Once upon a time a rich man named Romney ran for president. He could claim, with considerable justice, that his wealth was well-earned, that he had in fact done a lot to create good jobs for American workers. Nonetheless, the public understandably wanted to know both how he had grown so rich and what he had done with his wealth; he obliged by releasing extensive information about his financial history.
But that was 44 years ago. And the contrast between George Romney and his son Mitt — a contrast both in their business careers and in their willingness to come clean about their financial affairs — dramatically illustrates how America has changed.
Right now there’s a lot of buzz about an investigative report in the magazine Vanity Fair highlighting the “gray areas” in the younger Romney’s finances. More about that in a minute. First, however, let’s talk about what it meant to get rich in George Romney’s America, and how it compares with the situation today.
What did George Romney do for a living? The answer was straightforward: he ran an auto company, American Motors. And he ran it very well indeed: at a time when the Big Three were still fixated on big cars and ignoring the rising tide of imports, Romney shifted to a highly successful focus on compacts that restored the company’s fortunes, not to mention that it saved the jobs of many American workers.
It also made him personally rich. We know this because during his run for president, he released not one, not two, but 12 years’ worth of tax returns, explaining that any one year might just be a fluke. From those returns we learn that in his best year, 1960, he made more than $660,000 — the equivalent, adjusted for inflation, of around $5 million today.
Those returns also reveal that he paid a lot of taxes — 36 percent of his income in 1960, 37 percent over the whole period. This was in part because, as one report at the time put it, he “seldom took advantage of loopholes to escape his tax obligations.” But it was also because taxes on the rich were much higher in the ’50s and ’60s than they are now. In fact, once you include the indirect effects of taxes on corporate profits, taxes on the very rich were about twice current levels.
Now fast-forward to Romney the Younger, who made even more money during his business career at Bain Capital. Unlike his father, however, Mr. Romney didn’t get rich by producing things people wanted to buy; he made his fortune through financial engineering that seems in many cases to have left workers worse off, and in some cases driven companies into bankruptcy.
And there’s another contrast: George Romney was open and forthcoming about what he did with his wealth, but Mitt Romney has largely kept his finances secret. He did, grudgingly, release one year’s tax return plus an estimate for the next year, showing that he paid a startlingly low tax rate. But as the Vanity Fair report points out, we’re still very much in the dark about his investments, some of which seem very mysterious.
Put it this way: Has there ever before been a major presidential candidate who had a multimillion-dollar Swiss bank account, plus tens of millions invested in the Cayman Islands, famed as a tax haven?
And then there’s his Individual Retirement Account. I.R.A.’s are supposed to be a tax-advantaged vehicle for middle-class savers, with annual contributions limited to a few thousand dollars a year. Yet somehow Mr. Romney ended up with an account worth between $20 million and $101 million.
There are legitimate ways that could have happened, just as there are potentially legitimate reasons for parking large sums of money in overseas tax havens. But we don’t know which if any of those legitimate reasons apply in Mr. Romney’s case — because he has refused to release any details about his finances. This refusal to come clean suggests that he and his advisers believe that voters would be less likely to support him if they knew the truth about his investments.
And that is precisely why voters have a right to know that truth. Elections are, after all, in part about the perceived character of the candidates — and what a man does with his money is surely a major clue to his character.
One more thing: To the extent that Mr. Romney has a coherent policy agenda, it involves cutting tax rates on the very rich — which are already, as I said, down by about half since his father’s time. Surely a man advocating such policies has a special obligation to level with voters about the extent to which he would personally benefit from the policies he advocates.
Yet obviously that’s something Mr. Romney doesn’t want to do. And unless he does reveal the truth about his investments, we can only assume that he’s hiding something seriously damaging.
Le zone grigie di Romney, di Paul Krugman
New York Times 8 luglio 2012
C’era un volta un uomo ricco che si chiamava Romney e correva per la Presidenza. Egli poteva rivendicare, con notevole fondamento, di essersi meritato la sua ricchezza, di aver fatto molto per creare buoni posti di lavoro per i lavoratori americani. Nondimeno l’opinione pubblica volle conoscere sia come era diventato così ricco, sia cosa aveva fatto della sua ricchezza; egli collaborò rilasciando un’ampia informazione sulla sua storia finanziaria.
Ma questo accadeva 44 anni orsono. E il contrasto tra George Romney e suo figlio Mitt – un contrasto sia nelle loro carriere di imprenditori che nella loro disponibilità a mettere in chiaro i loro affari finanziari – illustra in modo spettacolare come è cambiata l’America.
In questo momento c’è un gran parlare sul reportage investigativo della rivista Vanity Fair , che ha portato alla luce le “zone grigie” nelle finanze del giovane Romney. Ci veniamo tra un attimo. Prima, tuttavia, fatemi dire cosa significava diventar ricchi nell’America di George Romney, a confronto con la situazione odierna.
Cosa fece George Romney per guadagnarsi da vivere? La risposta è semplice: dirigeva un’impresa di automobili, la American Motors. E la amministrò bene per davvero: in un tempo nel quale le “Tre Grandi” [1] erano ancora fissate sulle grandi automobili e non si curavano della marea montante delle importazioni, Romney spostò con considerevole successo l’attenzione sui veicoli compatti, la qualcosa ristabilì le fortune dell’azienda oltre a salvare i posti di molti lavoratori americani.
