Blog di Krugman

Posts di Paul Krugman dal 14 novembre al 31 dicembre 2012.

November 14, 2012, 9:22 am

The Austerity Bomb

Brian Beutler of Talking Points Memo seems to have been the first to use the phrase “austerity bomb” for what’s scheduled to happen at the end of the year. It’s a much better term than “fiscal cliff”. The cliff stuff makes people imagine that it’s a problem of excessive deficits when it’s actually about the risk that the deficit will be too small; also and relatedly, the fiscal cliff stuff enables a bait and switch in which people say “so, this means that we need to enact Bowles-Simpson and raise the retirement age!” which have nothing at all to do with it.

 

And it can’t be emphasized enough that everyone who shrieks about the dangers of the austerity bomb is in effect acknowledging that the Keynesians were right all along, that slashing spending and raising taxes on ordinary workers is destructive in a depressed economy, and that we should actually be doing the opposite.

Meanwhile, in Europe, which has had much more austerity in aggregate than we have, grim new industrial production numbers and a worsening unemployment crisis:

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By the way, some readers have asked me what is happening to Ireland, which has seen an especially sharp fall in industrial production. The answer appears, in part, to be Lipitor. That is, expiring patents on some important drugs have created a cliff for Ireland’s pharma exports. You don’t want to overstate the real impact on Irish citizens: pharma looms large in Irish GDP but not so much in employment or GNP, because it’s highly capital-intensive and much of the value-added accrues to foreign multinationals. Still, not what Ireland needed.

 

14 novembre 2012La bomba dell’austerità

Brian Beutler di Talking Points Memo sembra sia stato il primo ad usare il termine “bomba dell’austerità” per quello che è previsto che accada alla fine dell’anno. È un termine assai migliore che non “precipizio fiscale”. Il precipizio fiscale fa immaginare che si tratti di un problema di deficit eccessivi, quando effettivamente ha piuttosto a che fare con il rischio che il deficit diventi troppo piccolo; inoltre e in relazione a ciò, il precipizio fiscale permette un gioco delle tre carte per il quale la gente finisce col dire “così, questo significa che abbiamo bisogno di far diventar legge la Bowles-Simpson ed alzare l’età della pensione”, pur non entrandoci per niente.

E non si dà sufficiente rilievo al fatto che tutti quelli che strillano sui pericoli della bomba di austerità stanno in effetti riconoscendo che i Keynesiani hanno ragione su tutta la linea, che tagliare la spesa ed alzare le tasse sui comuni lavoratori è distruttivo in una economia depressa, e che in effetti si dovrebbe fare l’opposto.

Nel frattempo in Europa, che nel suo complesso ha molta maggiore austerità di noi, pessimi nuovi dati sulla produzione industriale ed una crisi di disoccupazione sempre peggiore:

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Per inciso, alcuni lettori mi hanno chiesto cosa sta accadendo all’Irlanda, che ha conosciuto una caduta particolarmente brusca nella produzione industriale. La risposta sembra essere, in parte, la Lipitor. Vale a dire, le autorizzazioni scadute di alcuni importanti medicine hanno determinato un precipizio per le esportazioni farmaceutiche dell’Irlanda. Non si deve sovrastimare l’impatto reale sui cittadini irlandesi:  il settore farmaceutico interessa ampiamente il Prodotti Interno Lordo irlandese, ma non altrettanto l’occupazione ed il Prodotto Nazionale Lordo [1], perché esso è ad alta intensità di capitale e gran parte del valore aggiunto si concentra sulle multinazionali straniere. Ancora una volta, non quello di cui l’Irlanda aveva bisogno.

 

 

 

November 13, 2012, 4:31 pm

Identity Voters

So Paul Ryan doesn’t believe that he and his party lost on the issues; it’s just that too many of those “urban voters” (hmm, I wonder who he means) for some reason showed up at the polls.

 

Actually, in a way Ryan does have a point: there are ethnic and racial groups that consistently favor one party over the other in ways that seem to reflect something more than economic self-interest. In the figure below — based on a bit of a catchall from the exit polls and the Pew pre-election poll – the blue line shows the average relationship between income and presidential preference, and the various markets show some groups that were far off that line. (I couldn’t find a good number on median income for Jewish households, but assume that it’s in the same general vicinity as Asian-Americans):

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As you can see, it’s not just those “urban” voters who seem to vote their identity. Asians and Jewish households are much more Democratic than you might expect given their relatively high incomes, presumably because they see the GOP as believing fundamentally in a white Christian nation from which they will forever be outsiders.

And then there’s the other identity-politics minority, which is every bit as anomalous in its voting behavior as those urbanites.

Some of the attempts to predict future trends argue that over time Hispanics will become politically “white”, the way Irish and Italians did. Maybe, although somehow that hasn’t happened yet to my tribe. But isn’t it equally likely that over time Southern whites will finally become culturally assimilated, and start voting like the rest of their fellow citizens?

 

13 novembre 2012Elettori identitari

Dunque, Paul Ryan non crede che lui ed il suo partito abbiano perso su temi reali; semplicemente troppi di quegli “elettori di città” (mmmh, mi chiedo cosa voglia dire) per qualche ragione si sono presentati ai sondaggi.

Effettivamente, in un certo senso Ryan ha ragione: ci sono gruppi etnici e razziali che hanno espresso i propri favori ad un partito anziché all’altro in modi che sembrano riflettere qualcosa di più che il proprio interesse economico. Nella figura sotto – un po’ basata  su in insieme di exit polls e di sondaggi  precedenti le elezioni della Pew [2] – la linea blu mostra la relazione media tra il reddito e le preferenze presidenziali, ed i vari punti [3] mostrano alcuni gruppi che sono risultati distanti da quella linea (non riesco a trovare un numero adeguato per il reddito medio delle famiglie ebraiche, ma considero che esso sia nella stessa generale prossimità degli americani asiatici):

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Come vedete, non sono soltanto quegli elettori “di città” che sembrano esprimere col voto la loro identità. Le famiglie  asiatiche ed ebraiche  sono molto di più democratiche di quello che vi sareste aspettati considerati i loro redditi relativamente elevati, presumibilmente perché vedono il Partito Repubblicano fondamentalmente credere in una nazione bianca e cristiana, rispetto alla quale saranno sempre estranei.

E poi c’è l’altra minoranza politicamente identitaria, che è altrettanto anomala nel suo comportamento di voto degli elettori “di città”.

Alcuni tentativi di predire le tendenze  future  argomentano che gli Ispanici col tempo diventeranno politicamente “bianchi”, nello stesso modo in cui fecero gli Irlandesi e gli Italiani. Forse, sebbene in qualche modo quello non è ancora accaduto nella mia tribù. Ma non è nello stesso modo probabile che i bianchi del Sud alla fine si assimileranno culturalmente, e cominceranno a votare come il resto dei loro concittadini?

 

 

 

 

November 17, 2012, 10:15 am

Transatlantic Divergence

Deadline pressure, so not much blogging this weekend. But pursuing the theme that America is doing the least worst among major economies, here’s a chart I find illuminating:

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In the early stages of the crisis, unemployment rose more rapidly in the US than in Europe. This mainly reflected differences in institutions: it’s much easier to fire people in America. From some point in 2010 onward, however, the US situation has gradually improved; initially some of the drop in unemployment was basically people leaving the labor force, but more recently there have been solid though modest gains in the ratio of employment to the relevant population (you have to adjust for aging).

Meanwhile, Europe has gotten much worse; now formally in recession, but the truth is that it has been going downhill all along.

Why the divergence? The obvious answer is that the austerity stuff broke out in 2010, and the austerians took over policy much more completely in Europe than in the United States.

 

17 novembre 2012Divario  transatlantico

Pressato dalle scadenze, poco blogging in questo fine settimana. Ma, proseguendo sul tema di come l’America non stia proprio facendo le cose peggiori tra le economia avanzate, ecco un diagramma che trovo illuminante:

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Ai primi stadi della crisi, la disoccupazione cresceva più rapidamente negli Stati Uniti che in Europa. Questo principalmente rifletteva differenze istituzionali: è molto più facile licenziare le persone in America. Da qualche punto del 2010 in avanti, tuttavia, la situazione americana è gradualmente migliorata; inizialmente una certa caduta nella disoccupazione dipendeva fondamentalmente da persone che uscivano dalla forza lavoro, ma più recentemente ci sono stati solidi seppur modesti miglioramenti nel tasso di occupazione in rapporto alla popolazione corrispondente (devono essere corretti per l’invecchiamento).

Nel frattempo l’Europa ha conosciuto il peggio: ora formalmente è in recessione,  ma la verità è che è peggiorata in continuazione.

Perché questo divario? La risposta ovvia è che la faccenda dell’austerità è scoppiata nel 2010, e che i fanatici dell’austerità hanno fatto presa sulla politica europea molto più saldamente che in quella degli Stati Uniti.

 

 

 

 

 

November 18, 2012, 2:46 pm

The Insecurity Election

So, looking at the most e-mailed list, I think we can safely conclude that Times readers are suffering from post-election burnout; all they seem to want to read about is food. Which is fine!

But I wanted to share some thoughts provoked by Ross Douthat’s column today, which makes a very good point — namely, that the winning Obama coalition did not for the most part consist of forward-looking, NPR-listening, culturally adventurous liberals; instead, the big numbers came from groups “unified by economic fear”. Indeed: single women, Hispanics, and, as always, African-Americans are for a stronger welfare state because people like them need the security such a welfare state can provide.

Where I would part ways with Ross is in his suggestions that (a) rising insecurity reflects “social disintegration” and that (b) turning to the welfare state is a dead end.

The truth is that while single women and members of minority groups are more insecure at any given point of time than married whites, insecurity is on the rise for everyone, driven by changes in the economy. Our industrial structure is probably less stable than it was — you can’t count on today’s big corporations to survive, let alone retain their dominance, over the course of a working lifetime. And the traditional accoutrements of a good job — a defined-benefit pension plan, a good health-care plan — have been going away across the board.

Every time you read someone extolling the dynamism of the modern economy, the virtues of risk-taking, declaring that everyone has to expect to have multiple jobs in his or her life and that you can never stop learning, etc,, etc., bear in mind that this is a portrait of an economy with no stability, no guarantees that hard work will provide a consistent living, and a constant possibility of being thrown aside simply because you happen to be in the wrong place at the wrong time.

And nothing people can do in their personal lives or behavior can change this. Your church and your traditional marriage won’t guarantee the value of your 401(k), or make insurance affordable on the individual market.

So here’s the question: isn’t this exactly the kind of economy that should have a strong welfare state? Isn’t it much better to have guaranteed health care and a basic pension from Social Security rather than simply hanker for the corporate safety net that no longer exists? Might one not even argue that a bit of basic economic security would make our dynamic economy work better, by reducing the fear factor?

Now, none of this will bring back traditional mores — but that’s really a different issue. In Sweden, more than half of children are born out of wedlock — but they don’t seem to suffer much as a result, perhaps because the welfare state is so strong. Maybe we’ll go that way too. So?

 

Anyway, Ross is quite right to point out that the Obama coalition is in large part a response to fear instead of, or as well as, hope. But that’s OK.

 

18 novembre 2012Le elezioni dell’insicurezza

Dunque, guardando buona parte della lista delle mail, penso di poter concludere con certezza che i lettori del Times stanno soffrendo per esaurimento post-elettorale; sembra che per tutti il volerne leggere sia un alimento. Bella cosa!

Ma avevo voglia di condividere alcuni pensieri stimolati dall’articolo di oggi di Ross Douthat [4], che avanza una questione molto interessante – precisamente, che la coalizione vincente di Obama non consista in massima parte di liberals che guardano avanti, che ascoltano l’ NPR [5] e che sono avidi di cultura; piuttosto. un gran numero provengono da gruppi “tenuti assieme dalla paura economica”. In effetti: donne sole, ispanici e, come sempre, afroamericani sono per uno Stato assistenziale più forte perché hanno bisogno della sicurezza che uno Stato assistenziale fornisce.

Dove mi vorrei distinguere da Ross è nelle sue indicazioni per le quali:  (a) la crescente insicurezza riflette una “disintegrazione sociale” e (b) rivolgersi allo stato sociale è una soluzione senza sbocco.

La verità è che se le donne sole e i componenti dei gruppi delle minoranze, nelle varie circostanze, sono più insicuri dei bianchi sposati, l’insicurezza è in crescita per tutti, spinta dai cambiamenti nell’economia.  La nostra struttura industriale è probabilmente meno stabile di un tempo – non si può contare sulle grandi imprese, oggi, tantomeno sulla loro prevalenza, per campare una vita intera di lavoro. Ed i tradizionali  complementi di un buon posto di lavoro – un piano di sussidi per la pensione definito, un buon programma di assistenza sanitaria – stanno scomparendo dappertutto.

Tutte le volte che si legge qualcuno che magnifica il dinamismo dell’economia moderna, le virtù del prendersi rischi, dichiarando che ognuno deve aspettarsi di avere più posti di lavoro nella propria vita e che non si può smettere di apprendere etc. etc. , tenete a mente che questo è il ritratto di una economia senza alcuna stabilità, senza le garanzie che un duro lavoro fornisca un sostentamento continuo, e con la costante possibilità di esser messi da una parte solo perché vi è successo di trovarvi nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

E niente che le persone possono fare nelle loro vite e condotte personali può modificare tutto ciò. La vostra chiesa e il vostro matrimonio tradizionale non vi garantiranno il valore delle vostre trattenute previdenziali [6], né renderanno sostenibile la vostra assicurazione in un mercato personalizzato.

Ecco dunque il problema: non è proprio questo il tipo di economia che dovrebbe caratterizzate uno Stato assistenziale? Non è molto meglio avere una assistenza sanitaria garantita ed una pensione di base da parte della Previdenza Sociale, piuttosto che anelare per una rete di garanzia aziendale che non esiste più? Non si potrebbe persino sostenere che un po’ di fondamentale sicurezza economica farebbe funzionare meglio la nostra dinamica economia, riducendo la componente della paura?

Ora, niente del genere ci riporterà alle abitudini tradizionali – ma questa è davvero una questione diversa. In Svezia, più della metà dei bambini nascono fuori dal vincolo matrimoniale – ma in conseguenza di ciò gli svedesi non sembrano soffrire molto, forse perché lo Stato assistenziale è così forte. Forse potremmo battere quella strada. Dunque?

In ogni modo, Ross ha abbastanza ragione nel mettere in evidenza che la coalizione di Obama è in larga parte una risposta della paura piuttosto che della speranza. O magari, della paura in aggiunta alla speranza. Ma non c’è niente di male.

 

 

 

 

November 19, 2012, 8:56 am

The Europe-in-Rubble Excuse

Whenever I point out how well America did with strong unions and highly progressive taxation after World War II, I can count on conservatives trying to resolve their cognitive dissonance by saying “but it was easy then — all our competitors were in ruins!” You can see this all over the comments on today’s column.

Sorry, guys, but that’s bad history and very bad economics.

On the history: the great postwar boom wasn’t just a few years after the war; it was a whole generation long, from 1947 to 1973 — well into an era in which Europe had very much recovered. Here’s West German GDP per capita as a share of US GDP per capita:

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The Europe-in-ruins era was long over while the US boom was still going strong.

But the bad history is incidental; the really key point is that this is nonsense economics. Yes, our competitors were in ruins for a while; so were our customers (who were more or less the same countries). Basically, we had nobody to trade with. Here’s exports and imports as a percentage of US GDP:

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There’s a brief surge in exports in the late 1940s; that’s the Marshall Plan. But through the 50s and 60s America essentially did very little trade, exports or imports. If you think that’s good for the economy, you should be all for extreme protectionism.

Actually, there’s a substantial trade theory literature on the effect of other countries’ growth on our income and purchasing power, which says that it can go either way — more competition, but also bigger markets, with the net effect depending on how it affects our terms of trade, the ratio of export to import prices. There’s a slight presumption of positive effects from foreign growth, which becomes a much stronger presumption if the foreign economies start very small — which is exactly the situation after World War II. So the whole notion that we had it easy because Europe was destroyed is just ignorant.

And anyone who reflexively reaches for the idea that we were actually better off because Europe was in ruins as a way to explain the postwar economy should take a hard look in the mirror. Did you think this through? Or were you just grabbing for something, anything, to explain away a fact that your ideology says can’t have been true?

 

19 novembre 2012La scusa dell’Europa  nelle macerie

Tutte le volte che metto in evidenza come l’America ebbe buoni risultati con i sindacati forti e la tassazione progressiva all’indomani della II Guerra Mondiale, devo aspettarmi da parte dei conservatori  il tentativo di risolvere il loro deficit di conoscenza dicendo “ma allora fu facile – tutti i competitori erano in rovina!”.  Lo potete constatare nei commenti all’articolo di oggi.

Mi dispiace, ragazzi, ma questa è cattiva conoscenza della storia e dell’economia.

Per quanto concerne la storia: il grande boom postbellico non riguardò solo pochi anni dopo la guerra; durò una intera generazione, dal 1947 al 1973 – ben dentro un periodo nel quale l’Europa si era molto ripresa. Ecco il PIL procapite della Germania Occidentale espresso come quota del PIL procapite degli Stati Uniti:

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L’ “Europa-in-rovina” era passata da un pezzo, mentre il boom degli Stati Uniti stava ancora andando avanti.

Ma la cattiva conoscenza della storia è secondaria; il punto veramente importante è l’insensatezza economica. Si, i nostri competitori furono in rovina per un certo periodo; dunque furono nostri clienti (si trattò più o meno degli stessi paesi). Fondamentalmente, non avevamo nessuno con cui commerciare. Ecco le esportazioni e le importazioni come percentuali del PIL degli Stati Uniti:

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Appare un breve risalita nelle esportazioni nell’ultima parte degli anni ’40; quello è il Piano Marshall. Ma nel corso degli anni ’50 e ’60 l’America in sostanza ebbe un commercio assai modesto, sia in importazioni che in esportazioni. Se si pensa che sia stato un bene per l’economia, si dovrebbe essere tutti favorevoli ad un protezionismo estremo.

Effettivamente, c’è una cospicua letteratura nella letteratura sul commercio sugli effetti della crescita degli altri paesi sul nostro reddito e sul potere di acquisto, che dice che le cose possono andare in entrambi i modi – più competizione, ma anche mercati più vasti, con l’effetto netto che dipende dal nostro rapporto di scambio, il rapporto tra i prezzi all’esportazione ed all’importazione. C’è una leggera presunzione di effetti positivi derivanti dalla crescita all’estero, che diventa assai più forte se le economie estere sono molto piccole in partenza –  e quella  fu esattamente la situazione successiva alla II Guerra Mondiale. Dunque, l’intero concetto secondo il quale avemmo vita facile perché l’Europa era distrutta è solo frutto di ignoranza.

E chiunque, per spiegare l’economia postbellica, faccia propria di riflesso  l’idea che  a noi ci andò effettivamente meglio a causa della rovina dell’Europa, dovrebbe guardarsi seriamente allo specchio. Ci avete riflettuto bene? O vi state soltanto aggrappando a qualcosa, qualsiasi cosa, per capacitarvi di un fatto che secondo la vostra ideologia non può essere stato vero?

 

 

 

 

November 21, 2012, 11:16 am

All Hail Calculated Risk

Update: Changed some wording; bizarrely, some people thought I was attacking Joe Weisenthal, when I was actually praising him.

Since I’ve mentioned both the nonsense that passes for economic analysis at CNBC and how Joe Weisenthal gets attacked when he makes sense, I should highlight this JW interview with Bill McBride, aka Calculated Risk. It’s a great piece — and I’m not just saying this because McBride has nice things to say about me and, even better, shows appropriate contempt for Zero Hedge.

CR is an example of the sort of economic reporting and analysis people would be following if they really wanted to know what was happening, rather than “reporting” that reinforces their prejudices. (But enter CR’s comment threads at your own risk — the usual suspects show up in force). CR’s analysis, more than anyone else’s, gave me a heads-up on the housing bubble, and has helped me along the way on many other issues.

But as I said, this kind of analysis seems to be a minority taste. Although you do have to wonder: what would really happen if someone set up a Serious Business channel?

 

21 novembre 2012Evviva Calculated Risk

Postilla [7] : cambiando qualche parola, curiosamente alcune persone hanno pensato che io stessi attaccando Joe Weisenthal [8], mentre in effetti lo stavo elogiando.

Dal momento che avevo menzionato sia l’insensatezza che circola nelle analisi economiche della CNBC sia il modo in cui Joe Weisenthal viene attaccato quando avanza opinioni sensate, dovrei mettere in rilievo questa intervista di Joe Weisenthal a Bill McBride, alias Calculated  Risk [9]. E’ un gran pezzo – e non lo dico soltanto perché dice cose graziose sul mio conto e, ancora meglio, mostra una attenzione appropriata al tema del Limite dello Zero [10].

Calculated Risk è un esempio di quel genere di informazioni ed analisi economiche che la gente dovrebbe seguire se volesse realmente sapere cosa sta succedendo, invece che un giornalismo che rafforza i  loro pregiudizi (ma entrate nelle discussioni dei commentatori a vostro rischio e pericolo – i soliti noti sono presenti in forze). Le analisi di CR, più di qualsiasi altre, mi hanno dato indirizzi sulla bolla immobiliare, e mi hanno aiutato di volta in volta su molte altre questioni.

Ma, come ho detto, questo genere di analisi sembra incontrare i gusti di una minoranza. Sebbene ci si deve chiedere: cosa accadrebbe se qualcuno fondasse un canale televisivo di Seria Economia?

 

 

 

 

 

 

November 24, 2012, 9:53 am

A Meta Modeling Meditation

I’m still thinking about the whole “America could only give workers decent living standards when it didn’t face competition” discussion. For one thing, this is an old favorite discussion of mine; the “growth and trade” literature goes back more than 60 years, but there aren’t, I think, many prominent economists working today who know much about that tradition, so I may be the last of the Mohicans or something. For another, this subject is a perfect illustration of the important of actually having a model – I’ll explain in a minute what I mean by that. And one more point: what we learn from this story is that a model may be created to answer one question, or defend a particular position, but if it’s a good model it can be used in multiple settings, and sometimes may even end up supporting a different side in the political debate.

So, on the first point: the origins of this literature go back to the immediate postwar years, when it was common to argue that US technological superiority made it impossible for Europe to compete. Yet basic trade theory says that trade depends on comparative advantage, not absolute advantage – you can gain from trade even if you’re less productive across the board, simply by concentrating on the areas in which your productivity lags least. Did the “dollar shortage” argument make any sense in that framework?

Enter John Hicks, who rephrased it not as a question about gains from trade but as a question about the effects of technological progress in your trading partners. And he laid out a rudimentary model to address that question.

Some readers asked, what do I mean by a “model”? The answer is, I’m pretty generous on that front – it could be solved equations, it could be a computer simulation, it could be a physical apparatus like the Phillips hydraulic Keynesian model, or it could just be a carefully written verbal discussion like Hume’s essay on the balance of trade. What makes it a model is that however it’s presented, it involves a careful discussion of micromotives and macrobehavior – that is, it describes what individuals are doing (not necessarily out of perfect rationality), and how that individual behavior adds up to some aggregate outcome. Crucially, it’s not just a set of slogans.

Now, having a model is no guarantee of being right – real business cycle theory certainly fits my definition, but I believe that it offers a fundamentally wrong account of what recessions are all about. Still, writing down a model rules out certain kinds of error, the kind that come from not thinking about things add up. Most of the bad reasoning on the postwar situation comes from an almost ridiculous error – forgetting that not having competitors doesn’t help if you also don’t have any customers. Having a model lets you avoid that sort of thing.

What the Hicks analysis and later versions (notably Dornbusch-Fischer-Samuelson (pdf)) tells us is that technological progress in other countries can either help or hurt you, depending on which industries are affected; it also tells you to look at the terms of trade, which in practice means that it turns out to be a smaller issue than many people imagine.

What’s interesting about this analysis from a political point of view is that more or less the same model has served different causes at different times. In postwar Europe, Hicks-type analysis was a corrective people arguing against market economies open to trade; it was, if you like, a helpful support to free-marketeers. In the early 1990s, I and other used this kind of analysis to counter both left-of-center demands for protectionism and corporate-welfare arguments for subsidies to fight Japan and all that. Yet right now the analysis turns out to be useful mainly to counter right-wing claims that the experience of America in the 50s and 60s, when good wages and progressive taxation went hand in hand with rapid growth, can be dismissed by appealing to the lack of international competition.

The point is that a helpful economic model is not a propaganda slogan, to be discarded whenever the party line changes. It is, instead, a structure that can be used to improve your understanding in many contexts.

Oh, and the best answer to “gotcha” attempts to debunk economists – “Ha! You said just the opposite in 2003!” – is to ask whether and how the economist’s model has changed. If he is using the same model, but it’s one that has different policy implications in different situations, you’ve just done a gotcha on yourself. If he has changed his model, the question is why, and whether there were good reasons for the change.

And yes, I’ve changed my models, mainly in the face of experience. For example, I didn’t take either the liquidity trap or the possibility of self-fulfilling currency crises seriously until 1998, when events in Asia led me to change my views. And I’m proud, not ashamed, of showing that kind of intellectual flexibility. What I don’t believe I’ve done is change my models to support a predetermined political or policy position, which is a definite sin.

So you should try to think in terms of models; it will make you a better person.

 

24 novembre 2012Una meditazione sui meta-modelli

Sto ancora meditando sull’intero dibattito “l’America dovrebbe dare ai lavoratori soltanto condizioni di vita decenti, dato che non riesce a far fronte alla competizione”. Per un aspetto, si tratta di uno dei miei vecchi temi preferiti; la letteratura sulla “crescita e lo scambio” risale a più di 60 anni orsono, ma non ci sono molti importanti economisti, io penso, che sanno granché di quella tradizione, talché può darsi che io sia l’ultimo del Mohicani o qualcosa del genere. D’altra parte, questa tema è una perfetta illustrazione dell’importanza di avere un modello – tra un secondo spiegherò cosa intendo con questo. E un altro aspetto ancora: quello che impariamo da questa storia è che un modello può essere creato per rispondere ad una domanda, o per sostenere una particolare posizione, ma se è un buon modello può essere utilizzato sotto molteplici forme, e talvolta può persino finire col dare sostegno ad un aspetto diverso nel dibattito politico.

Dunque, sul primo punto: le origini di questa letteratura ci riportano agli anni immediatamente successivi alla guerra, quando era comune la tesi secondo la quale la superiorità tecnologica statunitense rendesse impossibile all’Europa il competere. Tuttavia la teoria di base dello scambio dice che esso dipende dal vantaggio comparativo, non da quello assoluto – si può guadagnare dal commercio anche se si è meno competitivi oltre i confini, semplicemente concentrandosi nelle aree nelle quali la propria competitività rimane meno addietro. L’argomento sulla “scarsità di dollari” ha un qualche significato in quel contesto?

Qua interviene John Hicks, il quale riformulò la domanda non come un problema di vantaggi dal commercio ma come un problema degli effetti del progresso tecnologico nei propri partners commerciali. E mise giù un modello rudimentale per affrontare tale questione.

Alcuni lettori hanno chiesto che cosa intendo per “modello”. La risposta è che io sono abbastanza flessibile su quel fronte … potrebbe consistere nel risolvere equazioni o in una simulazione al computer,  potrebbe essere un apparato di fisica come il “modello idraulico keynesiano di Phillips”, o potrebbe essere una discussione verbale scritta con un certo scrupolo come il saggio di Hume sulla bilancia commerciale. Quello che fa di qualcosa un modello, comunque sia presentato,  è che esso include un attento dibattito di ‘micro motivi’ e di ‘macro condotte’ – vale a dire, esso descrive cosa stanno facendo le persone (non necessariamente in modo perfettamente razionale), e come quel comportamento individuale porti a qualche risultato complessivo. La cosa fondamentale è che non si tratta di una serie di slogans.

