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Lotte di classe del 2012 (New York Times 29 novembre 2012)

 

Class Wars of 2012

By PAUL KRUGMAN

Published: November 29,

On Election Day, The Boston Globe reported, Logan International Airport in Boston was running short of parking spaces. Not for cars — for private jets. Big donors were flooding into the city to attend Mitt Romney’s victory party.

 

They were, it turned out, misinformed about political reality. But the disappointed plutocrats weren’t wrong about who was on their side. This was very much an election pitting the interests of the very rich against those of the middle class and the poor.

And the Obama campaign won largely by disregarding the warnings of squeamish “centrists” and embracing that reality, stressing the class-war aspect of the confrontation. This ensured not only that President Obama won by huge margins among lower-income voters, but that those voters turned out in large numbers, sealing his victory.

The important thing to understand now is that while the election is over, the class war isn’t. The same people who bet big on Mr. Romney, and lost, are now trying to win by stealth — in the name of fiscal responsibility — the ground they failed to gain in an open election.

Before I get there, a word about the actual vote. Obviously, narrow economic self-interest doesn’t explain everything about how individuals, or even broad demographic groups, cast their ballots. Asian-Americans are a relatively affluent group, yet they went for President Obama by 3 to 1. Whites in Mississippi, on the other hand, aren’t especially well off, yet Mr. Obama received only 10 percent of their votes.

 

These anomalies, however, weren’t enough to change the overall pattern. Meanwhile, Democrats seem to have neutralized the traditional G.O.P. advantage on social issues, so that the election really was a referendum on economic policy. And what voters said, clearly, was no to tax cuts for the rich, no to benefit cuts for the middle class and the poor. So what’s a top-down class warrior to do?

 

 

The answer, as I have already suggested, is to rely on stealth — to smuggle in plutocrat-friendly policies under the pretense that they’re just sensible responses to the budget deficit.

 

Consider, as a prime example, the push to raise the retirement age, the age of eligibility for Medicare, or both. This is only reasonable, we’re told — after all, life expectancy has risen, so shouldn’t we all retire later? In reality, however, it would be a hugely regressive policy change, imposing severe burdens on lower- and middle-income Americans while barely affecting the wealthy. Why? First of all, the increase in life expectancy is concentrated among the affluent; why should janitors have to retire later because lawyers are living longer? Second, both Social Security and Medicare are much more important, relative to income, to less-affluent Americans, so delaying their availability would be a far more severe hit to ordinary families than to the top 1 percent.

 

 

Or take a subtler example, the insistence that any revenue increases should come from limiting deductions rather than from higher tax rates. The key thing to realize here is that the math just doesn’t work; there is, in fact, no way limits on deductions can raise as much revenue from the wealthy as you can get simply by letting the relevant parts of the Bush-era tax cuts expire. So any proposal to avoid a rate increase is, whatever its proponents may say, a proposal that we let the 1 percent off the hook and shift the burden, one way or another, to the middle class or the poor.

 

 

The point is that the class war is still on, this time with an added dose of deception. And this, in turn, means that you need to look very closely at any proposals coming from the usual suspects, even — or rather especially — if the proposal is being represented as a bipartisan, common-sense solution. In particular, whenever some deficit-scold group talks about “shared sacrifice,” you need to ask, sacrifice relative to what?

As regular readers may know, I’m not a fan of the Bowles-Simpson report on deficit reduction that laid out a poorly designed plan that for some reason has achieved near-sacred status among the Beltway elite. Still, at least you can say this for Bowles-Simpson: When it talked about shared sacrifice, it started from a “baseline” that already assumed the end of the high-end Bush tax cuts. At this point, however, just about all the deficit scolds seem to want us to count the expiration of those cuts — which were sold on false pretenses, and were never affordable — as some kind of big giveback by the rich. It isn’t.

 

So keep your eyes open as the fiscal game of chicken continues. It’s an uncomfortable but real truth that we are not all in this together; America’s top-down class warriors lost big in the election, but now they’re trying to use the pretense of concern about the deficit to snatch victory from the jaws of defeat. Let’s not let them pull it off.

