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Il pathos del plutocrate (New York Times 19 luglio 2012)

 

Pathos of the Plutocrat

By PAUL KRUGMAN
Published: July 19

“Let me tell you about the very rich. They are different from you and me.” So wrote F. Scott Fitzgerald — and he didn’t just mean that they have more money. What he meant instead, at least in part, was that many of the very rich expect a level of deference that the rest of us never experience and are deeply distressed when they don’t get the special treatment they consider their birthright; their wealth “makes them soft where we are hard.”

 

And because money talks, this softness — call it the pathos of the plutocrats — has become a major factor in America’s political life.

It’s no secret that, at this point, many of America’s richest men — including some former Obama supporters — hate, just hate, President Obama. Why? Well, according to them, it’s because he “demonizes” business — or as Mitt Romney put it earlier this week, he “attacks success.” Listening to them, you’d think that the president was the second coming of Huey Long, preaching class hatred and the need to soak the rich.

Needless to say, this is crazy. In fact, Mr. Obama always bends over backward to declare his support for free enterprise and his belief that getting rich is perfectly fine. All that he has done is to suggest that sometimes businesses behave badly, and that this is one reason we need things like financial regulation. No matter: even this hint that sometimes the rich aren’t completely praiseworthy has been enough to drive plutocrats wild. For two years or more, Wall Street in particular has been crying: “Ma! He’s looking at me funny!”

 

Wait, there’s more. Not only do many of the superrich feel deeply aggrieved at the notion that anyone in their class might face criticism, they also insist that their perception that Mr. Obama doesn’t like them is at the root of our economic problems. Businesses aren’t investing, they say, because business leaders don’t feel valued. Mr. Romney repeated this line, too, arguing that because the president attacks success “we have less success.”

 

This, too, is crazy (and it’s disturbing that Mr. Romney appears to share this delusional view about what ails our economy). There’s no mystery about the reasons the economic recovery has been so weak. Housing is still depressed in the aftermath of a huge bubble, and consumer demand is being held back by the high levels of household debt that are the legacy of that bubble. Business investment has actually held up fairly well given this weakness in demand. Why should businesses invest more when they don’t have enough customers to make full use of the capacity they already have?

 

But never mind. Because the rich are different from you and me, many of them are incredibly self-centered. They don’t even see how funny it is — how ridiculous they look — when they attribute the weakness of a $15 trillion economy to their own hurt feelings. After all, who’s going to tell them? They’re safely ensconced in a bubble of deference and flattery.

Unless, that is, they run for public office.

Like everyone else following the news, I’ve been awe-struck by the way questions about Mr. Romney’s career at Bain Capital, the private-equity firm he founded, and his refusal to release tax returns have so obviously caught the Romney campaign off guard. Shouldn’t a very wealthy man running for president — and running specifically on the premise that his business success makes him qualified for office — have expected the nature of that success to become an issue? Shouldn’t it have been obvious that refusing to release tax returns from before 2010 would raise all kinds of suspicions?

 

 

By the way, while we don’t know what Mr. Romney is hiding in earlier returns, the fact that he is still stonewalling despite calls by Republicans as well as Democrats to come clean suggests that it could be something seriously damaging.

 

Anyway, what’s now apparent is that the campaign was completely unprepared for the obvious questions, and it has reacted to the Obama campaign’s decision to ask those questions with a hysteria that surely must be coming from the top. Clearly, Mr. Romney believed that he could run for president while remaining safe inside the plutocratic bubble and is both shocked and angry at the discovery that the rules that apply to others also apply to people like him. Fitzgerald again, about the very rich: “They think, deep down, that they are better than we are.”

 

O.K., let’s take a deep breath. The truth is that many, and probably most, of the very rich don’t fit Fitzgerald’s description. There are plenty of very rich Americans who have a sense of perspective, who take pride in their achievements without believing that their success entitles them to live by different rules.

But Mitt Romney, it seems, isn’t one of those people. And that discovery may be an even bigger issue than whatever is hidden in those tax returns he won’t release.

 

Il pathos del plutocrate, di Paul Krugman

New York Times 19 luglio 2012

“Lasciatemi dire a proposito dei più ricchi: è gente diversa da voi e da me”. Così scriveva F. Scott Fitzgerald, e non intendeva soltanto dire che avevano più soldi. Piuttosto intendeva dire, almeno in parte, che molti tra i più ricchi si aspettano un grado di riconoscenza che il resto di noi non sa cosa sia, e che sono profondamente delusi quando non ottengono quel trattamento speciale che considerano un loro diritto naturale; la loro ricchezza “li rende molli, laddove noi siamo duri”.

E dato che il denaro è convincente, questa mollezza – chiamiamola il pathos dei plutocrati – è diventato un importante fattore della vita politica americana.

Non è un segreto che, a questo punto, molti degli uomini più ricchi d’America, inclusi alcuni passati sostenitori di Obama, abbiano preso ad odiare, proprio ad odiare, il Presidente. Perché? Ebbene, secondo loro, perché “demonizza” gli affari – o come ha detto Mitt Romney agli inizi di questa settimana, perché “attacca il successo”. Ascoltandoli, pensereste che il Presidente sia una specie di Huey Long [1] redivivo, che predica l’odio di classe e vuole espropriare i ricchi.

Non c’è bisogno di dire che tutto questo è pazzesco. Di fatto, in ogni occasione Obama si fa in quattro per dichiarare il suo sostegno alla libera impresa e la sua convinzione che diventar ricchi sia sacrosanto. Tutto quello che egli ha fatto è indicare che talvolta gli uomini d’affari si comportano male, e che questa è una ragione per la quale abbiamo bisogno di cose come una regolamentazione della finanza.  Niente da fare: persino questo accenno al fatto che talvolta i ricchi non siano del tutto encomiabili, è stato sufficiente a far inferocire i plutocrati. Sono due anni e più, in particolare, che Wall Street si lamenta: “Mamma, mi guarda male!”.