Ora, avere un modello non è una garanzia di aver ragione – la teoria del ciclo economico reale si adatta senz’altro alla mia definizione, ma io credo che essa offra un resoconto fondamentalmente sbagliato su cosa siano le recessioni. Inoltre, tener conto di un modello esclude alcuni tipi di errori, l’errore che viene dal non pensare alle cose che hanno un senso. Gran parte dei cattivi ragionamenti sulla situazione post bellica deriva da un errore alquanto ridicolo – dimenticare che non avere competitori  non è d’aiuto, se non si hanno neppure clienti. Avere un modello vi consente di evitare quel genere di cose.

Quello che l’analisi di Hicks e le versioni successive (in particolare Dornbusch-Fischer-Samuelson, disponibile in pdf) ci dicono è che il progresso tecnologico negli altri paesi vi può aiutare o danneggiare, a seconda di quali industrie siano interessate; esse ci dicono anche di guardare ai  termini di scambio [11], la qualcosa in pratica poi si scopre essere una questione più modesta di quanto molta gente non si immagini.

Quello che è interessante in questa analisi da un punto di vista politico è che, a seconda delle epoche, più o meno lo stesso modello ha servito le cause più diverse. Nell’Europa post-bellica, analisi del genere di quelle di Hicks servirono come correttivi nei confronti di coloro che si esprimevano contro economie di mercato aperte agli scambi; fu, se volete, un sostegno utile ai sostenitori dei liberi mercati. Nei primi anni ’90, io ed altri utilizzammo queste analisi  per contrastare sia le richieste di protezionismo che venivano dalla sinistra che gli argomenti imprenditorial-assistenziali di sussidi  per combattere il Giappone e cose simili. Tuttavia in questo momento si scopre che l’analisi è utile principalmente per contrastare le pretese della destra secondo la quale l’esperienza dell’America negli anni ’50 e ’60, quando buoni salari  e una tassazione progressiva andavano di pari passo con la crescita, può essere messa da parte con l’argomento del difetto di competitività internazionale.

Il punto è che un modello economico utile non è uno slogan propagandistico, che possa essere scartato ogni qualvolta cambia la linea di una parte politica. Piuttosto, è un impianto che può essere usato per migliorare la vostra capacità di comprendere nei contesti più diversi.

E infine, la migliore risposta ai tentativi di tutti quelli che credono di poter ‘smascherare’ [12] gli economisti  – “Eccoci! Avevi detto proprio il contrario nel 2003!” – è chiedere se e come il modello dell’economista è cambiato. Se egli sta usando lo stesso modello, ma esso ha differenti implicazioni politiche in diversi contesti, allora gli smascheratori si sono traditi da soli. Se l’economista ha cambiato il suo modello, la domanda è perché, e se c’erano buone ragioni per il cambiamento.

Ed è vero, io ho cambiato i miei modelli, principalmente a fronte dell’esperienza. Per esempio, non ho preso sul serio né la teoria della trappola di liquidità né la possibilità di crisi valutarie che si ‘autoavverano’ sino al 1998, quando i fatti dell’Asia mi spinsero a cambiare opinione. Io sono orgoglioso, non ho ragione di vergognarmi, per aver usato quel genere di flessibilità intellettuale. Quello che non credo di aver fatto è cambiare i miei modelli a sostegno di una posizione o di una convenienza politica [13], che è chiaramente un peccato.

Dunque, dovreste provare a pensare nei termini dei modelli; farebbe di voi persone migliori.

 

 

 

 

 

 

 

November 25, 2012, 8:48 am

Incredible Credibility

There’s an interesting mix of contrast and similarity between the policy debates in Britain and the United States right now. In both countries — as in every country that retains its own currency and has debts denominated in that national currency — interest rates are near record lows:

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However, Very Serious People tell very different stories in the two nations. In the United States, we supposedly have low borrowing costs despite our budget deficit — and if we don’t implement Bowles-Simpson immediately, the bond vigilantes will attack. Really! This time we mean it!

Meanwhile, in the UK, the official line is that the low rates are a reward for all that fiscal austerity — and VSPs get upset and abusive if someone well-informed points out that a much better explanation is that investors expect the economy to remain weak, and hence for short-term rates to remain very low, for a long time.

Let’s unpack this a bit. It’s very hard to come up with any reason why either the US or the UK might default, since they can simply print money if they need cash. And given the absence of real default risk, long-term interest rates should be more or less equal to an average of expected future short-term rates (not exactly, because of maturity risk, but that’s a fairly minor detail).

So if you expect the US and UK economies to be depressed for a long time, with the central bank keeping rates low, long rates will be low too — end of story.

But won’t that money printing cause inflation? Not as long as the economy remains depressed. Budget deficits could lead people to expect higher inflation down the road, once the slump finally ends — but that would be a good thing for the economy in the short run, discouraging people from sitting on cash and weakening the exchange rate, thereby making exports more competitive.

The point, then, is that the whole “credibility” argument is incoherent.

 

25 novembre 2012Credibilità incredibile

In questo momento, c’è un interessante miscela di contrasto e di somiglianza tra i dibattiti politici in Inghilterra e negli Stati Uniti. In entrambi i paesi – come in ogni paese che mantenga una propria valuta ed abbia debiti espressi nella propria valuta nazionale – i tassi di interesse sono vicini ai minimi storici:

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Tuttavia, le Persone Molto Serie ci raccontano di storie diverse tra le due nazioni. Negli Stati Uniti si suppone che noi si abbiano bassi costi di indebitamento nonostante il nostro deficit di bilancio – e se non mettiamo in atto immediatamente la Simpson-Bowles, i guardiani dei bonds ci attaccheranno. Davvero! Questa volta lo diciamo sul serio!

Nel frattempo, in Inghilterra, la linea ufficiale è che i bassi tassi sono un premio per tutta quella austerità della finanza pubblica – e le Persone Molto Serie si alterano e si sentono offese se qualcuno che sa le cose indica che una spiegazione assai migliore è che gli investitori si aspettano che l’economia resti debole, e di conseguenza che i tassi a breve termine restino bassi a lungo.

Andiamo un po’ a guardare dentro questa situazione. E’ assai difficile trovare una qualche ragione nel fatto che entrambi possano andare in default, dal momento che possono semplicemente stampare moneta se hanno bisogno di contante. E data l’assenza di un rischio reale di default, i tassi di interesse a lungo termine dovrebbero essere più o meno eguali ad una media dei tassi a breve termine attesi per il futuro (non esattamente, dato il rischio di un cambiamento di valore nel tempo delle obbligazioni, ma è francamente un dettaglio minore).

Dunque, se vi aspettate che le economie americana ed inglese restino depresse a lungo, con le Banche Centrali che tengono i tassi bassi, i tassi a lungo termine saranno bassi anch’essi – fine della storia.

Ma quello stampare moneta non provocherà inflazione? No, finché l’economia resta depressa. I deficit di bilancio dovrebbero portare le persone ad aspettarsi una inflazione più elevata lungo il percorso – ma nel breve termine questa sarebbe una buona cosa per l’economia, scoraggiando le persone dal tenersi i soldi in tasca ed indebolendo il tasso di cambio, di conseguenza rendendo le esportazioni più competitive.

Il punto, dunque, è che l’intero argomento della “credibilità” è inconsistente.

 

 

 

 

 

November 25, 2012, 3:15 pm

A Short History of Takers

NIcholas Eberstadt of the American Enterprise Institute is one of the unsung heroes of the recent election. His work claiming that we have become a nation of takers, reliant on the government to take care of us, helped define the tone and language with which Republicans talk to each other, especially when they don’t think anyone else is listening; hence Romney’s 47 percent remarks, and President Obama’s road to reelection. Thanks!

Now, many people have pointed out that Eberstadt’s alleged evidence for the taker hypothesis is really mainly just saying that Medicare and Medicaid have gotten a lot more expensive. So I’m doing prep work for classes next semester, and I thought I’d just graph government transfer payments other than Medicare/Medicaid as a share of GDP. Here’s what it looks like:

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So, as I read it, this number shoots up in recessions and their aftermath, then declines again, hitting a low during the later Clinton years; but there’s really no trend since the early 70s.

Indeed: the taking thing is all about health care.

 

25 novembre 2012Breve storia dei sussidiati

Nicholas Eberstadt dell’ American Enterprise Institute è uno degli eroi non celebrati delle recenti elezioni.   Il suo lavoro, nel quale sostiene che siamo diventati una nazione di sussidiati, che si affidano ad un governo che si prende cura di loro, ha contribuito a definire il tono e il linguaggio con il quale i repubblicani parlano l’uno con l’altro, specialmente quando pensano che nessuno li ascolti; da lì le osservazioni di Romney sul 47% e la strada aperta ad Obama per la rielezione. Grazie!

Ora, in molti hanno indicato che la pretesa prova di Eberstadt per l’ipotesi dei ‘sussidiati’ consiste proprio principalmente  nell’affermare che Medicare e Medicaid sono diventati assai più costose. Sto dunque facendo un lavoro preparatorio per le classi del prossimo semestre, ed ho pensato che avrei potuto semplicemente mettere in un diagramma i pagamenti di trasferimento del Governo diversi da Medicare/Medicaid  come percentuale del PIL. Ecco cosa viene fuori:

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Dunque, per come lo leggo, questo numero balza su nelle recessioni e nei periodi successivi, poi declina nuovamente, toccando un punto basso durante gl ultimi anni del periodo di Clinton; ma no c’è in realtà alcuna tendenza dai primi anni ’70.

In effetti, la storia dei ‘sussidiati’ dipende interamente  dalla assistenza sanitaria.

 

 

 

November 26, 2012, 3:12 pm

What’s The Matter With Italy?

Sorry about radio silence — real life intruded. Also, working on longer-term projects; including one that had me looking at a pretty big puzzle that isn’t getting much attention, namely, what is going on with Italy.

Italy is often grouped with Greece, Spain, etc. in discussions of the euro crisis. Yet its story is quite different. There were no massive capital inflows; debt is high, but deficits aren’t. The most striking thing about Italy is a remarkably dismal productivity performance since the mid to late 1990s. Here’s a comparison of Italian with French productivity, as measured by output per worker, from the Total Economy Database:

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I’ve been reading many attempts to explain what happened; while there’s a lot of interesting stuff about everything from regulation to firm size to export mix, I really don’t see anything that feels like a slam dunk.

And no, it’s not just a too-big welfare state — France’s welfare state is even bigger.

I’m not going to answer this; truly, I don’t know. But it’s important.

 

26 novembre 2012Che succede in Italia?

Spiacente per il silenzio radio – si è intromessa la vita reale. Sto anche lavorando su progetti a più lungo termine; incluso uno che mi aveva fatto metter gli occhi su un grande rompicapo che non sta ricevendo la necessaria attenzione, precisamente, cosa sta succedendo con l’Italia.

Nelle discussioni sull’eurocrisi l’Italia è spesso raggruppata con la Grecia, la Spagna etc. Tuttavia la sua storia è abbastanza differente. Non ci furono massicci afflussi di capitali; il debito è alto ma non ci sono deficit. La cosa che più sorprende in Italia è un andamento della produttività considerevolmente negativo, a partire dalla fine degli anni ’90. Ecco un confronto tra la produttività italiana e quella francese, espresso come prodotto per lavoratore, da Total Economy Database:

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Sto leggendo molti tentativi di spiegare cosa è successo; ci sono una quantità di cose interessanti su tutto, dalle regolamentazioni alle dimensioni delle imprese alla composizione dell’export, ma in realtà non vedo qualcosa che dia la sensazione di una prova schiacciante [14].

E no, non si tratta proprio di uno stato assistenziale troppo grande – lo stato assistenziale francese è ancora più grande.

Non sto accingendomi a dare una risposta; sinceramente non lo so. Ma è importante.

 

 

 

 

 

November 27, 2012, 7:23 am

The Stiffs and the Players

The contortions Republicans are going through in an attempt to avoid raising tax rates are quite something, and they pose something of a puzzle: why are they making noises about raising revenue by limiting deductions, while still screaming bloody murder at any hint of a rise in tax rates?

One possible answer is that they’re still imagining that they can pull a fast one — that they can sell supposed revenue raisers that don’t actually raise much revenue, or that they can find a way to renege on whatever agreement might be reached by appealing to the various interests with a stake in particular deductions.

Another possible answer, which I guess I have to mention, is that they sincerely believe that letting the top rate go back up to Clinton-era levels would have a devastating effect on incentives. On second thought, never mind.

But there’s a third possibility, which Nate Silver and Josh Marshall both raise in slightly different ways: they may be trying to protect the players at the expense of the $400,000 a year working stiffs.

 

The terms, in case you’re wondering, come from the original Wall Street:

I’m not talking a $400,000 a year working Wall Street stiff flying first class and being comfortable, I’m talking about liquid. Rich enough to have your own jet. Rich enough not to waste time. Fifty, a hundred million dollars, buddy. A player, or nothing.

Nate has a chart:

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Under this particular proposal, everyone making more than 250K would pay more — but as a percentage of income, it would be significant for those making 400K, trivial for the Masters of the Universe making $10 million or more. And this is basically going to be true of any proposal that doesn’t actually raise rates.

The point, as Josh says, is that when push comes to shove, the GOP seems ready to throw the bottom 90 percent of the top 1 percent overboard, in order to protect its real patrons, the superelite.

 

27 novembre 2012I poveracci e gli speculatori

Le contorsioni attraverso le quali i Repubblicani stanno passando nel tentativo di evitare l’aumento delle aliquote fiscali sono già una cosa non da poco, ed hanno qualcosa di misterioso: perché stanno facendo chiasso sull’aumentare le entrate limitando le deduzioni, mentre continuano a gridare all’assassinio sanguinoso ad ogni accenno all’aumento delle aliquote fiscali?

Una risposta possibile è che si stanno ancora immaginando di poter tirar fuori qualcosa di svelto – di poter fare accettare presunti raccoglitori di entrate [15] che in effetti non raccolgono poi tante entrate, o di poter trovare un modo per sottrarsi ad un qualsiasi accordo raggiungibile appellandosi ai vari interessi in gioco in particolari deduzioni.

Un’altra possibile risposta, che suppongo di dover ricordare, è che credono sinceramente che far tornare le aliquote sui più ricchi ai livelli del periodo di Clinton avrebbe effetti devastanti sugli incentivi. Pensandoci bene, lasciamo stare.

Ma c’è una terza possibilità, che Nate Silver e Josh Marshall insieme avanzano in modi leggermente diversi:  può darsi che stiano cercando di proteggere quelli che giocano in Borsa alle spese dei poveracci con 400.000 dollari  in un anno di lavoro.

Il termine “poveracci”, nel caso ve lo stiate chiedendo, viene dall’originale nel film Wall Street:

Non sto parlando di un poveraccio da 400.000 dollari all’anno che lavora a Wall Street, vola in prima classe e se la cava bene, sto parlando di liquido. Abbastanza ricco da avere il proprio jet personale. Abbastanza ricco da non perdere tempo. Cinquanta, cento milioni di dollari, amico. Uno che gioca in Borsa, sennò niente.

Nate ha un diagramma:

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Con questa particolare proposta, chiunque realizzi più di 250.000 dollari pagherebbe di più – ma come percentuale del reddito sarebbe significativo per coloro che hanno 400.000 dollari, poca cosa per i Signori dell’Universo con 10 milioni di dollari e più. E questo fondamentalmente è destinato ad essere vero per ogni proposta che in effetti non aumenti le aliquote.

Il punto, come dice Josh, è che nella peggiore delle ipotesi, il Partito Repubblicano sembra pronto a buttare a mare il 90 per cento dell’1 per cento dei più ricchi, al fine di proteggere i propri veri padroni, la superélite.

 

 

 

 

November 27, 2012, 11:36 am

Twenties Tales

The 1920s — when several of the victorious Allies emerged from World War I with large debts in their own currencies — offer in some ways the nearest parallel to the debt concerns dominating recent debate. And it occurred to me that it would be useful to have a side-by-side of Britain and France.

The two countries dealt with their debts very differently. Britain was a model of orthodoxy, returning to the gold standard and running huge primary surpluses to pay its debts; France, with a weaker political system, ended up inflating away much of its debt and accepting a big devaluation of the franc.

So how did the two economies fare? You don’t want to start the clock in 1918, because France was in part a battlefield, and could be expected to have some bounce as the war damage was fixed. So here’s real GDP from 1913 on, from the Maddison database:

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And here’s debt, from the IMF debt database:

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So virtue was not rewarded, and French political weakness actually led to a better economic performance.

 

27 novembre 2012Racconti degli anni Venti

Gli anni ’20 – quando un certo numero del paesi Alleati vittoriosi vennero fuori dalla I Guerra Mondiale con ampi debiti nelle loro proprie valute –  offrono in vari modi il parallelo più stretto alle preoccupazioni sul debito che dominano il dibattito recente. E mi era venuto in mente che sarebbe stato utile un raffronto ravvicinato tra Inghilterra e Francia.

I due paesi si misurarono in modi assai diversi con i loro debiti. L’Inghilterra fu un modello di ortodossia, con il ritorno al Gold Standard e la gestione di ampi avanzi primari per pagare i propri debiti; la Francia, con un sistema politico più debole, finì con l’inflazionare una buona parte del proprio debito e con l’accettare una grande svalutazione del franco.

Come si comportarono, dunque, le due economie? Non si deve mettere l’orologio al 1918, perché la Francia fu una parte del campo di battaglia, e ci si doveva aspettare che avesse un qualche rimbalzo una volta che fossero fissati i danni di guerra. Ecco dunque il PIL reale dal 1913 in poi, sulla base dei dati Maddison:

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Ed ecco il debito, sulla base delle statistiche sul debito del FMI:

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Dunque, la virtù non fu premiata e la debolezza politica della Francia in effetti portò ad un migliore prestazione economica.

 

 

 

 

November 28, 2012, 8:38 am

More About Italy

Dean Baker, in correspondence, makes an interesting point about the mysterious productivity collapse in Italy — namely, that a big chunk of it could be a statistical illusion. This is always something you should consider when you see something strange in economic data.

Here’s the story: Italy, with its combination of extensive regulations and weak enforcement, used to have a lot of “black labor” — workers who weren’t on the books, so as to evade various government-imposed requirements. But then came reforms that made keeping part-time workers, etc., on the books less onerous — and the hidden labor came into the open. Measured GDP wasn’t affected, because statisticians were already making imputations for the shadow economy; so the result was a decline in measured productivity.

One thing I like about this story is that it makes sense of another anomaly: wide divergence in different measures of Italian cost competitiveness, for example in this IMF study (pdf). Here’s a chart of estimated real effective exchange rates:

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I’d discount the unit value measure; that has always been a poor measure, and probably especially so when you’re dealing with a country that tries to export high-quality stuff. But there’s still a huge divergence between the unit labor cost measure, which suggests large overvaluation, and other measures — which is exactly what you’d expect if you had underreported productivity.

Balance of payments data are also sort of consistent with this story: Italy never had huge, Spanish-style current account deficits.

I don’t want to claim that all is OK with Italy; clearly, the country has dysfunctional markets, a lot of monopoly rents, and is lagging in the use of information technology. But arguably it isn’t the basket case some numbers suggest. And yes, you do wonder why the austerity program has to be as harsh as it is.

 

28 novembre 2012Qualcosa di più sull’Italia

Dean Baker, nella sua corrispondenza, avanza un argomento a proposito del misterioso collasso della produttività in Italia – precisamente che una gran parte di esso potrebbe essere una illusione statistica. Questa è una possibilità che si dovrebbe sempre considerare quando si osserva qualcosa di strano nei dati economici.

Ecco la storia: l’Italia, con la sua combinazione di estese e dettagliate regole e di deboli applicazioni delle stesse,  era abituata ad avere molto “lavoro nero” – lavoratori che non erano sui libri paga, in modo da evadere vari obblighi imposti dal Governo. Ma poi sono intervenute le riforme che hanno consentito di assumere lavoratori a part-time etc., meno onerosi sui libri paga – e il lavoro nascosto è venuto allo scoperto. Le misurazioni del PIL non ne sono state influenzate, giacché gli addetti alle statistiche già mettevano nel conto stime sull’economia ‘ombra’; dunque il risultato è stato un declino nella stima della produttività.

Un aspetto che mi fa piacere di questa storia è che essa spiega un’altra anomalia: l’ampia diversità di differenti misure sulla competitività italiana sui costi, per esempio in questo studio del FMI (disponibile in pdf). Questo è un diagramma sulle stime dei tassi di cambio realmente in vigore:

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Scarterei la misura del cosiddetto valore unitario; quella è sempre stata una misura da poco, e probabilmente è tale in particolare quando ci si occupa di un paese che cerca di esportare oggetti di alta-qualità. Ma c’è ancora un’ampia divergenza tra la misura del costo unitario del lavoro, che suggerisce una grande sovrastima, ed altre misure – che è esattamente quello che vi espettereste quando si è in presenza di una produttività sottorappresentata.

Anche i dati sulla bilancia dei pagamenti sono coerenti con questa spiegazione: l’Italia non ha mai avuto grandi deficit di conto corrente sul modello della Spagna.

Non voglio sostenere che tutto vada bene in Italia; chiaramente il paese ha mercati che non funzionano, una quantità di rendite monopolistiche, ed è in ritardo nell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione. Ma verosimilmente non è quella situazione insensata che alcuni dati suggeriscono. E in effetti c’è da chiedersi per quale ragione il programma di austerità debba essere così rigido quale è.

 

 

 

 

November 29, 2012, 8:48 am

Varieties of Errori

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Some readers may recall the “Peter Schiff was right” campaign of 2009, a sort of public-relations blitz claiming that Schiff, an Austrian-oriented commentator, had foreseen everything correctly. It wasn’t really true even then; still, Schiff became a fixture of right-wing TV shows, constantly warning about how expansionary monetary and fiscal policies were about to produce hyperinflation.

 

Well, Cullen Roche catches a TV host actually putting Schiff on the spot, pointing out that he’s been predicting that hyperinflation since 2008, so where is it?

Good question. And I’d like to pursue the question a bit more, not just or even mainly about Schiff, but more broadly about the role of predictions — including wrong predictions — in economics.

What’s crucial to understand, I think, is that there are two kinds of erroneous predictions. One kind of error, which everyone makes all the time, involves what you might call extraneous forces. If you didn’t know that there was going to be a war in the Middle East, or a confrontation over the debt ceiling, or whatever, your forecast may well be very badly wrong; too bad, but that doesn’t really speak to your underlying model. And by the way, this exoneration applies even if you should have known what was coming; all this says is that you may not be the right guy to listen to for short-run forecasts, which doesn’t necessarily say that you’re wrong about the bigger issues.

Here’s an example of a ludicrously wrong forecast that didn’t touch the fundamentals: in 1929 the great American economist Irving Fisher famously declared that stocks had reached a permanently high plateau; worse yet, he attributed this rosy future to the productivity gains resulting from Prohibition. He ended up looking like a fool, because, well, in some ways he was.

Yet none of this had anything to do with his fundamental economic analysis; Fisher’s theory of the interest rate and his theory of debt deflation are essential tools for anyone trying to do serious macroeconomics.

Now, the thing about Schiff and all the other Austrians predicting runaway inflation is that they were right to make this prediction given their model. If you believe that a recession is caused by a failure on the production side of the economy, the result of past malinvestment or something, you should also believe that any attempt to correct this decline by expanding credit will simply result in too much money chasing too few goods, and hence a lot of inflation.

By the same token, the failure of high inflation to materialize amounts to a decisive rejection of that model. (And no, it’s not because the numbers are fudged; independent estimates don’t differ significantly from official inflation.)

More generally, the past five years have seen some really dramatic policy actions — huge expansion of the Fed balance sheet, very large deficits, drastic austerity measures in some countries. These kinds of actions are, in effect, natural experiments that give you a lot of information about the validity of different economic models — and the models that have worked are demand-side, more or less Keynesian approaches, while everything else has been wildly wrong.

So here’s what should have happened: economists propounding these other approaches should have said, “Gosh, I seem to have been wrong. I need to rethink my approach.”

Oh, and by the way, I have done that. As I’ve written before, I rethought my views about liquidity traps and currency crises after the Asian crisis of the late 1990s; I rethought my views about advanced country debt and deficits after making a wrong prediction in 2003 (although in that case my mistake was in not taking my own model seriously enough).

But as far as I can tell, very, very few people have been willing to let the evidence speak.

 

29 novembre 2012Specie di errori

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[16] Alcuni lettori si ricorderanno la campagna del 2009 “Peter Schiff [17] aveva ragione”, una sorta di blitz propagandistico che sosteneva che Schiff, un commentatore di orientamenti “austriaci”  [18],  avesse previsto correttamente ogni cosa. In realtà non era vero neanche allora; tuttavia Schiff divenne una istituzione degli spettacoli televisivi della destra, che costantemente metteva in guardia su come le politiche della espansione monetaria e della finanza pubblica fossero prossime a produrre l’iperinflazione.

Ebbene, Cullen Roche [19] sorprende un conduttore di un programma televisivo che in effetti mette Schiff alle strette, mettendo in evidenza che egli aveva predetto l’iperinflazione sin dal 2008, dunque dov’è?

Bella domanda. E mi piacerebbe sviluppare un po’ la questione, non solo e nemmeno principalmente a proposito di Schiff, ma più in generale sul ruolo delle previsioni in economia – incluse le previsioni sbagliate.

Quello che è fondamentale intendere, penso, è che ci sono due tipi di previsioni sbagliate. Un genere di errore, che fanno tutti in ogni momento, riguarda quelle che potreste definire delle componenti esterne. Se non sapevate che si stava preparando una guerra in Medio-Oriente, o uno scontro sul tetto del debito, o qualsiasi altra cosa, la vostra previsione può risultare del tutto sbagliata; è un guaio, ma non ha effettivamente a che fare con il modello che state utilizzando. E naturalmente non potete essere incolpati anche se avreste dovuto sapere cosa stava avvenendo; tutto questo dice che forse non siete la persona giusta cui rivolgersi per le previsioni sul breve termine, ma questo non significa necessariamente che fate sbagli sulle tematiche più importanti.

Ecco un esempio di una previsione risibilmente errata che non toccava gli aspetti di fondo: nel 1929 il grande economista americano Irving Fisher notoriamente si espresse nel senso che i capitali azionari aveva raggiunto una stabilità su livelli elevati; peggio ancora, egli attribuì questo roseo futuro agli incrementi di produttività derivanti dal Proibizionismo. Finì con l’apparire un po’ sciocco, perché, insomma, in qualche modo lo era stato.

Tuttavia, tutto questo non aveva niente a che fare con la sua analisi economica fondamentale; la teoria del tasso di interesse di Fisher e la sua teoria sulla deflazione da debito sono strumenti essenziali per chiunque cerchi seriamente di misurarsi con la macroeconomia.

Ora, il problema a proposito di Schiff e di tutti gli altri ‘austriaci’ che hanno previsto una inflazione fuori controllo è che, dato il loro modello, avevano ragione a fare una previsione del genere. Se si crede che la recessione è determinata da un fallimento sul versante economico  della produzione, come risultato di passati investimenti sbagliati o di qualcosa d’altro, si deve anche credere che ogni tentativo di correggere questo declino attraverso l’espansione del credito semplicemente si risolverà in troppi soldi a fronte di beni troppo scarsi, dal che deriverà un bel po’ di inflazione.

Per la stessa ragione, il fatto che una elevata inflazione non abbia luogo corrisponde ad una smentita inconfutabile di tale modello (e no, non dipende dal fatto che i dati sono truccati; le stime indipendenti non differiscono significativamente dai dati ufficiali sull’inflazione).

