imponendo disciplina nella finanza e sul lavoro. E’ vero, alcune persone non gradirono, ed è anche vero che in quel modo fecero soldi a palate. Ma il risultato fu una grande rinascita dell’economia, i cui benefici si riversarono [10] su tutti.

Si capisce che a Wall Street questa storia piaccia. Ma non c’è niente di vero – eccetto il punto sui soldi fatti dai Gekko e dai Romney.

 

Perché la pretesa impennata della produttività non c’è mai stata. Di fatto, la produttività generale delle imprese in America crebbe durante la generazione postbellica, un’epoca nella quale le banche erano strettamente regolate ed il private equity [11] appena esisteva.

 

E per quanto riguarda la competizione internazionale? Noi oggi pensiamo all’America come una nazione condannata in perpetuo ai deficit commerciali, ma non è sempre stato così. Dagli anni 50 fino agli anni 70, in generale avemmo scambi commerciali più o meno in equilibrio, esportando altrettanto di quello che importavamo. I grandi deficit commerciali cominciarono soltanto negli anni di Reagan, durante l’epoca della finanza fuori controllo.

E che dire della storia dei benefici per tutti? Neanche quello è mai accaduto. Ci sono stati significativi incrementi di produttività nei passati tre decenni, sebbene non della dimensione che vi vorrebbe far credere la leggenda ad uso e consumo di Wall Street. Tuttavia, solo una minima parte di questi guadagni si sono riversati  sui lavoratori americani.

Dunque no, gli intrallazzi finanziari non hanno fatto meraviglie per l’economia americana, mentre ci sarebbero serie domande sulle ragioni per le quali tali intrallazzi, esattamente, abbiano dato vita a tanti soldi, nel mentre producevano risultati così dubbi.

Ma quelle sono le domande alle quali gli intrallazzatori non vogliono  rispondere – e non solo, penso, perché vogliono difendere le loro agevolazioni fiscali ed altri privilegi. C’è anche la questione dell’ego. La grande ricchezza non basta; essi vogliono anche rispetto, e fanno del loro meglio per comprarselo. E’ stato stupefacente leggere di come i democratici di Wall Street di un tempo siano tutti passati con Mitt Romney, non perché ritengano che abbia buone idee politiche,  ma perché hanno considerato le lievi critiche del Presidente Obama contro gli eccessi finanziari come un insulto personale.

Ed è stato particolarmente triste vedere uomini politici democratici che hanno legami con Wall Street, come il Sindaco di Newark [12] Cory Booker, ergersi a difesa degli ego sorprendentemente fragili dei loro amici.

 

Come ho detto all’inizio, in un certo qual modo questa condotta di Wall Street, così centrata ed assorbita da sé stessa, è stata qualcosa di divertente. Eppure, se può essere divertente, quel comportamento è anche profondamente immorale.

Si pensi a dove siamo in questo momento, nel quinto anno di una depressione provocata da banchieri irresponsabili. I banchieri in quanto tali sono stati salvati, ma il resto della nazione continua a patire terribilmente, con una disoccupazione a lungo termine che resta a livelli che non si vedevano dalla Grande Depressione, con una intera generazione di giovani americani che stanno facendo laureandosi a fronte di [13] un mercato del lavoro in condizioni tremende.

E nel mezzo di questo incubo nazionale, anche troppi componenti delle classi dirigenti economiche sembrano principalmente preoccupati per il modo in cui il Presidente avrebbe ferito i loro sentimenti. Non è divertente. E’ vergognoso.

 

 

 

Big Fiscal Phonies

By PAUL KRUGMAN
Published: May 27, 2012

Quick quiz: What’s a good five-letter description of Chris Christie, the Republican governor of New Jersey, that ends in “y”?

The obvious choice is, of course, “bully.” But as a recent debate over the state’s budget reveals, “phony” is an equally valid answer. And as Mr. Christie goes, so goes his party.

 

Until now the attack of the fiscal phonies has been mainly a national rather than a state issue, with Paul Ryan, the chairman of the House Budget Committee, as the prime example. As regular readers of this column know, Mr. Ryan has somehow acquired a reputation as a stern fiscal hawk despite offering budget proposals that, far from being focused on deficit reduction, are mainly about cutting taxes for the rich while slashing aid to the poor and unlucky. In fact, once you strip out Mr. Ryan’s “magic asterisks” — claims that he will somehow increase revenues and cut spending in ways that he refuses to specify — what you’re left with are plans that would increase, not reduce, federal debt.

 

 

The same can be said of Mitt Romney, who claims that he will balance the budget but whose actual proposals consist mainly of huge tax cuts (for corporations and the wealthy, of course) plus a promise not to cut defense spending.

Both Mr. Ryan and Mr. Romney, then, are fake deficit hawks. And the evidence for their fakery isn’t just their bad arithmetic; it’s the fact that for all their alleged deep concern over budget gaps, that concern isn’t sufficient to induce them to give up anything — anything at all — that they and their financial backers want. They’re willing to snatch food from the mouths of babes (literally, via cuts in crucial nutritional aid programs), but that’s a positive from their point of view — the social safety net, says Mr. Ryan, should not become “a hammock that lulls able-bodied people to lives of dependency and complacency.” Maintaining low taxes on profits and capital gains, and indeed cutting those taxes further, are, however, sacrosanct.

 

 

Still, Mr. Ryan and Mr. Romney are playing to a national audience. Are Republican governors, who have to deal with real budget constraints, different? Well, there have been many claims to that effect; Mr. Christie, in particular, has been widely held up, not least by himself, as an example of a politician willing to make tough choices.

 

But last week we got to see him facing an actual tough choice — and aside from the yelling-at-people thing, he proved himself just another standard fiscal phony.

Here’s the story: For some time now Mr. Christie has been touting what he calls the “Jersey comeback.” Even before his latest outburst, it was hard to see what he was talking about: yes, there have been some job gains in the McMansion State since Mr. Christie took office, but they have lagged gains both in the nation as a whole and in New York and Connecticut, the obvious points of comparison.

Yet Mr. Christie has been adamant that New Jersey is on the way back, and that this makes room for, you guessed it, tax cuts that would disproportionately benefit the wealthy.

 

Last week reality hit: David Rosen, the state’s independent, nonpartisan budget analyst, told legislators that the state faces a $1.3 billion shortfall. How did the governor respond?

First, by attacking the messenger. According to Mr. Christie, Mr. Rosen — a veteran public servant whose office usually makes more accurate budget forecasts than the state’s governor — is “the Dr. Kevorkian of the numbers.” Civility!

By the way, even Mr. Christie’s own officials are predicting a major budget shortfall, just not quite as big. And the two big credit-rating agencies, Moody’s and Standard & Poor’s, have recently issued warnings about New Jersey’s budget situation, which S.& P. called “structurally unbalanced” because of the governor’s optimistic revenue assumptions.

New Jersey, then, is still in dire fiscal shape. So is our tough-talking governor willing to reconsider his pet tax cut? Fuhgeddaboudit. Instead, he wants to fill the hole with one-shot budget gimmicks, including reneging on a promise to reduce borrowing for transportation investment and diverting funds from clean-energy programs. So much for fiscal responsibility.

 

 

Will Mr. Christie’s budget temper tantrum end speculation that he might become Mr. Romney’s running mate? I have no idea. But it really doesn’t matter: whoever Mr. Romney picks, he or she will cheerfully go along with the budget-busting, reverse Robin Hood policies that you know are coming if the former governor wins.

 

For the modern American right doesn’t care about deficits, and never did. All that talk about debt was just an excuse for attacking Medicare, Medicaid, Social Security and food stamps. And as for Mr. Christie, well, he’s just another fiscal phony, distinguished only by his fondness for invective.

 

I grandi ipocriti della finanza pubblica, di Paul Krugman

New York Times 27 maggio 2012

Un rapido quiz: qual è l’aggettivo di cinque lettere per Chris Christie, il Governatore repubblicano del New Jersey, che finisce in “y”?

Senza dubbio la soluzione più facile è “bully” [14]. Ma, come dimostra il recente dibattito sulla condizione del bilancio, una scelta altrettanto valida è “phony” [15]. E dove si indirizza il signor Christie, là finisce anche il suo Partito.

Sino ad oggi l’attacco degli ipocriti della finanza pubblica era stato principalmente un tema nazionale piuttosto che al livello degli Stati, e Paul Ryan, il presidente della Commissione Bilancio della Camera, ne era il principale esempio. Come sanno i lettori che hanno consuetudine con questi articoli, il signor Ryan ha in qualche modo acquisito una reputazione come severo ‘falco’ delle finanze, nonostante abbia presentato proposte di bilancio che, lungi dal concentrarsi sulla riduzione del deficit, riguardano soprattutto tagli alle tasse per i ricchi e riduzione degli aiuti ai poveri ed agli emarginati. Di fatto, una volta che private Ryan dei suoi “magici asterischi” [16] – la pretesa secondo la quale le sue proposte incrementeranno comunque le entrate, in modi che egli si rifiuta di specificare – quello che resta sono programmi che aumenterebbero, anziché ridurre, il debito federale.

Lo stesso si può dire di Mitt Romney, che sostiene di voler riequilibrare il bilancio, ma che effettivamente soprattutto propone grandi sgravi fiscali (per le grandi imprese ed i ricchi, ovviamente) in aggiunta alla promessa che non ci saranno riduzioni per la spesa militare.

Sia Ryan che Romney, dunque, sono ‘falsi’ falchi del deficit. E la prova della loro falsità non è soltanto la loro poca dimestichezza con la matematica; essa consiste nel fatto che con tutta la loro pretesa preoccupazione sui buchi del bilancio, essa non è sufficiente ad indurli a rinunciare a niente – proprio a niente – di quello che assieme ai propri sostenitori del mondo della  finanza desiderano a tutti i costi. Vogliono levare il cibo dalla bocca dei neonati (alla lettera, attraverso tagli ai fondamentali programmi di aiuto alimentare), ma secondo il loro punto di vista quella è una scelta positiva – la rete della sicurezza sociale, dice il signor Ryan, non dovrebbe diventare “una amaca nella quale cullare persone in pieno vigore fisico a vivere di dipendenza e di autocommiserazione”. Tuttavia, mantenere basse aliquote fiscali sui profitti e sui redditi da capitale, ed anzi tagliare ulteriormente quelle tasse, sarebbe sacrosanto. 

Sennonché, Ryan e Romney parlano ad un pubblico nazionale. Sono diversi i Governatori repubblicani, che devono fare i conti con limitazioni reali al bilancio? Ebbene, hanno cercato in tanti modi di dare quella impressione; il signor Christie in particolare è stato ampiamente accreditato, se non altro lo ha fatto per suo conto, come un esempio di uomo politico intenzionato a compiere scelte severe.

Ma la scorso settimana l’abbiamo visto alla prova di una effettiva scelta severa – e a parte il solito tono da comizio [17], egli si è dimostrato semplicemente un ennesimo ipocrita del fisco.

Questa è la storia: da un po’ di tempo a questa parte Christie si fa pubblicità con quello che definisce il “ritorno del Jersey” [18]. Anche prima della sua ultima sceneggiata [19], era difficile capire di cosa stesse parlando: si, c’era stato qualche incremento di posti di lavoro nello “Stato delle McMansion”  [20] dal momento che Christie è entrato in carica, ma essi sono rimasti indietro rispetto agli incrementi sia della nazione nel suo complesso che di New York e del Connecticut, che sono i più ovvi punti di paragone.

