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Piuttosto non si faccia l’accordo (New York Times 8 novembre 2012)

 

Let’s Not Make a Deal

By PAUL KRUGMAN
Published: November 8,

 

To say the obvious: Democrats won an amazing victory. Not only did they hold the White House despite a still-troubled economy, in a year when their Senate majority was supposed to be doomed, they actually added seats.

Nor was that all: They scored major gains in the states. Most notably, California — long a poster child for the political dysfunction that comes when nothing can get done without a legislative supermajority — not only voted for much-needed tax increases, but elected, you guessed it, a Democratic supermajority.

 

But one goal eluded the victors. Even though preliminary estimates suggest that Democrats received somewhat more votes than Republicans in Congressional elections, the G.O.P. retains solid control of the House thanks to extreme gerrymandering by courts and Republican-controlled state governments. And Representative John Boehner, the speaker of the House, wasted no time in declaring that his party remains as intransigent as ever, utterly opposed to any rise in tax rates even as it whines about the size of the deficit.

 

 

So President Obama has to make a decision, almost immediately, about how to deal with continuing Republican obstruction. How far should he go in accommodating the G.O.P.’s demands?

 

My answer is, not far at all. Mr. Obama should hang tough, declaring himself willing, if necessary, to hold his ground even at the cost of letting his opponents inflict damage on a still-shaky economy. And this is definitely no time to negotiate a “grand bargain” on the budget that snatches defeat from the jaws of victory.

 

In saying this, I don’t mean to minimize the very real economic dangers posed by the so-called fiscal cliff that is looming at the end of this year if the two parties can’t reach a deal. Both the Bush-era tax cuts and the Obama administration’s payroll tax cut are set to expire, even as automatic spending cuts in defense and elsewhere kick in thanks to the deal struck after the 2011 confrontation over the debt ceiling. And the looming combination of tax increases and spending cuts looks easily large enough to push America back into recession.

Nobody wants to see that happen. Yet it may happen all the same, and Mr. Obama has to be willing to let it happen if necessary.

Why? Because Republicans are trying, for the third time since he took office, to use economic blackmail to achieve a goal they lack the votes to achieve through the normal legislative process. In particular, they want to extend the Bush tax cuts for the wealthy, even though the nation can’t afford to make those tax cuts permanent and the public believes that taxes on the rich should go up — and they’re threatening to block any deal on anything else unless they get their way. So they are, in effect, threatening to tank the economy unless their demands are met.

 

Mr. Obama essentially surrendered in the face of similar tactics at the end of 2010, extending low taxes on the rich for two more years. He made significant concessions again in 2011, when Republicans threatened to create financial chaos by refusing to raise the debt ceiling. And the current potential crisis is the legacy of those past concessions.

Well, this has to stop — unless we want hostage-taking, the threat of making the nation ungovernable, to become a standard part of our political process.

So what should he do? Just say no, and go over the cliff if necessary.

It’s worth pointing out that the fiscal cliff isn’t really a cliff. It’s not like the debt-ceiling confrontation, where terrible things might well have happened right away if the deadline had been missed. This time, nothing very bad will happen to the economy if agreement isn’t reached until a few weeks or even a few months into 2013. So there’s time to bargain.

More important, however, is the point that a stalemate would hurt Republican backers, corporate donors in particular, every bit as much as it hurt the rest of the country. As the risk of severe economic damage grew, Republicans would face intense pressure to cut a deal after all.

 

Meanwhile, the president is in a far stronger position than in previous confrontations. I don’t place much stock in talk of “mandates,” but Mr. Obama did win re-election with a populist campaign, so he can plausibly claim that Republicans are defying the will of the American people. And he just won his big election and is, therefore, far better placed than before to weather any political blowback from economic troubles — especially when it would be so obvious that these troubles were being deliberately inflicted by the G.O.P. in a last-ditch attempt to defend the privileges of the 1 percent.

 

Most of all, standing up to hostage-taking is the right thing to do for the health of America’s political system.

So stand your ground, Mr. President, and don’t give in to threats. No deal is better than a bad deal.

 

Piuttosto non si faccia l’accordo, di Paul Krugman

New York Times 8 novembre 2012

 

Diciamo quello che è evidente: i Democratici  hanno ottenuto una vittoria straordinaria. Non solo hanno mantenuto la Casa Bianca a dispetto di un’economia ancora nei guai; in un anno nel quale la loro maggioranza al Senato veniva data per spacciata, hanno addirittura aumentato i seggi.

Né questo è tutto: hanno realizzato passi avanti importanti negli Stati. Il più importante, la California – da molto tempo esempio emblematico [1] delle disfunzioni politiche che si determinano quando non si può far nulla senza una supermaggioranza nella assemblea legislativa – non soltanto ha votato per necessarissimi incrementi fiscali, ma ha eletto, pensate un po’, una supermaggioranza dei Democratici.