Più in generale, i cinque anni passati hanno visto alcune azioni politiche realmente spettacolari – una grande espansione dei bilanci contabili della Fed, deficit molto grandi, drastiche misure di austerità in alcuni paesi. Questo genere di azioni sono, in effetti, esperimenti naturali che vi danno una quantità di informazioni sulla validità dei diversi modelli economici – ed i modelli che hanno funzionato sono quelli sul  lato della domanda, più o meno gli approcci keynesiani, mentre ogni altro tentativo ha avuto torto marcio.

Ecco dunque che cosa avrebbe dovuto accadere: gli economisti che propongono questi altri approcci avrebbero dovuto dire: “Oddio, sembra che abbia avuto torto. Ho bisogno di ripensare al mio approccio”.

Devo aggiungere, per inciso, che io mi sono comportato in quel modo. Come ho scritto in precedenza, io ho ripensato ai miei punti di vista a proposito delle trappole di liquidità e dei deficit dopo la crisi asiatica degli ultimi anni ’90; ho ripensato ai miei punti di vista a proposito del debito  e dei deficit dei paesi avanzati dopo aver fatto una previsione avanzata nel 2003 (sebbene in quel caso il mio errore fu quello di non prendere sul serio il mio stesso modello).

Ma, per quello che posso dire, pochissime persone davvero hanno avuto voglia di far parlare i fatti.

 

 

 

 

 

November 30, 2012, 7:30 pm

Notes on Epistemic Closure

I gather that philosophers are upset over the use of the term “epistemic closure” to refer to the closing of the movement conservative mind – that’s not what they mean by the term. Never mind: that’s the term everyone is using. And recent reports are a reminder of just how closed that mind really is.

Start with Bruce Bartlett, who mentions in his mea culpa that when he asked conservative colleagues what they thought about some politically incorrect remarks quoted in the New York Times, it turned out that they were completely unaware of the whole thing – they didn’t read the Times, not even to find out what their enemies were saying.

Maybe this attitude explains, in part, the amazing debacle of Romney polling. We now know that Romney’s internal polls were wildly wrong, and that, incredibly, he went into Election Day confident of victory. My immediate question is not so much why those polls were wrong, but rather why the campaign didn’t have severe doubts about what its pollsters were telling them.

I mean, anyone who clicked on Nate Silver got a very different view of the race, with the vast majority of public polls portraying an Obama edge. Why wasn’t Romney, or someone else at the top level, asking hard questions about why the internal polls were so different, and why the pollsters believed they knew so much better, not just than the public polls, but than the obviously confident Obama team? Maybe the answer is that nobody on that side even considered clicking on a Times blog! Bear in mind that Romney got in big trouble in one of the debates because he apparently got his Benghazi story from Fox News, with no awareness that Fox’s version wasn’t, you know, true.

 

All this in turn ties in, I think, with a phenomenon I notice a lot on the right (you can see it often in the comments on this blog): the persistent portrayal of people who disagree with them as marginal figures with trivial support. I think of Bill O’Reilly dismissing anyone who presents data he doesn’t like as “far left”, even when they’re thoroughly mainstream. Or, to be self-centered, the constant insistence by some people that nobody pays attention to what yours truly says; there are, it appears, an awful lot of nobodies out there. I’m not sure I fully understand this phenomenon, but it comes in part from a refusal to pay any attention at all to what other people think.

The point isn’t just that right-wingers believe in their own reality, but that they don’t think it matters that other people have different versions of reality. And no, this isn’t symmetric: liberals don’t consider it unnecessary to know what conservatives are thinking, or dismiss actually influential figures as marginal. Liberal may despise Rush Limbaugh, but they won’t dismiss him as a marginal figure nobody listens to.

In some ways, the right’s epistemic closure has been a source of strength; right-wingers certainly don’t negotiate with themselves. But reality does have a way of making itself known, eventually, and the right really doesn’t know what to do when that happens.

 

30 novembre 2012Note sulla ‘chiusura epistemica’

Capisco che I filosofi siano turbati dalla espressione “chiusura epistemica” in riferimento al fenomeno dell’esaurirsi del pensiero del movimento conservatore – non è quello che essi intendono con quel termine. Non importa: questa è l’espressione che usano tutti. E resoconti recenti ci ricordano come quel pensiero stia proprio esaurendosi.

Cominciamo con Bruce Bartlett [20], il quale rammenta nel suo ‘mea culpa’ che quando ha chiese ad alcuni suoi colleghi conservatori che cosa pensassero a proposito di alcune osservazioni scorrette citate dal New York Times, venne fuori che essi erano completamente inconsapevoli della faccenda – non leggevano il Times, nemmeno per scoprire quello che sostenessero i loro avversari.

Forse questa attitudine spiega in parte la straordinaria debacle dei sondaggi per conto di Romney. Oggi sappiamo che i sondaggi interni [21]di Romney  erano grossolanamente errati e che, incredibilmente, egli era arrivato all’ Election Day fiducioso della vittoria. La mia domanda immediata non è tanto perché quei sondaggi fossero sbagliati, ma piuttosto perché la sua organizzazione elettorale non ebbe seri dubbi su quanto i sondaggisti gli venivano raccontando.

Voglio dire, tutti coloro che accedevano al sito di Nate Silver [22] avevano una visione del tutto diversa della competizione, con una larga maggioranza dei sondaggi che mostravano un margine per Obama. Perché Romney, o qualcun altro al massimo livello, non si poneva serie domande sulla ragione per la quale i sondaggi interni fossero così diversi, e perché i sondaggisti pensavano di saperla così lunga, non solo al confronto con i sondaggi pubblici, ma anche a confronto con l’evidente fiducia dei collaboratori di Obama? Forse la risposta è che nessuno da quella parte nemmeno prendeva in considerazione di connettersi con un blog del Times! Si ricordi che Romney era finito in un bel guaio in uno dei dibattiti perché in apparenza aveva preso per buona la storia di Bengasi [23]su Fox News, versione che come sapete non era vera.

Tutto questo a sua volta si collega, io penso, con un fenomeno che ho notato frequentemente a destra (lo si può vedere spesso nei commenti su questo blog): il continuo ritrarre la gente che non è d’accordo con loro come individui marginali dotati di un seguito irrisorio. Penso a Bill O’Reilly [24], che liquida ciascuno che presenta dati che lui non gradisce come “estremista di sinistra”, anche quando si tratta di posizioni del tutto comuni. Oppure, per dire di me stesso, il continuo insistere da parte di alcune persone sul fatto che nessuno presterebbe attenzione al sottoscritto; fuori da loro, sembra, ci sarebbe soltanto il niente assoluto. Non sono sicuro di capire questo fenomeno, ma in parte esso deriva del rifiuto assoluto di prestare una qualche attenzione a quello che pensano gli altri.

Il punto è che le persone della destra non si limitano a credere nella loro propria realtà, ma non pensano che conti niente il fatto che altra gente abbia versioni diverse della realtà. E in questo non si può dire ci sia simmetria: i liberals non considerano superfluo conoscere quello che pensano i conservatori, o liquidare alcune loro figure effettivamente influenti come marginali. Un liberal può disprezzare Rush Limbaugh, ma non lo liquida come un personaggio secondario che nessuno ascolta.

In qualche modo, la ‘chiusura epistemica’ della destra è stata una ragione di forza; le persone di destra non negoziano facendo sconti [25]. Ma alla fine la realtà ha per forza un modo per farsi conoscere, e la destra davvero non sa che pesci prendere quando accade.

 

 

 

 

December 1, 2012, 8:21 am

Against Willful Denseness, The Gods Themselves Contend In Vain

From the very beginning of the Lesser Depression, the central principle for understanding macroeconomic policy has been that everything is different when you’re in a liquidity trap. In particular, the whole case for fiscal stimulus and against austerity rests on the proposition that with interest rates up against the zero lower bound, the central bank can neither achieve full employment on its own nor offset the contractionary effect of spending cuts or tax hikes.

This isn’t hard, folks; it’s just Macro 101. Yet a large number of economists — never mind politicians or policy makers — seems to have a very hard time grasping this basic concept.

Thus, Ryan Avent is driven to distraction by Tyler Cowen suggesting that it’s OK to have austerity now because growth in the third quarter was fairly strong. As Ryan says, the right time for austerity is when “the economy is on the way to putting the zero lower bound well in its rear-view mirror” — that is, when we’re well out of the liquidity trap. Meanwhile, Brad DeLong is driven into shrillness by Alberto Alesina still, after all these years, writing as if there’s no difference between spending cuts in normal times and spending cuts when you’re up against the zero lower bound.

We’re not talking about stupid people here; clearly, there’s something about the notion that the rules for policy depend on the situation that some economists just don’t want to understand.

Anyway, my own answer is still what it has been all along: the time for austerity is when the economy is close enough to full employment that the Fed is starting to raise rates to head off an undesirably high rate of inflation; at this point, given the case for somewhat higher inflation, I’d say that we shouldn’t even think about this until unemployment is well below 7 and falling fast. At that point you can, in effect, make a deal — fiscal austerity in return for not hiking rates — that leaves the economy harmless.

I can understand why politicians have a hard time getting this. But economists have no excuse.

 

1 dicembre 2012Contro la stupidità ostinata anche gli Dei niente possono

Dall’inizio di questa Depressione Minore, il concetto centrale per comprendere la macroeconomia è stato che ogni cosa è diversa quando si è in un ‘trappola di liquidità’. In particolare, tutto l’argomento sul sostegno finanziario pubblico e contro l’austerità si basa sull’idea che con i tassi di interesse fermi al limite inferiore di zero [26], la banca centrale non può di per sé né realizzare la piena occupazione né bilanciare l’effetto di contrazione dei tagli alla spesa pubblica o degli aumenti fiscali.

Gente, questo non è difficile a capirsi; si trova semplicemente sui libri di economia! Tuttavia, un largo numero di economisti – per non dire degli uomini politici e degli addetti ai lavori – sembra avere molta difficoltà nell’afferrare questo concetto di base.

Dunque, Ryan Avent è messo fuori strada da Tyler Cowen [27] quando afferma che è giusto avere l’austerità oggi, giacché la crescita nel terzo trimestre è stata abbastanza forte. Come Ryan dice, il momento giusto per l’austerità è quando “l’economia è sulla strada di collocare nettamente il ‘limite inferiore di zero’ nel suo specchietto retrovisore” – ovvero quando essa è chiaramente fuori dalla trappola di liquidità. Nel frattempo, Brad DeLong è vicino a perdere la pazienza con Alberto Alesina, che, dopo tutti questi anni, ancora scrive come se non ci fosse differenza tra i tagli alla spesa in tempi normali ed i tagli alla spesa quando si è a fronte del limite inferiore dello zero.

Non stiamo parlando di sciocchi, in questo caso: chiaramente c’è qualcosa nel concetto che le regole della politica dipendono dalle situazioni, che alcuni economisti proprio non vogliono intendere.

In ogni modo, la mia personale risposta è quella che è stata dall’inizio: il tempo per l’austerità è quando l’economia è abbastanza vicina alla piena occupazione al punto che la Fed sta cominciando al alzare i tassi al fine di sbarrare la strada ad un indesiderabile elevato tasso di inflazione; a questo punto, ammessa la possibilità di una inflazione assai superiore, direi che non dovremmo nemmeno pensarci sinché la disoccupazione non sarà ben al di sotto del 7 per cento e in rapida diminuzione. A quel punto, in effetti, si può fare uno scambio – austerità della finanza pubblica in cambio di tassi che non aumentano – che permetta all’economia di non correre rischi.

Posso capire che gli uomini politici abbiano difficoltà ad intendere una cosa del genere. Ma gli economisti non hanno scuse.

 

 

 

 

November 30, 2012, 5:27 am

Destructive Responsibility

Busy day today, probably no posting. Yes, I’m up ridiculously early.

Matthew O’Brien picks up on my France/Britain in the 20s comparison, and carries it forward through the 1930s:

1 1 16

The key point is that the two countries reversed roles: Britain, which had practiced destructive orthodoxy in the 20s, floated the pound in 1931, while France clung to its restored gold standard and suffered accordingly.

If there’s a really crucial lesson in all this, it is that appropriate macroeconomic policy depends on the situation. Rules designed to prevent irresponsible inflation and/or deficits may help when inflation is your problem; when you are instead a depressed economy in a liquidity trap, they become a lead-weighted straitjacket. As Simon Wren-Lewis says, it’s pretty weird to obsess over the risk that you might let governments off the hook when there is in fact no hook — and the problem is that governments are behaving as if there were.

 

30 novembre 2012Responsabilità distruttiva

Oggi ho daffare ed è probabile che non scriva niente. E in effetti mi sono alzato stupidamente presto.

Matthew O’Brien riprende il mio post sul confronto tra Francia ed Inghilterra negli anni ’20 [28] e lo spinge avanti negli anni ’30:

1 1 16

La questione fondamentale è che i due paesi si invertirono i ruoli: l’Inghilterra, che aveva praticato una ortodossia distruttiva negli anni ’20, fece fluttuare la sterlina negli anni ’30, mentre la Francia si aggrappò al suo ripristinato gold standard e soffrì di conseguenza.

Se c’è davvero una lezione decisiva in tutto questo, è che la appropriata politica macroeconomica dipende dalla situazione. Le regole che hanno lo scopo di impedire una inflazione irresponsabile o i deficit possono aiutare quando l’inflazione è il vostro problema; quando invece avete una economia depressa in una trappola di liquidità, diventano una camicia di forza pesante come il piombo. Come dice Simon Wren-Lewis, è piuttosto curioso essere ossessionati dal pericolo di permettere ai governi di sganciarsi quando nei fatti non c’è alcun gancio – e il problema è che i governi si comportano come se ci fosse.

 

 

 

 

December 3, 2012, 1:26 pm

It’s Health Care Costs, Stupid

Busy day, so not much blogging. But a further thought on budget issues.

In today’s column, I tried to emphasize a point that is weirdly absent from public discourse, at least among VSPs: the favorite VSP “solution” to the long-run budget deficit, raising the Medicare eligibility age, actually yields only minor savings. The point is that if you want to control Medicare costs, you can’t do it by kicking a small number of relatively young seniors off the program; to control costs, you have to, you know, control costs.

And the truth is that we know a lot about how to do that — after all, every other advanced country has much lower health costs than we do, and even within the US, the VHA and even Medicaid are much better at controlling costs than Medicare, and even more so relative to private insurance.

The key is having a health insurance system that can say no — no, we won’t pay premium prices for drugs that are little if any better, we won’t pay for medical procedures that yield little or no benefit

But even as Republicans demand “entitlement reform”, they are dead set against anything like that. Bargaining over drug prices? Horrors! The Independent Payment Advisory Board? Death panels! They refuse to contemplate using approaches that have worked around the world; the only solution they will countenance is the solution that has never worked anywhere, namely, converting Medicare into an underfunded voucher system.

So pay no attention when they talk about how much they hate deficits. If they were serious about deficits, they’d be willing to consider policies that might actually work; instead, they cling to free-market fantasies that have failed repeatedly in practice.

 

3 dicembre 2012Sono i costi della assistenza sanitaria, stupido!

Molto daffare oggi, e poco blog. Ma un pensiero ulteriore sui temi del bilancio.

Nell’articolo di oggi ho cercato di enfatizzare un punto che è stranamente assente nel dibattito pubblico, almeno tra le Persone Molto Serie [29]: la ‘soluzione’ preferita delle Persone Molto Serie al deficit di bilancio di lungo periodo, aumentare l’età della ammissibilità a Medicare, produce in effetti soltanto risparmi modesti. Il punto è che si si vuole controllare i costi di Medicare, non si può farlo buttando fuori dal programma un piccolo numero di anziani relativamente giovani; per controllare i costi, è chiaro, si devono controllare i costi.

E la verità è che sappiamo molte cose su come farlo – dopo tutto, gli altri paesi avanzati hanno costi sanitari più bassi dei nostri, ed anche all’interno degli Stati Uniti la Veterans Health Administration e persino Medicaid funzionano molto meglio nel controllo dei costi che non Medicare, per non dire delle assicurazioni private.

La cosa cruciale è avere un sistema di assicurazione sanitaria che possa dire dei ‘no’ – no, non pagheremo sovraprezzi per medicine che sono quasi uguali, non pagheremo per procedure sanitarie che producono scarsi benefici, o non ne producono alcuno.

Ma, anche quando i repubblicani chiedono una “riforma dei programmi di assistenza”, essi sono fermamente decisi a non fare niente del genere. Contrattare i prezzi delle medicine? Orrore! L’Ufficio Indipendente di Consulenza sui Costi [30]? “Giurie della morte” [31]? Essi rifiutano di prendere in considerazione i metodi consueti, che hanno funzionato dappertutto nel mondo; l’unica soluzione che tollereranno è la soluzione che non ha mai funzionato in nessun paese, precisamente sostituire Medicare con un sistema di vouchers sottofinanziato.

Dunque, non date loro credito quando parlano del loro odio per i deficit. Se fossero seri sui deficit avrebbero la volontà di considerare le politiche che possono effettivamente funzionare; invece restano ancorati alle fantasie del libero-mercato che nei fatti hanno fatto fallimento ripetutamente.

 

 

 

 

 

December 4, 2012, 7:45 am

Three-Card Budget Monte

It goes without saying that the Republican “counteroffer” is basically fake. It calls for $800 billion in revenue from closing loopholes, but doesn’t specify a single loophole to be closed; it calls for huge spending cuts, but aside from raising the Medicare age and cutting the Social Security inflation adjustment — moves worth only around $300 billion — it doesn’t specify how these cuts are to be achieved. So it’s basically the Paul Ryan method: scribble down some numbers and pretend that you’re a budget wonk with a Serious plan.

 

What I haven’t seen pointed out here is the longer arc of GOP strategy. Does anyone recall how the Bush tax cuts were passed? The 2001 cut was passed based on the claim that the government was running an excessive surplus; the 2003 cut on the claim that it would provide an economic boost. Then the surplus went away, and the economy did not, to say the least, perform very well.

So now we face a substantial long-run deficit largely created by those tax cuts:

1 1 17

And the GOP says that because of that deficit we must raise the Medicare age and cut Social Security!

Oh, and for all the seniors or near-seniors who voted Republican because you thought they would protect Medicare from that bad guy Obama: you’ve been had.

 

4 dicembre 2012Il gioco-delle-tre-carte sul Bilancio

Non è il caso di dire che la “controfferta” dei repubblicani è fondamentalmente falsa. Propone 800 miliardi di dollari di entrate attraverso l’interruzione delle elusioni fiscali, ma non specifica una singola scappatoia che verrebbe interrotta; si pronuncia per vasti tagli alla spesa, ma a parte accrescere l’età di ammissione a Medicare e tagliare la Previdenza Sociale dell’adeguamento all’inflazione – scelte che valgono all’incirca soltanto 300 miliardi di dollari – non specifica come questo tagli sarebbero ottenuti. Dunque, fondamentalmente siamo al metodo Paul Ryan: scarabocchiate qualche numero e fate finta di essere studiosi esperti di bilanci con un programma Serio.

Quello che a questo proposito non ho visto sottolineare, è il lungo tragitto della strategia repubblicana. Si ricorda qualcuno di come vennero approvati gli sgravi fiscali di Bush? I tagli del 2001 vennero approvati con la pretesa che il Governo stesse gestendo un avanzo eccessivo di amministrazione; quelli del 2003 con l’argomento che avrebbero fornito una spinta all’economia. Poi il surplus scomparve e l’economia, per dire il minimo, non ebbe affatto una prestazione lusinghiera.

Oggi, dunque, siamo di fronte ad un deficit sostanziale di lungo periodo, creato da quegli sgravi fiscali [32]:

1 1 17

E il Partito Repubblicano dice che a causa di quel debito noi dobbiamo alzare l’età di ammissione a Medicare e tagliare la Previdenza Sociale.

Oh, e per tutti gli anziani o quasi anziani che hanno votato repubblicano perché pensavano che quel partito li avrebbe protetti da quel cattivo soggetto di Obama: ve la siete cercata.

 

 

 

 

 

December 4, 2012, 9:43 am

The IMF and Capital Controls

So the IMF has now, officially, said that capital controls — limits on the international movement of funds, hot money in particular — have their uses:

The International Monetary Fund has cemented a substantial ideological shift by accepting the use of direct controls to calm volatile cross-border capital flows, as employed by emerging market countries in recent years.

Although the fund continued to warn that such controls should be “targeted, transparent, and generally temporary”, the policy, announced in a staff paper released on Monday, is a sharp change from the fund’s enthusiasm for liberalising capital accounts during the 1990s.

Here’s the paper (pdf).

This is basically a codification of recent practice; the IMF has already given a green light to capital controls in selected countries, such as Iceland. Still, it’s an interesting turnaround, another indicator of the IMF’s surprising intellectual flexibility these days.

And it brings back memories of the Asian crisis of the 1990s, when I found myself in the middle of this debate.

 

4 dicembre 2012Il FMI ed i controlli sui capitali

Dunque, il FMI ora dice ufficialmente che i controlli sui capitali – i limiti nel movimento internazionale dei fondi, capitali vaganti in primo luogo – hanno i loro scopi:

“Il Fondo Monetario Internazionale ha fissato un sostanziale  mutamento ideologico accettando l’utilizzo di controlli diretti per attenuare i flussi di capitali volatili oltrefrontiera, quali erano adottati da parte dei paesi dei mercati emergenti negli anni recenti.”

Sebbene il Fondo continui a mettere in guardia che tali controlli dovrebbero essere “destinati, trasparenti e in generale temporanei”, la politica, annunciata in una nota interna lunedì, costituisce un brusco mutamento rispetto all’entusiasmo per la liberalizzazione dei fondi in conto capitale durante gli anni ’90.

Ecco qua la nota (disponibile in pdf).

Si tratta di una codificazione di una pratica recente: il FMI ha già dato semaforo  verde ai controlli dei capitali in paesi particolari, come l’Islanda. Inoltre, con un interessante dietrofront, si tratta di un altro indicatore della sorprendente flessibilità del FMI di questi tempi.

E ritorna in mente il ricordo della crisi asiatica degli anni ’90, quando mi ritrovai nel mezzo di questo dibattito [33].

 

 

 

 

December 5, 2012, 9:26 am

Evidence in Macroeconomics

Noah Smith is right in his takedown of David Beckworth’s latest attempt to denigrate fiscal policy, but goes too far in his nihilism.

What Beckworth does is show that there isn’t a correlation between either federal expenditures or the federal deficit and nominal GDP growth in recent years; Noah’s point is that fiscal policy is endogenous, affected by the state of the economy. When things seemed to be collapsing, Washington managed to pass a stimulus bill; when they stopped collapsing, the stimulus was allowed to fade away. So?

It is, by the way, kind of dispiriting to see this kind of argument still being trotted out four years into this whole debate — and presented as if it were something new, too. Been there, addressed that; is it really so hard to make any sort of progress here?

Anyway, where Noah goes too far is in asserting that this kind of thing means that we basically know nothing. Um, no — good economists have been aware of this problem for a long time, and serious work on both monetary and fiscal policy takes it into account. How? By looking for natural experiments – cases of large changes in policy (so that policy is the dominant factor in what happens) that are clearly not a response to the state of the business cycle.

 

That’s why Milton Friedman and Anna Schwartz’s monetary history wasn’t just about correlations; it relied on a narrative method to attempt to show that the monetary movements it stressed were more or less exogenous. (You can quarrel with some of their judgements, but the method was sound). It’s why Romer and Romer, in their classic paper on the real effects of monetary policy, relied on a study of Fed minutes to identify major changes in policy.

In the same vein, this is why serious analysis of fiscal policy relies a lot on wartime booms and busts in government spending, which are clearly not responses to unemployment.

And it’s why, if you want a read on the effects of fiscal policy in recent years, you want to look not at the fairly small events here but at austerity in Europe. The austerity programs have two great virtues from an economic research point of view (they are, of course, terrible from a human point of view). First, they are huge — in Greece, we’re looking at austerity measures amounting to 16 percent of GDP, the equivalent for the US of $2.5 trillion every year. Second, they are plausibly related mainly to market access issues rather than the state of the economy, so they’re relatively exogenous. Only relatively; you do have to worry that austerity ends up being imposed only in economies that would be in trouble anyway. But the IMF has tried to correct for this, by focusing on forecast errors, and the results are pretty much the same.

So I think it’s very wrong to suggest that we don’t know anything. History offers many natural experiments in macroeconomics; recent disasters have thrown up quite a few more. And the case for the effectiveness of fiscal policy, for good or evil, has never been stronger.

 

5 dicembre 2012Prove dal vero  in macroeconomia

Noah Smith ha ragione nel suo ridimensionamento dell’ultimo tentativo di David Beckworth  di denigrare la politica dell’intervento pubblico, ma va troppo oltre nel suo nichilismo.

Quello che Beckworth fa è mostrare che non c’è una correlazione tra le spese federali e il deficit federale e la crescita del PIL nominale negli anni recenti; Noah indica che la politica finanziaria pubblica è endogena, influenzata dallo stato dell’economia. Quando le cose sembravano essere al collasso, Washington operò per far approvare la legge di sostegno; quando smisero di collassare, ci si permise di attenuare le misure di  sostegno. Dov’è il problema?

Tra parentesi, è avvilente vedere questo genere di argomenti da quattro anni ancora  tirati in ballo in tutto questo dibattito e per giunta presentati come se fossero nuovi.  E un copione già visto e rivisto: è così difficile fare un qualche progresso in questa materia?

In ogni caso, dove Noah va troppo oltre è nell’asserire che questo genere di cose significano che fondamentalmente non sappiamo niente. Eh no – bravi economisti sono stati consapevoli di questo problema da lungo tempo, e un serio lavoro sia sotto l’aspetto monetario che sotto quello della spesa pubblica lo mette nel conto. Come? Osservando gli esperimenti naturali – i casi di grandi cambiamenti nella politica (cosicché la politica è il fattore dominante in quello che accade) che chiaramente non sono una risposta alla situazione del ciclo economico.

Quella è la ragione per la quale la storia monetaria di Milton Friedman ed Anna Schwartz non riguardava solo le correlazioni; essa si basava su un metodo narrativo per cercar di mostrare se i movimenti monetari che prendeva in esame fossero più o meno esogeni (si può discutere di alcuni loro giudizi, ma il metodo era giusto). E questa è la ragione per la quale i coniugi Romer nella loro classica ricerca sugli effetti reali della politica monetaria , si sono basati su uno studio sui verbali della Fed per identificare importanti cambiamenti nella politica.

Nello stesso filone, questa è la ragione per la quale serie analisi della politica della finanza pubblica si basano sui boom nei tempi di guerra e sui fallimenti nella spesa pubblica, che non sono chiaramente risposte alla disoccupazione.

E questa è la ragione per la quale, se volete una lettura sugli effetti della politica della finanza pubblica negli anni recenti, non si deve guardare agli eventi piuttosto piccoli qua da noi, ma all’austerità in Europa. I programmi di austerità possiedono due grandi virtù dal punto di vista della ricerca economica (dal punto di vista delle condizioni della gente sono, è evidente, tremendi). In primo luogo sono vasti – in Grecia siamo di fronte a misure di austerità che ammontano al 16 per cento del PIL, l’equivalente per gli Stati Uniti di 2.500 miliardi di dollari all’anno. In secondo luogo, essi sono verosimilmente riferiti soprattutto ai temi dell’accesso al mercato, piuttosto che alle condizioni dell’economia, dunque sono relativamente esogeni. Solo relativamente; ci si deve preoccupare che l’austerità finisca con l’essere imposta soltanto su economia che sarebbero in ogni modo nei guai. Ma il FMI ha cercato su questo una correzione, concentrandosi sugli errori di previsione, ed i risultati sono pressappoco gli stessi.