Aspettate, c’è di più. Non solo molti dei super ricchi si sentono profondamente lesi dall’idea che qualcuno all’interno della loro classe debba misurarsi con delle critiche, insistono anche sulla loro percezione che il fatto di non avere il gradimento di Obama sia all’origine dei nostri problemi economici. Gli imprenditori non investono, affermano, perché i dirigenti delle imprese non si sentono valorizzati.  Anche Romney ha ripetuto questo argomento, sostenendo che dato che il Presidente è ostile al successo “noi abbiamo meno successo”.

Anche questo è pazzesco (ed è inquietante che Romney paia condividere questo illusorio punto di vista su ciò che affligge la nostra economia). Non c’è alcun mistero sulle ragioni per le quali la ripresa dell’economia sia stata così fragile. Il settore delle costruzioni è ancora depresso in conseguenza di una vasta bolla, e la domanda di consumi è trattenuta dagli elevati livelli di debito delle famiglie che sono un’eredità di quella bolla. In effetti, gli investimenti delle imprese reggono abbastanza bene, considerata questa debolezza della domanda. Perché le imprese dovrebbero investire maggiormente, laddove non hanno sufficiente clientela per fare pieno uso della capacità produttiva che già possiedono?

Ma non conta. Perché i ricchi sono diversi da voi e da me, e molti di loro sono concentrati su se stessi in modo incredibile. Neanche si accorgono di quanto sia bizzarro – e di come li faccia apparire ridicoli – l’attribuire la debolezza di un’economia di 15 mila miliardi di dollari ai loro sentimenti feriti. Dopo tutto, chi si prende la briga di andarglielo a spiegare? Essi sono comodamente insediati dentro una sfera di ossequiosità e di adulazione.

O meglio, ad eccezione di quando competono per un incarico pubblico.

Come tutti coloro che stanno dietro alle cronache, sono rimasto sbalordito dal modo in cui le domande relative alla carriera del signor Romney alla Bain Capital, la società di private-equity [2] da lui fondata, ed al suo rifiuto di rendere pubbliche le dichiarazioni fiscali, abbiano con tanta evidenza colto di sorpresa la campagna elettorale di Romney. Non doveva aspettarsi, un uomo così ricco in corsa per la Presidenza – e in particolare un uomo che compete sulla base della premessa che il suo successo negli affari lo renda qualificato a tale carica – che la natura di quel successo divenisse un tema di quella campagna elettorale? Non avrebbe dovuto essere ovvio che il rifiuto di rendere pubbliche le dichiarazioni al fisco precedenti il 2010 avrebbe sollevato sospetti di ogni genere?

Per inciso, mentre noi non conosciamo che cosa il signor Romney stia nascondendo dei suoi originari profitti, il fatto che egli stia ancora tergiversando nonostante le richieste, provenienti dai Repubblicani come dai Democratici, di mettere le cose in chiaro, indica che potrebbe trattarsi di qualcosa di seriamente compromettente.

In ogni modo, quello che ora appare è che la sua campagna elettorale era del tutto impreparata a domande elementari, e che egli ha reagito alla decisione della propaganda di Obama di porre quelle domande con una isteria che certamente gli deriva dallo stare in alto. Chiaramente, Romney credeva che avrebbe potuto correre per la Presidenza standosene al sicuro dentro quella sfera plutocratica, ed è rimasto sia sorpreso che indignato alla scoperta che le regole che si applicano agli altri, si applicano anche a persone come lui. Ancora Fitzgerald, a proposito dei più ricchi: “Essi pensano, nel profondo, di essere meglio di noi.”

Va bene, prendiamoci un respiro profondo. La verità è che molti, probabilmente la maggior parte, dei ricchissimi non corrispondono alla descrizione di Fitzgerald. C’è un gran numero di americani molto ricchi che hanno un senso della prospettiva, che si inorgogliscono dei loro risultati senza credere che il loro successo li autorizzi a vivere sotto altre regole.

Ma Mitt Romney, a quanto pare, non fa parte di costoro. E questa scoperta può costituire un tema persino più rilevante di tutto quello che si nasconde nelle dichiarazioni al fisco che non intende rendere pubbliche.



[1] Huey Long era un democratico, Governatore della Louisiana e Senatore nei primi anni Trenta, famoso per i suoi propositi radicalmente populisti di redistribuzione della ricchezza. Il suo programma (“Partecipiamo alla nostra ricchezza!”)  aveva come parola d’ordine: “Ogni uomo un Re !”. Pur avendo un programma radicalmente “newdealista” si preparò più volte alla eventuale successione di Franklin Delano Roosevelt, contando anche sulla immensa popolarità che aveva acquisito con le realizzazioni della sua politica.  Era pronto a farlo nell’occasione  delle elezioni del 1936, con un strana alleanza con un prete cattolico, Charles Coughlin, famosissimo anch’egli per le sue trasmissioni radiofoniche. Entrambi rappresentarono una sorta di “rooseveltismo” di sinistra. Ma Long non arrivò a quella scadenza, giacché venne assassinato nel 1935.

giu 19 8

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[2] Ovvero, una impresa che opera rilevamenti di altre società in condizioni economiche difficili per risanarle o, il più delle volte, per condurle alla liquidazione dei loro assets ed al licenziamento delle maestranze.

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