Ma un obbiettivo è sfuggito ai vincitori. Anche se stime iniziali indicano che i Democratici hanno ricevuto un po’ di voti in più dei Repubblicani nelle elezioni per il Congresso, il Partito Repubblicano mantiene una solido controllo della Camera, grazie alla truffaldina organizzazione dei collegi elettorali [2] da parte dei Tribunali e dei Governi degli Stati controllati dai repubblicani. E il deputato John Boehner, speaker della Camera, non ha perso tempo nel dichiarare che il suo partito resta intransigente come sempre nell’opporsi completamente a qualsiasi aumento delle aliquote fiscali, pur nel mentre si straccia le vesti per le dimensioni del deficit.

Dunque, il Presidente Obama deve prendere subito una decisione, su come intende misurarsi con la prosecuzione dell’ostruzionismo dei repubblicani. Sino a dove dovrà spingersi nel venire incontro alle richieste del Partito Repubblicano?

La mia risposta è: non dovrà spingersi da nessuna parte. Obama dovrebbe tener duro, affermando la sua volontà, se necessario, di mantenere le sue posizioni anche al costo di permettere ai suoi oppositori di infliggere un danno ad un’economia ancora traballante. Senza alcun dubbio, questo non è il momento di negoziare “grandi intese” sul bilancio che tramutino la vittoria in una sconfitta [3].

Nel dire ciò, non intendo minimizzare gli assai concreti pericoli economici rappresentati dal cosiddetto “precipizio fiscale” [4] che si delinea per la fine dell’anno, se i due partiti non raggiungeranno un accordo. Sia gli sgravi fiscali dell’epoca di Bush che quelli sulle tasse sugli stipendi della Amministrazione Obama sono prossimi alla scadenza, così come vanno a compimento tagli automatici alla spesa pubblica sulla difesa ed in altri settori grazie all’accordo concluso dopo lo scontro del 2011 sul ‘tetto del debito’ [5]. E la annunciata combinazione di incrementi fiscali e tagli alla spesa pubblica anche troppo chiaramente pare sufficiente a risospingere l’America nella recessione.

Nessuno se lo augura. Tuttavia può accadere in ogni caso, ed Obama deve essere determinato  a lasciare che accada, se non è evitabile.

Perché? Perché i repubblicani stanno cercando, per la terza volta da quando è entrato in carica, di usare il ricatto economico per ottenere un risultato per il quale mancano loro i voti attraverso il normale processo legislativo. Vogliono, in particolare, prorogare gli sgravi fiscali di Bush per i più ricchi, anche se il paese non può permettersi di rendere permanenti questi sgravi e l’opinione pubblica ritiene che le tasse sui ricchi dovrebbero salire – e stanno minacciando di impedire ogni intesa si qualsiasi altra cosa se non vengono accontentati.

Fondamentalmente Obama cedette dinanzi ad una tattica del genere alla fine del 2010, prorogando basse tasse sui ricchi per due altri anni. Egli fece significative concessioni ancora nel 2011, quando i repubblicani minacciarono di provocare un caos finanziario rifiutandosi di aumentare il tetto del debito. E la attuale possibile crisi è l’eredità di quelle passate concessioni.

Ebbene, questo deve finire – se non vogliamo che il ricatto, la minaccia di rendere la nazione ingovernabile, divenga un aspetto ordinario del nostro meccanismo politico.

Cosa dovrebbe fare, dunque? Semplicemente dire di no, e, se necessario,  andare oltre il ‘precipizio’.

E’ il caso di sottolineare che il ‘precipizio fiscale’ non è realmente un precipizio. Non è come lo scontro sul tetto del debito, laddove cose terribili potevano accadere appena si fosse oltrepassata la scadenza. Questa volta non succederà niente di tremendo all’economia se l’accordo non viene raggiunto entro poche settimane o persino pochi mesi nel 2013. Dunque, c’è tempo per una intesa.

Ancora più importante, tuttavia, è il fatto che un punto morto colpirebbe i sostenitori dei repubblicani, in particolare i contribuenti del mondo delle imprese, altrettanto che il resto del paese. Allorquando crescesse il rischio di un grave danno economico, i repubblicani dovrebbero dopo tutto far fronte a una forte spinta a trovare una intesa.

Nel frattempo il Presidente si trova in una posizione assai più forte che non negli scontri precedenti. Io non do molto credito al discorso sui cosiddetti “mandati”, ma Obama ha vinto le elezioni sulla base di una campagna elettorale popolare [6], dunque può plausibilmente sostenere che i repubblicani stiano sfidando la volontà dal popolo americano. Ed egli ha appena ottenuto alla grande di essere rieletto; di conseguenza è molto meglio di prima nelle condizioni di resistere ad ogni contraccolpo politico derivante dai problemi dell’economia – in particolare al momento in cui risulterà del tutto evidente che questi guai vengono deliberatamente provocati dal Partito Repubblicano, nel tentativo disperato di difendere i privilegi dell’1 per cento della popolazione.