Penso dunque che sia proprio sbagliato suggerire che non conosciamo niente. La storia offre molti esperimenti naturali in macroeconomia; i recenti disastri ne hanno sfornati alcuni altri. E gli esempi dell’efficacia della politica della finanza pubblica, nel bene e nel male, non sono mai stati così chiari.

 

 

 

 

 

December 6, 2012, 7:52 am

Simpson-Bowles Explained

Alex Pareene gets it:

Not many people know this but “The Simpson-Bowles Plan” is magic. It is whatever you want it to be. It will fix the deficit and grow the economy and it does it without raising taxes on anyone, unless you want to raise taxes on some people, and then it does that. It cuts all government spending but in a way that doesn’t hurt Medicare or The Troops. If you stand in front of a mirror and say “Simpson-Bowles” three times David Gergen and Gloria Borger appear out of nowhere and praise your wisdom and seriousness. “The Simpson-Bowles Plan” gives you Your Country Back and makes it the ’90s again, or the ’50s, or whatever past decade you wish it was, when things were better.

Pareene has especially in mind, I think, David Gergen’s declaration that Obama went too far by demanding $1.6 trillion in revenue, that he should have stayed with Simpson-Bowles — which calls for $2.2 trillion in revenue.

Why does S-B have such a hold on Very Serious People? It must be Alan Simpson’s natural dignity.

 

6 dicembre 2012Il “Simpson-Bowles” spiegato

Alex Pareene si esprime così:

“Sono in pochi a saperlo, ma il “Simpson-Bowles” è magia pura. Esso è qualsiasi cosa voi volete che sia. Riparerà il debito e farà crescere l’economia e lo farà senza aumentare le tasse su nessuno, a meno che non vogliate aumentare le tasse su qualcuno nel qual caso lo farà. Taglierà la spesa pubblica ma in modo tale da non far danni su Medicare o sull’Esercito. Se vi mettete dinanzi ad uno specchio e dite “Simpson-Bowles” tre volte, David Gergen  e Gloria Borger [34] verranno fuori dal nulla ed elogeranno la vostra saggezza e serietà. Il “Piano Simpson-Bowles” vi restituirà il Vostro Paese nonché gli anno ’90, o gli anni ’50, o qualsiasi altro decennio nel quale le cose andavano meglio voi vogliate.”

Penso che Pareene abbia specialmente in mente la dichiarazione di David Gergen, secondo la quale Obama era andato troppo oltre chiedendo 1.600 miliardi di dollari di entrate [35] – avrebbe dovuto restare ai livelli di Simpson-Bowles, che chiedono 2.200 miliardi di entrate.

Perché Simpson e Bowles hanno una tale presa sulle Persone Molto Serie? Penso si tratti della ‘naturale dignità’ di Alan Simpson.

 

 

 

 

December 7, 2012, 8:23 am

Why People Are Confused About the Fiscal Cliff

Dean Baker catches the Washington Post running a Q&A under this banner:

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OK, if there’s one thing the fiscal cliff confrontation isn’t, it’s a “debt crisis”. The problem — a political standoff that may lead to damaging austerity in an economy that’s still depressed and in a liquidity trap — has nothing to do with either debt or deficits; the danger would be exactly the same if America had a balanced budget and low debt.

So what’s going on with the subhed [36]? The answer is that the Very Serious People — and there’s nothing as VSP as the WaPo — have spent years crying Deficits! Debt! Danger!, and staff at the Post can’t wrap their minds around the fact that suddenly it’s a too-rapid fall in the deficit that has those very same People terrified.

It speaks to the state of confusion that all the deficit fearmongering has created. And if headline writers at a major newspaper can’t get it straight, how can you expect ordinary voters to get it?

 

7 dicembre 2012Perchè la gente è confusa sul precipizio fiscale

Dean Baker sorprende il Washington Post a mettere in circolazione il servizio Q&A [37] sotto questo titolo:

1 1 20

Dunque, se c’è una cosa che non può essere definito con il precipizio fiscale, è una “crisi da debito”. Il problema – una impasse politica che può portare ad una dannosa austerità in un’economia che è ancora depressa e in trappola di liquidità – non ha niente a che fare sia con il debito che con i deficit; il pericolo sarebbe esattamente lo stesso se l’America avesse un bilancio in pareggio e un debito basso.

Dunque, cosa significa quel sottotitolo? La risposta è che le Persone Molto Serie [38] – e non c’è niente con Persone Molto Serie come al Washington Post – hanno speso anni a strepitare “Deficits! Debito! Pericolo!” e quelli del Post non possono capacitarsi del fatto che all’improvviso sia una troppo rapida caduta del deficit quello che davvero terrorizza  quella stessa gente.

Questo ci dice dello stato di confusione che tutto quell’allarmismo sul  deficit ha creato. E se coloro che scrivono i titoli in un giornale importante non se lo ficcano in testa, come si può aspettarsi che lo capiscano i normali elettori?

 

 

 

 

 

December 7, 2012, 8:42 am

Macro Trumps Micro

Or, as the late James Tobin used to say, it takes a lot of Harberger triangles to fill an Okun gap.

Dean Baker catches David Ignatius suggesting that trade liberalization can provide enough economic boost to offset the effects of austerity. As Dean says, the arithmetic is totally off — almost two orders of magnitude off.

The truth is that using any conventional economic model, the costs from current levels of protectionism are very small as a share of GDP. To some extent that reflects the success of decades of trade liberalization: there just isn’t that much protection any more. But it’s a more general observation that even bad microeconomic policies, which lead to substantial distortions in the use of resources, have a hard time doing remotely as much damage as a severe economic slump, which doesn’t misallocate resources — it simply wastes them. Which is the point of that Tobin quote.

Right now the U.S. economy is operating something like 6 percent below capacity. You would be hard-pressed to find any microeconomic distortion that comes anywhere close to doing that much damage, or even a tenth that much damage. The one place that might qualify is health care, where we surely do waste several points of GDP. But the problem with health care in America isn’t that we don’t let the free market work, it is that we have a semi-private system in a sector where free markets can’t work.

Two more things — and back to Ignatius.

First, there’s an especially strong tendency to mythologize the power of free trade. Not that open world markets are a bad thing; they’re definitely a force for good, especially for small, poor countries. But my experience is that the less somebody knows about international trade, the more likely he or she is to imagine that modest moves toward or away from protectionism will have huge effects. Trade economists, who have actually worked with the models, have a much less grandiose view.

 

Second, even to the extent that trade liberalization would raise the efficiency of the world economy, it is not, repeat not, a route to overall job creation. Yes, everyone would export more; they would also import more. There is no reason at all to assume that the jobs gained from export creation would exceed the jobs lost to import competition.

Globalization is not the answer to the Lesser Depression.

 

7 dicembre 2012La macro batte la micro

Ovvero, come era solito dire James Tobin [39], ci vogliono un bel po’ di ‘triangoli di Harberger’ per riempire un “differenziale di Okun” [40].

Dean Baker sorprende David Ignatius nel suggerire che la liberalizzazione dei mercati può fornire sufficiente spinta all’economia da bilanciare gli effetti dell’austerità. Come Dean sostiene, siamo completamente fuori dalla aritmetica, per almeno due ordini di grandezze.

La verità è che usando ogni modello economico convenzionale, i costi derivanti dai livelli attuali di protezionismo sono veramente piccoli come percentuale del PIL. In qualche misura questo riflette il successo di decenni di liberalizzazione commerciale: non c’è proprio rimasto un grande protezionismo. Ma c’è una osservazione più generale secondo la quale persino cattive politiche microeconomiche, che conducono a distorsioni sostanziali nell’uso delle risorse,  faticano a produrre un danno anche remotamente simile ad una grave crisi economica, che non alloca erroneamente risorse, ma semplicemente le spreca. E questa era l’opinione espressa nella citazione di Tobin.

In questo momento l’economia statunitense sta operando per qualcosa come un 6 per cento al disotto delle sue potenzialità. Si sarebbe in difficoltà a trovare una qualche distorsione microeconomica che arrivi in qualche modo vicina a produrre un danno di quella dimensione, o persino un decimo di quel danno. L’unico caso che avrebbe tali requisiti sarebbe l’assistenza sanitaria, dove sicuramente sprechiamo vari punti di PIL.  Ma il problema con l’assistenza sanitaria in America non è che non lasciamo il mercato libero di operare, è che abbiamo un sistema semiprivatistico in un settore nel quale i libri mercati non funzionano.

Due cose ancora, e torniamo ad Ignatius.

La prima, c’è un tendenza particolarmente forte a mitizzare il potere del libero commercio. Non che i mercati mondiali aperti siano una cosa cattiva; certamente essi operano nel senso giusto, specialmente per i paesi piccoli e poveri. Ma la mia esperienza è che meno uno sa del commercio internazionale, più è probabile che si immagini che modesti movimenti verso il protezionismo, o fuori da esso, abbiano grandi effetti. Gli economisti del commercio, coloro che hanno effettivamente lavorato con i modelli, hanno punti di vista molto meno grandiosi.

La seconda, persino nella misura in cui la liberalizzazione commerciale accresca l’efficienza dell’economia mondiale, essa non è, ripeto non è, una strada per una creazione generalizzata di posti di lavoro.  Si, ognuno esporterebbe di più; ma anche importerebbe di più. Non c’è proprio alcuna ragione per ritenere che i posti di lavoro guadagnati con l’esportazione eccederebbero quelli perduti per la competizione dell’importazione.

 

La globalizzazione non è un risposta alla Depressione Minore.

 

 

 

 

December 7, 2012, 5:33 pm

I Hope This Isn’t True

Ezra Klein says that the shape of a fiscal cliff deal is clear: only a 37 percent rate on top incomes, and a rise in the Medicare eligibility age.

I’m going to cross my fingers and hope that this is just a case of creeping Broderism, that it’s a VSP fantasy about how we’re going to resolve this in a bipartisan way. Because if Obama really does make this deal, there will be hell to pay.

First, raising the Medicare age is terrible policy. It would be terrible policy even if the Affordable Care Act were going to be there in full force for 65 and 66 year olds, because it would cost the public $2 for every dollar in federal funds saved. And in case you haven’t noticed, Republican governors are still fighting the ACA tooth and nail; if they block the Medicaid expansion, as some will, lower-income seniors will just be pitched into the abyss.

Second, why on earth would Obama be selling Medicare away to raise top tax rates when he gets a big rate rise on January 1 just by doing nothing? And no, vague promises about closing loopholes won’t do it: a rate rise is the real deal, no questions, and should not be traded away for who knows what.

So this looks crazy to me; it looks like a deal that makes no sense either substantively or in terms of the actual bargaining strength of the parties. And if it does happen, the disillusionment on the Democratic side would be huge. All that effort to reelect Obama, and the first thing he does is give away two years of Medicare? How’s that going to play in future attempts to get out the vote?

If anyone in the White House is seriously thinking along these lines, please stop it right now.

 

7 dicembre 2012Spero che non sia vero

Ezra Klein sostiene che i contorni di un accordo sul precipizio fiscale sono chiari: solo un 37 per cento di aliquota fiscale sui redditi più alti, ed un aumento nell’età di ammissione a Medicare.

Incrocio le dita e spero che questo sia solo un caso di Browderismo [41]strisciante, che sia una fantasia delle Persone Molto Serie che si stanno accingendo a risolvere la cosa in un modo bipartizan. Perché se Obama davvero pensasse di fare un accordo del genere, ci sarà da patire.

In primo luogo, elevare l’età per Medicare è una politica terribile. Sarebbe una politica terribile anche se la legge di riforma della assistenza sanitaria diventasse pienamente disponibile per il sessantacinquenni ed i sessantaseienni, perché costerebbe per la generalità dei cittadini 2 dollari per ogni dollaro di finanziamenti federali risparmiati. E, nel caso che non l’abbiate notato, i Governatori repubblicani stanno ancora contrastando la legge di riforma con le unghie e i denti; se essi bloccano l’espansione di Medicaid come alcuni vorrebbero, gli anziani con i redditi più bassi verrebbero proprio spinti nell’abisso.

In secondo luogo, perché Obama dovrebbe svendere Medicare per accrescere le aliquote fiscali quando avrà a gennaio un grande aumento dell’aliquota senza far niente? E, quanto alle vaghe promesse sulla interruzione delle elusioni fiscali, esse non produrranno quell’effetto; un aumento dell’aliquota è il vero accordo, non ci sono dubbi, e non dovrebbe essere scambiato con chissà che cosa.

Dunque, a me sembra pazzesco: mi sembra una intesa che non ha senso né nella sostanza, né nei termini della effettiva forza contrattuale delle parti. E se accadesse, la delusione sul versante dei democratici sarebbe grande. Tutto quell’impegno per rieleggere Obama e la prima cosa che fa è togliere di mezzo due anni di Medicare?  Che effetto farà in futuro, quando si cercherà di prender voti?

Se qualcuno alla Casa Bianca sta seriamente pensando a ipotesi del genere, per piacere si fermi subito.

 

 

 

 

December 8, 2012, 8:37 am

Rise of the Robots

Catherine Rampell and Nick Wingfield write about the growing evidence for “reshoring” of manufacturing to the United States. They cite several reasons: rising wages in Asia; lower energy costs here; higher transportation costs. In a followup piece, however, Rampell cites another factor: robots.

The most valuable part of each computer, a motherboard loaded with microprocessors and memory, is already largely made with robots, according to my colleague Quentin Hardy. People do things like fitting in batteries and snapping on screens.

As more robots are built, largely by other robots, “assembly can be done here as well as anywhere else,” said Rob Enderle, an analyst based in San Jose, Calif., who has been following the computer electronics industry for a quarter-century. “That will replace most of the workers, though you will need a few people to manage the robots.”

Robots mean that labor costs don’t matter much, so you might as well locate in advanced countries with large markets and good infrastructure (which may soon not include us, but that’s another issue). On the other hand, it’s not good news for workers!

This is an old concern in economics; it’s “capital-biased technological change”, which tends to shift the distribution of income away from workers to the owners of capital.

Twenty years ago, when I was writing about globalization and inequality, capital bias didn’t look like a big issue; the major changes in income distribution had been among workers (when you include hedge fund managers and CEOs among the workers), rather than between labor and capital. So the academic literature focused almost exclusively on “skill bias”, supposedly explaining the rising college premium.

But the college premium hasn’t risen for a while. What has happened, on the other hand, is a notable shift in income away from labor:

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If this is the wave of the future, it makes nonsense of just about all the conventional wisdom on reducing inequality. Better education won’t do much to reduce inequality if the big rewards simply go to those with the most assets. Creating an “opportunity society”, or whatever it is the likes of Paul Ryan etc. are selling this week, won’t do much if the most important asset you can have in life is, well, lots of assets inherited from your parents. And so on.

I think our eyes have been averted from the capital/labor dimension of inequality, for several reasons. It didn’t seem crucial back in the 1990s, and not enough people (me included!) have looked up to notice that things have changed. It has echoes of old-fashioned Marxism — which shouldn’t be a reason to ignore facts, but too often is. And it has really uncomfortable implications.

But I think we’d better start paying attention to those implications.

 

8 dicembre 2012La crescita dei robot

Catherine Rampell e Nick Wingfiel scrivono sulla crescente evidenza del fenomeno del “rimpatrio” di attività manifatturiere negli Stati Uniti. Citano varie ragioni: i crescenti salari in Asia; i costi più bassi dell’energia da noi; i costi di trasporto accresciuti. In un articolo successivo, tuttavia, Rampell  indica un altro fattore: i robot.

La parte di maggior valore di ogni computer, una scheda madre piena di microprocessori e la memoria, secondo il mio collega Quentin Hardy, è già ampiamente realizzata da robot. Le persone fanno cose come installare le batterie ed applicare con uno scatto  gli schermi.

Dal momento che più robot sono costruiti in gran parte da altri robot, “l’assemblaggio può essere fatto qua come in qualsiasi altro posto”, ha detto Rob Enderle, un analista che vive a San Jose, in California, e che ha seguito l’industria elettronica del computer per l’ultimo quarto di secolo. “Questo porterà alla sostituzione della maggior parte dei lavoratori, sebbene ci sarà bisogno di un po’ di persone per far funzionare i robot”.

I robot significano che i costi del lavoro non hanno molta importanza, cosicché ci si può anche stabilire nei paesi più avanzati con ampi mercati e buone infrastrutture (la qualcosa potrebbe presto non riguardarci [42], ma questa è un’altra faccenda). D’altra parte, non sono buone notizie per i lavoratori.

Si tratta di una vecchia preoccupazione dell’economia; è il “cambiamento tecnologico  a favore del capitale [43]”, che tende a spostare la distribuzione del reddito dai lavoratori ai possessori di capitali.

Venti anno orsono, quando scrivevo sulla globalizzazione e sull’ineguaglianza, la propensione a favorire il capitale non sembrava un grande problema; i cambiamenti più importanti nella distribuzione dei redditi avvenivano tra i lavoratori (se si includono i manager degli hedge fund e gli amministratori delegati tra i dipendenti), piuttosto che tra lavoro e capitale. Dunque, la letteratura accademica si concentrava quasi esclusivamente sulla “propensione verso le competenze”, che si supponeva spiegasse il crescente vantaggio della formazione universitaria.

Ma quel vantaggio è da un po’ che non cresce. D’altra parte, quello che è accaduto è stato un notevole spostamento del reddito a svantaggio del lavoro [44]:

1 1 23

Se questo è l’indirizzo del futuro, esso rende privo di senso quasi tutto il convenzionale senso comune sulla riduzione delle ineguaglianze. Una migliore istruzione non ridurrà di molto l’ineguaglianza se i premi più grandi vanno semplicemente a coloro che dispongono di gran parte delle proprietà. Creare una “società delle opportunità”, o di qualsiasi cosa analoga tra quelle che Paul Ryan ha messo in circolazione questa settimana, non provocherà effetti se il più importante asset che si possiede nella vita sono, vivaddio, le proprietà che vengono ereditate dai propri genitori.

Penso che i nostri occhi siano stati distratti per varie ragioni dalla dimensione della ineguaglianza tra capitale e lavoro. Non pareva cruciale nei passati anni ’90, e non abbastanza persone (incluso il sottoscritto!) hanno alzato lo sguardo per considerare cosa stava cambiando. Ciò pare riecheggiare un marxismo passato di moda – la qualcosa non dovrebbe essere una ragione per ignorare i fatti, anche se troppo  spesso è così. Ed ha implicazioni davvero spiacevoli.

Ma penso che dovremmo cominciare a prestare una migliore attenzione a tali implicazioni.

 

 

 

 

 

December 8, 2012, 2:54 pm

Heritage, Chicago, and the Fiscal Cliff

Menzie Chinn has some fun pointing out that if the doctrine Heritage was pushing to oppose fiscal stimulus were true — namely, that government borrowing always crowds out an equal amount of private spending — then the fiscal cliff could not be a problem. Hey, the government is going to borrow less, which will automatically and necessarily lead to an equal rise in private borrowing, so total demand can’t be affected, right?

 

It is, of course, an absurd proposition; when Heritage propounded this doctrine, it was also retrogressing intellectually by at least 80 years.

But what Menzie doesn’t mention is that the very same doctrine was propounded by distinguished economists at the University of Chicago — John Cochrane and Gene Fama made exactly the same argument that Brian Riedl was making at Heritage, while Robert Lucas fell into a somewhat different but equally misleading fallacy.

So if you think the fiscal cliff matters, you also, whether you know it or not, believe that a whole school of macroeconomics responded to the greatest economic crisis since the Great Depression with ludicrous conceptual errors, of a kind nobody has had a right to make since 1936 at the latest.

And I see no sign at all of a rethink, of an admission that perhaps the macroeconomic situation has developed not necessarily to the Chicago School’s advantage.

 

8 dicembre 2012Fondazione Heritage, Chicago ed il precipizio fiscale

Menzie Chinn si diverte a mettere in evidenza che se la dottrina che la Fondazione Heritage aveva avanzato per opporsi allo stimolo della finanza pubblica fosse stata vera – ovvero che in particolare l’indebitamente pubblico ha sempre l’effetto di spiazzare un eguale quantità di spesa privata – allora in precipizio fiscale non sarebbe un problema. Ehi, il governo è in procinto di ridurre l’indebitamento, il che automaticamente e di necessità porterà ad un crescita eguale dell’indebitamento privato, dunque la domanda totale non ne sarà influenzata, giusto?

E’, naturalmente, un concetto assurdo: quando l’Heritage propose questa dottrina, era come se regredisse intellettualmente di almeno 80 anni.

Ma quello che Menzie non ricorda è che una dottrina del tutto simile fu proposta da eminenti economisti della Università di Chicago – John Cochrane e Gene Fama avanzarono esattamente lo stesso argomento di quello di Brian Riedl all’Heritage, mentre Robert Lucas cadde in un abbaglio un po’ diverso ma egualmente ingannevole.

Così, se si pensa che il precipizio fiscale sia importante, che lo si sappia o meno, si crede anche che una intera  scuola di macroeconomia rispose alla più grande crisi economica dopo la Grande Depressione con errori concettuali risibili, di un genere che nessuno ragione di fare al più tardi dal 1936.

E non vedo affatto alcun tipo di ripensamento,  nessun riconoscimento che forse la situazione macroeconomica non si è sviluppata per niente nel senso della Scuola di Chicago.

 

 

 

 

December 9, 2012, 3:02 pm

Technology or Monopoly Power?

More on robots and all that: first, here’s the chart from the BLS (pdf), which focused on nonfarm business:

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Dean Baker warns me that the trend is a bit slower if you look at net output, because depreciation is a rising share of the total. Still, something major is happening.

Nick Rowe makes a good point, however, which is not so much a critique of the robot story as a general puzzle. Income has been shifting to capital, which would seem to increase the return to investment; but real interest rates are low by historical standards, and were low even before the financial crisis, suggesting that maybe the return to investment is if anything low. You might be able to make some headway here by stressing the different between safe assets and risky investments, but it is a puzzle.

Rowe suggests that a third factor, land, may be soaking up the excess returns and being misclassified as part of capital income. Logically, this could be true; I have doubts about whether it can be a major factor empirically, although obviously the thing to do is check it out

But there’s another possible resolution: monopoly power. Barry Lynn and Philip Longman have argued that we’re seeing a rapid rise in market concentration and market power. The thing about market power is that it could simultaneously raise the average rents to capital and reduce the return on investment as perceived by corporations, which would now take into account the negative effects of capacity growth on their markups. So a rising-monopoly-power story would be one way to resolve the seeming paradox of rapidly rising profits and low real interest rates.

As they say, this calls for more research; but the starting point is to realize that there’s something happening here, what it is ain’t exactly clear, but it’s potentially really important.

 

9 dicembre 2012Tecnologia o potere monopolistico?

Ancora sui robot e su tutto il resto: anzitutto ecco il grafico dello studio del Bureau of Labor Statistics (disponibile in pdf), che si concentra sulle imprese non agricole [45]:

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Dean Baker mi mette in guardia sul fatto che la tendenza è un po’ più lenta se si guarda alla produzione netta, perché la svalutazione costituisce una quota crescente del totale. Tuttavia, sta accadendo qualcosa di importante.

Nick Rowe avanza un buon argomento, tuttavia, che non è tanto una critica alla storia dei robot quanto un grande enigma. Il reddito si è spostato verso il capitale, il che sembrerebbe rafforzare il ritorno all’investimento; ma i tassi di interesse reali sono bassi per le serie storiche, ed erano bassi anche prima della crisi finanziaria, indicando che forse il ritorno all’investimento è piuttosto basso. Si potrebbe fare qualche passo avanti in questo caso interrogando la differenza tra assets sicuri ed investimenti rischiosi, ma è molto difficile.

Rowe suggerisce che un terzo fattore, la terra, forse sta assorbendo i rendimenti  in eccesso, venendo erroneamente classificata  come parte dei redditi da capitale. In termini logici, questo potrebbe essere vero; ha qualche dubbio che esso possa essere un fattore importante in pratica, sebbene ovviamente la cosa da fare è verificarlo.

Ma c’è un’altra soluzione possibile: il potere monopolistico. Barry Lynn e Philip Longman hanno sostenuto che staremmo assistendo ad una rapida crescita della concentrazione e del potere sul mercato. La tesi sul potere nel mercato è che esso potrebbe simultaneamente alzare i profitti medi del capitale e ridurre il rendimento  sull’investimento nella percezione delle grandi imprese, che metterebbero nel conto dei loro aumenti dei prezzi gli effetti negativi della crescita della produttività. Cosicché un crescente potere monopolistico sarebbe un modo per risolvere l’apparente paradosso di profitti rapidamente crescenti e di tassi di interessi reali bassi.

Come dicono i due autori, questo richiede ricerche ulteriori; ma il punto di partenza è comprendere che qua sta accadendo qualcosa, di cosa si tratti non è  perfettamente chiaro, ma è potenzialmente davvero importante.

 

 

 

 

 

December 10, 2012, 2:06 pm

Technology and Wages, the Analytics (Wonkish)

Obviously I’m getting a lot of reaction to my stuff on robots and all that. (My copy editor, last night: “Thank God, it’s not about the fiscal cliff!”) My sense is, however, that a lot of the reaction, both positive and negative, involves misunderstanding the economic logic, with some readers believing that technological progress can never hurt workers, others believing that rapid productivity growth always hurts workers; neither is true. So here’s an attempt to explain what’s going on in the theory; cognoscenti will recognize it as nothing more than an exposition of J.R, Hicks’s analysis of the whole thing in his 1932 Theory of Wages (pdf).

Start with the notion of an aggregate production function, which relates economy-wide output to economy-wide inputs of capital and labor. Yes, that sort of aggregation does violence to the complexity of reality. So?

Furthermore, for current purposes, hold the quantity of capital fixed and show how output varies with the quantity of labor. We expect the relationship to look like the lower curve in this figure (we’ll get to the upper curves in a minute):

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Now, in a perfectly competitive economy (don’t worry, we’ll talk about what happens if not in a minute), we would expect the labor force to achieve full employment by accepting whatever real wage is consistent with said full employment. And what is that real wage? It’s the marginal product of labor at that point — which, graphically, is the slope of the aggregate production function where it crosses the vertical blue line.

 

Now suppose that we have technological progress. This manifests itself — indeed, in this context is basically defined as — an upward shift in the production function. I’ve shown two alternative curves, to make a point. Technology A and technology B are drawn so as to yield exactly the same level of output at full employment — which also says that both would lead to exactly the same rise in measured labor productivity. But they don’t have the same effect on real wages! Technology A is just a proportional upward shift in the original production function — which is “Hicks-neutral” technological change. As a result, the slope of the function where it crosses the blue line rises by that same proportion: real wages rise by the same amount as productivity.

But technology B is different — the gains are bigger at lower levels of employment, which is to say higher ratios of capital to labor (because the amount of capital is held fixed for this exercise). As a result, it is much flatter where it crosses the full employment line — which says that it would lead to much lower real wages than technology B. In fact, as I’ve drawn it, it leads to lower real wages than under the original technology.

What we’ve just seen, then, is that the effect of technological progress on wages depends on the bias of the progress; if it’s capital-biased, workers won’t share fully in productivity gains, and if it’s strongly enough capital-biased, they can actually be made worse off.

So it’s wrong to assume, as many people on the right seem to, that gains from technology always trickle down to workers; not necessarily. It’s also wrong to assume, as some (but not all) on the left sometimes seem to — e.g., William Greider — that rapid productivity growth is necessarily jobs- or wage-destroying. It all depends.

What’s happening right now is that we are seeing a significant shift of income away from labor at the same time that we’re seeing new technologies that look, on a cursory overview, as if they’re capital-biased. So we could be looking at my technology B story above.

