The Twinkie, it turns out, was introduced way back in 1930. In our memories, however, the iconic snack will forever be identified with the 1950s, when Hostess popularized the brand by sponsoring “The Howdy Doody Show.” And the demise of Hostess has unleashed a wave of baby boomer nostalgia for a seemingly more innocent time.
Needless to say, it wasn’t really innocent. But the ’50s — the Twinkie Era — do offer lessons that remain relevant in the 21st century. Above all, the success of the postwar American economy demonstrates that, contrary to today’s conservative orthodoxy, you can have prosperity without demeaning workers and coddling the rich.
Consider the question of tax rates on the wealthy. The modern American right, and much of the alleged center, is obsessed with the notion that low tax rates at the top are essential to growth. Remember that Erskine Bowles and Alan Simpson, charged with producing a plan to curb deficits, nonetheless somehow ended up listing “lower tax rates” as a “guiding principle.”
Yet in the 1950s incomes in the top bracket faced a marginal tax rate of 91, that’s right, 91 percent, while taxes on corporate profits were twice as large, relative to national income, as in recent years. The best estimates suggest that circa 1960 the top 0.01 percent of Americans paid an effective federal tax rate of more than 70 percent, twice what they pay today.
Nor were high taxes the only burden wealthy businessmen had to bear. They also faced a labor force with a degree of bargaining power hard to imagine today. In 1955 roughly a third of American workers were union members. In the biggest companies, management and labor bargained as equals, so much so that it was common to talk about corporations serving an array of “stakeholders” as opposed to merely serving stockholders.
Squeezed between high taxes and empowered workers, executives were relatively impoverished by the standards of either earlier or later generations. In 1955 Fortune magazine published an essay, “How top executives live,” which emphasized how modest their lifestyles had become compared with days of yore. The vast mansions, armies of servants, and huge yachts of the 1920s were no more; by 1955 the typical executive, Fortune claimed, lived in a smallish suburban house, relied on part-time help and skippered his own relatively small boat.
The data confirm Fortune’s impressions. Between the 1920s and the 1950s real incomes for the richest Americans fell sharply, not just compared with the middle class but in absolute terms. According to estimates by the economists Thomas Piketty and Emmanuel Saez, in 1955 the real incomes of the top 0.01 percent of Americans were less than half what they had been in the late 1920s, and their share of total income was down by three-quarters.
Today, of course, the mansions, armies of servants and yachts are back, bigger than ever — and any hint of policies that might crimp plutocrats’ style is met with cries of “socialism.” Indeed, the whole Romney campaign was based on the premise that President Obama’s threat to modestly raise taxes on top incomes, plus his temerity in suggesting that some bankers had behaved badly, were crippling the economy. Surely, then, the far less plutocrat-friendly environment of the 1950s must have been an economic disaster, right?
Actually, some people thought so at the time. Paul Ryan and many other modern conservatives are devotees of Ayn Rand. Well, the collapsing, moocher-infested nation she portrayed in “Atlas Shrugged,” published in 1957, was basically Dwight Eisenhower’s America.
Strange to say, however, the oppressed executives Fortune portrayed in 1955 didn’t go Galt and deprive the nation of their talents. On the contrary, if Fortune is to be believed, they were working harder than ever. And the high-tax, strong-union decades after World War II were in fact marked by spectacular, widely shared economic growth: nothing before or since has matched the doubling of median family income between 1947 and 1973.
Which brings us back to the nostalgia thing.
There are, let’s face it, some people in our political life who pine for the days when minorities and women knew their place, gays stayed firmly in the closet and congressmen asked, “Are you now or have you ever been?” The rest of us, however, are very glad those days are gone. We are, morally, a much better nation than we were. Oh, and the food has improved a lot, too.
Along the way, however, we’ve forgotten something important — namely, that economic justice and economic growth aren’t incompatible. America in the 1950s made the rich pay their fair share; it gave workers the power to bargain for decent wages and benefits; yet contrary to right-wing propaganda then and now, it prospered. And we can do that again.
Il Manifesto dei “Twinkie”, di Paul Krugman
New York Times 18 novembre
Risulta che i Twinkie [1] furono prodotti per la prima volta nel passato 1930. Nella nostra memoria, tuttavia, l’icona della ‘merendina’ resterà per sempre identificata con gli anni ‘50, quando la società Hostess popolarizzò il marchio sponsorizzando lo spettacolo di “Howdy Doody” [2]. E la scomparsa della Hostess [3] ha scatenato un’ondata di nostalgia per l’epoca in apparenza più innocente del “baby boomer” [4].