Questo le rese anche personalmente ricco. Lo sappiamo perché durante la sua corsa alla Presidenza, egli rese noto il valore delle sue dichiarazioni dei redditi, non per un anno o due, ma per 12 anni, spiegando che un anno qualsiasi avrebbe potuto essere semplicemente un puro caso. Da quelle dichiarazioni apprendiamo che nel suo anno migliore, il 1960, egli realizzò più di 660 mila dollari – l’equivalente, corretto per l’inflazione, di 5 milioni di dollari al giorno d’oggi.
Quelle dichiarazioni rivelano anche che pagò un sacco di tasse – il 36 per cento del suo reddito nel 1960, il 37 per cento nell’intero periodo. Questo in parte accadde perché, come chiarisce un articolo di quell’epoca, “raramente approfittò di scappatoie per eludere i suoi obblighi fiscali”. Ma questo dipese anche dal fatto che le tasse sui ricchi erano molto più alte negli anni ’50 e ’60 di quanto non siano oggi. Di fatto, un volta che si includono gli effetti indiretti delle tasse sui profitti di impresa, le tasse sui più ricchi erano circa il doppia dei livelli attuali.
Portiamoci ora rapidamente su Romney il Giovane, che face anche più soldi durante la sua carriera di uomo d’affari alla Bain Capital. Diversamente dal padre, tuttavia, il signor Romney non divenne ricco producendo cose che la gente voleva acquistare; fece le sue fortune attraverso ingegnerie finanziarie che in molti casi sembra abbiano lasciato i lavoratori peggio di prima, e in qualche caso condotto le imprese alla bancarotta.
E c’è un altro contrasto: George Romney fu aperto e disponibile su quello che aveva fatto con le sue ricchezze, invece Mitt Romney ha in gran parte tenuto le sue finanze segrete. A malincuore ha rilasciato la sua dichiarazione fiscale relativa ad un anno, più un stima sull’anno successivo, mostrando di aver pagato una aliquota fiscale sorprendentemente bassa. Ma, come fa notare il rapporto di Vanity Fair, siamo ancora molto all’oscuro per quanto riguarda i suoi investimenti, alcuni dei quali davvero misteriosi.
Mettiamola così: c’era mai stato in precedenza un candidato presidenziale che aveva un conto multimilionario in una banca svizzera, più dieci milioni di dollari investiti alle Isole Cayman, famoso paradiso fiscale?
C’è poi il suo Individual Retirement Account [2]. Si supponeva che l’IRA fosse uno strumento di facilitazione fiscale per i risparmiatori delle classi medie, con contributi annuali limitati a poche migliaia di dollari all’anno. Tuttavia, in qualche modo il signor Romney si è ritrovato con un conto di una valore tra i 20 ed i 101 milioni di dollari.
Ci sono modi legittimi nei quali questo potrebbe essere accaduto, nello stesso modo in cui ci sono ragioni legittime per parcheggiare ampie somme di denaro nei paradisi fiscali oltreoceano. Ma noi non sappiamo quale, ammesso ve ne sia una, di quelle legittime ragioni si applichi al caso di Romney, giacché egli ha rifiutato di fornire ogni dettaglio sulle sue finanze. Questo rifiuto alla trasparenza indica che lui ed i suoi consiglieri sono convinti che se gli elettori sapessero la verità sui suoi investimenti, il loro sostegno sarebbe meno probabile.
E quella è precisamente la ragione per la quale gli elettori hanno diritto a conoscere la verità. Dopo tutto, le elezioni in parte riguardano quanto si può intuire del carattere dei candidati – e quello che un uomo fa con i suoi soldi è un indizio importante del suo carattere.
Una cosa ancora: nella misura in cui Romney ha una agenda politica coerente, essa concerne il taglio delle aliquote fiscali sui ricchissimi – che già sono, come ho detto, più basse di circa la metà dai tempi di suo padre. E’ certo che un uomo che sostiene politiche del genere ha un obbligo speciale a dire le cose come stanno agli elettori, a proposito della misura in cui trarrebbe personalmente vantaggio dalle politiche che sostiene.
Eppure, non c’è dubbio che questo è qualcosa che il signor Romney non intende fare. E se non rivela la verità a proposito dei suoi investimenti, possiamo solo dedurne che stia nascondendo qualcosa che lo danneggerebbe seriamente.
[1] Le “tre Grandi” di Detroit sono la Ford, la General Motors e la Chrysler.
[2] Lo Individual Retirement Account è una forma di piano pensionistico che negli Stati Uniti vantaggi fiscali per i risparmi accantonati per la pensione. L’istituto venne introdotto nel 1974 inizialmente prevedeva che i contribuenti avrebbero potuto versare sino a 1500 dollari all’anno e ridurre di altrettanto il loro reddito tassabile. Inizialmente, dunque, l’IRA era delimitata ai lavoratori che non disponevano si adeguati piani previdenziali individuali. Quel limite era diventato di 5.000 dollari nel 2008, con l’aggiunta di un possibile contribuito aggiuntivo.
By mm
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