There are, however, other possibilities — including the possibility that the fact that we don’t actually have perfect competition is playing a big role here.

So that’s the story so far. And it’s important stuff.

 

10 dicembre 2012La tecnologia e i salari, l’Analitica (per esperti)

Ovviamente, sto ricevendo tante reazioni al mio articolo sui robot e su tutto il resto (la reazione del mio revisore dei testi, l’altra notte: “Grazie a Dio, non ha a che fare con il ‘precipizio fiscale’”!). La mia sensazione, tuttavia, è che molte di queste reazioni, sia positive che negative, consistano in incomprensioni della logica economica, con qualche lettore che ritiene che il progresso tecnologico non possa mai danneggiare i lavoratori ed altri che credono che la rapida crescita della produttività danneggi  sempre i lavoratori; e sono ambedue posizioni non vere. Ecco dunque un tentativo di spiegare cosa dice la teoria a proposito; gli esperti riconosceranno che non è niente di più che una esposizione dell’analisi sull’intero tema di J. R. Hicks nel suo “Teoria dei salari” del 1932.

Si comincia con il concetto di una funzione aggregata della produzione, che mette in relazione la produzione totale di una economia con gli apporti all’economia complessiva di capitale e lavoro. E’ vero, questa specie di aggregato fa violenza alla complessità del reale. E allora?

Inoltre, per gli scopi presenti, si considera fissa la quantità di capitale e si mostra come il prodotto cambia con la quantità di lavoro. Ci si aspetta di constatare una relazione quale quella della curva in basso di questo diagramma (veniamo in un attimo alle curve superiori):

1 1 25

Ora, in un’economia perfettamente competitiva (non vi preoccupate, veniamo tra un attimo a parlare di quello che accade quando non è così) ci aspetteremmo che la forza lavoro consegua una piena occupazione accettando qualsiasi salario reale sia compatibile con detta piena occupazione. E quale è  quel salario reale? E’ il prodotto marginale del lavoro al punto in cui, nel diagramma, si trova la curva della funzione aggregata di produzione all’incrocio con la linea blu verticale.

Ora supponiamo di avere un progresso tecnologico. Questo si manifesta in uno spostamento verso l’alto della funzione della produzione – di fatto,  in questo contesto è fondamentalmente definito in questo modo. Ho mostrato due curve alternative, per fare un  esempio. La tecnologia A e la Tecnologia B sono disegnate in modo da produrre esattamente lo stesso livello di produzione in condizioni di piena occupazione – la qualcosa ci dice anche che dovrebbero entrambe portare alla stessa crescita di produttività del lavoro espressa in termini oggettivi. Ma esse non hanno lo stesso effetto sui salari reali! La tecnologia A è semplicemente uno spostamento verso l’alto della funzione di produzione originaria – e quello è il mutamento tecnologico “neutrale” secondo Hicks. Come risultato, l’inclinazione della funzione quando essa incrocia la linea blu cresce della stessa proporzione: i salari reali crescono dello stesso ammontare della produttività.

Ma il caso della Tecnologia B è diverso – i vantaggi sono più elevati al livello più basso di occupazione, che è come dire rapporti più alti del capitale sul lavoro (perché in questa esemplificazione la quantità di capitale è considerata fissa). Come risultato, essa è molto più piatta al momento in cui incrocia la linea della piena occupazione – il che ci dice che essa porterebbe a salari reali più bassi che non la Tecnologia A [46]. Di fatto, per come la abbiamo disegnata, essa porta a salari reali più bassi di quelli della tecnologia originaria [47].

Quello che abbiamo visto, dunque, è che l’effetto del progresso tecnologico sui salari dipende dalla curva del progresso; se è un progresso che si orienta verso il capitale, i lavoratori non parteciperanno pienamente ai guadagni di produttività, e se esso è piuttosto nettamente orientato verso il capitale, essi possono effettivamente avere un peggioramento.

Dunque è sbagliato considerare, come molta gente della destra sembra fare, che i vantaggi della tecnologia ricadano sempre sui lavoratori; non è così necessariamente. E’ anche sbagliato considerare, come alcuni (ma non tutti) sembrano talvolta pensare a sinistra – ad esempio William Greider – che la rapida crescita della produttività sia necessariamente distruttiva di posti di lavoro o di salari. E’ tutto relativo.

Quello che in questo momento sta accadendo è che assistiamo ad uno spostamento significativo del reddito dal lavoro e che assistiamo a tecnologie che sembrano, ad una prima visione d’assieme, orientate verso il capitale.  Dovremmo dunque essere in presenza di una vicenda corrispondente alla mia Tecnologia B nel diagramma.

Ci sono, tuttavia, altre possibilità – inclusa la possibilità che la circostanza che non si abbia in effetti una competizione perfetta giochi in questo caso un ruolo importante.

Questa è dunque la storia, sino ad oggi. E si tratta di cose importanti.

 

 

 

 

 

December 11, 2012, 9:11 amHuman Versus Physical Capital

One more entry in the robots and all that discussion, just to stress how much recent trends require a new storyline.

Our discourse on inequality has been dominated for decades by issues of education and talent — and for what were good reasons at the time. There was a big increase in the college premium in the 1980s and to some extent in the 1990s — but since then, not so much. From EPI:

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Meanwhile, the people at BLS have sent me an update of their labor share calculations:

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So the story has totally shifted; if you want to understand what’s happening to income distribution in the 21st century economy, you need to stop talking so much about skills, and start talking much more about profits and who owns the capital. Mea culpa: I myself didn’t grasp this until recently. But it’s really crucial.

 

11 dicembre 2012Capitale umano contro capitale fisico

Ancora una nota sui robot e si tutto quel dibattito, solo per mettere in evidenza quanto le recenti tendenze richiedano nuove spiegazioni.

Il nostro dibattito sull’ineguaglianza è stato dominato da decenni dai temi dell’istruzione e del talento – e a quel tempo c’erano ottime ragioni. Ci fu una grande crescita del riconoscimento all’istruzione universitaria negli anni ’80 e in qualche misura negli anni ’90 – ma da allora, non altrettanto. Dall’ Economic Policy Institute:

1 1 26

Nel frattempo, persone al Bureau Labor Statistics mi hanno spedito una correzione dei loro calcoli sull’incidenza del lavoro (nel settore delle imprese non agricole):

1 1 27

In questo modo la storia è del tutto cambiata: se si vuole capire cosa è accaduto alla distribuzione del reddito nella economia del 21° secolo, si deve smetterla di parlare tanto di competenze, e cominciare a parlare molto di più di profitti e di chi detiene i capitali. Mea culpa: io stesso non l’avevo afferrato sino ai tempi recenti. Ma è davvero fondamentale.

 

 

 

 

December 11, 2012, 9:23 am

Bleeding Europe

Europe has surprised me with its political resilience — the willingness of debtor nations to endure seemingly endless pain, the ability of the ECB to do just enough, at the very last minute, to calm markets when the financial situation seems ready to explode. But the economics of austerity have played out exactly according to script — the Keynesian script, that is, not the austerian script. Again and again, “responsible” technocrats induce their nations to accept the bitter austerity medicine; again and again, they fail to deliver results. The latest case in point is Italy, where Mario Monti — a good guy, deeply sincere — is leaving early, ultimately because his policies are delivering Italy into depression. (And yes, for the record, this means that Italy won’t get the full Monti.)

So what’s the answer? Stay the course, say the Eurocrats. It will work any day now — the confidence fairy is coming!

Kevin O’Rourke has it right: Europe has become the continent where good times are always just around the corner.

It really is like medieval medicine, where you bled patients to treat their ailments, and when the bleeding made them sicker, you bled them even more.

 

11 dicembre 2012Europa sanguinante

L’Europa mi ha sorpreso per la sua flessibilità politica – la volontà delle nazioni debitrici di resistere ad una sofferenza in apparenza senza fine, la capacità della BCE di fare appena l’indispensabile per calmare i mercati quando la situazione sembra stia per scoppiare, all’ultimissimo minuto. Ma l’economia dell’austerità ha avuto gli effetti esattamente previsti dal copione – il copione keynesiano, non quello austriaco [48].  Sempre di più che i tecnocrati “responsabili” inducono i loro paesi ad accettare la medicina amara dell’austerità; sempre di più non ottengono i risultati previsti. L’ultimissimo caso in materia è l’Italia, dove Mario Monti – una brava persona, profondamente sincera – ultimamente sta uscendo di scena perché le sue politiche hanno spedito l’Italia nella depressione (e si, per la cronaca, questo significa che l’Italia non farà sua per intero la ricetta di Monti).

Qual è dunque la risposta? Manteniamo la rotta, dicono gli eurocrati. Prima o poi funzionerà – la ‘fata turchina della fiducia’ [49] è in arrivo.

Kevin O’Rourke ha ragione: l’Europa è diventata il continente nel quale le buone stagioni sono sempre dietro l’angolo.

Davvero è come la medicina medioevale, dove si dissanguano i pazienti per curare i loro malanni, e quando il prelievo di sangue li rende più indisposti, gli si toglie ancora più sangue.

 

 

 

 

December 11, 2012, 3:33 pm

Delusions of Wisdom

Both Jonathan Chait and Charles Pierce have a field day with a Politico piece titled, without a hint of irony, Crafting a boom economy. In said piece they talk to various Very Serious People, and divine the insider consensus on What Must Be Done — which mainly seems to involve, naturally, cutting Social Security and Medicare while reducing corporate tax rates.

What I find remarkable about this piece is that after everything that has happened these past five years or so, Jim VandeHei and Mike Allen still take it for granted that these people actually know what they’re talking about; the whole premise of the article is that the insiders really do have the key, not just to good policy, but to achieving a dramatic rise in the growth rate.

Now, they don’t tell us everyone they talked to; but I think we can safely assume that, with few exceptions, the insiders in question:

 

– Believed that financial deregulation was a great idea, because bankers had really learned to manage risk
– Did not believe that there was a housing bubble
– Insisted that budget deficits, even in a depressed economy, would send interest rates soaring any day now
– Insisted that austerity measures would promote recovery, not hurt it, because of the confidence fairy

And on and on.

 

There are some remarkable economic assertions in here. That great economist Jeb Bush — yes, Jeb Bush — is quoted as declaring that ending structural deficits would boost the growth rate hugely; this would come as news to any economist I know. And, um, aren’t our structural deficits largely the result of his brother’s policies?

Or take the blithe assertion that trade liberalization and tax reform would do wonders for growth. Again, the answers from people who have actually tried to address these issues seriously and put numbers to them are no and no.

The whole theme of the Politico piece is that great things would happen if only the insiders could override all this messy democracy stuff. But the real lesson is that those insiders are not only self-dealing, but profoundly ignorant and wrong-headed. It’s too bad that so many journalists still can’t see that.

 

11 dicembre 2012Manie di saggezza

Sia Jonathan Chait che Charles Pierce hanno una giornata campale con un servizio di Politico intitolato, senza traccia di ironia, Costruire un boom economico. In detto articolo essi parlano con varie Persone Molto Serie, e scoprono Cosa Si Deve Fare [50] – il che principalmente sembra riguardi, come è naturale, i tagli alla Previdenza Sociale ed a Medicare e la contestuale riduzione delle aliquote fiscali alle imprese.

Quello che trovo notevole in questo pezzo è che dopo tutte le cose che sono successe in questi cinque anni passati o giù di lì, Jim VandeHei e Mike Allen danno per certo che queste persone sappiano quello di cui stanno parlando; l’intera premessa all’articolo è che gli addetti ai lavori hanno effettivamente la chiave, non solo per una buona politica, ma per ottenere un incremento spettacolare  nel tasso di crescita.

Ora, essi non ci dicono i nomi di tutti coloro con i quali hanno parlato; ma penso che si possa considerare con sicurezza, con poche eccezioni, che gli addetti ai lavori in questione:

–          Credevano che la deregolazione finanziaria fosse una buona idea, perché i banchieri avevano effettivamente imparato a trattare i rischi;

–          Non credevano che ci fosse una bolla immobiliare;

–          Ripetevano in continuazione che i deficit di bilancio, anche in una economia depressa, un giorno all’altro avrebbero spedito alle stelle i tassi di interesse;

–          Ripetevano che le misure di austerità avrebbero promosso la ripresa, non l’avrebbero danneggiata, a causa della ‘fata turchina della fiducia’.

E così via di seguito.

In questo ci sono alcuni rilevanti concetti economici. Il grande economista Jeb Bush – proprio così, Jeb Bush [51] – viene citato nel mentre dichiara che la fine dei deficit strutturali incoraggerebbe fortemente il tasso di crescita; la qualcosa penso giungerà come una novità ad ogni economista. E, già che ci siamo, non sono i deficit strutturali in gran parte i risultati delle politiche di suo fratello?

Oppure si prenda la spensierata affermazione secondo la quale la liberalizzazione del commercio e la riforma fiscale farebbero miracoli per la crescita. Di nuovo, le risposte da parte di persone che hanno provato ad affrontare seriamente questi temi e a metterli  in numeri  sono sempre state negative.

L’intero tema sviluppato nel pezzo di Politico è che accadrebbero grandi cose se gli addetti ai lavori potessero soltanto ignorare tutta questa roba incasinata della democrazia. Ma la vera lezione è che quegli addetti ai lavori non sono soltanto individui che rispondono solo a se stessi, ma anche profondamente ignoranti e tenaci nell’errore. E’ proprio negativo che tanti giornalisti ancora non se ne siano accorti.

 

 

 

 

December 15, 2012, 8:32 amInaction is the Greatest Risk (Wonkish)

Brad DeLong is exasperated with people who insist that the Fed’s modest moves toward more support for the economy are “risky”, but can’t explain why in any intelligible fashion. I agree. I also agree with Brad that the starting point for any discussion has to be that right now matters monetary are very out of whack, so that it’s just bizarre to angst about how the Fed might “distort” markets that are already hugely distorted.

But my first take on the nature of that distortion is a lot simpler than Brad’s.

The key point is that we are in a liquidity trap — a situation in which even reducing policy interest rates to their lowest possible level isn’t enough to restore full employment. In terms of IS-LM analysis, the situation looks like this:

1 1 29

 

 

Another way to look at the same thing is to draw the savings and investment schedules that would prevail if the economy were at full employment, which look like this:

1 1 30

The point is that the “natural” interest rate, the rate that would match savings and investment at full employment, is negative. And we can’t get there, because of the zero lower bound (which in turn reflects the fact that rather than accept negative rates, people can always just hold cash. Yes, there are slight exceptions, but they’re trivial from a macro point of view).

Now, you can talk about what has caused this situation; debt overhang and forced deleveraging is a prominent candidate. In any case, however, it exists. And the Fed’s duty is to try to correct the distortions this situation creates, above all the distortion of mass unemployment. It can do this by trying to raise expected inflation, so that the real interest rate falls even though the nominal rate can’t; it can try to correct it by buying risky assets, and thereby raising the natural rate.

 

Whatever it does, however, should be seen as an attempt to rectify a huge existing market failure, not as somehow distorting a well-functioning market. And the riskiest thing it could do is nothing, allowing the unemployment crisis to fester.

 

15 dicembre 2012L’inazione è il rischio più grande (per esperti)

Brad DeLong è esasperato con le persone che insistono sul fatto che i modesti movimenti in avanti della Fed per un maggiore sostegno dell’economia sono “rischiosi”, ma non riescono a spiegarlo in modo intellegibile. Sono d’accordo. Sono anche d’accordo con Brad che il punto di partenza di ogni discussione debba essere quello secondo il quale  in questo momento è importante che gli aspetti monetari siano  fuori di ogni equilibrio, cosicché è semplicemente bizzarro angustiarsi su come la Fed potrebbe “distorcere” mercati che sono già ampiamente distorti.

Ma la mia opinione originaria sulla natura di questa distorsione è molto più semplice di quella di Brad.

Il punto chiave è che siamo in una situazione di ‘trappola di liquidità’ – una situazione nella quale anche una politica che riduca i tassi di interesse ai loro più bassi livelli possibili non sarebbe sufficiente a ripristinare la piena occupazione. Nei termini della analisi del modello IS – LM [52], la situazione appare come la seguente:

1 1 29

Un altro modo di guardare alla stessa cosa è disegnare i piani di investimenti e di risparmi che si avrebbero se l’economia fosse in piena occupazione, in questa forma:

1 1 30

Il punto è che il tasso di interesse “naturale”, il tasso con il quale risparmi, investimenti ed occupazione starebbero in equilibrio, è negativo. E non possiamo arrivare a quel punto, a causa del limite inferiore dello zero (che a sua volta riflette il fatto che la gente, piuttosto che accettare tassi di interesse negativi, può sempre tenersi semplicemente il contate. Ci sono, è vero, piccole eccezioni, ma sono insignificanti da un punto di vista macroeconomico).

Ora, si può discutere di cosa abbia provocato questa situazione; la sovraesposizione debitoria e la riduzione obbligata del rapporto di indebitamento sono il principale indiziato. In ogni caso, tuttavia, è un fatto. E il dovere della Fed è cercar di correggere le distorsioni che questa situazione crea, soprattutto la distorsione della disoccupazione di massa. Essa può farlo cercando di aumentare l’attesa di inflazione, in modo tale che il tasso di interesse reale scenda anche se quello nominale non può scendere; essa può cercar di correggerla acquistando assets rischiosi, e di conseguenza innalzando il tasso di interesse naturale.

Qualsiasi cosa faccia, tuttavia, dovrebbe essere considerata come un tentativo di rettificare un vasto fallimento del mercato esistente e non, in qualche modo, come una distorsione di un mercato ben funzionante. E la cosa più rischiosa sarebbe far niente, consentendo alla crisi della disoccupazione di deteriorarsi.

 

 

 

 

 

 

December 16, 2012, 8:06 amThe Dismal State of the Dismal Science

Menzie Chinn is having a dialogue, or something, with the Heritage Foundation. He pointed out that their arguments against stimulus, aside from being primitive and wrong, would also imply that the fiscal cliff is harmless. They respond in part by claiming that all they’re worried about is the incentive effects — yeah, right — and also by claiming that famous economists made the same arguments.

The latter claim, unfortunately, is completely true. But it doesn’t absolve Heritage; all it shows is that much of macroeconomics, especially but not only at Chicago, has retrogressed intellectually, to such an extent that famous economists repeat 1930-vintage fallacies in perfect ignorance of the hard intellectual work that showed, three generations ago, that they are indeed fallacies.

By the way, Heritage — after totally misrepresenting Keynesian economics (Keynesians never think about investment? Really?) — asks,

When the government borrows a trillion dollars on global financial markets for a stimulus package, does Chinn believe that zero dollars of that is diverted from investment?

I don’t know for sure what Menzie’s answer would be, but mine is, no, I don’t believe that zero dollars are diverted; under current conditions, negative dollars are diverted. That is, stimulus spending would lead to more, not less, private investment. Why? Because we are in a liquidity trap — interest rates won’t rise — and higher sales would induce businesses to invest more, not less.

Oh, and if you go back to what Heritage analysts were writing back in 2009, they were predicting that government borrowing would lead to soaring interest rates. How’s that going, guys?

Meanwhile, Brad DeLong points out that Heritage has company, not just in its intellectual degradation, but in its duplicity:

Four years ago there were quite a number of economists of reputation and thought to be of note who stridently and aggressively argued that the increases in federal spending in the Recovery Act would not boost employment and production …

If extra federal spending and reduced tax collections in the Recovery Act could not boost production and employment, the reduced federal spending and increased tax collections from going over the fiscal cliff cannot reduce production and employment and does not risk sending the American economy into renewed recession.

Yet not a one–not a single one–of the economists who were so strident in their condemnations of the ineffectiveness of the Recovery Act is out there now saying that the fiscal cliff is not of concern. None of them. Zero. Nada. Shunya. Sifr.

Which prompts Cosma Shalizi to write in comments,

… our gracious host would really _like_ to be just a little bit to the left of a technocratic center, and to debate those just a little bit to his right about optimal policies within a shared objective function, and pretending that it is a technical and not a political discussion. But because [stuff I can’t put in the Grey Lady] and because everyone at all on the right has spent forty years (at least) doing their damndest to _make sure_ [more stuff], even the smallest gesture in that direction is not so much reconciliation as collaboration. And so our host has sads. (So, for that matter, did Uncle Paul, before he learned to relish their hatred.) The realization that this applies to economists — that much of the discipline is not a branch of science or even of dialectic, but merely of rhetoric (and not in an inspirational, D. McCloskey way either) — cannot come too soon.

I wish I had an easy refutation.

 

16 dicembre 2012La triste condizione della ‘scienza triste’

Menzie Chinn ha in corso un dialogo, o qualcosa del genere, con la Fondazione Heritage. Egli ha messo in evidenza che i loro argomenti contro lo stimolo, oltre ad essere primitivi e sbagliati, implicherebbero anche che il ‘precipizio fiscale’ non sarebbe dannoso. Essi rispondono in parte sostenendo che tutto quello di cui si preoccupano sono gli effetti di incentivo – beh, giusto! – ed anche sostenendo che famosi economisti  hanno utilizzato gli stessi argomenti.

Sfortunatamente, l’ultimo argomento è del tutto vero. Ma esso non assolve Heritage; tutto quello che dimostra è che gran parte della macroeconomia, in particolare a Chicago ma non soltanto, è regredita intellettualmente in tale misura che famosi economisti ripetono gli errori d’annata degli anni ’30, nella più completa ignoranza del duro lavoro intellettuale che dimostrò, tre generazioni orsono, che si trattava in effetti di errori.

Per inciso, Heritage – dopo aver completamente deformato il pensiero economico keynesiano (i keynesiani non pensano mai agli investimenti? Quando mai?) – chiede:

“Quando il Governo prende in prestito un migliaio di miliardi di dollari dai mercati finanziari per un pacchetto di misure di sostegno, crede Chinn che nessuno di quei dollari venga distratto dagli investimenti?”

Non sono certo di quale sarebbe stata la risposta di Menzie, ma la mia è: no, non credo che nessun dollaro sia distratto; nelle condizioni attuali i dollari sono distratti in negativo.  Vale a dire che il sostegno della spesa pubblica porterebbe ad un maggiore, non ad un minore, investimento privato. Perché? Perché siamo in una trappola di liquidità – i tassi di interesse non saliranno – e vendite maggiori indurrebbero le imprese ad investire di più, non di meno.

Oh, e se si torna indietro a cosa dicevano gli analisti dell’Heritage nel 2009, essi predicevano che l’indebitamente del Governo avrebbe portato i tassi di interesse alle stelle. Come sta andando quella cosa, signori?

Nel frattempo, Brad DeLong sottolinea che l’Heritage è un buona compagnia, non solo nel suo degrado intellettuale, ma anche nella sua doppiezza:

“Quattro anni orsono c’era un certo numero di economisti, che erano considerati per la loro reputazione ed il loro pensiero, che in modo stridulo ed aggressivo sostenevano che gli incrementi della spesa pubblica federale nella Legge sulla Ripresa non avrebbero incoraggiato l’occupazione e la produzione …

Se la spesa pubblica federale e la ridotta esazione delle tasse nella Legge per la Ripresa non avessero incoraggiato la produzione e l’esportazione, la ridotta spesa pubblica e l’aumentata esazione delle tasse provenienti dalla attivazione del precipizio fiscale non possono ridurre la produzione e l’occupazione e non rischiano di spedire l’economia americana in una nuova recessione.

Tuttavia nessun economista  – neanche uno- tra coloro che erano così fastidiosi nelle loro condanne sull’inefficacia della Legge per la Ripresa viene a dire oggi che i risparmi del precipizio fiscale non sono una preoccupazione. Nessuno di loro. Zero. Nada. Shunya. Sifr.” 

La qualcosa spinge Cosma Shalizi a scrivere a commento:

“… al nostro grazioso ospite piacerebbe in effetti essere solo un pochino a sinistra del centro tecnocratico, e dibattere con coloro che sono solo un pochino alla sua destra sulle politiche migliori all’interno di una condivisa funzione obbiettiva, e far finta che si tratti di una discussione tecnica e non politica. Ma poiché (…. cose che non posso trascrivere con i caratteri del New York Times [53]) e poiché proprio tutti a destra hanno speso (almeno) quarant’anni a fare il loro dannatissimo …. per render chiaro … (ancora intrascrivibile), persino il più piccolo gesto in quella direzione sarebbe non tanto  riconciliazione quanto collaborazione. E così il nostro ospite soccombe all’improvviso [54] (faceva  lo stesso lo Zio Paul [55],  prima che imparasse a gustare il loro odio). Questo richiede agli economisti – a quella gran parte della disciplina che non è una ramo di una scienza e neppure di una dialettica, ma meramente una retorica (e neppure in senso stimolante, alla D. McCloskey [56]) – una grado di comprensione che tarda a manifestarsi [57].

Mi sarebbe piaciuto avere trovato una confutazione su due piedi.

 

 

 

 

 

 

December 17, 2012, 1:48 pm

Something (Everything) Rotten in the State of Macro

Brad DeLong links to a blog post from 2011 about saltwater/freshwater and all that making some points I think I’ve also made, but maybe not that clearly. The key grafs:

 

The saltwater school, on the other hand, is having to reevaluate a great many of their ideas, not the least about collegiality and scientific epistemology. The recognition of the contempt in which their colleagues held them has to be a shock to many; I think I detect traces of it in Delong’s writing, and in Prof. Krugman’s. Likewise, the recognition that many freshwater economists were not thinking scientifically at all, but rather bound by prejudice and intellectual rigidity seems to have come as a shock. It is very much to Prof. Delong’s credit that he is willing to consider these realities.

There is also a practical problem, if economics as a discipline is to survive. There is a huge amount of junk in the peer-reviewed economics literature–the reviewing process is no protection when the reviewers themselves are prejudiced. A comparison that comes to mind is the collapse of “scientific” eugenics. There were vast amounts of that written, and now it is only read as an object example of the capture of a social science by prejudice and authoritarianism. For economists, meantime, there is a huge task ahead: the garbage must be taken out; removed from the field’s teaching, textbooks, and policy advice. It will be a generation at least before this is set right, if indeed it can be set right at all.

Indeed. Saltwater economists in the New Keynesian school — which sort of included me, for instance in my liquidity-trap writing — were doing intertemporal-maximization models that in effect conceded a lot of ground to freshwater styles of analysis, but with distortions — monopolistic competition and sticky prices — that made room for demand failures as a cause of recession. And many of the economists doing this stuff imagined that they were part of real discourse with the freshwater side, as witness Olivier Blanchard’s The State of Macro, written just before the crisis. Olivier’s abstract declares that

 

largely because facts do not go away, a largely shared vision both of fluctuations and of methodology has emerged

and concludes that “the state of macro is good”. Famous last words.

In fact, the freshwater side wasn’t listening at all, as evidenced by the way 80-year-old fallacies cropped up as soon as an actual policy response to crisis was on the table; and as for changing views in response to facts, well, we all know how that has gone.

The state of macro is, in fact, rotten, and will remain so until the cult that has taken over half the field is somehow dislodged.

 

17 dicembre 2012Qualcosa di guasto (tutto)  nello stato della macroeconomia

Brad DeLong si collega con un post di un blog [58]del 2011 su(le scuole economiche) dell’ “acqua salata e dell’acqua dolce” [59] e con tutto quello che pone aspetti  che penso d’avere anch’io indicato, ma forse non così chiaramente. I paragrafi fondamentali:

“La scuola dell’ “acqua salata”, d’altra parte, sta conoscendo una rivalutazione di moltissime delle proprie idee, non ultime quelle a proposito della collegialità e della epistemologia scientifica. La ammissione del disprezzo nel quale i loro colleghi li tenevano deve essere una sorpresa per molti; penso di trovare tracce di ciò negli scritti di DeLong e del professor Krugman. Parimenti,  il riconoscimento che molti economisti dell’ ‘acqua dolce’  non stessero affatto ragionando scientificamente, ma fossero piuttosto impacciati da pregiudizio e da rigidità intellettuale, sembra sia arrivata come uno shock. Va a grande merito del professor DeLong il fatto che sia disponibile a considerare questi dati di fatto.