Tuttavia Christie è stato chiarissimo sul ritorno del New Jersey sulla scena, e sul fatto che questo apra lo spazio, ve lo potete immaginare, a sgravi fiscali che andrebbero soprattutto a beneficio dei più ricchi.

La scorsa settimana all’improvviso la verità è venuta fuori: David Rosen, l’analista di bilanci indipendente e non schierato con nessuno, ha riferito ai legislatori che lo Stato è dinanzi ad un ammanco di 1,3  miliardi di dollari. Come ha risposto il Governatore?

Prima di tutto, attaccando il latore della notizia. Secondo Christie, il signor Rosen – un pubblico ufficiale di vecchia data, il cui ufficio normalmente formula previsioni più accurate del Governatore dello Stato – sarebbe “il dottor Kevorkian [21]dei numeri”. Civiltà!

Per inciso, anche gli stessi dirigenti di Christie stanno prevedendo un rilevante deficit di bilancio, soltanto non di tali dimensioni. E le due grandi agenzie di rating sugli enti che emettono obbligazioni sul debito, Moody’s e Standard & Poor’s,  avevano di recente ammonito sulla situazione di bilancio del New Jersey, definita “strutturalmente squilibrata” a causa delle ottimistiche ipotesi sulle entrate da parte del Governatore.

Il New Jersey, dunque, è tuttora in una terribile condizione finanziaria. Sta dunque riconsiderando gli sgravi fiscali per i suoi favoriti, il nostro Governatore ‘dalle maniere forti’? Non ci pensa nemmeno. Piuttosto, egli intende riempire il buco con stratagemmi finanziari irripetibili, incluso il venir meno ad una promessa e il ridurre  i finanziamenti per investimenti nel settore dei trasporti pubblici e il dirottare fondi dai programmi per le energie rinnovabili. Il tutto alla faccia della responsabilità finanziaria.

 

Lo scatto d’ira del signor Christie porrà fine alla speculazione secondo la quale egli potrebbe essere il compagno di viaggio [22] di Romney? Non ne ho idea. Ma realmente non ha importanza: chiunque Romney scelga, si tratterà di uomini o donne che acconsentiranno allegramente a sfasciare i bilanci, il contrario delle politiche alla Robin Hood che vi sono state annunciate nel caso di vittoria del passato Governatore.

Perché la moderna destra americana non si preoccupa dei deficit, come non ha mai fatto. Tutto il gran parlare sul debito è solo una scusa per portare un attacco a Medicare, Medicaid, alla Previdenza sociale e agli aiuti alimentari. E come nel caso del signor Christie, ebbene, egli è soltanto un altro ipocrita fiscale, che si è distinto soltanto per la sua passione per gli insulti.

 

 

 

 

 

The Austerity Agenda

By PAUL KRUGMAN
Published: May 31, 2012 40 Comments

 

LONDON – “The boom, not the slump, is the right time for austerity.” So declared John Maynard Keynes 75 years ago, and he was right. Even if you have a long-run deficit problem — and who doesn’t? — slashing spending while the economy is deeply depressed is a self-defeating strategy, because it just deepens the depression.

So why is Britain doing exactly what it shouldn’t? Unlike the governments of, say, Spain or California, the British government can borrow freely, at historically low interest rates. So why is that government sharply reducing investment and eliminating hundreds of thousands of public-sector jobs, rather than waiting until the economy is stronger?

Over the past few days, I’ve posed that question to a number of supporters of the government of Prime Minister David Cameron, sometimes in private, sometimes on TV. And all these conversations followed the same arc: They began with a bad metaphor and ended with the revelation of ulterior motives.

The bad metaphor — which you’ve surely heard many times — equates the debt problems of a national economy with the debt problems of an individual family. A family that has run up too much debt, the story goes, must tighten its belt. So if Britain, as a whole, has run up too much debt — which it has, although it’s mostly private rather than public debt — shouldn’t it do the same? What’s wrong with this comparison?

The answer is that an economy is not like an indebted family. Our debt is mostly money we owe to each other; even more important, our income mostly comes from selling things to each other. Your spending is my income, and my spending is your income.

So what happens if everyone simultaneously slashes spending in an attempt to pay down debt? The answer is that everyone’s income falls — my income falls because you’re spending less, and your income falls because I’m spending less. And, as our incomes plunge, our debt problem gets worse, not better.

This isn’t a new insight. The great American economist Irving Fisher explained it all the way back in 1933, summarizing what he called “debt deflation” with the pithy slogan “the more the debtors pay, the more they owe.” Recent events, above all the austerity death spiral in Europe, have dramatically illustrated the truth of Fisher’s insight.

 

And there’s a clear moral to this story: When the private sector is frantically trying to pay down debt, the public sector should do the opposite, spending when the private sector can’t or won’t. By all means, let’s balance our budget once the economy has recovered — but not now. The boom, not the slump, is the right time for austerity.

 

As I said, this isn’t a new insight. So why have so many politicians insisted on pursuing austerity in slump? And why won’t they change course even as experience confirms the lessons of theory and history?

Well, that’s where it gets interesting. For when you push “austerians” on the badness of their metaphor, they almost always retreat to assertions along the lines of: “But it’s essential that we shrink the size of the state.”

Now, these assertions often go along with claims that the economic crisis itself demonstrates the need to shrink government. But that’s manifestly not true. Look at the countries in Europe that have weathered the storm best, and near the top of the list you’ll find big-government nations like Sweden and Austria.

And if you look, on the other hand, at the nations conservatives admired before the crisis, you’ll find George Osborne, Britain’s chancellor of the Exchequer and the architect of the country’s current economic policy, describing Ireland as “a shining example of the art of the possible.” Meanwhile, the Cato Institute was praising Iceland’s low taxes and hoping that other industrial nations “will learn from Iceland’s success.”

So the austerity drive in Britain isn’t really about debt and deficits at all; it’s about using deficit panic as an excuse to dismantle social programs. And this is, of course, exactly the same thing that has been happening in America.

 

In fairness to Britain’s conservatives, they aren’t quite as crude as their American counterparts. They don’t rail against the evils of deficits in one breath, then demand huge tax cuts for the wealthy in the next (although the Cameron government has, in fact, significantly cut the top tax rate). And, in general, they seem less determined than America’s right to aid the rich and punish the poor. Still, the direction of policy is the same — and so is the fundamental insincerity of the calls for austerity.

 

The big question here is whether the evident failure of austerity to produce an economic recovery will lead to a “Plan B.” Maybe. But my guess is that even if such a plan is announced, it won’t amount to much. For economic recovery was never the point; the drive for austerity was about using the crisis, not solving it. And it still is.

 

L’agenda dell’austerità, di Paul Krugman

New York Times 31 maggio 2012

 

 

 

LONDRA – “Il boom, non la depressione, è il tempo giusto per l’austerità”. Così dichiarò John Maynard Keynes 75 anni orsono, ed aveva ragione. Anche se si hanno problemi di deficit di lungo periodo – e chi non li ha? –  tagliare la spesa pubblica quando l’economia è profondamente depressa è una strategia autolesionistica, semplicemente perché approfondisce la depressione.

Perché dunque l’Inghilterra sta facendo proprio quello che non dovrebbe? Diversamente dai governi, diciamo, della Spagna o della California, il governo britannico può liberamente ricorrere al prestito, a tassi di interesse tra i più bassi della sua storia. Perché dunque quel governo sta bruscamente riducendo gli investimenti ed eliminando centinaia di migliaia di posti di lavoro nel settore pubblico, invece di attendere che l’economia sia più forte?

Nei pochi giorni trascorsi, ho posto quella domanda a un certo numero di sostenitori del Primo Ministro David Cameron, talvolta in privato, talvolta alla televisione. E tutte queste conversazioni hanno seguito il solito tragitto: si comincia con una cattiva metafora e si finisce con la rivelazione di motivi nascosti.

La cattiva metafora – che sicuramente avrete sentito molte volte – identifica i problemi del debito di un’economia nazionale con i problemi del debito di una singola famiglia. Una famiglia che ha accumulato troppo debito, questo è il racconto, deve stringere la cinghia. Se dunque l’Inghilterra, nel suo complesso, ha un debito eccessivo – e ce l’ha, anche se è più un debito privato che pubblico – non dovrebbe fare la stessa cosa? Cosa c’è di sbagliato nel paragone?

La risposta è che una economia non è come una famiglia indebitata. Il nostro debito è essenzialmente denaro che dobbiamo l’uno all’altro; ancora più importante, il nostro reddito essenzialmente proviene dal vendere cose l’uno all’altro. La tua spesa è il mio reddito e la mia spesa è il tuo reddito.

Cosa accade, dunque, se tutti simultaneamente tagliamo le spese nel tentativo di abbassare il debito? La risposta è che il reddito di ciascuno diminuisce – il mio reddito diminuisce perché tu stai spendendo meno  ed il tuo diminuisce perché io sto spendendo meno. E, come i nostri redditi calano, i nostri problemi del debito diventano peggiori, non migliori.

Non è una nuova scoperta. Il grande economista americano Irving Fisher lo aveva spiegato in modo esauriente nel lontano 1933, sintetizzando quella che aveva definito “deflazione da debito” con lo slogan incisivo “più il debitore paga, più è in debito”. Gli eventi recenti, soprattutto la spirale fatale dell’austerità in Europa, hanno mostrato la verità dell’intuizione di Fisher in modo drammatico.

E in questa storia c’è una morale chiara: quando il settore privato cerca freneticamente di ripagare il proprio debito, il settore pubblico dovrebbe fare l’opposto, spendere quando il settore privato non può o non vuole farlo. Certamente, si dovrà riequilibrare il nostro bilancio una volta che l’economia si sarà ripresa – ma non ora. Il boom, non la depressione, è il tempo giusto per l’austerità.

E, come ho detto, non è una nuova scoperta. Perché dunque tanti uomini politici insistono nel proseguire con l’austerità nel corso della depressione? E perché non cambiano indirizzo anche quando i fatti confermano le lezioni della teoria e della storia?

Ebbene, è lì che le cose si fanno interessanti. Perché quando mettete alle strette i fanatici dell’austerità sulla erroneità della loro metafora, quasi sempre essi fanno un passo indietro su concetti del genere di: “Ma non si può fare a meno di ridurre le dimensioni dello Stato”.

Ora, queste idee spesso vanno di pari passo con la pretesa che la crisi economica stessa dimostri la necessità di ridurre le funzioni pubbliche. Ma questo è manifestamente falso. Si guardi ai paesi dell’Europa che hanno meglio resistito alla tempesta, e si troverà nell’area in cima alla lista nazioni dotate di ampie funzioni pubbliche come la Svezia e l’Austria.

E se, dall’altra parte, si guarda alle nazioni che i conservatori ammiravano prima della crisi, si vedrà che George Osborne, Cancelliere dello Scacchiere britannico nonché architetto della politico economica in corso, descriveva l’Irlanda come “un brillante esempio dell’arte del possibile”. Nel frattempo, l’Istituto Cato  [23] elogiava le basse tasse dell’Islanda, nella speranza che le altre nazioni industriali “prendessero esempio dal successo islandese”.