 

Lotte di classe del 2012, di Paul Krugman

New York Times 29 novembre 2012

 

Il giorno delle elezioni, The Boston Globe informava che l’aeroporto internazionale Logan a Boston era a corto di spazi di parcheggio. Non per le automobili, per i jet privati. I grandi contributori stavano ingolfando la città per partecipare ai festeggiamenti per la vittoria di Romney.

Erano stati, ora è chiaro, male informati sulla realtà della politica. Ma i plutocrati delusi non sbagliavano su quale fosse la loro parte politica. Si era davvero trattato di elezioni nelle quali gli interessi dei più ricchi si erano contrapposti a quelli delle classi medie e dei poveri.

E la campagna elettorale di Obama ha avuto successo in larga parte perché non si è curata degli ammonimenti degli schizzinosi ‘centristi’ ed è andata incontro alla realtà, mettendo l’accento sugli aspetti di lotta di classe dello scontro. Questo non solo ha assicurato che il Presidente Obama vincesse con ampio margine tra gli elettori di basso reddito, ma che quegli elettori affluissero in gran numero, mettendo il proprio sigillo sulla sua vittoria.

Ora la cosa importante da capire è che mentre le elezioni sono passate, la lotta di classe non lo è. La stessa gente cha aveva scommesso alla grande sul signor Romney, ora sta cercando di conquistare furtivamente – in nome della responsabilità fiscale – il terreno che non era riuscita a far suo nella competizione aperta.

Prima di venire a questo punto, una parola sulla votazione vera e propria. Naturalmente, i personali interessi economici in senso stretto non spiegano tutto su come gli individui, o anche gli ampi raggruppamenti demografici, distribuiscono i loro voti. Gli americani di origine asiatica sono un gruppo relativamente ricco, tuttavia sono stati a favore di Obama per 3 ad 1. I bianchi del Mississippi, d’altra parte, non sono particolarmente benestanti, tuttavia Obama ha ricevuto appena il 10 per cento dei loro voti.

Queste anomalie, tuttavia, non sono sufficienti a cambiare lo schema generale. Nel frattempo i democratici sembrano aver neutralizzato il tradizionale vantaggio dei repubblicani  sui temi sociali, cosicché le elezioni sono state realmente un referendum sulla politica economica.  E quello che gli elettori hanno detto chiaramente è stato un no agli sgravi fiscali per i più ricchi ed un no ai tagli sui sussidi alle classi medie ed ai poveri. Cosa deve fare, dunque, un combattente di questa lotta di classe capovolta, dall’alto al basso?

La risposta, come ho già indicato, è basarsi sulla discrezione – mimetizzare politiche favorevoli ai plutocrati  sotto la pretesa che esse siano semplicemente risposte ragionevoli al deficit del bilancio.

Si consideri, come un primo esempio, la campagna per innalzare l’età del pensionamento, o l’età per la ammissione ai servizi di Medicare, o entrambe. Sono solo idee ragionevoli, ci vien detto – dopo tutto l’aspettativa di vita è cresciuta, non dovremmo dunque andare in pensione più tardi? Sennonché, in realtà, si tratterebbe di un mutamento politico ampiamente regressivo, che imporrebbe oneri pesanti sui redditi più bassi e medi, nel mentre toccherebbe appena i ricchi. Perché? Prima di tutto, l’aumento nella aspettativa di vita è concentrato sui più ricchi; perché gli uscieri dovrebbero andare in pensione più tardi se gli avvocati vivono più a lungo? In secondo luogo, sia la Previdenza Sociale che Medicare sono assai più importanti, in relazione al reddito, per gli americani meno benestanti, dunque ritardare la loro accessibilità sarebbe un colpo più pesante per le famiglie ordinarie che non per l’1 per cento in cima alla scala sociale.