C’è anche un problema pratico, ammesso che l’economia sia una disciplina destinata a sopravvivere.   C’è una gran quantità di ciarpame nella letteratura economica  recensita da colleghi …  il processo di riesame non è una protezione quando gli stessi critici sono prevenuti. Un confronto che viene alla mente è il collasso dell’eugenetica “scientifica”.  C’erano grandi quantità di quegli scritti, ed ora sono letti soltanto come  prove oggettive dell’inquinamento di una scienza sociale da parte del pregiudizio e del pensiero autoritario. Per gli economisti, d’altronde, si delinea un grande compito: il ciarpame deve essere rimosso; rimosso dall’insegnamento del settore, dai libri di testo, e dalla consulenza alla politica. Ci vorrà almeno una generazione prima che questo lavoro sia ben fatto, ammesso che esso possa per davvero essere ben fatto”.

Proprio così. Gli economisti dell’ “acqua salata” nella nuova scuola Keynesiana – di cui in un certo senso facevo parte, per esempio nel mio scritto sulla trappola di liquidità – facevano uso di modelli di massimizzazione intertemporale che in effetti concedevano molto terreno allo stile analitico degli economisti dell’ “acqua dolce”, ma con alterazioni – la competizione monopolistica e la rigidità dei prezzi – che lasciavamo spazio come cause di recessioni ai difetti della domanda. E molti degli economisti che facevano cose del genere si immaginavano di essere parte di un dibattito vero con il settore dell’ “acqua dolce”, come testimonia “Lo stato della macroeconomia” di Olivier Blanchard, scritto proprio prima della crisi. Il compendio di Olivier afferma che:

“in gran parte a causa di fatti che non spariscono, è emersa una visione largamente condivisa sia delle fluttuazioni che della metodologia…. ”

e concludeva che  “lo stato della macroeconomia è buono”. Le ultime parole famose.

Nei fatti, la scuola dell’ “acqua dolce” non stava affatto ascoltando, come dimostrato dal modo in cui gli errori vecchi di ottant’anni sono saltati fuori appena una effettiva risposta politica alla crisi è stata sul tavolo; e per quanto riguarda il cambiare opinione a seguito dei fatti, ebbene, sappiamo tutti come è andata.

Lo stato della macroeconomia è guasto, in effetti, e rimarrà tale sinché la moda che si è collocata in mezzo al campo in qualche modo non sarà rimossa.

 

 

 

 

 

December 20, 2012, 10:37 am

The Eighteenth Brumaire of Barack Obama

These days, political events occur, as it were, twice — the first time as near-tragedy, the second time as farce*.

In 2011, President Obama very nearly did immense damage to both the social safety net and the future of his party by offering a disastrous budget deal — a deal that would have raised the Medicare age, cut deeply into other programs, all in return for not much revenue and no rise at all in tax rates. Fortunately, he was saved from himself by what Gail Collins calls the rabid ferrets — the Republican back-benchers who wouldn’t accept any rise in taxes on the rich whatsoever, and effectively scuttled the deal.

This time around, Obama holds a much stronger position, yet for a couple of days there he seemed once again to be negotiating with himself. The offer he made earlier this week wasn’t nearly as bad as in 2011, and some reasonable progressives believe that the benefits — extended unemployment benefits, infrastructure, and extension of some other tax breaks that benefit the poor and middle class — are worth giving up a full return to pre-Bush taxes on the wealthy and the cuts in Social Security that would result from changing the price index. But it was an offer, not a deal — and there was good reason to fear that Obama, having arguably already given away too much, was getting ready to give away substantially more.

Rabid ferrets to the rescue!

It’s still not clear what Boehner thought he was doing In floating his “Plan B” — a ludicrous measure that would largely let the affluent, and even the wealthy, off the hook. Was it an attempt to somehow strengthen his bargaining position? Was he just covering his, um, assets with the GOP base? I don’t know. But he’s definitely disabused the Obama people of any notion that they’re finally having a serious, good-faith negotiation.

Furthermore, it’s now clear that he’s having trouble getting his party unified even for a tiny tax rise on the wealthy — which means that he would suffer massive defections in any deal that even a wimpy Obama (if that’s what we have again, which I hope we don’t) might agree to. And that in turn means that any deal would have to have overwhelming Democratic support — which gives progressives in the House, who already feel that Obama has given away too much, a lot of veto power despite their minority status.

Some alleged experts still think we’ll have a deal before we go over the cliff. Maybe they know their business, but I don’t see it. And the capitulation we all feared seems a lot less likely than it did two days ago. Thanks, ferrets!

*For those puzzled, the reference is here.

 

20 dicembre 2012Il 18 Brumaio di Barack Obama

Di questi tempi, gli eventi politici capitano, quando sono tali, due volte: la prima è una specie di tragedia, la seconda è una farsa.

Nel 2011 il Presidente Obama arrivò vicinissimo a fare un danno assai grande, sia alle reti della sicurezza sociale che al suo partito, con l’offerta di una accordo sul bilancio disastroso – un accordo che avrebbe innalzato l’età di ammissione a Medicare, provocato gravi tagli  agli altri programmi, il tutto in cambio di non molte entrate e di nessun aumento in assoluto nelle aliquote fiscali. Fortunatamente, venne salvato da se stesso da quelli che Gail Collins chiama i “rabbiosi furetti” – i parlamentari senza altri incarichi del Partito Repubblicano, che non accetterebbero in alcun modo un aumento delle tasse sui ricchi, e che in effetti  rifuggirono l’intesa.

Questa volta Obama ha una posizione molto più forte, tuttavia da un paio di giorni sembra che ancora una volta stia negoziando con se stesso. L’offerta che ha fatto agli inizi di questa settimana non è stata neanche lontanamente così cattiva come quella del 2011, ed alcuni ragionevoli progressisti credono che i benefici – la proroga dei sussidi di disoccupazione, le infrastrutture e la proroga di qualche altro sgravio fiscale a vantaggio dei poveri e delle classi medie – valgano quanto la rinuncia ad un pieno ritorno alle aliquote fiscali sui ricchi e quanto i tagli alla Previdenza Sociale che risulterebbero dal mutamento della indicizzazione al costo della vita. Ma questa è stata un’offerta e non un accordo, e c’è una buona ragione per temere che Obama, avendo presumibilmente già concesso molto, sia pronto a concedere sostanzialmente di più.

“Rabbiosi furetti” al salvataggio!

Non è ancora chiaro che cosa Boehner stesse pensando di fare con la proposta del suo “Piano B” – una soluzione grottesca che lascerebbe in gran parte al riparo i facoltosi, ad anche semplicemente i benestanti. Era un tentativo per rafforzare in qualche modo la sua posizione contrattuale? Si preoccupava soltanto di dare copertura, diciamo così, ai suoi punti di forza con la base repubblicana? Non lo so. Ma egli ha definitivamente disilluso i collaboratori di Obama sull’idea stessa di avere in corso un negoziato serio e in buona fede.

Per di più, ora è chiaro che egli ha difficoltà nel tenere unito il suo partito persino su un minuscolo aumento delle tasse sui più ricchi – il che significa che andrebbe incontro a massicce defezioni per ogni intesa che un Obama rammollito (come quello che io pensavo non accadesse, ma ci stiamo ritrovando) potesse anche accettare.  Il che a sua volta significa che ogni intesa dovrebbe godere del sostegno massiccio dei Democratici – la qualcosa darebbe ai progressisti alla Camera, che già hanno la sensazione che Obama abbia concesso molto, un grande potere di veto, nonostante la loro condizione minoritaria.

Alcuni sedicenti esperti pensano ancora che avremo un accordo prima di oltrepassare il precipizio.  Forse conoscono la loro materia, ma io non sono di quel parere. E la capitolazione che temevamo sembra un bel po’ meno probabile che non due giorni orsono. Grazie, furetti!

*Per coloro che non decifrano il titolo, il riferimento è in questa connessione [60].

 

 

 

 

December 20, 2012, 10:51 am

On Not Seeing the Forest for the Equations

So, Noah Smith weighs in on the state of macro and argues that there really isn’t that much disagreement in the field, because both saltwater and freshwater macro use the same set of techniques. (For newbies: saltwater is the kind of macro practiced at MIT, some of Harvard, Princeton, etc., macro that still finds Keynesian ideas useful and argues that monetary and fiscal policy can be effective; freshwater is Chicago, Minnesota, etc. insisting that business cycles are optimal responses to real shocks).

 

I think Smith is missing the point here. Alchemists and chemists used similar equipment: retorts, beakers, and so on. That didn’t make them the same endeavor. New Keynesians and real business cycle theorists both do lots of intertemporal maximization — that is, they use similar equations to represent consumer and producer behavior. Again, this doesn’t make them the same endeavor.

The real test came when the financial crisis struck, and pretty much to a man freshwater economists not only argued against fiscal stimulus — which is a defensible position — but insisted that there was no possible way to justify stimulus, that such ideas had been refuted and that “nobody” believed in them anymore. The only way to understand these claims is to realize that the freshwater types simply didn’t accept the legitimacy of what the New Keynesians were doing — in fact, didn’t even bother to read any of it, because anyone who actually worked with that kind of model would know that fiscal policy can indeed have an effect in that framework.

I’m not saying that the NK approach is necessarily right; but it’s a serious intellectual effort, undertaken by people who thought they were part of an open professional dialogue. Oh, and there’s a lot of evidence for the price stickiness that is central to NK models; again, maybe it doesn’t mean what the theorists think, but surely that evidence ought to be part of any discussion.

So yes, the equations in one of Mike Woodford’s papers look a lot like the equations coming out of Chicago or Minneapolis. And a few years ago it was possible to delude oneself into believing that this represented a true convergence of thought. But recent events have proved that it just wasn’t true.

 

20 dicembre 2012A proposito del non scambiare l’albero (le equazioni) con il bosco.

Dunque, Noah Smith interviene sullo stato della macroeconomia e sostiene che non ci sono in realtà disaccordi così grandi sulla materia, perché sia la macro dell’ “acqua salata” che quella dell’ “acqua dolce” utilizzano lo stesso complesso di tecniche (per i neofiti: “acqua salata” è quella specie di macroeconomia praticata al MIT, in qualche caso ad Harvard, a Princeton etc., macroeconomia che ancora trova le idee di Keynes utili e sostiene che la politica monetaria e della finanza pubblica può essere efficace; “acqua dolce” è la macroeconomia di Chicago, nel Minnesota, etc. che sostiene che i cicli economici sono le risposte ideali alle crisi reali [61]).

Penso che a Smith sfugga la sostanza. Gli alchimisti ed i chimici hanno fatto uso di attrezzature simili: alambicchi, ampolle e così via. La qualcosa non li ha indirizzati agli stessi scopi. Sia il neo keynesismo che la teoria del ciclo economico reale si avvalgono di  una buona dose di massimizzazioni  intertemporali – vale a dire, usano equazioni simili per rappresentare il comportamento del consumatore e del produttore. Di nuovo, questo non significa che operino nelle stesse direzioni.

Il vero metro di misura è venuto quando sono scoppiate le crisi finanziarie, e praticamente tutti gli economisti dell’ “acqua dolce” non solo hanno preso posizione contro le misure di sostegno pubblico all’economia – che sarebbe una posizione sostenibile – ma hanno insistito che quelle misure di sostegno non erano in alcun modo giustificabili, che idee del genere erano state confutate e che “nessuno” credeva più in esse. L’unico modo di intendere queste pretese è rendersi conto che i personaggi dell’ “acqua dolce” semplicemente negavano la legittimità di quello che i neo keynesiani stavano facendo – in sostanza, non si sono preoccupati neppure di leggere niente a proposito, giacché chiunque lavorasse realmente con quel genere di modello avrebbe saputo che in effetti la politica della spesa pubblica può, in quello schema, avere un effetto.

Non sto dicendo che l’approccio neo keynesiano sia necessariamente giusto; ma è uno sforzo intellettualmente serio, intrapreso da persone che pensavano di partecipare ad una dialogo professionale aperto. E si aggiunga che ci sono molte prove sulla rigidità dei prezzi, che è tema centrale dei modelli neo keynesiani; ancora, può darsi che questo non significhi quello che pensano quei teorici, ma è certo che le prove dovrebbero far parte di ogni dibattito.

Dunque è vero che le equazioni in una delle ricerche di  Mike Woodford assomigliano molto alle equazioni che vengono da Chicago o da Minneapolis. E pochi anni orsono fu possibile illudersi che questa rappresentasse una reale convergenza di pensiero. Ma i fatti recenti hanno dimostrato che questo non era affatto vero.

 

 

 

 

December 22, 2012, 8:30 am

Sitcom Kabuki (Trivial)

OK, so I’ve just spent a number of hours on domestic flights, the kind that show sitcoms on screens down the middle of the aisle. (Which is why I was too tired for Friday Night Music — next week). I didn’t listen to any of the dialogue – I was reading – but I did find myself watching some of the acting. And with the sound off, you can really see just how artificial the conventions of sitcom acting are: the telegraphed double-takes, the faux-angry declarations of the men, the perkiness of the women, etc., etc. – none of it resembling at all the way real people behave. It’s an art form, if you like, that’s as deeply stylized and full of conventional signifiers as Kabuki theater or Chinese opera; the actors might as well be wearing ritual masks representing their alleged characters and emotions.

It’s also, of course, a cultural form that’s very, very stupid.

 

22 dicembre 2012Sceneggiata Kabuki (pensiero semplice)

E’ così, dunque ho appena speso un certo numero di ore in voli sulle linee nazionali, quelle dove si mostrano gli spettacoli sugli schermi in mezzo ai corridoi (e questa è la ragione per la quale ero troppo stanco per la musica del Venerdì notte [62] … alla prossima settimana). Non ho ascoltato quei dialoghi – stavo leggendo – ma mi sono ritrovato ad osservare alcune di quelle scenette. E senza sonoro, effettivamente si può vedere quanto siano artificiali le convenzioni di quegli spettacoli: le prevedibili reazioni a scoppio ritardato, le fasulle indignazioni degli uomini, la vivacità delle donne etc. etc. – niente che assomigli a come la gente si comporta realmente. Se si vuole, è una forma di arte profondamente stilizzata e piena di significati convenzionali come il teatro Kabuki o l’opera cinese; gli attori, in aggiunta, indossare maschere rituali che rappresentino i loro presunti caratteri e le loro emozioni.

E’ anche una forma di cultura davvero stupida.

 

 

 

 

December 24, 2012, 10:58 am

Bond Vigilantes and the Power of Three

Matthew Yglesias picks up on a point I’ve tried to make at some length recently: the popular story about how an attack by bond vigilantes can cause an interest rate spike and turn America into Greece, Greece I tell you, is incoherent. (Here’s a 2010 example from Alan Greenspan — the piece in which he declares it “regrettable” that the vigilantes haven’t yet attacked, but grudgingly concedes that low rates might persist “well into next year”, that is, into 2011. So what has he learned from the failure of his prophecy? Nothing, of course). It’s not just that there have so far been no signs of the bond vigilantes; it’s that even if for some reason the vigilantes did attack, it’s very hard to see how they could cause a recession in a country that retains its own currency and doesn’t have large amounts of debt denominated in foreign currency.

 

I’ve been trying to think about other ways to make this point, and also to help people understand the interest rate fluctuations we have actually experienced; here’s one stab at it.

 

 

Think of a simplified world in which there are three kinds of assets: short-term securities, long-term government bonds, and foreign assets, as shown schematically here:

1 1 31

Individual investors can shuffle their portfolios among these three assets; however, asset prices will rise or fall to match supply and demand for each asset. What are these asset prices? Well, there are three prices that might do the job: short-term interest rates, long-term interest rates, and the exchange rate. At any given time, however, one of these is fixed, leaving it up to the other two to do the adjusting. Which two? That depends on the monetary regime, as I’ll now explain.

The United States has independent monetary policy and a floating exchange rate. The Fed uses its independence to set the short-term interest rate, basically at zero these days. So long-term rates and the exchange rate do the adjusting.

Now, there have been some sizable fluctuations in long-term rates over the past few years, and every time those rates have gone up there have been press reports claiming that they are about debt fears. In reality, however, it’s quite clear that the driving force has been fluctuating optimism about the prospects for recovery, and hence for an eventual rise in short-term rates.

If you think short-term rates are heading up, then other things equal long-term bonds become less attractive; better to park your money and wait for better yields. So the desired portfolio shift looks like this:

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In such a case long-term rates rise – but because this rise is driven by greater optimism about the future, it’s hard to see how it can have a contractionary effect on the economy.

Incidentally, this seems to me to be a big problem with the story Brad DeLong tells about bond vigilantes in the very early 1990s. He argues that the wide gap between short-term and long-term rates reflected market expectations that deficits would eventually cause higher inflation, which in turn would cause the Fed to raise rates. This could be true. But why would such expectations be a drag on the economy? Yes, nominal rates would be higher than otherwise; but real rates would, if anything, be lower. It’s not at all easy to tell a coherent story in which the effect of future expected deficits on today’s interest rates is contractionary – I know, because I’ve tried.

Now, the big fear now is that we’ll have a quite different type of vigilante attack, in which fear of default leads to a general flight from our nation’s assets, sort of like this:

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How does this play out?

Well, if you’re Greece, the exchange rate is fixed – or actually nonexistent, because you don’t have your own currency. So what happens is that both short-term and long-term interest rates rise. How can short-term rates shoot up, when there is also a relationship between the quantity of money and short-term rates (which is why central banks can peg these rates)? The answer is that as funds flee the country, the money supply plunges. Here’s what happened to Greek M1:

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But that can’t happen in the United States, where the Fed retains control over the money supply and of short-term interest rates. So what would happen instead would be a plunge in the exchange rate. And this would actually have an expansionary effect on the U.S. economy.

The point is that the analogy with Greece is just completely wrong; the difference in our monetary positions means that even if the bond vigilantes did attack, they would probably help, not hurt, our economy in the short run.

 

24 dicembre 2012I ‘Guardiani dei bonds’ [63] ed il potere dei Tre.

Matthew Yglesias si riallaccia ad un punto che avevo cercato di avanzare con una qualche ampiezza di recente [64]: la storia di successo secondo la quale un attacco da parte dei ‘guardiani dei bonds’ potrebbe provocare un picco nei tassi di interesse e trasformare l’America in una Grecia (in una Grecia, vi dico!) è incongrua (ecco il link con un esempio del 2010  di Alan Greenspan – l’articolo nel quale egli dichiara “disdicevole” che i guardiani non siano ancora passati all’attacco, ma a denti stretti ammette che i bassi tassi  potranno persistere “sino ad una buona parte del prossimo anno”, vale a dire del 2011. Cosa ha dunque appreso dal fallimento di questa profezia? Niente, naturalmente). E non si tratta soltanto del fatto che non vi sia stato sinora alcun segnale da parte dei guardiani dei bonds; si tratta anche del fatto che se per una qualche ragione i guardiani avessero attaccato, sarebbe stato difficile capire in che modo avrebbero potuto  provocare una recessione in una paese che mantiene la propria valuta e non ha grandi quantità di debito espresse in valuta estera.

Ho cercato di pensare ad altri modi nei quali esporre questo punto, anche per aiutare le persone a comprendere le fluttuazioni dei tassi di interesse delle quali abbiamo una esperienza effettiva; ecco qua un tentativo.

Si pensi ad un mondo semplificato nel quale ci sono tre tipi di assets: titoli a breve termine, bonds governativi a lungo termine ed assets esteri, come mostrato schematicamente in questa tabella:

1 1 31

Investitori individuali possono distribuire i loro portafogli tra questi tre assets; tuttavia, i prezzi degli assets saliranno o diminuiranno allo scopo di equilibrare offerta e domanda per ciascun asset.  Quali sono questi prezzi degli assets? Ebbene, ci sono tre prezzi che dovrebbero servire allo scopo: i tassi di interesse a breve termine, quelli a lungo termine e il tasso di cambio. In ogni determinato periodo, tuttavia, uno di essi è stabile, lasciando agli altri due di compiere l’adeguamento. Quali due? Questo dipende dal regime monetario, come adesso spiegherò.

Gli Stati Uniti hanno una politica monetaria indipendente ed un tasso di cambio fluttuante. La Fed utilizza la sua indipendenza per determinare il tasso di interesse a breve termine, di questi tempi praticamente a zero. Dunque, i tassi a lungo termine ed il tasso di cambio realizzano l’adeguamento.

Ora, nel corso degli anni passati ci sono state alcune considerevoli fluttuazioni nei tassi a lungo termine, e in ogni periodo nel quale essi sono saliti ci sono stati articoli di stampa che sostenevano che questo dipendesse dalle paure sul debito. In realtà, invece, è abbastanza chiaro che la forza che ha provocato il movimento è stato un ottimismo altalenante sulle prospettive della ripresa, e da lì, alla fine, sulle prospettive di aumento dei tassi a breve termine.

Se voi pensate che i tassi di interesse a breve termine siano alla guida, allora, a parità degli altri fattori, i bonds a lungo termine divengono meno attraenti; meglio parcheggiare il vostro denaro ed attendere rendimenti migliori. Dunque, il mutamento desiderabile di portafoglio apparirà in questo modo:

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In questo caso i tassi a lungo termine salgono – ma poiché l’incremento è guidato da un maggiore ottimismo sul futuro, è difficile capire come esso possa avere un effetto di contrazione sull’economia.

Per inciso, questo mi sembra essere un grosso problema per la storia di cui parla Brad DeLong sui ‘guardiani dei bonds’ agli inizi degli anni ’90. Egli sostiene che l’ampio differenziale tra i tassi a breve e quelli a lungo termine rifletteva le aspettative del mercato che i deficit alla fine avrebbero provocato un aumento di inflazione, che a sua volta avrebbe spinto la Fed ad alzare i tassi. Questo potrebbe essere vero. Ma perché tali aspettative avrebbero trascinato l’economia? E’ vero, i tassi nominali sarebbero stati più elevati che in altro modo, ma i tassi reali sarebbero, semmai, stati più bassi. Non è affatto facile raccontare una storia coerente nella quale l’effetto dei deficit attesi nel futuro sui tassi di interesse di oggi sia quello di una contrazione economica – lo so perché ci ho provato.

Ora, il grande timore di oggi è che potremmo avere un attacco dei ‘guardiani’ di tipo abbastanza diverso, nel quale la paura di un default porterebbe ad una fuga generalizzata dagli assets del nostro paese, con un effetto di questo genere:

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Come potrebbe tutto questo funzionare?

Ebbene, nel caso della Grecia il tasso di cambio è fisso – o in realtà non esiste, giacché non si ha la propria valuta. Dunque, quello che accade è che sia i tassi a breve che quelli a lungo termine salgono. Come possono i tassi a breve fare un balzo, quando c’è pure una relazione tra la quantità di moneta ed i tassi a breve termine (che è la ragione per la quale le banche centrali possono stabilizzare questi tassi)? La risposta è che quando i capitali lasciano il paese, l’offerta di moneta crolla. Ecco che cosa è accaduto all’aggregato monetario [65]greco:

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Ma questo non può avvenire negli Stati Uniti, dove la Fed detiene il controllo sull’offerta di moneta e sui tassi di interesse a breve termine. Dunque, quello che invece accadrebbe sarebbe una caduta del tasso di cambio. E questo avrebbe in realtà un effetto espansivo sull’economia degli Stati Uniti.

Il punto è che l’analogia con la Grecia è proprio completamente infondata; la diversità della nostra situazione monetaria significa che persino se i ‘guardiani dei bonds’ attaccassero, essi probabilmente porterebbero un contributo, anziché un danno, alla nostra economia nel breve termine.

 

 

 

 

December 24, 2012, 3:40 pm

The Fed and Interest Rates

In response to today’s column, I’m getting a lot of the usual: namely, the claim that low interest rates don’t prove anything, because the Fed has been buying up all the federal government’s debt issue. This is always said with an air of great wisdom; in fact, it’s remarkably foolish, managing to be wrong in three distinct ways.

 

First of all, it isn’t true that the Fed has consistently been buying a lot of Federal debt issue. Sometimes it has, sometimes it hasn’t; when QE2 stopped, there were widespread predictions that interest rates would spike, but they didn’t — as those of us who have been getting it right predicted.

Second, the idea is conceptually wrong. Asset prices should be determined mainly by the stocks of assets, not the changes in these stocks over short periods. If bond investors lose confidence in federal debt, there’s a huge outstanding stock of that debt for them to try to sell, driving rates up, no matter how much of the new issue the Fed might be buying.

But maybe the killer is this: since when do the kinds of people who worry all the time about deficits believe that the Fed can monetize a substantial part of a large deficit, for four whole years, without any negative consequences? If you believed in the framework these people have, all that expansion of the monetary base should have produced runaway inflation by now, as many of them did in fact predict early in the game. It hasn’t — and no, don’t give me the bit about the government hiding the true rate of inflation. Independent estimates are not significantly different from the official gauges.

Now, back in late 2008, contemplating the situation we were in, those of us who saw it in terms of basic IS-LM macro made a twofold prediction: as long as the economy stayed depressed, interest rates and inflation would both stay subdued despite both large deficits and a huge expansion of the Fed’s balance sheet. There was much scorn for that prediction at the time; how do you think it has looked since?

I have to say, the persistence of the inflationista, eek! deficits! view despite year after year of failure — and the amazing effort put into making excuses for year after year of failure — are a wonder to behold. But then, the point of today’s column was precisely that this is what happens when true believers confront uncooperative reality.

 

24 dicembre 2012La Fed e I tassi di interesse

Sto avendo molti più commenti del solito, in risposta all’articolo di oggi: in particolare, l’argomento secondo il quale i tassi di interesse non proverebbero niente, giacché la Fed sta comprando tutta l’emissione di titoli sul debito del Governo federale. Questo viene sempre affermato con un’aria di grande saggezza; di fatto è particolarmente sciocco e riesce ad essere sbagliato in tre sensi diversi.

Prima di tutto, non è vero che la Fed abbia acquistato una grande quantità di emissioni di debito federale. Qualche volta lo ha fatto, qualche volta no; quando la seconda mandata di “facilitazione quantitativa” finì, le previsioni generali erano che i tassi di interesse sarebbero schizzati in alto, ma non accadde – come avevano previsto quelli tra noi che avevano compreso giustamente.

In secondo luogo, l’idea è concettualmente sbagliata. I prezzi degli assets dovrebbero essere determinati dalle riserve di assets, non dai cambiamenti di queste riserve nei brevi periodi. Se gli investitori sui bonds perdono fiducia nel debito federale, c’è una vasta riserva di quel debito che possono provare a vendere, spingendo in alto i tassi, senza che abbia importanza quante nuove amissioni la Fed possa acquistare.

Ma forse l’argomento definitivo è il seguente: da quando i soggetti che si preoccupano in continuazione dei deficit credono che la Fed possa monetizzare una parte sostanziale di un ampio debito, per quattro interi anni, senza alcuna conseguenza negativa? Se aveste creduto negli schemi di queste persone, tutta quella espansione della base monetaria avrebbe dovuto produrre da subito una inflazione galoppante, come molti di loro avevano di fatto previsto all’inizio del gioco. Non è accaduto – e no, non mi raccontate la storia del Governo che nasconde il tasso reale di inflazione. Le stime da fonti indipendenti non sono significativamente diverse dalle misurazioni ufficiali.