Non è il caso di dire che non era poi così innocente. Ma gli anni ’50 – l’epoca delle ‘merendine’ – offrono per davvero lezioni che restano di tutto rilievo nel 21° secolo. Soprattutto, il successo della economia americana postbellica dimostra che, contrariamente alla odierna ortodossia conservatrice, si può avere prosperità senza umiliare i lavoratori e coccolare i ricchi.
Si consideri la questione delle aliquote fiscali sui più ricchi. La destra americana dei giorni nostri, e buona parte del cosiddetto centro, sono ossessionati dal concetto secondo il quale le aliquote fiscali basse sui più ricchi siano essenziali per la crescita. Ricorderete che Erskine Bowles ed Alan Simpson, incaricati di produrre un piano per tenere a freno i deficit, nondimeno in qualche modo finirono col mettere nella lista come “principio guida” le “aliquote fiscali più basse”.
Tuttavia negli anni ’50 i redditi della fascia più elevata facevano i conti con una aliquota fiscale marginale [5]del 91 per cento (proprio così: 91 per cento), mentre le tasse sulle imprese erano, in relazione al reddito nazionale, il doppio degli anni più recenti. Le stime più scrupolose indicano che attorno al 1960 lo 0,01 per cento dei più ricchi pagava una aliquota fiscale marginale superiore al 70 per cento, il doppio di quanto paga oggi.
Né le tasse elevate erano l’unico peso che i ricchi uomini d’affari dovevano sopportare. Essi si misuravano anche con una forza lavoro che aveva un potere contrattuale difficile da immaginare ai nostri giorni. Nel 1955 grosso modo un terzo dei lavoratori americani erano iscritti ai sindacati. Nelle imprese più grandi, le direzioni ed i lavoratori trattavano da pari a pari, al punto che era frequente parlare di imprese al servizio di una gamma di “portatori di interessi”, all’opposto che essere semplicemente al servizio degli “azionisti” [6].
Stretti tra alte tasse e lavoratori più forti, i dirigenti erano relativamente più poveri rispetto agli standard delle generazioni precedenti o successive. Nel 1955 la rivista “Fortune” pubblicò un servizio, “Quanto vivono nel lusso i dirigenti”, che metteva in rilievo come fossero diventati modesti i loro stili di vita rispetto ai tempi passati. Non c’erano più le grandi ville, gli eserciti di domestici, i grandi yachts degli anni ’20; il tipico dirigente del 1955, sosteneva Fortune, viveva in casette della periferia urbana, aiutato da dipendenti part-time e andava per mare con la propria relativamente piccola barchetta.
I dati confermano le impressioni di Fortune. I redditi reali degli americani più ricchi crollarono tra gli anni ’20 e gli anni ’50, non solo nel confronto con le classi medie ma in termini assoluti. Secondo gli economisti Thomas Piketty ed Emmanuel Saez, nel 1955 il reddito reale dello 0,01 per cento degli americani più ricchi era inferiore alla metà di quello che era stato nell’ultima parte degli anni ’20, e la loro quota del reddito complessivo si era ridotta di tre-quarti.
Oggi, è chiaro, le grandi ville, gli eserciti dei domestici e gli yachts sono tornati, più grandi che mai – ed ogni accenno a politiche che vadano leggermente a toccare lo stile di vita dei plutocrati è accolto con grida sul “socialismo”. In effetti, l’intera campagna elettorale di Romney è stata basata sulla premessa che la minaccia del Presidente Obama di modesti incrementi fiscali sui redditi più elevati, in aggiunta alla sua temerarietà nell’indicare come negative le condotte di alcuni banchieri, stesse paralizzando l’economia. Certamente, dunque, l’ambiente assai meno favorevole ai plutocrati degli anni ’50 deve essere stato un disastro per l’economia, non è così?
In effetti a quel tempo alcuni lo pensavano. Paul Ryan e molti altri conservatori dei giorni nostri sono fanatici di Ayn Rand [7]. Ebbene, la nazione al collasso e infestata da parassiti che ella descriveva nel romanzo “Atlas Shrugged”, pubblicato nel 1957, era fondamentalmente l’America di Dwight Eisenhower.
Strano a dirsi, tuttavia, ma i dirigenti oppressi descritti da Fortune nel 1955 non sono finiti come Galt [8] e non hanno privato la nazione dei loro talenti. Al contrario, se si deve prestar fede a Fortune, essi lavoravano più duramente che mai. Ed i decenni delle alte tasse e dei forti sindacati successivi alla II Guerra mondiale furono in effetti segnati da una spettacolare, ampiamente diffusa crescita economica: niente in precedenza o da allora ha eguagliato il raddoppio del reddito medio delle famiglie tra il 1947 ed il 1973.