Oppure si prenda un esempio più sottile, l’insistenza secondo la quale tutti gli aumenti delle entrate dovrebbero venire dal porre limiti alle deduzioni fiscali piuttosto che da aliquote più alte. In questo caso, l’aspetto fondamentale da comprendere è che i conti proprio non tornano; nei fatti, in nessun modo i limiti sulle deduzioni possono elevare altrettanto le entrate dai più ricchi, di quanto semplicemente non si possa ottenere facendo in modo che le parti più rilevanti degli sgravi fiscali dell’epoca di Bush vadano a scadenza.  Dunque, ogni proposta che eviti un incremento delle aliquote, qualunque cosa dicano i suoi proponenti, è una proposta che lascia l’1 per cento dei più ricchi fuori dal quadro e sposta, in un modo o nell’altro, il peso sulle classi medie e sui poveri.

Il punto è che in ogni caso di tratta di lotta di classe, questa volta con una dose di inganno in aggiunta. E questo a sua volta comporta che occorre guardare con molta oculatezza a tutte le proposte che provengono dai soliti noti, anche – o piuttosto specialmente – se la proposta viene rappresentata come una soluzione bipartisan e di buon senso. In particolare, ogni volta che qualcuno del gruppo delle Cassandre [1] del deficit parla di “sacrificio condiviso”, ci si deve chiedere in relazione a cosa, quel sacrificio.

Come i lettori affezionati ben sanno, io non sono un seguace del rapporto della commissione Bowles-Simpson [2] sulla riduzione del deficit, che ha partorito un programma malamente concepito che per qualche motivo ha raggiunto uno status quasi sacrale tra le èlites di Washington [3]. Tuttavia, di quel rapporto almeno si può dire questo: quando parlava di sacrifici condivisi, esso prendeva le mosse da un punto di partenza nella quale era implicita la fine degli sgravi fiscali di lusso di Bush. A questo punto, tuttavia, più o meno tutte quelle Cassandre del deficit pare vogliano farci considerare l’esaurimento di quegli sgravi fiscali – che furono fatti accettare con falsi pretesti e non furono mai sostenibili – come l’occasione per una sorta di grande risarcimento per i ricchi. Non è così.

Dunque, state con gli occhi aperti nel mentre continua questa specie di “gioco del pollo” [4]. E’ una verità spiacevole ma nondimeno  è vero che non siamo tutti sulla stessa barca; i guerrieri di questa lotta di classe capovolta dell’America hanno perso vistosamente le elezioni, ma ora stanno cercando di usare la scusa della preoccupazione sul deficit per trasformare la sconfitta in vittoria. Facciamo in modo che non ci riescano.



[1] Traduco “scolds” con “Cassandre” perché mi sembra più chiaro, anche se “to scold” significa “rimproverare, fare la morale, fare la ramanzina” e dunque letteralmente sarebbero i “moralisti del deficit”. In realtà, talora Krugman lo adopera nel senso di atteggiamenti “moralistici”, altre volte nel senso di  previsioni catastrofiste.

[2] Come è noto, la Commissione che fu voluta da Obama per studiare un piano di risanamento finanziario nell’ambito della sua politica bipartisan (Bowles e Simpson erano i due copresidenti, il primo democratico ed il secondo repubblicano).

[3] “Betltway” significa “circonvallazione, cintura”, ma nel linguaggio politico è un termine che indica il potere politico federale americano, le cui sedi principali (istituzionali, mediatiche e lobbystiche) sono ricomprese per l’appunto dentro la ‘beltway’ della città di Washington.

[4] Il “gioco del pollo” non saprei come spiegarlo con un termine analogo. Pare un tempo fosse un gioco di bambini, che consisteva nello starsene in attesa che una automobile percorresse una strada di campagna (o magari che un treno arrivasse sui binari di una ferrovia); il vincitore era colui che aveva più coraggio e attraversava la strada o i binari per ultimo. Perché il nome di gioco del pollo? Sembra che all’origine ci fosse questa specie di barzelletta: uno chiede “Perché il pollo ha attraversato la strada?”, e l’altro risponde “Per andare dall’altra parte!”. In sostanza: il gioco è scemino e la barzelletta è più scema ancora. Forse potremmo trovare, in un contesto diverso, una qualche somiglianza di senso con il gioco a carte dell’ “uomo nero” o del “gobbo” … dove perde tutto chi resta con quella carta in mano (ovvero vince chi ha l’abilità di lasciarla per ultimo).

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