Ora, nel passato 2008, osservando la situazione nella quale ci trovavamo, quelli di noi che vedevano le cose nei termini del modello IS – LM [66] fecero una duplice previsione: per tutto il tempo in cui l’economia sarebbe stata depressa, i tassi di interesse e l’inflazione sarebbero entrambe rimaste smorzate, nonostante ampi deficit ed una grande espansione dei bilanci contabili della Fed. Ci fu molto dileggio per quella previsione a quel tempo; come pensate sia andata da allora?

Devo dire che la persistenza del punto di vista dei maniaci dell’inflazione (oddio! I deficit!), nonostante che per un anno dietro l’altro essa non si sia materializzata – e lo sforzo incredibile nell’avanzare scuse per tale fallimento – hanno del prodigioso. D’altro canto, l’opinione espressa nell’articolo di oggi era che questo è quanto accade quando i veri credenti si confrontano con una realtà poco collaborativa.

 

 

 

 

 

 

December 26, 2012, 8:46 am

Capital-biased Technological Progress: An Example (Wonkish)

Ever since I posted about robots and the distribution of income, I’ve had queries from readers about what capital-biased technological change – the kind of change that could make society richer but workers poorer –really means. And it occurred to me that it might be useful to offer a simple conceptual example – the kind of thing easily turned into a numerical example as well – to clarify the possibility. So here goes.

Imagine that there are only two ways to produce output. One is a labor-intensive method – say, armies of scribes equipped only with quill pens. The other is a capital-intensive method – say, a handful of technicians maintaining vast server farms. (I’m thinking in terms of office work, which is the dominant occupation in the modern economy).

We can represent these two techniques in terms of unit inputs – the amount of each factor of production required to produce one unit of output. In the figure below I’ve assumed that initially the capital-intensive technique requires 0.2 units of labor and 0.8 units of capital per unit of output, while the labor-intensive technique requires 0.8 units of labor and 0.2 units of capital.

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The economy as a whole can make use of both techniques – in fact, it will have to unless it has either a very large amount of capital per worker or a very small amount. No problem: we can just use a mix of the two techniques to achieve any input combination along the blue line in the figure. For economists reading this, yes, that’s the unit isoquant in this example; obviously if we had a bunch more techniques it would start to look like the convex curve of textbooks, but I want to stay simple here.

 

What will the distribution of income be in this case? Assuming perfect competition (yes, I know, but let’s deal with that case for now), the real wage rate w and the cost of capital r – both measured in terms of output – have to be such that the cost of producing one unit is 1 whichever technique you use. In this example, that means w = r = 1. Graphically, by the way, w/r is equal to minus the slope of the blue line.

Oh, and if you’re worried, yes, workers and machines are both paid their marginal product.

But now suppose that technology improves – specifically, that production using the capital-intensive technique gets more efficient, although the labor-intensive technique doesn’t. Scribes with quill pens are the same as they ever were; server farms can do more than ever before. In the figure, I’ve assumed that the unit inputs for the capital-intensive technique are cut in half. The red line shows the economy’s new choices.

So what happens? It’s obvious from the figure that wages fall relative to the cost of capital; it’s less obvious, maybe, but nonetheless true that real wages must fall in absolute terms as well. In this specific example, technological progress reduces the real wage by a third, to 0.667, while the cost of capital rises to 2.33.

OK, it’s obvious how stylized and oversimplified all this is. But it does, I think, give you some sense of what it would mean to have capital-biased technological progress, and how this could actually hurt workers.

 

26 dicembre 2012Il progresso tecnologico a vantaggio del capitale (per esperti)

Da quando ho pubblicato il post sui robot e sulla distribuzione del reddito, ho ricevuto quesiti dai lettori su cosa realmente significhi il mutamento tecnologico a favore del capitale – quel genere di cambiamento che potrebbe rendere la società più ricca ma i lavoratori più poveri . E mi è venuto in mente che potrebbe essere utile offrire un semplice esempio concettuale – quel genere di cose che possono facilmente essere tradotte anche in un esempio numerico. Eccolo, dunque.

Si immagini che esistano solo due modi per realizzare un prodotto. Uno è il metodo ad alta intensità di lavoro – diciamo armate di scrivani attrezzati soltanto di penne d’oca. L’altro è il metodo ad alta intensità di capitale – diciamo, una manciata di tecnici che sostiene grandi “server farms” [67] (sto pensando in termini di uffici, che sono l’occupazione prevalente nell’economia moderna).

Possiamo rappresentare queste due tecniche in termini di unità di ingresso – il corrispettivo di entrambi i fattori della produzione richiesto per realizzare una unità di prodotto. Nella figura sotto ho assunto che inizialmente [68] la tecnica ad alta intensità di capitale richieda 0,2 unità di lavoro e 0,8 unità di capitale per unità di prodotto, mentre la tecnica ad alta intensità di lavoro richieda 0,8 unità di lavoro e 0,2 unità di capitale.

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L’economia nel suo complesso può fare uso di entrambe le tecniche – di fatto, lo dovrà fare a meno che non abbia o un ammontare di capitale per lavoratore molto ampio o molto piccolo. Non c’è problema: possiamo semplicemente usare un mix di entrambe le tecniche per ottenere qualsiasi combinazione di fattori di ingresso lungo la linea blu della figura. Per gli economisti che stanno leggendo, lo confermo, quella è l’unità di isoquanto [69] di questo esempio; naturalmente, se abbiamo un mucchio di tecniche in più comincerebbe ad apparire la curva convessa dei libri di testo, ma qua ho cercato di restare sul semplice.

In questo caso, a cosa corrisponderà la distribuzione del reddito? Assumiamo una competizione perfetta (si, capisco, ma per adesso confrontiamoci con quel caso), ed assumiamo che  la quota del salario reale w e il costo del capitale r – entrambi misurati in termini di prodotto – debbano essere tali che il costo di produzione di una unità sia 1, qualsiasi tecnica si utilizzi. In questo esempio, ciò significa che w = r = 1. Per inciso, graficamente w/r corrisponde a meno della inclinazione della linea blu.

E se state pensando a questo aspetto, si, i lavoratori e le macchine sono pagati entrambi al loro prodotto marginale.

Ma ora supponiamo che la tecnologia migliori – in particolare, che la produzione che utilizza la tecnica ad alta intensità di capitale diventi più efficiente, anche se la tecnica ad alta intensità di lavoro non lo sia. Gli scrivani con le penne d’oca sono gli stessi che sono sempre stati; le “server farms”  possono fare di più di quello che hanno mai fatto. Nella figura, ho ipotizzato che le unità di ingresso per la tecnica ad alta intensità di capitale siano tagliate a metà. La linea rossa mostra le nuove possibilità dell’economia.

Cosa accade, dunque? Dalla figura appare evidente che i salari cadono in relazione al costo del capitale; forse è meno ovvio, ma è comunque vero che i salari possono diminuire anche in termini assoluti. In questo specifico esempio, il progresso tecnologico riduce il salario reale di un terzo, scendendo a 0,667, mentre i costo del capitale sale a 2,33.

E’ vero, è chiaro quanto tutto questo sia stilizzato e sovrasemplificato. Ma penso che offra davvero un qualche significato di quello che significherebbe avere un progresso tecnologico a vantaggio del capitale, e di come questo  in effetti danneggerebbe i lavoratori.

 

 

 

 

December 26, 2012, 10:17 am

Protecting Freedom(Works)

OK, the story of the fight at FreedomWorks — which ended with Dick Armey being sent away with a $8 million severance package — is getting even more bizarre. From the WaPo:

The day after Labor Day, just as campaign season was entering its final frenzy, FreedomWorks, the Washington-based tea party organization, went into free fall.

Richard K. Armey, the group’s chairman and a former House majority leader, walked into the group’s Capitol Hill offices with his wife, Susan, and an aide holstering a handgun at his waist. The aim was to seize control of the group and expel Armey’s enemies: The gun-wielding assistant escorted FreedomWorks’ top two employees off the premises, while Armey suspended several others who broke down in sobs at the news.

The problem, clearly, is that despite its Tea Party status, FreedomWorks had failed to implement the security measures libertarians have been recommending for schools. If only the staff had been carrying concealed weapons, and those not armed had been trained to launch human wave attacks on gunmen, none of this would have happened, right?

 

26 dicembre 2012Proteggere la libertà (o forse Freedom Works) [70]

E’ così, la storia della battaglia su “Freedom Works” – che è finita con il licenziamento di Dick Armey [71] con una somma di 8 milioni di dollari di liquidazione – sta diventando ancora più strana. Dal Washington Post:

“Il giorno dopo il Labor Day, proprio mentre la campagna elettorale stava entrando nel suo frenetico finale, ‘FreedomWorks’, la organizzazione del Tea Party con base a Washington, è andata a scatafascio.

Richard K. Armey, Presidente del gruppo e precedente leader della maggioranza (repubblicana) alla Camera, è entrato negli uffici del gruppo a Capitol Hill con sua moglie, Susan, ed un assistente che portava una pistola nella fondina. L’obbiettivo era prendere il controllo del gruppo ed espellere i nemici di Armey: l’assistente che brandiva l’arma ha condotto due impiegati del gruppo di rigente di FreedomWorks fuori dalla sede, mentre Armey ne sospendeva altri mentre stavano singhiozzando dinanzi alla  notizia.”

Il problema, chiaramente, è che nonostante l’appartenenza al Tea Party, FreedomWorks non è riuscita ad incrementare le radicali misure di sicurezza che erano state raccomandate per le scuole [72]. Se lo staff avesse avuto con sé armi nascoste, e quelli che non portavano armi fossero stati istruiti a scagliarsi a falange sugli uomini armati, niente del genere sarebbe successo, non è così?

 

 

 

 

 

December 26, 2012, 10:38 am

Is Growth Over?

It’s taken me a while to get around to Bob Gordon’s stimulating essay suggesting that the great days of economic growth are behind us. It’s not that different from things he’s been saying before, and I have in the past had a lot of sympathy for that view. I now believe, however, that his technological pessimism is wrong — or if you prefer, it’s the wrong kind of pessimism. But this is definitely a discussion worth having.

Gordon argues, rightly in my view, that we’ve really had three industrial revolutions so far, each based on a different cluster of technologies:

The analysis in my paper links periods of slow and rapid growth to the timing of the three industrial revolutions:

IR #1 (steam, railroads) from 1750 to 1830;
IR #2 (electricity, internal combustion engine, running water, indoor toilets, communications, entertainment, chemicals, petroleum) from 1870 to 1900; and
IR #3 (computers, the web, mobile phones) from 1960 to present.

Gordon then argues that IR#2 was by far the most dramatic, which again seems right. Think of the America shown in Lincoln, which is a society shaped by industrial revolution 1 but not yet transformed by IR #2. It was a society in which you could travel much further and faster than ever before — but when you got to your destination, it was still a horse-drawn society in which most people still lived on farms and cities were cruder and dirtier than we can easily imagine. By the 1920s, however, urban America was already recognizably a modern society.

What Gordon then does is suggest that IR #3 has already mostly run its course, that all our mobile devices and all that are new and fun but not that fundamental. It’s good to have someone questioning the tech euphoria; but I’ve been looking into technology issues a lot lately, and I’m pretty sure he’s wrong, that the IT revolution has only begun to have its impact.

Consider for a moment a sort of fantasy technology scenario, in which we could produce intelligent robots able to do everything a person can do. Clearly, such a technology would remove all limits on per capita GDP, as long as you don’t count robots among the capitas. All you need to do is keep raising the ratio of robots to humans, and you get whatever GDP you want.

Now, that’s not happening — and in fact, as I understand it, not that much progress has been made in producing machines that think the way we do. But it turns out that there are other ways of producing very smart machines. In particular, Big Data — the use of huge databases of things like spoken conversations — apparently makes it possible for machines to perform tasks that even a few years ago were really only possible for people. Speech recognition is still imperfect, but vastly better than it was and improving rapidly, not because we’ve managed to emulate human understanding but because we’ve found data-intensive ways of interpreting speech in a very non-human way.

And this means that in a sense we are moving toward something like my intelligent-robots world; many, many tasks are becoming machine-friendly. This in turn means that Gordon is probably wrong about diminishing returns to technology.

Ah, you ask, but what about the people? Very good question. Smart machines may make higher GDP possible, but also reduce the demand for people — including smart people. So we could be looking at a society that grows ever richer, but in which all the gains in wealth accrue to whoever owns the robots.

And then eventually Skynet decides to kill us all, but that’s another story.

Anyway, interesting stuff to speculate about — and not irrelevant to policy, either, since so much of the debate over entitlements is about what is supposed to happen decades from now.

 

26 dicembre 2012La crescita è finita?

Per un po’ sono stato preso dall’occuparmi del saggio stimolante di Bob Gordon [73], che suggerisce che i grandi giorni della crescita sono alle nostre spalle. Non è una cosa diversa da quanto egli aveva sostenuto in precedenza, e in passato ho avuto molta simpatia per tale punto di vista. Oggi credo, tuttavia, che questo pessimismo tecnologico sia sbagliato – o, se preferite, che sia un genere sbagliato di pessimismo. Ma questo è certamente un tema che merita discutere.

Gordon sostiene, secondo me giustamente, che in effetti abbiamo avuto tre rivoluzioni industriali sino ad oggi, ciascuna basata su una diversa filiera di tecnologie:

“La analisi del mio studio collega periodi di lenta e rapida crescita alla tempistica di tre rivoluzioni industriali:

La prima RI (il vapore, le  ferrovie) dal 1750 al 1830;

la seconda RI (elettricità, macchine a combustione interna, acqua corrente, gabinetti nelle abitazioni, comunicazioni, intrattenimenti, chimica, petrolio) dal 1870 al 1900;

e la terza RI (computers, internet, telefoni mobili) dal 1960 ad oggi.”

Gordon poi sostiene che la seconda RI fu di gran lunga la più spettacolare, il che ancora una volta sembra giusto. Si pensi all’America mostrata da “Lincoln” [74], che era una società plasmata dalla prima rivoluzione industriale ma non ancora trasformata dalla seconda. Era una società nella quale si poteva viaggiare molto più lontano e molto più velocemente che mai in precedenza – ma quando si arrivava a destinazione, era ancora una società trainata da cavalli, nella quale la gran parte delle persone vivevano in fattorie e le città erano rozze e sporche che appena si può immaginare. Con il 1920, tuttavia, l’America urbana era già una società riconoscibilmente moderna.

Quello che Gordon poi suggerisce è che la terza rivoluzione ha già in gran parte fatto il suo corso, che tutte le nostre apparecchiature mobili e cose del genere sono nuove e divertenti, ma non così fondamentali. E’ bene che qualcuno metta in dubbio l’euforia tecnologica; ma ho analizzato molto di recente i temi della tecnologia e sono abbastanza sicuro che egli sbagli, che la rivoluzione delle tecnologia informatica abbia solo cominciato ad avere i suoi effetti.

Si consideri per un attimo una specie di scenario tecnologico fantastico, nel quale si possano produrre robot intelligenti che riescano a fare tutto quello che fa una persona. Chiaramente una tecnologia del genere rimuoverebbe tutti i limiti del PIL procapite, ameno che non si contino i robots tra le persone. Tutto quello che dovrebbe fare è aumentare la percentuale di robots in rapporto agli umani, e si otterrebbe qualsiasi PIL che si desidera.

Ora, non è questo che sta avvenendo – e di fatto, per quanto capisco, non è stato fatto un tale progresso nella produzione di macchine da far pensare che la strada sarà quella. Ma ci sono altri modi per produrre macchine intelligenti. In particolare, BIG Data –  ovvero l’utilizzo di ampi database di cose come le conversazioni parlate – a quanto pare rende possibile alle macchine ottenere prestazioni che soltanto pochi anni fa sembravano possibili solo alle persone. Il riconoscimento della parola è ancora imperfetto, ma molto migliore di quanto non fosse e in rapido miglioramento, non perché si sia riusciti ad imitare l’intelligenza umana ma perché di sono trovati modi ad elevata intensità di informazioni per interpretare la parola in un modo del tutto non-umano.

E questo significa che in un certo senso ci stiamo dirigendo verso qualcosa di simile ad un mondo di robot intelligenti; molte, molte mansioni stanno diventato alla portata delle macchine. A sua volta questo significa che probabilmente Gordon si sta sbagliando a proposito di rendimenti in diminuzione per la tecnologia.

Certo, ci si chiede, ma cosa ne è delle persone? Ottima domanda. Le macchine intelligenti possono far diventare il PIL il più elevato possibile, ma riducono anche la domanda di essere umani – compresi quelli intelligenti. Dunque, potremmo assistere ad una società che diventa sempre più ricca, ma nella quale tutti i vantaggi della ricchezza maturano a favore di coloro che possiedono i robots.

E poi alla fine Skynet [75]deciderà di ammazzarci tutti, ma quella è un’altra storia.

In ogni modo, cose interessanti sulle quali ragionare – ed anche non irrilevanti, dal momento che una gran parte del dibattito sui diritti sociali riguarda quello che si suppone che accada tra qualche decennio.

 

 

 

 

December 27, 2012, 8:57 am

Futurism and Policy

As regular readers have noticed, I’ve been spending a fair bit of time recently thinking about issues of long-term growth. Why? Partly just as a break from fiscal cliffery and the endless battle against dumb short-run macro. But it’s also true that the long run matters for policy: given how much public debate focuses on things like the state of Social Security or Medicare in the year 2040, it’s definitely worth trying to figure out what we know or don’t know about what our economy might look like in the year 2040.

There is a conventional wisdom here, and it’s embodied in long-run budget projections. I’m tempted to say that this conventional wisdom is that the next several decades will look like the last several decades, but that’s not quite true. If you look, for example, at the CBO’s long-run budget outlook, it assumes that productivity growth over the long term will be 1.7 percent a year (p. 34), which is roughly equal to average productivity growth since 1973. But it also assumes that compensation will grow roughly in line with productivity, which has not at all been the experience of the past 30 years.

I can see why the budget office does this; basing the productivity guesstimate on the past is surely a defensible procedure — but projecting a continuation of the rapid rise in inequality would mean basing budget projections on a dystopian vision of the future, which is not exactly what you expect government agencies to do. Still, surely it’s overwhelmingly likely that these projections will be hugely off in one or more ways.

No immediate moral from me, except as a reminder that all those long-term budget discussions in which people act as if we really know what the state of Social Security will be three decades from now are basically just boring science fiction.

 

27 dicembre 2012Futurismo e politica

Come i lettori abituali avranno notato, recentemente  sto spendendo abbastanza tempo nel pensare ai temi della crescita nel lungo periodo.  Perché? In parte semplicemente per interrompere tutta questa faccenda del ‘precipizio fiscale’ e la battaglia infinita sulle scemenze macroeconomiche di breve durata. Ma è anche vero che il lungo termine in politica è importante: considerato come un gran parte del dibattito pubblico si concentra su questioni quali la situazione della Previdenza Sociale o di Medicare nell’anno 2040, è certamente meritevole cercare di immaginare quello che sappiamo o non sappiamo su come sarà la nostra economia nell’anno 2040.

A questo proposito c’è un’opinione diffusa, ed è rafforzata dalle proiezioni di bilancio sul lungo periodo. Sono tentato di dire che questo senso comune è che i prossimi decenni assomiglieranno ai decenni trascorsi, la qualcosa però non è affatto vera. Se guardate, ad esempio, alla stima di bilancio a lungo termine del CBO, essa ipotizza che la crescita della produttività nel lungo periodo sarà pari all’1,7 per cento all’anno (pagina 34), che è grosso modo uguale alla crescita della produttività media a partire dal 1973. Ma essa ipotizza anche che le retribuzioni cresceranno grosso modo in linea con la produttività, e quella non è affatto stata l’esperienza degli ultimi trenta anni.

Posso capire perché l’Ufficio del Bilancio lo fa; basare la stima approssimativa sul passato è certamente una procedura ammissibile – ma prospettare una prosecuzione della rapida crescita dell’ineguaglianza vorrebbe dire basare le previsioni di bilancio su una visione distopica [76] del futuro, che non è esattamente quello che ci si aspetta da agenzie governative. Inoltre, è assolutamente probabile che queste previsioni, in uno o più modi, verranno ampiamente modificate.

Non ne traggo alcuna morale frettolosa, se non un promemoria: tutte le discussioni sul bilancio nelle quali le persone si atteggiano come se si conoscesse esattamente lo stato della Previdenza Sociale tra tre decenni sono fondamentalmente soltanto noiosa finzione scientifica.

 

 

 

 

December 27, 2012, 12:46 pm

Future Inequality, According to the CBO

Aha: in its long-term assessment of Social Security (pdf), the CBO makes its assumptions explicit. Kudos to them for doing this, by the way; even if you disagree, it’s helpful to know how they arrive at their conclusions.

So, what CBO assumes, first off, is that the share of compensation in GDP will remain constant. Here’s what that share has looked like since 1973, which marked the end of the postwar boom:

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Clearly, this share fluctuates with the business cycle, but is there are trend there too? In effect, CBO is writing that decline over the past decade off as a blip rather than the start of a major redistribution from labor to capital.

Meanwhile, CBO does allow for some rise in earnings inequality, causing the taxable share of earnings to fall slightly as the share of earnings above the payroll tax cap rises; they project a fall from 85 to 83 percent between now and 2036.

How does that compare with the trend over the past few decades? If you look at the data here, you see that the taxable share of earnings has also fluctuated a lot with the business cycle — but if you look at business cycle peaks, there’s a pretty strong downward trend, from 87.3 in 1979 to 82.6 in 2007. So CBO’s prediction implies a lot slower rise in earnings inequality over the next few decades than in the past.

I’m not bashing CBO here — I understand what they’ve done, and I would probably have ended up doing the same thing in their place, if only, as I remarked in a previous post, because dystopian visions of a class-riven society and official agencies don’t mix very easily. The point, however, is that CBO could very easily be quite wrong here, and will indeed be very wrong if the rise of smart machines plays out as many suspect it will.

 

27 dicembre 2012L’ineguaglianza futura, secondo il Congressional Budget Office

Eccoci: nella sua valutazione sul lungo periodo della Previdenza Sociale (pdf), il CBO rende esplicite le sue ipotesi. Naturalmente, complimenti per averlo fatto; anche se non si è d’accordo, aiuta comprendere come arrivano alle loro conclusioni.

Dunque, quello che il CBO ipotizza, come prima cosa, è che la quota delle retribuzioni sul PIL resterà costante. Ecco come tale quota appare a partire del 1973, anno che segna la fine del boom post bellico:

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Chiaramente, questa quota oscilla con i cicli economici, ma c’è in questo anche una tendenza? In effetti, il CBO descrive quel declino nel decennio passato piuttosto come un episodio, e non come l’avvio di una importante redistribuzione (del reddito) tra il lavoro e il capitale.

Nel frattempo, al tempo stesso, il CBO riconosce una qualche aumento nell’ineguaglianza delle contribuzioni, che provoca una loro leggera caduta come quota tassabile mentre la percentuale di esse sul tetto della tassa sugli stipendi [77] cresce; essi prevedono una caduta tra l’85 e l’83 % da ora al 2036.

Come si confronta tutto ciò con la tendenza degli ultimi decenni? Se guardate a questa connessione, vedete che la quota tassabile delle contribuzioni ha anch’essa oscillato molto con i cicli economici – ma se guardate ai picchi dei cicli economici, c’è una tendenza al ribasso abbastanza forte, dall’87,3 % nel 1979 all’ 82,6% nel 2007. Dunque, la previsione del CBO un aumento assai più lento delle diseguaglianze delle retribuzioni nei prossimi decenni rispetto al passato.

Non sto stroncando le ipotesi del CBO – capisco cosa hanno fatto, e al loro posto probabilmente avrei finito col fare la stessa cosa, anche solo perché, come ho sottolineato in un post precedente, la visione distopica [78] di una società spaccata in classi e le agenzie ufficiali non combinano facilmente. Il punto, tuttavia, è che il CBO potrebbe assai facilmente sbagliare di una qualche misura, e in effetti sarà così se lo scenario sarà, come molti sospettano, quello di una crescita delle ‘macchine intelligenti’

 

 

 

 

December 30, 2012, 1:03 pm

The Hostage Drama Begins

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It sure looks as if we’re going over the fiscal cliff, but that may be the least of our problems. The debt ceiling is a much bigger and more dangerous issue, and it looks very much as if Republicans are set to destroy the full faith and credit of the United States if they can’t get their way.

The key thing to remember — and what the GOP hopes you won’t understand — is that raising the debt ceiling only empowers the president to spend money that he’s authorized to spend by Congressional legislation; nothing more. Conversely, a party that refuses to raise the debt limit is saying that it’s prepared to inflict vast damage on America in order to achieve things that it couldn’t achieve through actual legislation — in effect, that it’s prepared to use vandalism to subvert the constitutional process.

Still, that’s where they’re going.

Back in 2003, when I published The Great Unraveling, I got a lot of ridicule from centrists over my claim that modern conservatism, which has taken over the GOP, was a deeply radical movement. (I also got a lot of grief for daring to suggest that Bush led us to war on false pretenses). At this point, does anyone doubt that that’s what we’re seeing?

So what we’re probably looking at over the next few months is an epic confrontation. Maybe Obama wimps out — in which case he’s effectively surrendered the presidency to Grover Norquist; maybe GOP leaders back down, but then face a civil war within their own party; or maybe we’ll have a vast, rolling crisis that won’t truly be resolved until the 2014 elections.

Happy New Year!

 

30 dicembre 2012Comincia il dramma dell’ostaggio

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Sembra certo che si stia andando oltre il precipizio fiscale, ma quello potrebbe essere l’ultimo dei nostri problemi. Il tetto del debito [79] è un tema assai più grande e pericoloso, e pare davvero che i Repubblicani siano pronti a distruggere per intero la fiducia e il credito degli Stati Uniti se non avranno soddisfazione.

La questione chiave da tenere a mente – quella che il Partito Repubblicano vuole che voi non comprendiate – è che aumentare il tetto del debito semplicemente mette il Presidente nelle condizioni di spendere il denaro che egli è autorizzato a spendere dalla legislazione del Congresso; niente di più. Al contrario, un partito che rifiuta di accrescere il tetto del debito  è come se affermasse di essere pronto ad infliggere un danno enorme all’America, allo scopo di ottenere cose che non potrebbe ottenere attraverso la normale legislazione – in sostanza, che è pronto a comportarsi in modo vandalico per sovvertire la procedura costituzionale.

Eppure, è lì che stiamo andando.

Nel 2003, quando pubblicai “La deriva americana” [80], fui molto ridicolizzato dai centristi per la mia tesi secondo la quale il moderno conservatorismo, che ha preso il sopravvento nel Partito Repubblicano, era un movimento profondamente estremista (mi presi anche un sacco di reprimende per aver osato affermare che Bush ci aveva portato in guerra con falsi pretesti). Al punto a cui siamo, dubita qualcuno che è quello che stiamo osservando?

Dunque, quello che probabilmente vedremo nei prossimi mesi sarà uno scontro epico. Forse Obama reagirà con paura – nel qual caso egli effettivamente consegnerà la presidenza a Grover Norquist [81]; forse il Partito Repubblicano farà marcia indietro, ma allora dovrà fronteggiare una guerra civile all’interno del proprio Partito; o forse avremo una crisi ampia e prolungata, che verosimilmente non sarà risolta che con le elezioni del 2014 [82].

Felice anno nuovo!

 

 

 

 

December 30, 2012, 1:32 pm

Is Our Austerians Learning?

Paul Solman has a post on Greg Mankiw’s attempt at a gotcha over my views circa 2003 on the consequences of deficits. As Solman notes, not only are the situations very different, I’ve also long since acknowledged that I was wrong, and have explained how and why I modified my views as a result. Extra bonus: notice how Mankiw, faced with the failure of his gotcha, immediately tries to claim that he wasn’t actually saying what he was, in fact, saying.