Dunque l’iniziativa dell’austerità in Inghilterra non riguarda affatto il debito ed i deficit; piuttosto utilizza il panico del deficit come un pretesto per smantellare i programmi sociali. E questa è, ovviamente, esattamente la stessa cosa che sta avvenendo in America.

Bisogna riconoscere ai conservatori britannici di non essere altrettanto rudimentali dei loro omologhi americani. Essi non si scagliano contro i mali del deficit in un certo momento, per passare a chiedere tagli alle tasse dei ricchi nel momento successivo (sebbene il Governo Cameron abbia, di fatto, ridotto in modo significativo le aliquote fiscali ai redditi più alti). In generale, sembrano meno determinati della destra americana ad aiutare i ricchi ed a sfavorire la povera gente. Tuttavia, l’indirizzo della politica è il medesimo, ed è medesima l’insincerità degli appelli all’austerità.

 

La grande domanda è se l’evidente fallimento dell’austerità nel dar vita ad una ripresa dell’economia condurrà ad un “Piano B”. Può darsi. Ma la mia impressione è che se anche un piano del genere viene annunciato, esso non si risolverà in granché. Perché la ripresa dell’economia non è mai stata il punto; l’iniziativa dell’austerità aveva a che fare con la strumentalizzazione della crisi, non con la sua soluzione. Ed è ancora così.

 

 

 

 

 

This Republican Economy

By PAUL KRUGMAN
Published: June 3, 2012

What should be done about the economy? Republicans claim to have the answer: slash spending and cut taxes. What they hope voters won’t notice is that that’s precisely the policy we’ve been following the past couple of years. Never mind the Democrat in the White House; for all practical purposes, this is already the economic policy of Republican dreams.

So the Republican electoral strategy is, in effect, a gigantic con game: it depends on convincing voters that the bad economy is the result of big-spending policies that President Obama hasn’t followed (in large part because the G.O.P. wouldn’t let him), and that our woes can be cured by pursuing more of the same policies that have already failed.

 

For some reason, however, neither the press nor Mr. Obama’s political team has done a very good job of exposing the con.

What do I mean by saying that this is already a Republican economy? Look first at total government spending — federal, state and local. Adjusted for population growth and inflation, such spending has recently been falling at a rate not seen since the demobilization that followed the Korean War.

How is that possible? Isn’t Mr. Obama a big spender? Actually, no; there was a brief burst of spending in late 2009 and early 2010 as the stimulus kicked in, but that boost is long behind us. Since then it has been all downhill. Cash-strapped state and local governments have laid off teachers, firefighters and police officers; meanwhile, unemployment benefits have been trailing off even though unemployment remains extremely high.

 

Over all, the picture for America in 2012 bears a stunning resemblance to the great mistake of 1937, when F.D.R. prematurely slashed spending, sending the U.S. economy — which had actually been recovering fairly fast until that point — into the second leg of the Great Depression. In F.D.R.’s case, however, this was an unforced error, since he had a solidly Democratic Congress. In President Obama’s case, much though not all of the responsibility for the policy wrong turn lies with a completely obstructionist Republican majority in the House.

 

 

That same obstructionist House majority effectively blackmailed the president into continuing all the Bush tax cuts for the wealthy, so that federal taxes as a share of G.D.P. are near historic lows — much lower, in particular, than at any point during Ronald Reagan’s presidency.

As I said, for all practical purposes this is already a Republican economy.

As an aside, I think it’s worth pointing out that although the economy’s performance has been disappointing, to say the least, none of the disasters Republicans predicted have come to pass. Remember all those assertions that budget deficits would lead to soaring interest rates? Well, U.S. borrowing costs have just hit a record low. And remember those dire warnings about inflation and the “debasement” of the dollar? Well, inflation remains low, and the dollar has been stronger than it was in the Bush years.

Put it this way: Republicans have been warning that we were about to turn into Greece because President Obama was doing too much to boost the economy; Keynesian economists like myself warned that we were, on the contrary, at risk of turning into Japan because he was doing too little. And Japanification it is, except with a level of misery the Japanese never had to endure.

 

So why don’t voters know any of this?

Part of the answer is that far too much economic reporting is still of the he-said, she-said variety, with dueling quotes from hired guns on either side. But it’s also true that the Obama team has consistently failed to highlight Republican obstruction, perhaps out of a fear of seeming weak. Instead, the president’s advisers keep turning to happy talk, seizing on a few months’ good economic news as proof that their policies are working — and then ending up looking foolish when the numbers turn down again. Remarkably, they’ve made this mistake three times in a row: in 2010, 2011 and now once again.

 

At this point, however, Mr. Obama and his political team don’t seem to have much choice. They can point with pride to some big economic achievements, above all the successful rescue of the auto industry, which is responsible for a large part of whatever job growth we are managing to get. But they’re not going to be able to sell a narrative of overall economic success. Their best bet, surely, is to do a Harry Truman, to run against the “do-nothing” Republican Congress that has, in reality, blocked proposals — for tax cuts as well as more spending — that would have made 2012 a much better year than it’s turning out to be.

 

For that, in the end, is the best argument against Republicans’ claims that they can fix the economy. The fact is that we have already seen the Republican economic future — and it doesn’t work.

 

Questa economia repubblicana,

di Paul Krugman

New York Times 3 giugno 2012

Cosa si dovrebbe fare per l’economia? I Repubblicani sostengono di avere la risposta: abbattere la spesa pubblica e tagliare le tasse. Sperano che gli elettori non si accorgano che quella è precisamente la politica che abbiamo seguito negli ultimi due anni. Non mi riferisco al democratico che è alla Casa Bianca; a tutti gli effetti concreti, la politica economica dei sogni dei Repubblicani è già in essere.

Di modo che la strategia elettorale repubblicana è, in sostanza, una truffa gigantesca: consiste nel convincere gli elettori che le cattive condizioni dell’economia sono il risultato delle esagerate politiche della spesa pubblica che il Presidente Obama non ha seguito (in gran parte perché il Partito Repubblicano non lo ha consentito), e che i nostri guai possono essere curati insistendo ancora sulle stesse politiche che hanno già fallito.

Per qualche motivo, tuttavia, né la stampa né  il gruppo dei collaboratori di Obama hanno fatto un buon lavoro per smascherare l’imbroglio.

Cosa intendo col dire che quella dei Repubblicani è già l’economia in essere? Si guardi anzitutto alla spesa pubblica totale dello Stato – federale, degli Stati e delle comunità locali.  Corretta dai fattori della crescita della popolazione e dell’inflazione, quella spesa è di recente caduta ad una percentuale che non si era più vista dalla smobilitazione che seguì alla guerra di Corea.

Come è possibile? Obama non era un grande spendaccione? In effetti, no: c’è stata una breve fiammata della spesa pubblica sulla fine del 2009 e sugli inizi del 2010, nel momento in cui fecero effetto le misure di sostegno, ma ora quella spinta è del tutto alle nostre spalle. Da allora è stata tutta strada in discesa. I governi al verde degli Stati e delle comunità locali hanno licenziato gli insegnanti, i vigili del fuoco e gli agenti di polizia; nel frattempo i sussidi di disoccupazione sono diminuiti sebbene la disoccupazione resti estremamente elevata.

 

Soprattutto, il quadro degli Stati Uniti nel 2012 presenta una stupefacente somiglianza con il grande errore del 1937, quando Franklin Delano Roosevelt prematuramente abbatté la spesa, rispedendo l’economia americana – che in effetti aveva cominciato a riprendersi abbastanza velocemente sino a quel punto – in una seconda mandata della Grande depressione. Nel caso di Roosevelt, tuttavia, quello fu un errore volontario, giacché poteva contare su un Congresso solidamente democratico. Nel caso del Presidente Obama, gran parte sebbene non tutta la responsabilità dell’errata svolta politica è dipesa dalla maggioranza repubblicana della Camera, completamente ostruzionista.

La stessa maggioranza ostruzionista della Camera che ha in sostanza ricattato il Presidente a mantenere tutti gli sgravi fiscali introdotti da Bush per i più ricchi, in modo tale che le tasse federali come percentuale del PIL sono vicine ai loro minimi storici – molto più basse, in particolare, che in qualsiasi momento della Presidenza Reagan.

Come ho detto, a tutti gli effetti pratici questa è già un’economia repubblicana.

 

A tale proposito, penso che sia meritevole di essere sottolineato il fatto che, sebbene l’andamento dell’economia sia stato deludente, almeno nessuno dei disastri previsti dai repubblicani ha avuto luogo. Si ricordano tutte quelle affermazioni secondo le quali i deficit di bilancio avrebbero portato alle stelle i tassi di interesse? E si ricordano quegli ammonimenti tremendi sull’inflazione e sullo “svilimento” del dollaro? Ebbene, l’inflazione rimane bassa e il dollaro si è mantenuto più forte di quello che era negli anni di Bush.

Mettiamola in questo modo: i Repubblicani avevano messo in guardia che eravamo prossimi ad una deriva greca perché il Presidente Obama stava facendo troppo per sostenere l’economia; economisti keynesiani come il sottoscritto avevano ammonito che, al contrario, stavamo rischiando di finire come il Giappone, perché non stava facendo abbastanza. Di fatto siamo finiti come il Giappone, ad eccezione di un livello di miseria che i giapponesi non avevano mai tollerato.

Perché, dunque, gli elettori non sono al corrente di cose del genere?

Parte della risposta consiste nel fatto che troppa informazione economica è ancora del genere “lui-ha-detto-lei-ha-detto”, con duelli di citazioni  da parte dei campioni di entrambi gli schieramenti [24]. Ma è anche vero che la squadra di Obama in buona misura non è stata capace di mettere in luce l’ostruzionismo repubblicano, forse per il timore di apparire deboli. Invece, i consiglieri del Presidente continuano a privilegiare i messaggi ottimistici, aggrappandosi a pochi mesi di buone notizie economiche come se fossero la prova che le loro politiche stanno funzionando, – e poi finendo col sembrare sciocchi quando i dati di nuovo volgono al peggio.

A questo punto, tuttavia, Obama e la sua squadra non sembrano aver molta scelta. Essi possono indicare con orgoglio alcuni grandi risultati economici, soprattutto il salvataggio riuscito dell’industria dell’auto, che è responsabile di buona parte di qualsiasi crescita di posti di lavoro che stiamo riuscendo ad ottenere. Ma non saranno nelle condizioni di raccontare di un successo economico generale. La loro migliore carta, di sicuro, è fare come Harry Truman, andare allo scontro con il “far-niente” del Congresso dominato dai Repubblicani, che ha, in realtà, bloccato le proposte – per gli sgravi fiscali come per una maggiore spesa pubblica – che avrebbero reso il 2012 un anno molto migliore di quello che è finito con l’essere.

 

Perché quello, alla fine, è il migliore argomento contro le pretese dei Repubblicani di saper mettere a posto l’economia. Il fatto è che il futuro economico dei Repubblicani noi l’abbiamo già visto, e non funziona.

 

 

 

 

Reagan Was a Keynesian

By PAUL KRUGMAN
Published: June 7, 2012 171 Comments

There’s no question that America’s recovery from the financial crisis has been disappointing. In fact, I’ve been arguing that the era since 2007 is best viewed as a “depression,” an extended period of economic weakness and high unemployment that, like the Great Depression of the 1930s, persists despite episodes during which the economy grows. And Republicans are, of course, trying — with considerable success — to turn this dismal state of affairs to their political advantage.