Soprattutto, resistere al ricatto è la cosa giusta da fare per la salute del sistema politico degli Stati Uniti.

Dunque, signor Presidente, stia fermo sulle sue posizioni e non ceda ai ricatti. Nessun accordo è meglio di un cattivo accordo.



[1] “Poster child” indica il ragazzo che nel passato “indossava” cartelli pubblicitari sulle strade, portandoli a tracollo. E’ sinonimo di pubblicità, di emblematicità.

[2] “Gerrymandering” è il “broglio” elettorale, ma in particolare quello ottenuto per il tramite di una organizzazione dei collegi al servizio degli interessi di una parte politica.

Il Gerrymandering (parola d’origine inglese che rappresenta la fusione di due termini, quello di Elbridge “Gerry” e “salamander”, salamandra) è un metodo ingannevole per ridisegnare i confini dei collegi nel sistema elettorale maggioritario. L’inventore di questo sistema di ridisegno dei collegi era il politico statunitense e governatore del Massachusetts Elbridge Gerry (1744-1814); egli, sapendo che, all’interno d’una certa regione (dipartimento o stato), ci possono essere parti della popolazione (ben localizzabili) favorevoli ad un partito o ad un politico (ad esempio, seguendo la dicotomia centro–periferia, giovani–vecchi, ceto basso–ceto medio alto), disegnò un nuovo collegio elettorale con confini particolarmente tortuosi, includendo quelle parti della popolazione a lui favorevoli ed escludendo quelli a lui sfavorevoli, garantendosi così un’ipotetica rielezione. Le linee di tale collegio erano così irregolari e tortuose, da farlo sembrare a forma di salamandra (da cui la seconda parte del termine “salamander”, salamandra in inglese, appunto) (Wikipedia).

 

[3] Letteralmente “che strappino una sconfitta dalle fauci della vittoria”.

[4] “Fiscal cliff” è il termine usato per descrivere il rompicapo che il governo statunitense dovrà affrontare alla fine del 2012, quando I termini delle legge di Bilancio del 2011 andranno a scadenza. Tra le leggi che debbono essere cambiate per quella data, c’è la fine degli sgravi temporanei delle tasse sugli stipendi (che comporterebbero un incremento  del 2% delle tasse sui lavoratori), la fine di certi sgravi fiscali per le imprese, modifiche alla alternativa della ‘minimum tax’, la fine degli sgravi fiscali, in particolare per i redditi più alti, provenienti dagli anni  2001-2003 e l’inizio delle tasse connesse con la legge di riforma della assistenza sanitaria di Obama. Nello stesso tempo i tagli alla spesa che furono concordati come parte dell’accordo sul ‘tetto del debito’ del 2011 comincerebbero ad andare in vigore. In sostanza maturerebbero tutte assieme le varie conseguenze di una sorta di bizzarro ‘armistizio’ legislativo che in questi anni ha caratterizzato la situazione nel Congresso americano, in bilico tra le proposta della amministrazione Obama e la preponderanza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti. Tale situazione si è caratterizzata per vari compromessi di rinvio di questioni rilevanti che, senza una legislazione di modifiche positive, andrebbero tutte assieme a produrre i loro effetti.

[5] Il “tetto del debito” è una espressione che si riferisce ad un provvedimento di autorizzazione al superamento dell’ammontare del debito dell’anno finanziario precedente, che in modo piuttosto burocratico ogni anno deve essere approvato dalla Camera dei Rappresentanti.  Nonostante che il superamento del debito storico sia già formalmente implicito nelle leggi finanziarie, il fatto che esso debba essere specificamente votato al termine di ogni anno teoricamente determina le condizioni – qualora la maggioranza alla Camera sia diversa da quella che ha eletto il Presidente – come minimo per una drammatizzazione dello scontro politico. In realtà non era quasi mai accaduto che questo passaggio fosse sfruttato dall’opposizione in modo spregiudicato. Accadde una prima volta sotto la Presidenza Clinton, quando il leader Repubblicano era Newt Gingrich. E’ poi accaduto in modi altrettanto clamorosi nel 2011 e, indirettamente, provocherà ulteriori effetti alla fine del 2012, giacché l’accordo che si trovò per superare la crisi dell’anno passato fu, per molti aspetti, niente di più che un “armistizio”.

 

[6] La ragione per la quale traduciamo “populist” in questo modo, dipende dal fatto che il termine “populista” nel nostro caso ha una connotazione negativa che non ha necessariamente nel linguaggio politico americano. Ma la traduzione risulta imprecisa; il senso non è genericamente quello che avere fatto una campagna elettorale “di successo”, ma esattamente di aver usato toni che hanno incontrato gli umori profondi del popolo americano.

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