Il che ci riporta alla faccenda della nostalgia.
Ci sono alcune persone nella nostra vita politica, misuriamoci con questo aspetto, che si struggono di rimpianto per i giorni nei quali le minoranze e le donne sapevano quale era il loro posto, i gay restavano nell’assoluto anonimato ed i congressisti potevano chiedere loro “Lo siete mai stati, o lo siete oggi?”. Il resto della gente, tuttavia, è contentissima che quei tempi siano finiti. Siamo, dal punto di vista morale, una nazione assai migliore di allora, E, diciamolo pure, anche il cibo è migliorato assai.
Lungo la strada, tuttavia, ci siamo dimenticati di qualcosa di importante – precisamente, che la crescita economica e la giustizia economica non sono incompatibili. L’America degli anni ’50 faceva in modo che i ricchi pagassero la loro giusta quota; dava ai lavoratori il potere di contrattare salari e sussidi decenti; tuttavia, contrariamente alla propaganda di ieri e di oggi della destra, era una America prospera. E possiamo farlo ancora.
[1] Un dolcetto, prototipo delle nostre “merendine”, inventato appunto negli anni Trenta dalla società Hostess Brands.
[2] Uno spettacolo, prima radiofonico e poi televisivo, che aveva per protagonista un famoso burattino. Eccoli entrambi:
[3] La società “Hostess Brands”, anche nota col nome di “Interstate Bakeries”, è andata in bancarotta nel gennaio del 2012.
[4] Per “baby boomer” si intende una persona nata dopo la II Guerra mondiale, nel periodo tra il 1946 ed il 1964, quando si ebbe – per effetto della fine del conflitto e della grande prevalenza economica statunitense – una esplosione delle nascite. L’indice di natalità, che era finito circa al 18 % nella crisi degli anni ’30, balzò a quasi il 27 % nel 1946/47 e si mantenne a livelli elevati sino al 1956/57. Con gli anni ’50 e ’60 tornò a livelli anche inferiori rispetto a quelli degli anni ’30.
[5] La aliquota fiscale marginale è la aliquota fiscale che si applica all’ultima unità di moneta del reddito tassabile. Considerando come l’obbligo complessivo verso il fisco e il reddito tassabile, il rapporto tra i due termini fornisce la aliquota fiscale marginale. La fascia fiscale di un contribuente (“tax bracket”) è dunque la categoria di reddito per la quale si applica una determinata aliquota fiscale marginale. A seconda della maggiore o minore progressività del sistema fiscale, la aliquota fiscale può crescere o decrescere (normalmente crescere) con la crescita del reddito delle persone.
[6] In lingua inglese i due termini quasi identici “stakeholder” e “stockholder” possono entrambi indicare un “azionista”. Ma il primo indica più genericamente un soggetto “cointeressato agli investimenti, o alla gestione” (“stake” significa “partecipazione” o “posta in gioco”); mentre il secondo indica un possessore di azioni (“stock” significa in quel caso “capitale azionario”).
[7] Ayn Rand, è lo pseudonimo di Alisa Zinov’yevna Rosenbaum O’Connor (San Pietroburgo, 2 febbraio 1905 – New York, 6 marzo 1982); scrittrice, filosofa e sceneggiatrice statunitense di origine russa. La sua filosofia e la sua narrativa insistono sui concetti di individualismo, egoismo razionale (“interesse razionale”) e ed etica del capitalismo, nonché sulla sua opposizione al comunismo ed a ogni forma di collettivismo socialista e fascista. Il pensiero cosiddetto “oggettivista” della Rand ha – come anche tutto il “libertarianism” – molteplici origini liberali, anarchiche, antitotalitarie ed anche, più singolarmente, capitalistiche; spesso con esiti irreligiosi. Ma il mito dell’industriale creativo soffocato dalla burocrazia e costretto ad una resistenza addirittura “militante” – che è il tema del suo romanzo “Atlas Shrugged” – è certamente una passione americana, nel senso almeno che sarebbe arduo immaginarlo come tema di un romanzo, altrove. Più recentemente, il libro della Rand è stato indicato come riferimento favorito da parte di molti repubblicani americani.
[8] E’ il nome dell’industriale-eroe, personaggio principale del romanzo della Rand. Il quale, sembra, in sostanza si ribellò al totalitarismo burocratico dello Stato con una specie di “sciopero del capitale”.
By mm
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