They love, in particular, to contrast President Obama’s record with that of Ronald Reagan, who, by this point in his presidency, was indeed presiding over a strong economic recovery. You might think that the more relevant comparison is with George W. Bush, who, at this stage of his administration, was — unlike Mr. Obama — still presiding over a large loss in private-sector jobs. And, as I’ll explain shortly, the economic slump Reagan faced was very different from our current depression, and much easier to deal with. Still, the Reagan-Obama comparison is revealing in some ways. So let’s look at that comparison, shall we?

 

For the truth is that on at least one dimension, government spending, there was a large difference between the two presidencies, with total government spending adjusted for inflation and population growth rising much faster under one than under the other. I find it especially instructive to look at spending levels three years into each man’s administration — that is, in the first quarter of 1984 in Reagan’s case, and in the first quarter of 2012 in Mr. Obama’s — compared with four years earlier, which in each case more or less corresponds to the start of an economic crisis. Under one president, real per capita government spending at that point was 14.4 percent higher than four years previously; under the other, less than half as much, just 6.4 percent.

 

O.K., by now many readers have probably figured out the trick here: Reagan, not Obama, was the big spender. While there was a brief burst of government spending early in the Obama administration — mainly for emergency aid programs like unemployment insurance and food stamps — that burst is long past. Indeed, at this point, government spending is falling fast, with real per capita spending falling over the past year at a rate not seen since the demobilization that followed the Korean War.

Why was government spending much stronger under Reagan than in the current slump? “Weaponized Keynesianism” — Reagan’s big military buildup — played some role. But the big difference was real per capita spending at the state and local level, which continued to rise under Reagan but has fallen significantly this time around.

And this, in turn, reflects a changed political environment. For one thing, states and local governments used to benefit from revenue-sharing — automatic aid from the federal government, a program that Reagan eventually killed but only after the slump was past. More important, in the 1980s, anti-tax dogma hadn’t taken effect to the same extent it has today, so state and local governments were much more willing than they are now to cover temporary deficits with temporary tax increases, thereby avoiding sharp spending cuts.

 

In short, if you want to see government responding to economic hard times with the “tax and spend” policies conservatives always denounce, you should look to the Reagan era — not the Obama years.

So does the Reagan-era economic recovery demonstrate the superiority of Keynesian economics? Not exactly. For, as I said, the truth is that the slump of the 1980s — which was more or less deliberately caused by the Federal Reserve, as a way to bring down inflation — was very different from our current depression, which was brought on by private-sector excess: above all, the surge in household debt during the Bush years. The Reagan slump could be and was brought to a rapid end when the Fed decided to relent and cut interest rates, sparking a giant housing boom. That option isn’t available now because rates are already close to zero.

 

As many economists have pointed out, America is currently suffering from a classic case of debt deflation: all across the economy people are trying to pay down debt by slashing spending, but, in so doing, they are causing a depression that makes their debt problems even worse. This is exactly the situation in which government spending should temporarily rise to offset the slump in private spending and give the private sector time to repair its finances. Yet that’s not happening.

 

The point, then, is that we’d be in much better shape if we were following Reagan-style Keynesianism. Reagan may have preached small government, but in practice he presided over a lot of spending growth — and right now that’s exactly what America needs.

 

Reagan era un keynesiano, di Paul Krugman

New York Times 7 giugno 2012

 

Non c’è dubbio che la ripresa dell’America dalla crisi finanziaria sia stata deludente. Infatti, avevo sostenuto che il periodo dal 2007 era meglio considerarlo come una “depressione”, un’epoca prolungata di debolezza economica e di alta disoccupazione che persiste, al pari della Grande Depressione degli anni ’30, nonostante episodi nel quali si ha una crescita dell’economia. Ed i Repubblicani stanno cercando – con risultati non disprezzabili – a volgere questa penosa condizione delle cose pubbliche a loro vantaggio.

Prediligono, in particolare, contrapporre l’operato del Presidente Obama a quello di Ronald Reagan, che, a questo punto della sua presidenza, stava in effetti esercitando il suo mandato nel contesto di una forte ripresa dell’economia. Si potrebbe arguire che il paragone più pertinente sia quello con George W. Bush, il quale, dopo gli stessi anni di governo – diversamente da Obama – era ancora alle prese [25] con un’ampia perdita di posti di lavoro nel settore privato. E, come spiegherò brevemente, la crisi economica che fronteggiò Reagan era molto diversa dalla nostra depressione attuale, nonché assai più facile da gestire. Eppure, il paragone Reagan-Obama è in qualche modo rivelatore. Andiamo dunque a analizzare quel confronto, perché no?

Giacché la verità è che, almeno per un aspetto, la spesa pubblica, ci fu una grande differenza tra le due presidenze, con un spesa pubblica complessiva corretta per l’inflazione ed una crescita della popolazione che si svilupparono assai più velocemente sotto la prima che non sotto la seconda. Trovo particolarmente istruttivo osservare i livelli della spesa al terzo anno delle amministrazioni di entrambi – vale a dire, al primo trimestre del 1984 nel caso di Reagan e al primo trimestre del 2012 nel caso di Obama – al confronto con il dato di quattro anni prima, che in entrambi i casi corrisponde più o meno con l’inizio di una crisi economica. Nel primo caso la spesa pubblica reale procapite era del 14,4 per cento più elevata di quattro anni prima; nell’altro, era meno della metà, soltanto il 6,4 per cento più alta. 

Ebbene, molti lettori ormai avranno capito il trucco: la grande spesa fu quella di Reagan, non di Obama. Sebbene ci sia stata una breve fiammata della spesa pubblica agli inizi della Amministrazione Obama – principalmente per gli aiuti di emergenza come l’assicurazione per la disoccupazione e i sussidi alimentari – quella fiammata è finita da tempo. In effetti, a questo punto la spesa pubblica sta calando rapidamente, con la spesa pubblica reale procapite che è caduta nell’anno passato con una velocità che non si era vista sin dalla smobilitazione che fece seguito alla guerra di Corea.

Perché la spesa pubblica reale fu molto più forte sotto Reagan che non nella crisi attuale? Il “keynesismo degli armamenti” – il grande consolidamento militare di Reagan – giocò un qualche ruolo. Ma la grande differenza fu la spesa pubblica reale procapite al livello degli Stati e delle comunità locali, che continuò a crescere sotto Reagan ma è caduta in modo significativo in questa circostanza.

E questo, a sua volta, riflette un contesto politico modificato. Da una parte, i governi statali e locali erano soliti trarre beneficio dalla partecipazione alle entrate – l’aiuto automatico da parte del Governo federale, un programma che alla fine Reagan soppresse, ma solo quando la crisi era alle spalle. Ancora più importante, il dogma anti tasse negli anni ’80 non aveva ancora prodotto effetti nella stessa dimensione di oggi, cosicché i governi statali e locali erano molto più disponibili di oggi a coprire deficit provvisori con temporanei aumenti delle tasse, in tal modo evitando bruschi tagli alla spesa.

In poche parole, se volete trovare le risposte governative ai tempi difficili con la formula delle politiche del “metti le tasse e spendi” che i conservatori denunciano in ogni circostanza, dovete guardare agli anni di Reagan, non a quelli di Obama.

Dunque, la ripresa economica dei tempi di Reagan dimostra la superiorità delle politiche keynesiane? Non esattamente. Perché, come ho detto, la verità è che la crisi degli anni ’80 – che fu più o meno deliberatamente provocata dalla Federal Reserve, come un modo per abbassare l’inflazione – era molto diversa dalla depressione attuale, che è stata provocata dagli eccessi del settore privato: primo tra tutti, la crescita del debito delle famiglie negli anni di Bush. La crisi degli anni di Reagan poté e fu in effetti portata ad una rapida conclusione quando la Fed decise di attenuare e di tagliare i tassi di interesse, dando origine ad una gigantesco boom immobiliare. Possibilità questa che non è utilizzabile oggi, perché i tassi di interesse sono prossimi a zero.

Come molti economisti hanno messo in evidenza, l’America dei nostri giorni sta soffrendo di una classica situazione di deflazione da debito: dappertutto nell’economia le persone stanno cercando di abbattere il debito tagliando le spese, ma, così facendo, provocano una depressione che rende i problemi del loro debito persino peggiori. Questa è esattamente la situazione nella quale la spesa pubblica dovrebbe temporaneamente elevarsi per bilanciare la caduta della spesa privata e dare al settore privato il tempo per risanare le proprie finanze. Tuttavia, non è quello che sta accadendo.

Il punto, dunque, è che saremmo in condizioni molto migliori se stessimo seguendo un keynesismo del genere di quello di Reagan. Può darsi che Reagan elogiasse il “piccolo governo”, ma in pratica egli gestì una cospicua crescita della spesa pubblica – e in questo momento è di quello che l’America ha esattamente bisogno.

 

 

 

 

 

 

 

 

Another Bank Bailout

By PAUL KRUGMAN
Published: June 10, 2012

Oh, wow — another bank bailout, this time in Spain. Who could have predicted that?

The answer, of course, is everybody. In fact, the whole story is starting to feel like a comedy routine: yet again the economy slides, unemployment soars, banks get into trouble, governments rush to the rescue — but somehow it’s only the banks that get rescued, not the unemployed.

Just to be clear, Spanish banks did indeed need a bailout. Spain was clearly on the edge of a “doom loop” — a well-understood process in which concern about banks’ solvency forces the banks to sell assets, which drives down the prices of those assets, which makes people even more worried about solvency. Governments can stop such doom loops with an infusion of cash; in this case, however, the Spanish government’s own solvency is in question, so the cash had to come from a broader European fund.

 

 

So there’s nothing necessarily wrong with this latest bailout (although a lot depends on the details). What’s striking, however, is that even as European leaders were putting together this rescue, they were signaling strongly that they have no intention of changing the policies that have left almost a quarter of Spain’s workers — and more than half its young people — jobless.

Most notably, last week the European Central Bank declined to cut interest rates. This decision was widely expected, but that shouldn’t blind us to the fact that it was deeply bizarre. Unemployment in the euro area has soared, and all indications are that the Continent is entering a new recession. Meanwhile, inflation is slowing, and market expectations of future inflation have plunged. By any of the usual rules of monetary policy, the situation calls for aggressive rate cuts. But the central bank won’t move.

 

 

And that doesn’t even take into account the growing risk of a euro crackup. For years Spain and other troubled European nations have been told that they can only recover through a combination of fiscal austerity and “internal devaluation,” which basically means cutting wages. It’s now completely clear that this strategy can’t work unless there is strong growth and, yes, a moderate amount of inflation in the European “core,” mainly Germany — which supplies an extra reason to keep interest rates low and print lots of money. But the central bank won’t move.

Meanwhile, senior officials are asserting that austerity and internal devaluation really would work if only people truly believed in their necessity.

Consider, for example, what Jörg Asmussen, the German representative on the European Central Bank’s executive board, just said in Latvia, which has become the poster child for supposedly successful austerity. (It used to be Ireland, but the Irish economy keeps refusing to recover). “The key difference between, say, Latvia and Greece,” Mr. Asmussen said, “lies in the degree of national ownership of the adjustment program — not only by national policy-makers but also by the population itself.”

 

 

 

 

 

Call it the Darth Vader approach to economic policy; Mr. Asmussen is in effect telling the Greeks, “I find your lack of faith disturbing.”

Oh, and that Latvian success consists of one year of pretty good growth following a Depression-level economic decline over the previous three years. True, 5.5 percent growth is a lot better than nothing. But it’s worth noting that America’s economy grew almost twice that fast — 10.9 percent! — in 1934, as it rebounded from the worst of the Great Depression. Yet the Depression was far from over.

 

Put all of this together and you get a picture of a European policy elite always ready to spring into action to defend the banks, but otherwise completely unwilling to admit that its policies are failing the people the economy is supposed to serve.

Still, are we much better? America’s near-term outlook isn’t quite as dire as Europe’s, but the Federal Reserve’s own forecasts predict low inflation and very high unemployment for years to come — precisely the conditions under which the Fed should be leaping into action to boost the economy. But the Fed won’t move.

 

What explains this trans-Atlantic paralysis in the face of an ongoing human and economic disaster? Politics is surely part of it — whatever they may say, Fed officials are clearly intimidated by warnings that any expansionary policy will be seen as coming to the rescue of President Obama. So, too, is a mentality that sees economic pain as somehow redeeming, a mentality that a British journalist once dubbed “sado-monetarism.”

Whatever the deep roots of this paralysis, it’s becoming increasingly clear that it will take utter catastrophe to get any real policy action that goes beyond bank bailouts. But don’t despair: at the rate things are going, especially in Europe, utter catastrophe may be just around the corner.

 

Un altro salvataggio di banche,

di Paul Krugman

New York Times 10 giugno 2012

Eccoci, un altro salvataggio di banche, questa volta in Spagna. Chi poteva prevederlo?

 

Senza dubbio, la risposta è: tutti. Di fatto, l’intera storia comincia  dare la sensazione di una scena consueta: ancora una volta l’economia cede, la disoccupazione s’impenna, le banche finiscono nei guai, i governi corrono ai salvataggi – ma in qualche modo sono sempre le banche ad essere salvate, mai i disoccupati.

Per esser chiari, le banche avevano senz’altro bisogno d’essere salvate. La Spagna era chiaramente sull’orlo di una “spirale fatale” – un processo ben noto nel quale la preoccupazione sulla solvibilità delle banche spinge quest’ultime a vendere gli assets, il che spinge verso il basso i prezzi degli assets e rende la gente ancora più preoccupata della possibile insolvenza. I Governi possono interrompere questa spirale senza scampo con una immissione di contante; in questo caso, tuttavia, la stessa solvibilità del Governo spagnolo è in questione, dunque il contante è dovuto venire dal più ampio fondo europeo.

Dunque, non c’è niente di necessariamente sbagliato in questo ultimo salvataggio (per quanto molto dipenda dai dettagli). Quello che lascia sbigottiti, tuttavia, è che persino una volta che i dirigenti europei si erano mesi assieme in questo salvataggio, hanno voluto segnalare con forza di non avere alcuna intenzione di cambiare le politiche che avevano lasciato senza lavoro quasi un quarto dei lavoratori della Spagna, e più della metà dei suoi giovani.

In modo ancora più significativo, la scorsa settimana la Banca Centrale Europea ha escluso il taglio dei tassi di interesse. Era una decisione ampiamente attesa, ma questo  non dovrebbe impedirci di constatare quanto sia stata profondamente illogica. La disoccupazione nell’area euro è salita alle stelle, e secondo tutte le indicazioni il continente sta entrando in una nuova recessione. Nel frattempo, l’inflazione sta rallentando e le aspettative del mercato di una futura inflazione sono crollate. Secondo una delle normali regole di politica monetaria, la situazione reclama aggressivi tagli  dei tassi. Ma la Banca Centrale non muoverà una foglia.

E in questo modo non si mette nel conto neppure il rischio crescente di un collasso dell’euro. Per anni è stato spiegato alla Spagna e alle altre nazioni europee in crisi che potevano riprendersi solo attraverso una combinazione di austerità delle finanze pubbliche e di “svalutazione interna”, che fondamentalmente significa tagli salariali. Ora, è del tutto chiaro che questa strategia non può funzionare senza che ci sia una forte crescita ed, anche, un moderato corrispettivo di inflazione nel “centro” dell’Europa, principalmente nella Germania – il che offre una ragione ulteriore per tenere bassi i tassi di interesse e stampare molta moneta. Ma la Banca Centrale non muoverà una foglia.

Nel frattempo, dirigenti autorevoli vengono dicendo che l’austerità e la svalutazione interna effettivamente produrrebbero effetti se solo la gente convintamente credesse nella loro necessità.

Si consideri, ad esempio, cosa ha appena dichiarato in Lettonia Jörg Asmussen, il rappresentante della Germania nel comitato esecutivo della BCE (la Lettonia è diventata una sorta di pubblicità “ambulante” [26] dei presunti successi dell’austerità. Questa parte in precedenza toccava all’Irlanda,  ma l’economia irlandese continua a rifiutare di riprendersi). “La differenze fondamentale, ad esempio tra la Lettonia e la Grecia”, ha detto Asmussen, “risiede nel grado di corresponsabilità nazionale al programma di riforme – non solo da parte degli operatori politici ma dell’intera popolazione.”

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo si potrebbe chiamare l’approccio alla Darth Vader [27] alla politica economica; il signor Asmussen sta dicendo in effetti ai Greci “Trovo fastidiosa la vostra mancanza di fiducia.”

Aggiungiamo che il successo della Lettonia consiste in una crescita abbastanza buona che ha fatto seguito ad una caduta economica a livelli di depressione nei tre anni precedenti. Certo, il 5,5 per cento di crescita è meglio che niente. Ma è degno di nota che l’economia americana crebbe ad una velocità pari a quasi due volte quella – il 10,9 per cento ! – nel 1934, quando ebbe il rimbalzo del punto peggiore della Grande Depressione. Tuttavia la Depressione era lungi dall’essere finita.

Mettete tutto questo assieme ed avrete un’immagine delle classi dirigenti della politica europea, sempre pronte a passare all’azione per difendere le banche, ma d’altro canto del tutto indisponibili ad ammettere che le proprie politiche non portano giovamento alla gente  che l’economia dovrebbe servire.

Tuttavia, si sta meglio da noi? Le prospettive a breve termine dell’America non sono così terribili come quelle dell’Europa, ma le stesse previsioni della Federal Reserve annunciano una bassa inflazione ed una disoccupazione molto elevata nei prossimi anni – precisamente le condizioni nelle quali la Fed dovrebbe schizzare a fare qualcosa per sostenere l’economia. Ma la Fed non muoverà una foglia.

Cosa spiega questa paralisi transatlantica a fronte di un perdurante disastro umano ed economico? In parte, sicuramente la politica – qualsiasi cosa possano dire, i dirigenti della Fed sono chiaramente intimiditi dalla messa in guardia secondo la quale ogni politica espansiva sarà considerata un soccorso scoperto a favore del Presidente Obama. Parimenti, si tratta anche di una mentalità che considera la sofferenza economica come una forma di redenzione, una mentalità che una volta un giornalista britannico denominò come “sado-monetarismo”.

Qualsiasi siano le radici profonde di questa paralisi, sta diventando sempre più chiaro che ci vorrà un’altra catastrofe prima di avere una qualche reale iniziativa politiche che vada oltre i salvataggi delle banche. Ma non disperiamo, con il ritmo al quale le cose stanno procedendo, specialmente in Europa, una ulteriore catastrofe può essere proprio dietro l’angolo.

 

 

 

 

 

We Don’t Need No Education

By PAUL KRUGMAN
Published: June 14, 2012
Hope springs eternal. For a few hours I was ready to applaud Mitt Romney for speaking honestly about what his calls for smaller government actually mean.

 

Never mind. Soon the candidate was being his normal self, denying having said what he said and serving up a bunch of self-contradictory excuses. But let’s talk about his accidental truth-telling, and what it reveals.

 

In the remarks Mr. Romney later tried to deny, he derided President Obama: “He says we need more firemen, more policemen, more teachers.” Then he declared, “It’s time for us to cut back on government and help the American people.”

You can see why I was ready to give points for honesty. For once, he actually admitted what he and his allies mean when they talk about shrinking government. Conservatives love to pretend that there are vast armies of government bureaucrats doing who knows what; in reality, a majority of government workers are employed providing either education (teachers) or public protection (police officers and firefighters).

So would getting rid of teachers, police officers, and firefighters help the American people? Well, some Republicans would prefer to see Americans get less education; remember Rick Santorum’s description of colleges as “indoctrination mills”? Still, neither less education nor worse protection are issues the G.O.P. wants to run on.

 

But the more relevant question for the moment is whether the public job cuts Mr. Romney applauds are good or bad for the economy. And we now have a lot of evidence bearing on that question.

First of all, there’s our own experience. Conservatives would have you believe that our disappointing economic performance has somehow been caused by excessive government spending, which crowds out private job creation. But the reality is that private-sector job growth has more or less matched the recoveries from the last two recessions; the big difference this time is an unprecedented fall in public employment, which is now about 1.4 million jobs less than it would be if it had grown as fast as it did under President George W. Bush.

 

And, if we had those extra jobs, the unemployment rate would be much lower than it is — something like 7.3 percent instead of 8.2 percent. It sure looks as if cutting government when the economy is deeply depressed hurts rather than helps the American people.

The really decisive evidence on government cuts, however, comes from Europe. Consider the case of Ireland, which has reduced public employment by 28,000 since 2008 — the equivalent, as a share of population, of laying off 1.9 million workers here. These cuts were hailed by conservatives, who predicted great results. “The Irish economy is showing encouraging signs of recovery,” declared Alan Reynolds of the Cato Institute in June 2010.

But recovery never came; Irish unemployment is currently more than 14 percent. Ireland’s experience shows that austerity in the face of a depressed economy is a terrible mistake to be avoided if possible.

And the point is that in America it is possible. You can argue that countries like Ireland had and have very limited policy choices. But America — which unlike Europe has a federal government — has an easy way to reverse the job cuts that are killing the recovery: have the feds, who can borrow at historically low rates, provide aid that helps state and local governments weather the hard times. That, in essence, is what the president was proposing and Mr. Romney was deriding.

 

 

So the former governor of Massachusetts was telling the truth the first time: by opposing aid to beleaguered state and local governments, he is, in effect, calling for more layoffs of teachers, policemen and firemen.

Actually, it’s kind of ironic. While Republicans love to engage in Europe-bashing, they’re actually the ones who want us to emulate European-style austerity and experience a European-style depression.

And that’s not just an inference. Last week R. Glenn Hubbard of Columbia University, a top Romney adviser, published an article in a German newspaper urging the Germans to ignore advice from Mr. Obama and continue pushing their hard-line policies. In so doing, Mr. Hubbard was deliberately undercutting a sitting president’s foreign policy. More important, however, he was throwing his support behind a policy that is collapsing as you read this.

 

In fact, almost everyone following the situation now realizes that Germany’s austerity obsession has brought Europe to the edge of catastrophe — almost everyone, that is, except the Germans themselves and, it turns out, the Romney economic team.

Needless to say, this bodes ill if Mr. Romney wins in November. For all indications are that the his idea of smart policy is to double down on the very spending cuts that have hobbled recovery here and sent Europe into an economic and political tailspin.

 

Non abbiamo bisogno di rinunciare all’istruzione,

di Paul Krugman

New York Times 14 giugno 2012

 

Le speranze non finiscono mai. Per qualche ora sono stato sul punto di applaudire Mitt Romney per aver parlato onestamente su cosa effettivamente significhino i suoi appelli per un governo ‘più piccolo’.

Lasciamo perdere. In breve tempo il candidato ha riacquisito il suo consueto profilo, negando di aver detto quello che aveva detto e confezionando un mazzo di scuse in contrasto l’una con l’altra. Occupiamoci piuttosto del suo accidentale momento di sincerità, e di quello che rivela.

Nelle osservazioni che Romney ha successivamente tentato di negare, aveva deriso il Presidente Obama: “Dice che avremmo bisogno di più vigili del fuoco, di più poliziotti e di più insegnanti”. Poi ha dichiarato: “E’ tempo di dare un taglio al Governo e di aiutare gli americani.”

Vi rendete conto del motivo per il quale ero pronto ad apprezzare l’onestà. Per la prima volta egli aveva effettivamente ammesso cosa lui ed i suoi collaboratori intendono quando parlano di restringere il governo. Ai conservatori piace dare ad intendere che ci siano armate di burocrati statali che fanno chissà che cosa; in realtà, la maggioranza dei lavoratori statali sono occupati per fornire istruzione (insegnanti) e protezione collettiva (poliziotti e vigili del fuoco).

Dunque, sbarazzarsi di insegnanti, poliziotti e vigili del fuoco aiuterebbe gli americani? Ebbene, alcuni repubblicani preferirebbero che gli americani ricevessero minore istruzione; vi ricordate la descrizione delle università come “fabbriche di indottrinamento” da parte di Rick Santorum? Tuttavia, il Partito Repubblicano non pare intenzionato a procedere su temi come quello di una minore istruzione o di una minore protezione. 

Ma adesso è più rilevante la questione se i tagli al pubblico impiego ai quali Romney plaude siano una cosa buona o cattiva per l’economia. E a questo punto abbiamo molte prove inerenti a quella domanda.

 

Prima di tutto, c’è la nostra stessa esperienza. I conservatori vorrebbero farci credere che la nostra deludente prestazione economica in qualche modo sia stata provocata dalla eccessiva spesa pubblica, che avrebbe spiazzato [28] la creazione di posti di lavoro del settore privato. Ma la realtà è che la crescita dei posti di lavoro del settore privato ha più o meno eguagliato le riprese dalle due recessioni precedenti; la grande differenza questa volta è una caduta senza precedenti nel pubblico impiego, che oggi è inferiore di 1,4 milioni di posti di lavoro rispetto a quello che sarebbe se fosse cresciuta con la stessa velocità che ai tempi di George W. Bush.

E se avessimo questi posti di lavoro in più, il tasso di disoccupazione sarebbe molto più basso di quello che è – qualcosa come il 7,3 per cento anziché l’8,2 per cento. Sembra dunque certo che tagliare le funzioni pubbliche quando l’economia è profondamente depressa, danneggi piuttosto che aiutare gli americani.

La prova davvero decisiva sui tagli al governo, tuttavia, viene dall’Europa. Si consideri il caso dell’Irlanda che ha ridotto l’occupazione pubblica di 28.000 unità a partire dal 2008 – l’equivalente, in rapporto alla popolazione, del licenziamento di un milione e 900.000 lavoratori qua da noi. Questi tagli vennero salutati con entusiasmo dai conservatori, che prevedevano grandi risultati. “L’economia irlandese sta mostrando incoraggianti segni di ripresa”, ebbe a dichiarare Alan Reynolds del Cato Institute, nel 2010.

Ma non è arrivata ripresa alcuna; la disoccupazione in Irlanda è attualmente più del 14 per cento. L’esperienza irlandese mostra che l’austerità a fronte di una economia depressa è un errore terribile, nei limiti del possibile da evitare.

E il punto è che in America è possibile. Si può sostenere che paesi come l’Irlanda avevano ed hanno limitate scelte politiche. Ma l’America – che diversamente dall’Europa ha un governo federale – ha un modo facile per ribaltare la perdita di posti di lavoro che sta ammazzando la ripresa: ha il governo federale, che può prendere denaro a prestito a tassi tra i più bassi della storia e fornire aiuto agli Stati ed ai governi locali per resistere nei momenti difficili. Questo, in sostanza, è quello che il Presidente ha proposto e su cui il signor Romney  ha ironizzato.

 

 

Dunque, l’ ex Governatore del Massachusetts stava dicendo per la prima volta la verità: opponendosi al sostegno ai governi statali e locali sotto assedio, egli, di fatto, si è pronunciato per altri licenziamenti di insegnanti, poliziotti e vigili del fuoco.

Effettivamente, c’è del comico. Nel mentre i Repubblicani prediligono il passatempo di dar contro all’Europa, di fatto sono quelli che vorrebbero emulassimo l’austerità di stile europeo e finissimo in una depressione di stile europeo.

E non si tratta affatto di una illazione. La scorsa settimana, R. Glenn Hubbard della Columbia University, il principale consigliere di Romney, ha pubblicato un articolo su un giornale tedesco invitando i tedeschi ad ignorare i consigli di Obama ed a continuare a darsi da fare con le loro politiche inflessibili. Così facendo, il signor Hubbard deliberatamente indeboliva la politica estera di un Presidente nelle sue funzioni. Più importante ancora, tuttavia, metteva il suo sostegno al servizio di una politica che, come si vede, è al collasso.

Di fatto, quasi tutti coloro che stanno seguendo la situazione ora comprendono che l’ossessione per l’austerità della Germania ha portato l’Europa sull’orlo di una catastrofe – quasi tutti, cioè, ad eccezione dei tedeschi stessi e, a quanto pare, della squadra degli economisti di Romney.

Non è il caso di dire che questo è di cattivo augurio, ove Romney vincesse a novembre. Perché tutte le indicazioni mostrano che questa idea di una politica intelligente consiste nel portare all’estremo il pericolo di effettivi tagli alla spesa pubblica che hanno azzoppato la ripresa qua da noi ed hanno spedito l’Europa in una spirale economica e politica.

 

 

 

 

Greece as Victim

By PAUL KRUGMAN
Published: June 17, 2012 39 Comments

Ever since Greece hit the skids, we’ve heard a lot about what’s wrong with everything Greek. Some of the accusations are true, some are false — but all of them are beside the point. Yes, there are big failings in Greece’s economy, its politics and no doubt its society. But those failings aren’t what caused the crisis that is tearing Greece apart, and threatens to spread across Europe.

No, the origins of this disaster lie farther north, in Brussels, Frankfurt and Berlin, where officials created a deeply — perhaps fatally — flawed monetary system, then compounded the problems of that system by substituting moralizing for analysis. And the solution to the crisis, if there is one, will have to come from the same places.

So, about those Greek failings: Greece does indeed have a lot of corruption and a lot of tax evasion, and the Greek government has had a habit of living beyond its means. Beyond that, Greek labor productivity is low by European standards — about 25 percent below the European Union average. It’s worth noting, however, that labor productivity in, say, Mississippi is similarly low by American standards — and by about the same margin.

On the other hand, many things you hear about Greece just aren’t true. The Greeks aren’t lazy — on the contrary, they work longer hours than almost anyone else in Europe, and much longer hours than the Germans in particular. Nor does Greece have a runaway welfare state, as conservatives like to claim; social expenditure as a percentage of G.D.P., the standard measure of the size of the welfare state, is substantially lower in Greece than in, say, Sweden or Germany, countries that have so far weathered the European crisis pretty well.

So how did Greece get into so much trouble? Blame the euro.

Fifteen years ago Greece was no paradise, but it wasn’t in crisis either. Unemployment was high but not catastrophic, and the nation more or less paid its way on world markets, earning enough from exports, tourism, shipping and other sources to more or less pay for its imports.

Then Greece joined the euro, and a terrible thing happened: people started believing that it was a safe place to invest. Foreign money poured into Greece, some but not all of it financing government deficits; the economy boomed; inflation rose; and Greece became increasingly uncompetitive. To be sure, the Greeks squandered much if not most of the money that came flooding in, but then so did everyone else who got caught up in the euro bubble.

And then the bubble burst, at which point the fundamental flaws in the whole euro system became all too apparent.

Ask yourself, why does the dollar area — also known as the United States of America — more or less work, without the kind of severe regional crises now afflicting Europe? The answer is that we have a strong central government, and the activities of this government in effect provide automatic bailouts to states that get in trouble.

Consider, for example, what would be happening to Florida right now, in the aftermath of its huge housing bubble, if the state had to come up with the money for Social Security and Medicare out of its own suddenly reduced revenues. Luckily for Florida, Washington rather than Tallahassee is picking up the tab, which means that Florida is in effect receiving a bailout on a scale no European nation could dream of.

Or consider an older example, the savings and loan crisis of the 1980s, which was largely a Texas affair. Taxpayers ended up paying a huge sum to clean up the mess — but the vast majority of those taxpayers were in states other than Texas. Again, the state received an automatic bailout on a scale inconceivable in modern Europe.

So Greece, although not without sin, is mainly in trouble thanks to the arrogance of European officials, mostly from richer countries, who convinced themselves that they could make a single currency work without a single government. And these same officials have made the situation even worse by insisting, in the teeth of the evidence, that all the currency’s troubles were caused by irresponsible behavior on the part of those Southern Europeans, and that everything would work out if only people were willing to suffer some more.

Which brings us to Sunday’s Greek election, which ended up settling nothing. The governing coalition may have managed to stay in power, although even that’s not clear (the junior partner in the coalition is threatening to defect). But the Greeks can’t solve this crisis anyway.

The only way the euro might — might — be saved is if the Germans and the European Central Bank realize that they’re the ones who need to change their behavior, spending more and, yes, accepting higher inflation. If not — well, Greece will basically go down in history as the victim of other people’s hubris.

 

La Grecia come vittima, di Paul Krugman

New York Times 17 giugno 2012

 

Dal momento in cui la Grecia è finita in cattive acque, ci è stato detto a iosa che i greci avevano sbagliato tutto. Alcune delle accuse sono vere, altre false – ma sono tutte fuori tema. Certo, ci sono grandi difetti nell’economia greca, nella sua politica e, senza dubbio, nella sua società. Ma non sono quei difetti che hanno provocato la crisi che sta distruggendo la Grecia e che minaccia di diffondersi per tutta l’Europa.

No, le origini di questo disastro risiedono molto più a nord, a Bruxelles, Francoforte e Berlino,  dove i massimi responsabili hanno creato un sistema monetario profondamente, e forse fatalmente, difettoso; per poi aggravare i problemi di quel sistema mettendo al loro posto analisi moralistiche. E la soluzione della crisi, se mai ce ne sarà una, dovrà venire da dove è nata.

Dunque, a proposito dei difetti della Grecia: essa in effetti ha un sacco di corruzione e di evasione fiscale, e il Governo greco aveva l’abitudine a vivere oltre le sue possibilità. Inoltre, la produttività del lavoro in Grecia è bassa per gli standards europei – circa il 25 per cento al di sotto della media dell’Unione Europea. E’ degno di nota, tuttavia, che tale produttività, ad esempio nel Mississippi, è similmente bassa per gli standards americani – grosso modo nella stessa misura.

D’altronde, molte cose che si sono sentite sulla Grecia semplicemente non sono vere. I Greci non sono vagabondi – al contrario, lavorano più ore di quasi tutti gli altri in Europa, in particolare molte più ore dei tedeschi. Né i Greci hanno uno Stato assistenziale fuori controllo, come amano sostenere i conservatori; la spesa sociale come percentuale del PIL, la misura standard delle dimensioni dello stato sociale, è sostanzialmente più bassa in Grecia, ad esempio, della Svezia o della Germania, paesi che sinora hanno resistito abbastanza bene alla crisi europea.

Come è finita, dunque, la Grecia in tale disastro? La colpa è dell’euro.

 

Quindici anni fa la Grecia non era un paradiso, ma non era neanche in crisi. La disoccupazione era alta ma non catastrofica e la nazione faceva la sua parte sui mercati mondiali, guadagnando a sufficienza dalle esportazioni, dal turismo, dai traffici marittimi e da altre fonti, in modo da ripagare più o meno le importazioni.

Poi la Grecia aderì all’euro, e accadde una cosa terribile: la gente cominciò a credere che fosse un posto sicuro per gli investimenti. La valuta straniera affluì in Grecia, in parte ma non del tutto per finanziare i deficit dello Stato; e la Grecia divenne sempre meno competitiva. Certamente, i Greci sperperarono gran parte se non tutte le risorse finanziarie che giunsero ad inondarli, ma d’altra parte si comportarono nello stesso modo tutti coloro che ebbero in sorte di essere coinvolti nella bolla [29] dell’euro.

E quando la bolla scoppiò, a quel punto le crepe principali nell’intero sistema dell’euro apparvero sin troppo chiaramente.

 

Chiedetevi perché l’area del dollaro – altrimenti detta Stati Uniti d’America – più o meno funziona, senza quel grave genere di crisi regionali che in questo momento affliggono l’Europa? La risposta è che abbiamo un forte governo centrale, le cui attività in effetti forniscono salvataggi automatici agli Stati che vanno in difficoltà.

 

Si consideri, ad esempio, che cosa accadrebbe in questo momento alla Florida, sulla scia della sua vasta bolla immobiliare, se lo Stato dovesse tirar fuori il denaro per la Previdenza Sociale e per Medicare dalle sue proprie entrate improvvisamente ridotte. Fortunatamente per la Florida, è Washington e non Tallahassee [30] che paga il conto, il che significa che la Florida sta in effetti ricevendo un salvataggio di dimensioni tali che nessuna nazione europea potrebbe sognarsi.

Oppure si consideri un esempio del passato, la crisi delle casse di risparmio degli anni ’80 [31],  che fu in gran parte una vicenda del Texas.  I contribuenti finirono col pagare un conto salato per fare pulizia del disastro – ma la grande maggioranza dei contribuenti erano in stati diversi dal Texas. Di nuovo, lo Stato ricevette un salvataggio automatico di dimensioni inconcepibili per l’Europa.

Dunque la Grecia, ancorché non senza peccati, è nei guai principalmente grazie all’arroganza dei massimi responsabili europei, in gran parte provenienti dai paesi più ricchi, che vollero convincersi di poter far funzionare una moneta unica senza  un Governo unico. E questi stessi massimi responsabili hanno reso la situazione ancora peggiore insistendo, alla faccia dell’evidenza, che tutti i guai valutari fossero conseguenza del comportamento irresponsabile degli europei meridionali, e che ogni cosa avrebbe funzionato se solo la gente fosse stata disponibile a soffrire un altro po’.

I che ci porta alle elezioni greche di domenica, che hanno finito col non risolvere niente. La coalizione di governo può essere riuscita a restare al potere, sebbene anche questo non sia chiaro (il partner minore della coalizione sta minacciando la defezione). Ciononostante, i Greci non possono risolvere la crisi.

L’unica possibile salvezza dell’euro sarebbe che i tedeschi e la Banca Centrale Europea comprendessero di esser loro a dover cambiare condotta, con una maggiore spesa pubblica e accettando davvero una maggiore inflazione. Se non accadrà – ebbene, la Grecia fondamentalmente finirà col fare la parte della vittima della supponenza altrui.

 

 

 

 

Prisons, Privatization, Patronage

By PAUL KRUGMAN
Published: June 21, 2012
 

Over the past few days, The New York Times has published several terrifying reports about New Jersey’s system of halfway houses — privately run adjuncts to the regular system of prisons. The series is a model of investigative reporting, which everyone should read. But it should also be seen in context. The horrors described are part of a broader pattern in which essential functions of government are being both privatized and degraded.

First of all, about those halfway houses: In 2010, Chris Christie, the state’s governor — who has close personal ties to Community Education Centers, the largest operator of these facilities, and who once worked as a lobbyist for the firm — described the company’s operations as “representing the very best of the human spirit.” But The Times’s reports instead portray something closer to hell on earth — an understaffed, poorly run system, with a demoralized work force, from which the most dangerous individuals often escape to wreak havoc, while relatively mild offenders face terror and abuse at the hands of other inmates.

 

It’s a terrible story. But, as I said, you really need to see it in the broader context of a nationwide drive on the part of America’s right to privatize government functions, very much including the operation of prisons. What’s behind this drive?

 

You might be tempted to say that it reflects conservative belief in the magic of the marketplace, in the superiority of free-market competition over government planning. And that’s certainly the way right-wing politicians like to frame the issue.

But if you think about it even for a minute, you realize that the one thing the companies that make up the prison-industrial complex — companies like Community Education or the private-prison giant Corrections Corporation of America — are definitely not doing is competing in a free market. They are, instead, living off government contracts. There isn’t any market here, and there is, therefore, no reason to expect any magical gains in efficiency.

And, sure enough, despite many promises that prison privatization will lead to big cost savings, such savings — as a comprehensive study by the Bureau of Justice Assistance, part of the U.S. Department of Justice, concluded — “have simply not materialized.” To the extent that private prison operators do manage to save money, they do so through “reductions in staffing patterns, fringe benefits, and other labor-related costs.”

 

So let’s see: Privatized prisons save money by employing fewer guards and other workers, and by paying them badly. And then we get horror stories about how these prisons are run. What a surprise!

So what’s really behind the drive to privatize prisons, and just about everything else?

One answer is that privatization can serve as a stealth form of government borrowing, in which governments avoid recording upfront expenses (or even raise money by selling existing facilities) while raising their long-run costs in ways taxpayers can’t see. We hear a lot about the hidden debts that states have incurred in the form of pension liabilities; we don’t hear much about the hidden debts now being accumulated in the form of long-term contracts with private companies hired to operate prisons, schools and more.

 

 

Another answer is that privatization is a way of getting rid of public employees, who do have a habit of unionizing and tend to lean Democratic in any case.

 

But the main answer, surely, is to follow the money. Never mind what privatization does or doesn’t do to state budgets; think instead of what it does for both the campaign coffers and the personal finances of politicians and their friends. As more and more government functions get privatized, states become pay-to-play paradises, in which both political contributions and contracts for friends and relatives become a quid pro quo for getting government business. Are the corporations capturing the politicians, or the politicians capturing the corporations? Does it matter?

 

Now, someone will surely point out that nonprivatized government has its own problems of undue influence, that prison guards and teachers’ unions also have political clout, and this clout sometimes distorts public policy. Fair enough. But such influence tends to be relatively transparent. Everyone knows about those arguably excessive public pensions; it took an investigation by The Times over several months to bring the account of New Jersey’s halfway-house-hell to light.

 

The point, then, is that you shouldn’t imagine that what The Times discovered about prison privatization in New Jersey is an isolated instance of bad behavior. It is, instead, almost surely a glimpse of a pervasive and growing reality, of a corrupt nexus of privatization and patronage that is undermining government across much of our nation.

 

Prigioni, privatizzazione e clientelismo

Di Paul Krugman

New York Times 21 giugno 2012

 

Nei giorni scorsi, il New York Times ha pubblicato alcuni resoconti raccapriccianti sul sistema di case di reclusione del New Jersey – appendici gestite privatamente del normale sistema delle carceri. La serie era un esempio di giornalismo investigativo, che ognuno dovrebbe leggere. Ma essa dovrebbe anche essere inserita in un contesto. Gli orrori descritti fanno parte di un quadro più generale nel quale essenziali funzioni di governo vengono assieme privatizzate e degradate.

Prima di tutto, a proposito di queste case di reclusione: nel 2010 Chris Christie, il Governatore dello Stato – che ha legami personali con il Community Education Center, il più grande operatore di queste strutture, e che un tempo lavorava come lobbista della società – descrisse le operazioni della compagnia come “espressioni del meglio dello spirito umano”. Sennonché i resoconti di The Times   ritraggono qualcosa di più simile ad un inferno in terra – un sistema a corto di personale, gestito in modo miserabile, con maestranze demotivate, dal quale gli individui più pericolosi spesso scappano per creare disordine, mentre i responsabili di reati relativamente leggeri fanno i conti con il terrore e gli abusi, nelle mani degli altri reclusi.

E’ un racconto terribile. Ma, come ho detto, esso deve essere effettivamente inserito nel contesto più generale di una campagna di dimensioni nazionali della destra americana per privatizzare funzioni governative, al cui centro sta l’operazione che riguarda il sistema carcerario. Cosa c’è dietro questa campagna?

Si sarebbe tentati di dire che essa riflette la convinzione dei conservatori sulla magia del libero mercato, sulla superiorità della competizione del libero mercato sulla programmazione pubblica. E quello è certamente il modo in cui gli uomini politici della destra amano impostare la questione.

Ma se ci pensate un attimo, vi rendete conto che l’unica cosa che sicuramente non stanno facendo le società che tengono su il sistema affaristico-carcerario – società come la Community Education o come il gigante delle carceri private Corrections Corporation of America – è quella di competere in un libero mercato. Semmai, esse campano di contratti pubblici. In quel caso non c’è alcun mercato, e di conseguenza non c’è alcuna ragione di aspettarsi alcun magico incremento di efficienza.

E di sicuro, nonostante le varie promesse secondo le quali la privatizzazione delle carceri avrebbe portato a grandi risparmi sui costi, quei risparmi – secondo le conclusioni alle quali è giunto uno studio sistematico del Bureau of Justice Assistance, che è parte del Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti – “semplicemente non c’è stato”. Nelle misura in cui gli operatori delle carceri private effettivamente risparmiano soldi, lo fanno “attraverso riduzioni delle piante organiche, delle indennità accessorie e di altri costi connessi col lavoro”.

Dunque, osserviamo: le carceri private risparmiano soldi impiegando un numero minore di agenti e degli altri lavoratori, e pagandoli peggio. E in cambio abbiamo i racconti orribili su come queste carceri vengono gestite. Ma che sorpresa!

Cosa c’è, dunque, dietro la campagna per privatizzare le carceri, così come tutto il resto?

Una risposta è che la privatizzazione può servire come forma simulata di indebitamento pubblico, tramite la quale i governi evitano di contabilizzare spese dirette (o addirittura rastrellano soldi vendendo strutture esistenti) nel mentre aumentano i loro costi nel lungo periodo in modi che i contribuenti non riescono a vedere. C’è un gran parlare dei debiti nascosti nei quali gli Stati sono incorsi nella forma di passivi del sistema delle pensioni; si sente parlare assai meno dei debiti nascosti che al giorno d’oggi vengono accumulati nella forma di contratti a lungo termine con società private ingaggiate per gestire carceri, scuole, ad altro ancora.

 

Un’altra risposta è che la privatizzazione è un modo nel quale ci si sbarazza del pubblico impiego, che ha la disdicevole abitudine alla sindacalizzazione e tende ad appoggiare sistematicamente i Democratici.

Ma la principale risposta, di sicuro, è andar dietro alla traccia dei soldi. Conta poco quello che la privatizzazione fa o non fa per i bilanci degli Stati; si pensi piuttosto a quello che fa sia per le casse delle campagne elettorali che per le finanze private degli uomini politici e dei loro amici. Nel mentre un numero sempre maggiore di funzioni pubbliche vengono privatizzate, gli Stati diventano paradisi del “fai-da-te” [32], nei quali sia i contributi politici che i contratti per amici e parenti diventano merce di scambio per ottenere i contratti pubblici. Sono le imprese che si impadroniscono degli uomini politici, o questi ultimi che si impadroniscono delle imprese? Ha qualche importanza?

Ora, qualcuno sicuramente metterà in evidenza che anche i governi che non privatizzano hanno i loro problemi di influenze indebite, che i sindacati degli insegnanti e degli agenti carcerari hanno il loro peso politico, e che tale peso talora distorce la politica pubblica. E’ abbastanza corretto. Ma tale influenza tende ad essere relativamente trasparente. Tutti sono al corrente delle pensioni pubbliche senza dubbio eccessive; c’è voluta una inchiesta di alcuni mesi da parte di The Times per portare alla luce il resoconto delle infernali case di reclusione del New Jersey.

 

In punto, dunque, è che non ci si deve immaginare che quello che ha scoperto The Times sulla privatizzazione delle carceri del New Jersey sia un caso isolato di mala condotta. Esso è piuttosto quasi certamente uno sguardo su una realtà pervasiva e crescente, su un nesso tra privatizzazione e clientelismo che mette a repentaglio le funzioni pubbliche in gran parte della nostra nazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] “teething pains” sono i “disturbi della dentizione”, in termini figurativi le “difficoltà iniziali”.

[2] “Stagecoach” significa “diligenza”, ma in Italia il film di John Ford è famoso col titolo “Ombre rosse”.

[3] Non direi che in italiano sia “giustizia poetica” sia una espressione usata, ma in lingua inglese ha precise origini letterarie. Sta a significare quel genere di racconti nei quali, alla fine, la virtù viene premiata, la colpa punita e in tal modo la logica trionfa.

[4] Dal nome del proponente, Paul Adolph Volcker (5 settembre 1927), economista statunitense. Era il presidente della Federal Reserve sotto i presidenti Jimmy Carter e Ronald Reagan (dall’agosto 1979 all’agosto 1987). È attualmente presidente del comitato consultivo Economic Recovery Advisory Board formato il 6 febbraio 2009 per il miglioramento della situazione economica sotto il presidente Barack Obama.

[5] Per “proprietary trading” si intendono le negoziazioni attuate dalle  banche con mezzi propri – che siano scorte commerciali, obbligazioni, valute, materie prime etc. – e non per conto dei propri clienti.

[6] Ovvero, anziché una “corsa”, una “corsetta” agli sportelli bancari.

[7] E’ il famoso film di Frank Capra del 1946. James Stewart recita la parte del giovane George Bailey, che si trova a gestire una modesta cooperativa di risparmio che, tra varie peripezie, rischia di finire nelle grinfie dello speculatore nonché boss cittadino Potter. Ne consegue un pensiero di suicidio, uno strano salvataggio di un angelo, un ripensamento ed un finale pirotecnico nel quale l’intera cittadina newdealista aiuta George a salvare la pelle, la famiglia e la piccola banca.

[8] In finanza i “prodotti strutturati” , anche conosciuti come investimenti collegati al mercato, sono in generale una strategia di investimenti preconfezionati basata su derivati, ovvero su contratti tra due parti che specificano condizioni e tempi dei pagamenti di vari oggetti finanziari. In generale, la loro caratteristica può essere quella di una complessità e mancanza di trasparenza che può provocare una sottostima del rischio sui mercati dei capitali.

[9] Dal nome dei  due congressisti democratici americani che hanno promosso la legge denominata “Legge di riforma di Wall Street e di protezione degli utenti (del sistema finanziario)”, firmata da Obama nel luglio del 2010.

[10] Il termine “trikle down” – che significa “sgocciolamento verso il basso” – è consueto nel linguaggio economico conservatore di questi decenni; sta a significare un modello di economia che privilegia, dal punto di vista della mancanza di regole e dei tagli fiscali,  ricchi ed imprese e che un po’ alla volta “riversa” questi benefici su tutti coloro che stanno più in basso.

[11] Il private equity è un’attività finanziaria mediante la quale un investitore istituzionale rileva quote di una società target (obiettivo) sia acquisendo azioni esistenti da terzi sia sottoscrivendo azioni di nuova emissione apportando nuovi capitali all’interno della target. Il Private equity include tutti gli investimenti in società non quotate su mercati regolamentati. Le società target possono anche essere quotate, ma intenzionate ad abbandonare la borsa, ed in questo caso si parla di Public Private Equity. Gli investimenti in private equity raggruppano un ampio spettro di operazioni, in funzione sia della fase nel ciclo di vita aziendale che l’azienda target attraversa durante l’operazione di private equity, sia della tecnica di investimento usata. (Wikipedia)

[12] Newark è una città degli Stati Uniti d’America, capoluogo della contea di Essex, nello stato del New Jersey. Soprannominata “Brick City” (Città del Mattone), si affaccia sulla Baia di Newark a circa 8 km ad ovest dall’isola di Manhattan e a circa 4 km a nord di Staten Island, entrambe parte della città di New York. È separata dalla Baia di New York dalla penisola di Jersey City, ed è inclusa nell’area urbana di New York. (Wikipedia)

[13] “Graduate” può essere tradotto anche con “passare a …”, ma mi pare preferibile riferirlo al titolo di studio. “Into” potrebbe sembrare improprio, ma ha anche il significato di (andare/sbattere) “contro” … e la separazione tra laurea e mercato del lavoro non è negli USA così esagerata.

[14] Ovvero “prepotente/arrogante”,

[15] Ovvero “ipocrita”.

[16] Quando Paul Ryan presentò lo scorso inverno le sue proposte, quegli “asterischi” o “rimandi” alle soluzioni per ottenere maggiori entrate erano tutte prive di specificazione. C’era scritto che si sarebbe trattato di una “chiusura” di tutte le “scappatoie” del fisco, ma non ne veniva indicata una. Ryan si rifiuto, peraltro, di precisarle alla stampa.

[17] “yelling-at-people thing” sarebbe una “cosa di uno che urla alla gente”.

[18] Naturalmente il riferimento è allo Stato americano.

Il New Jersey è uno dei più piccoli stati degli Stati Uniti. La superficie è di 22608 km², appena inferiore a quella dell’attuale Toscana. È posto sulla costa dell’Oceano Atlantico e limitato ad ovest dal fiume Delaware. Il Delaware segna tutto il confine occidentale con la Pennsylvania e quello sud/sud-occidentale con lo stato del Delaware. Il New Jersey confina a nord con lo stato di New York. Il fiume Hudson separa il New Jersey nord-orientale da New York City.

[19] Probabilmente il riferimento è allo scatto di nervi di Christie del quale si parla successivamente.

[20] Con il termine “McMansion” ci si riferisce ad un genere di abitazione caratterizzata da notevole ampiezza, spesso da una sovrapposizione di più edifici in un’unica unità edilizia, generalmente caratterizzata da uno stile architettonico pretenzioso ed abbastanza incongruo con l’ambiente circostante. Non ho trovato conferma al fatto che questa sia una caratteristica del New Jersey.

[21] Jacob Kevorkian è noto per aver praticato il suicidio assistito su 129 malati terminali, e per aver praticato l’eutanasia sul 130esimo paziente.

[22] “Runner mate”, ovvero il candidato alla Vicepresidenza che accompagnerà la candidatura di Romney alla Presidenza.

[23] Fondazione culturale della destra americana.

[24] E’ un tema – quello di una deformata deontologia giornalistica – sul quale Krugman insiste frequentemente. Intende riferirsi ad un giornalismo per vocazione “centrista”, che si rifiuta di approfondire e di assumere il coraggio della ricerca e delle opinioni fondate, e risolve il problema della sua imparzialità, anziché con la fatica del comprendere e del giudicare, con il metodo delle citazioni contrapposte. In questo modo si trovano sempre su entrambi i lati dei “fucili assoldati” (ovvero dei “campioni della battuta”, dei “sicari della formula”) che quel genere di giornalismo falsamente imparziale adopera, in sostanza per scaricarsi la coscienza.

[25] Il verbo “to preside”  evidentemente ha in America, o in altre repubbliche presidenziali, un significato che difficilmente si può restituire con l’espressione italiana “presiedere”. La ragione è proprio quella del contesto istituzionale: il “presiedere” americano corrisponde al governare – al gestire, all’avere precipua responsabilità, all’essere alle prese con … – mentre il nostro presiedere ha un significato assai più lieve.

[26] “Poster child” sono, od erano, i bambini che giravano con cartelli pubblicitari indosso per le strade.

[27] Darth Vader è un soggetto principale della “saga Guerre Stellari. Pare che Krugman da giovane fosse un appassionato di fantascienza. Sfortunatamente la dettagliata tecnicissima ricostruzione su Wikipedia non mi offre appigli per comprendere il nesso tra la travagliata storia di Darth Vader – i suoi passaggi dal ‘mondo della luce’ a quello del ‘buio’ – e l’economia dell’austerità ‘partecipata’ di Asmussen. 

[28] Normalmente si traduce con il termine “spiazzamento” il concetto o la pretesa egli economisti della destra, secondo la quale l’aumento della spesa pubblica comporterebbe di necessità una restrizione dei risparmi disponibili come investimenti nel settore privato, giacché i risparmi sarebbero drenati dalla spesa pubblica.

[29] Può essere interessante notare che l’espressione “bolla” – a proposito delle performance della prima fase dell’euro – è qua utilizzata da Krugman per la prima volta. Nei giorni scorsi, sul blog, egli aveva preso nota di questo concetto, desumendolo da un recente discorso di George Soros e giudicandolo molto appropriato.

[30] Tallahassee è una città degli Stati Uniti d’America di 159.012 abitanti, capitale della Florida e capoluogo della Contea di Leon.

[31] La crisi del sistema di banche locali che possiamo tradurre con “casse di risparmio” (forse di dimensioni ed ambizioni più modeste rispetto a molte nostre “Casse”, limitandosi in genere a ricevere depositi ed a concedere mutui alle persone fisiche)  portò nel corso degli anno ottanta al fallimento di 747 istituti locali si credito, su un totale di 3.234.

[32] In effetti “pay-to-play” è un gioco on line nel quale semplicemente si paga per giocare. Penso che il senso sia quello. Più precisamente indica il ‘farsi le cose in proprio’, regole ed affari.

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