Anyway, as I told Joe Weisenthal, you’re supposed to change your views when events don’t pan out as you expected. The real gotchas should come on people who stick with their ideology no matter how badly it performs in practice.

Brad DeLong vents his spleen on one example, a guy who has been predicting double-digit inflation for years but remains absolutely committed to his framework all the same. Brian Riedl of Heritage, who predicted that the US government would find it especially hard to borrow, and have to pay ever-higher rates, in a global recession, is another.

But we don’t have to go to hard-liners and marginal figures to find people who refuse to learn. Basically the whole austerian movement has been wrong about everything for two and a half years — wrong about interest rates, wrong about the effects of austerity on GDP in Europe. Yet where is the reconsideration?

And utter wrongness seems to be no disqualification for being considered a source of wisdom. It’s hard to top Alan Greenspan’s record these past seven or eight years: he went from denying that there was a housing bubble (or even that such a bubble was possible), to declaring the housing bust over in the fall of 2006, to declaring that US deficits would produce high inflation and interest rates (along with expressing his regret that it hadn’t happened yet). Yet there he was at the founding of Fix the Debt, apparently still considered the Maestro.

 

So, I’ve learned some things and changed some of my views. Wouldn’t it be nice if other people would do the same, sometimes?

 

30 dicembre 2012Stanno imparando I nostri fanatici dell’austerità ?

Paul Solman ha un post sul tentativo di Greg Mankiw di prendermi in castagna per i miei punti di vista sulle conseguenze del deficit attorno al 2003. Come Solman nota, oltre ad essere la situazione assai diversa, io ho già da molto tempo riconosciuto d’avere avuto torto, ed ho spiegato di conseguenza come e perché ho modificato le mie opinioni. Ciliegina finale: messo dinanzi al fallimento del suo tentativo, immediatamente cerchi di sostenere che non stava affatto dicendo quello che di fatto  ha detto.

In ogni modo, come ho raccontato a Joe Weisenthal, si suppone che uno modifichi le proprie opinioni quando i fatti non abbiano già mostrato quello che ci si aspettava. Si prende effettivamente in castagna qualcuno quando rimane fermo nei suoi convincimenti nonostante che essi in pratica abbiano dimostrato di non funzionare.

Brad DeLong dà sfogo al suo malumore con un esempio: un tizio che ha previsto per anni una inflazione a due cifre ma resta assolutamente legato al suo schema senza cambiare una virgola. Brian Riedl della Fondazione Heritage, che aveva previsto che il Governo degli Stati Uniti avrebbe trovato molto difficile indebitarsi, ed avrebbe dovuto pagare interessi sempre più elevati in una recessione globale, è un caso del genere.

Ma non c’è bisogno di rivolgersi agli estremisti ed alle personalità marginali per trovare individui che rifiutano di imparare. Al fondo, l’intero movimento dell’austerità ha avuto torto da due anni e mezzo – torto sui tassi di interesse, torto sugli effetti dell’austerità sui PIL europei. Tuttavia, dov’è il ripensamento?

E lo sbaglio più completo sembra quello di non essere stati squalificati per l’essere considerati una fonte di saggezza. E’ difficile superare il record di questi sette o otto anni di Alan Greenspan: egli è passato dal negare l’esistenza di una bolla immobiliare (o persino dal negare che una bolla del genere fosse possibile), al dichiarare lo scoppio della bolla immobiliare nell’autunno del 2006 ed al dichiarare che i deficit degli Stati Uniti avrebbero prodotto elevata inflazione ed elevati tassi di interesse (in aggiunta alla espressione del suo disappunto perché niente del genere è sinora accaduto). Tuttavia egli era presente alla fondazione del movimento Fix the Debt [83], apparentemente ancora considerato come il Maestro [84].

Dunque, io ho imparato qualcosa ed ho modificato qualche mio punto di vista. Non sarebbe grazioso se altri facessero lo stesso, ogni tanto?

 

 

 

 

December 31, 2012, 2:48 pm

Conceder In Chief?

OK, I’ve had my own sorta-kinda briefing on the apparent fiscal cliff deal, and I’m pretty much with Noam Scheiber. Viewed on its own, it’s a bad and upsetting deal but not as terrible as initial rumors had it. But the strategic consequences are likely to be very bad indeed, and in very short order too.

As background, it’s important to understand what Obama clearly could have gotten just by going over the cliff. Basically, he could have gotten the whole of the Bush high-end tax cuts reversed, which would mean close to $800 billion in revenue over the next decade. What he couldn’t get, or at least couldn’t count on getting, were various spending items. This included the extension of unemployment benefits and various “refundables” on things like the Earned Income Tax Credit, that is, pieces of tax legislation that end up having the government cut checks to families instead of the other way around.

So what Obama appears to have done is trade away part of the revenue from high-income taxpayers in return for some of the spending items he wanted. Extended unemployment benefits for a year, and the refundables either extended in perpetuity or for 5 years.

The revenue loss seems to be on the order of $150 billion, or maybe a bit less. The reasons it isn’t bigger is that while the threshold for the top marginal rate is moving up to 450K, the thresholds for other things — phaseout of deductions, higher taxes on dividends and capital gains — aren’t going up, they’re staying at 250K.

And at least one positive thing can be said: no giveaway on Social Security, Medicare, or Medicaid. Basically, no spending cuts at all.

If you want think about the longer-term implications here, they’re ambiguous. The deficit is no problem right now, but there will eventually be a collision between the rising costs of social insurance programs and the inadequacy of the revenue base. Something will have to give.

There were two big risks, from a progressive point of view, in Obama’s eagerness to get a Grand Bargain. One was that he would allow the Bush tax cuts to be locked in, making it very hard to get additional revenue; the other was that he would give in on fundamental benefit cuts. Well, he did #1, partially, but didn’t do #2 at all. This sets up a future confrontation: it will be very hard for progressives to raise taxes, but also very hard for conservatives to cut those social programs.

I suppose the best case you can make here is that raising rates on the top 2 percent was never going to be enough anyway, so Obama getting less from that than he should have isn’t that big a deal. And the nightmare in which he cut Medicare and/or Social Security, only to have Republicans run against those cuts in 2014, seems to have been averted.

OK, now for the really bad news. Anyone looking at these negotiations, especially given Obama’s previous behavior, can’t help but reach one main conclusion: whenever the president says that there’s an issue on which he absolutely, positively won’t give ground, you can count on him, you know, giving way — and soon, too. The idea that you should only make promises and threats you intend to make good on doesn’t seem to be one that this particular president can grasp.

And that means that Republicans will go right from this negotiation into the debt ceiling in the firm belief that Obama can be rolled.

At that point he can redeem himself by holding firm — but because the Republicans don’t think he will, they will play tough, almost surely forcing him to actually hit the ceiling with all the costs that entails. And look, if I were a Republican I would also be betting that he’ll cave.

So Obama has set himself and the nation up for a much uglier confrontation than we would have had if he had set a negotiating position and held to it.

Update: I should mention that on one issue, the estate tax, the problem is apparently with the Senate; there are, unfortunately, some heartland Dem Senators who are extremely solicitous of the handful of super-wealthy families in their states, so that Obama’s people don’t think they can get a majority for higher taxes here. It’s bizarre: states like New Jersey have far more large estates, not just total but per capita, than states like Montana, but it’s the Senators from the latter that are eager to preserve the inherited privileges of the few.

 

31 dicembre 2012L’uomo delle concessioni [85]

E’ così, ho avuto una sorta di briefing [86] mio personale su quello che sembra essere l’accordo sul precipizio fiscale, e sono abbastanza d’accordo con Noam Scheiber. Considerato in sé, è un accordo negativo ed impressionante, ma non così terribile come sembrava dalle voci iniziali. Ma è probabile che le conseguenze strategiche siano in effetti assai negative, ed anche a brevissima scadenza.

Sullo sfondo, quello che è importante comprendere è quello che Obama avrebbe potuto chiaramente ottenere soltanto andando oltre il ‘precipizio’.  Fondamentalmente, egli avrebbe potuto ottenere che gli interi sgravi fiscali di lusso di Bush venissero cancellati, la qualcosa avrebbe significato un dato vicino a 800 miliardi di dollari di entrate nel prossimo decennio. Quello che egli non avrebbe ottenuto, o su cui almeno non avrebbe potuto  far conto, erano varie voci di spesa. Queste includevano la proroga dei sussidi di disoccupazione e vari oggetti di possibili “rimborsi”, come il Credito di Imposta sui redditi da salari e stipendi, che sono pezzi della legislazione fiscale nei quali il governo finisce col tagliare gli assegni alle famiglie, anziché fare l’opposto.

Dunque, quello che Obama sembra aver fatto è scambiare una parte delle entrate dai contribuenti degli alti redditi in cambio di alcune voci di spesa che voleva. I sussidi di disoccupazione prorogati di una anno ed i possibili rimborsi fiscali anch’essi prorogato in eterno o per cinque anni.

Le entrate perdute sembrano essere dell’ordine di 150 miliardi di dollari, o un po’ meno. La ragione per le quali esse non sono maggiori  è che la soglia della aliquota marginale sui redditi superiori sta salendo oltre i 450.000 dollari, le soglie per gli altri oggetti – eliminazione graduale sulle deduzioni, tasse più elevate sui dividendi e sui profitti da capitale – non stanno crescendo, restano sui 250.000 dollari.

Ed almeno una cosa positiva si può dire: nessuna concessione sulla Previdenza Sociale, su Medicare o su Medicaid. Fondamentalmente, proprio nessun taglio alla spesa pubblica.

Se a questo punto si vuol ragionare sulle implicazioni a più lunga scadenza, esse sono ambigue. In questo momento il deficit non è un problema, ma probabilmente ci sarà una collisione tra i programmi della assicurazione sociale e l’inadeguatezza della base delle entrate. Occorrerà sacrificare qualcosa.

C’erano due grandi rischi, dal punto di vista dei progressisti, in questa smania di Obama di ottenere una Grande Intesa. Uno era che egli avrebbe consentito la stabilizzazione degli sgravi fiscali di Bush, rendendo molto difficile procurarsi entrate addizionali;  l’altro era che avrebbe ceduto a tagli sui principali sussidi. Ebbene, egli ha fatto in parte la prima cosa, non ha fatto per niente la seconda. Questo prelude ad un  futuro scontro: sarà molto difficile per i progressisti alzare le tasse, ma sarà molto difficile per i conservatori tagliare quei programmi sociali.

Suppongo che la migliore ipotesi che si possa avanzare a questo proposito sia che aumentare le tasse sul due per cento dei redditi superiori non era destinato ad essere abbastanza in nessun modo, dunque il fatto che Obama abbia avuto meno di quello che avrebbe dovuto avere non è poi una gran soluzione. E l’incubo che egli tagli Medicare e/o la Previdenza Sociale, solo per avere i Repubblicani contrari ai quei tagli nel 2014, pare essere stato evitato.

Bene, passiamo ora alle notizie davvero cattive. Chiunque abbia prestato attenzione a questi negoziati, in particolare data la condotta precedente di Obama, non può fare a meno di arrivare a questa conclusione: ogni qualvolta il Presidente dice che c’è un tema sul quale egli assolutamente e con certezza non cederà, potete far conto che, come sapete, egli cederà, ad anche rapidamente. L’idea secondo la quale si dovrebbero soltanto fare promesse o minacce che poi si mantengono non sembra essere tra quelle che questo particolare Presidente riesce ad afferrare.

E questo significa che i Repubblicani usciranno per davvero da questi negoziati sul tetto del debito con il fermo convincimento che Obama possa essere rivoltato.

A questo punto egli potrebbe riscattarsi tenendo ferme le sue posizioni – ma dato che i Repubblicani pensano che non lo farà, giocheranno con durezza, quasi certamente costringendolo a sbattere sul tetto (del debito), con tutti i costi che questo comporterebbe. E badate, se fossi un repubblicano anch’io scommetterei nella sua capitolazione.

Dunque Obama ha predisposto se stesso e la nazione intera ad uno scontro assai più preoccupante di quello che sarebbe successo se avesse definito una posizione di negoziato e si fosse tenuto ad essa.

Aggiornamento: dovrei rammentare che su un aspetto, la tassa di successione, il problema è apparentemente con il Senato; ci sono, sfortunatamente, alcuni Senatori del centro democratico che sono estremamente solleciti con una manciata di super-ricchi dei loro Stati, cosicché in questo caso i sostenitori di Obama non pensano di poter avere una maggioranza per tasse più elevate. E’ bizzarro: Stati come il New Jersey hanno di gran lunga eredità più cospicue, non solo in totale ma procapite,  di Stati come il Montana, ma succede che i Senatori di questo secondo stato muoiano dalla voglia di preservare i privilegi ereditari della minoranza.

 

 

 

 



[1] Il Prodotto Nazionale Lordo indica la somma della produzione dei beni e dei servizi prodotti in un anno dai lavoratori e dai proprietari di un determinato paese, quindi si riferisce esclusivamente alla produzione di coloro che risiedono in quel paese. Il Prodotto Interno Lordo indica la somma dei beni e servizi prodotti entro i confini di un paese, dunque compresi anche quei beni e servizi prodotti da lavoratori e da imprese straniere.

[2] Pew Research Center, un centro di ricerca e di sondaggi.

[3] Penso che ci sia un errore, forse “markets” al posto di “markers”.

[4] Editorialista del New York Times.

[5] “National Public Radio” è una organizzazione no-profit, privata e pubblica, che unisce una rete di 900 stazioni radio degli Stati Uniti. Produce informazioni e programmi culturali.

 

 

[6] “401 (k)” è un genere di risparmio previdenziale che prende il suo nome da una sottosezione del “Codice delle Entrate nazionali” americano.

[7] Si noti che normalmente le note, le aggiunte, le correzioni o precisazioni nei posts, precedono gli articoli anziché essere riportate in calce.

[8] Si riferisce ad un suo precedente post del 21 novembre, nel quale aveva attaccato aspramente la CNBC (Consumer News and Business Channel), ma aveva anche espressamente fatto una eccezione per i servizi di Joe Weisenthal. La CNBC è un televisione americana di notizie economiche di proprietà della NBC Universal.

[9] Un blog economico americano che ha un notevole successo, in particolare tra gli operatori economici.

[10] Ovvero, alla analisi economica della recessione recente secondo i modelli della “trappola di liquidità”.

[11] Per “terms of trade” si intende la quantità di importazioni che possono essere acquistate attraverso un quantità definita di esportazioni. Dunque, un miglioramento dei “termini di scambio” di una nazione significa che quel paese può acquistare maggiori importazioni che non in precedenza, in cambio delle medesime esportazioni.

[12] “Gotcha” significa “capito! T’ho beccato! Capisco dove vuoi arrivare”. Sostantivizzato, rappresenta la categoria di coloro che usano a un certo scopo  quella espressione. Oppure, come nella frase successiva, rappresenta uno smascheramento, ovvero l’atto del fare un “gotcha”. Chi dice “gotcha” ma sbaglia, fa un “gotcha” su se stesso.

[13] La differenza tra “political” e “policy” non è semplice a dirsi né mi pare sia chiarita nei dizionari e bisogna provare ad interpretarla. Nella frase sopra hanno entrambi una funzione di aggettivazione, e tradurla sarebbe arduo (verrebbe: “la convenienza politica e della politica”). Ma mentre “political”, in quanto aggettivo corrispondente a “politics”, rimanda solo al concetto generale di “politica” e serve a definire l’esercizio del governo, le azioni, i metodi, i principi e le opinioni della politica; “policy” ha il significato – oltre che di “politica” – anche di “accortezza, avvedutezza, scaltrezza, furberia”. Nel caso di cui sopra, dunque, mi pare che si possa distinguere tra “posizione politica” e “convenienza politica”. Ma non è così semplice, perché talvolta l’implicito significato di “avvedutezza” nel termine “policy” mi è sembrato connotasse qualcosa che in italiano corrisponderebbe alla espressione “linea” o “strategia” politica”; in quel caso distinta da una “politics” che darebbe di più sul versante del “rapporti politici” (ovvero, praticamente il contrario della spiegazione precedente!) Se c’è qualcuno tra i lettori che può spiegarlo meglio, ha il mio indirizzo ….

[14] La traduzione di “slum dunk” è assai improvvisata, ma siccome significa anche l’azione – nel basket – di mettere la palla nel canestro schiacciandola con le due mani …

[15] Non mi è chiaro cosa si intenda, ma ho trovato articoli che parlano di robe del genere per i ‘misuratori’ della velocità sulle strade …. O forse anche per i giochi d’azzardo.

[16] La tabella precedente è una delle più significative nel dimostrare come, in condizioni di ‘trappola di liquidità’ (ovvero di tassi di interesse prossimi al limite dello zero) un aumento della base monetaria derivante da un incremento dei deficit, non comporta una inflazione fuori controllo. La riga blu l’incremento della base monetaria, quella rossa indica l’andamento dei prezzi al consumo.

[17] Peter Schiff è un commentatore ed analista finanziario, nonché amministratore delegato della Euro Pacific Capital Inc e della Euro Pacific Precious Metals.

[18] A proposito di “austrians”, ovvero di una potente scuola di orientamenti economici che ebbe inizio da alcuni economisti austriaci, si vedano le Note finali alla traduzione.

[19] Economista che scrive sul blog “Pragmatic Capitalism”.

[20] Storico e soprattutto conservatore ed ex collaboratore di Reagan.

[21] Ovvero, i sondaggi disposti dai suoi collaboratori.

[22] Esperto di sondaggi del New York Times.

[23] Si riferisce all’infortunio di Romney nel secondo confronto televisivo, quando il repubblicano aveva sostenuto che ad Obama erano stati necessari molti giorni per denunciare la radice terroristica della aggressione alla Ambasciata statunitense a Bengasi, costringendo la stessa moderatrice del confronto a chiarire che in realtà Obama l’aveva detto sin dall’inizio. Si trattava di una versione che era stata messa in circolazione in precedenza dal canale televisivo di destra Fox News.

[24] Conduttore televisivo della Fox. Ovviamente conservatore, sia pure con qualche posizione differenziata (in materia di pena di morte, di ambiente e di controllo delle armi).

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[25] Letteralmente, non “negoziano con se stessi”. Ovvero, nel confronto politico non tendono a partire da soluzioni di compromesso da essi stessi immaginate in partenza, cioè ‘mediate con se stessi’.

[26] Per il concetto di “limite inferiore di zero” (come per quello di “trappola di liquidità”) si vedano le note finali sulla traduzione.

[27] Ryan Avent è corrispondente del The Economist; Tyler Cowen è un noto economista, pubblicista e professore alla George Mason University. Ecco le loro foto.

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[28] Vedi il post precedente del 27 novembre.

[29] Vedi Note finali della traduzione.

[30] E’ il nome di una agenzia prevista dalla legge di riforma di Obama, appunto per il contenimento ragionevole delle spese sanitarie.

[31] Per “death panel”, vedi alle Note finali della traduzione.

[32] Il diagramma è davvero interessante: in un periodo che va dal 2009 al 2019 sono indicati gli effetti sul debito della crisi economica, delle spese per la ripresa e per i salvataggi della banche,  delle guerre e degli sgravi fiscali del periodo Bush. Tali effetti sono espressi in migliaia di miliardi di dollari (di restituzione del debito). La fascia gialla corrisponde al debito delle guerre, quella marroncina agli sgravi fiscali dell’epoca di Bush, quelle celeste e celeste scura alle misure per la ripresa ed ai salvataggi finanziari, quella blu agli effetti diretti della crisi economica, e quella in basso in bianco ad altri fattori.

[33] La connessione è con un vecchio articolo sulla rivista Slate, a proposito della situazione economica della Malesia e di un imbarazzante colloquio che in quella occasione Krugman ebbe con il Primo Ministro Mahathir Moahmad.

[34] Il primo è un commentatore politico americano e consulente sotto Nixon, Ford, Reagan e Clinton. La seconda è una giornalista, esperta di politica ed editorialista.

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[35] Nuove entrate, chiaramente.

 

[36] Probabilmente un errore, per “subhead”.

[37] Penso che stia per “Domande e Risposte”.

[38] Vedi Note finali sulla traduzione.

[39] James Tobin (Champaign, 5 marzo 1918New Haven, 11 marzo 2002) è stato un economista statunitense, vincitore del Premio Nobel per l’economia nel 1981.  Laureato presso l’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign e alla Harvard University, ove iniziò la sua attività di docente, fu consulente della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti e consigliere economico del presidente John F. Kennedy. Insegnò per anni, a partire dal 1955, alla Yale University. Nel 1981 gli fu conferito il Premio Nobel per l’economia per “la sua analisi dei mercati finanziari e le loro relazioni con le decisioni di spesa, con l’occupazione, con la produzione e con i prezzi”.  Tobin è noto per la sua proposta di tassazione sulle transazioni internazionali (la “Tobin tax“) e per la teoria chiamata “q di Tobin“. Tale teoria afferma che il valore di mercato del pacchetto azionario di un’impresa è in grado di misurare la differenza tra il capitale desiderato dall’impresa e il capitale effettivamente posseduto da questa.

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[40] I “triangoli di Harberger” è una espressione con la quale solitamente ci si riferisce ad una inefficienza nella allocazione delle risorse (espressa si un grafico dell’offerta e della domanda) dipendente da azioni del governo in un mercato teoricamente perfetto (prezzi amministrati, tasse, tariffe etc.).

La “Legge di Okun” indica invece una relazione empiricamente osservata tra la disoccupazione e le perdite della produzione in un paese. Nel caso di un “gap” la relazione solitamente indica che con un tasso di disoccupazione più elevato di un 1 per cento, grosso modo si determinerà un impoverimento del PIL rispetto al PIL potenziale del 2 per cento.

Quindi, l’ironica espressione di Tobin stava a significare che ci vogliono molti errori o difetti “micro” di politica statale per fare il danno di un difetto strutturale e “macro” dell’economia.

[41] Penso che si tratti di una espressione ironica, che sta a significare una tendenza politica al compromesso. Infatti,  Earl Browder (Wichita, 20 maggio 1891Princeton, 27 giugno 1973) è stato un politico e sindacalista statunitense, importante esponente del sindacalismo internazionalista, marxista-leninista della prima ora e segretario generale del Partito Comunista degli Stati Uniti d’America. Dopo la seconda guerra mondiale, con l’inizio della “guerra fredda”, promosse una propria via di conciliazione tra capitalismo e comunismo, con il che venne ovviamente scomunicato.. In questo contesto “browderismo” dovrebbe significare, mutuando ironicamente un linguaggio da Terza Internazionale, una tendenza a fare compromessi. E questo è Mr. Browder, che sembrerebbe  invece proprio una persone per bene.

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[42] Nota ironica, nel senso che le infrastrutture americane sono in costante peggioramento.

[43] Letteralmente “capital-biased” significa “orientato verso il capitale”.

[44] Traduzione del titolo del diagramma: “Parte dei compensi sul Reddito interno lordo”. Significa il rapporto tra la componente dei salari degli occupati ed il reddito complessivo interno di un paese.

[45] Il titolo del grafico è: “Partecipazione del lavoro nel prodotto delle imprese non agricole, dal primo trimestre del 1947 al terzo trimestre del 2010.

[46] Nel testo è scritto Tecnologia B, ma mi pare evidentemente un errore.

[47] In tutta la spiegazione, una difficoltà (per lettori non esperti come me) deriva dal fatto che non possiamo leggere nel diagramma il segno dell’andamento dei salari reali (e, come è noto, per ‘salario reale’ si intende il salario corretto ed adeguato all’andamento dell’inflazione). Mi pare però evidente che nel diagramma – che sulla linea verticale ha la produzione e su quella delle scisse ha l’occupazione, mentre le curve indicano la componente del capitale espressa in tre diverse situazioni della tecnologia  – l’ammontare complessivo dei salari reali  è espresso proprio dalla linea dell’occupazione. Se l’occupazione cresce, l’ammontare dei salari reali cresce nello stesso modo (in termini appunto complessivi, ovvero a prescindere dalle diverse evoluzioni dei salari nei singoli settori). Se si considerano la curve delle tre tecnologie, è evidente che ad ogni evoluzione della inclinazione di quelle curve corrisponde una quantità di occupazione e dunque di ammontare complessivo dei salari. Per capire, dunque, quanto crescono i salari reali in rapporto alle variazioni delle tecnologie, è sufficiente che  da un punto qualsiasi di quelle curve si immagini una linea verticale verso il basso che vada ad incrociare la linea dell’occupazione. Come si vede la curva originaria e la curva A  hanno una inclinazione (“slope”) che, proiettata sulla linea della occupazione-salari, mostra effetti molto più rapidi  che non la curva B. Per quasi tutta il percorso (ovvero la durata) della curva B si ottengono livelli di produzione molto più elevati con livelli di occupazione molto più bassi. Il che significa appunto che i salari reali sono più bassi. Soltanto quando si perviene alla linea blu, ovvero a condizioni di piena occupazione, l’inclinazione delle tre curve produce gli stessi effetti sui salari reali.

[48] Per “austriaci” in economia, vedi e note finali sulla traduzione.

[49] Vedi le note finali sulla traduzione.

[50] Come si è capito queste frasi con le maiuscole sono una forma di ironia, indicano le cose presunte importanti, gli appellativi indiscutibili del senso comune etc.

[51] Jeb Bush, all’anagrafe John Ellis Bush (Midland, 11 febbraio 1953), è un politico statunitense. Repubblicano, occupava la carica di 43º governatore della Florida. Jeb è un esponente della famiglia Bush: è infatti figlio del 41° presidente degli Stati Uniti George Herbert Walker Bush e fratello minore del 43° George W. Bush. L’appellativo di “grande economista” è chiaramente ironico, ma eccolo con il fratello:

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[52] Il “modello IS-LM” è quello che Krugman considera il punto cruciale del contributo di John Richard Hicks alla teoria economica. Troviamo spesso, in queste pagine, riferimenti a tale modello, e ci è sembrato opportuno provare a fornire, nelle Note sulla traduzione, un qualche tentativo di spiegazione di tutta questa materia. Per questo abbiamo aggiunto ora una nota, sotto la voce “Modello IS – LM”, alla quale si rinvia.

La lettura del diagramma, che ipotizza una situazione di “trappola di liquidità”, è la seguente: sull’asse verticale abbiamo il tasso di interesse, su quello orizzontale il PIL, la linea IS indica la tendenza dell’aggregato che Hicks definisce “Investimenti-Risparmi”, la linea grigia indica la situazione della piena occupazione. La “trappola di liquidità”, dunque, può essere letta in questo modo: quando – ad esempio a seguito di un shock finanziario che costringe ad una rapida riduzione dell’indebitamento – la linea IS scende rapidamente (perché crolla l’aggregato ‘investimenti-risparmi’), essa provoca una brusca discesa del tasso di interesse sino quasi al limite dello zero (qua lo zero è il punto di incontro tra tasso di interesse e PIL). Ma, a quel punto, incontrare la linea della piena occupazione diviene impossibile, nel senso che – senza altri interventi – il tasso di interesse dovrebbe risultare negativo, scendere oltre il limite inferiore di zero, il che è impossibile. Il termine “trappola di liquidità” sta appunto a significare che in quelle condizioni scatta la propensione alla liquidità, ovvero alla pura e semplice conservazione del denaro. Come Krugman spiega nelle frasi successive …

 

 

[53] “Grey Lady” è un soprannome del New York Times. Originariamente si riferiva alla tendenza ad utilizzare proporzioni più alte dell’usuale dei testi rispetto alla grafica.

[54] Il linguaggio è estremo, ma “SADS” è un acronimo per “Sudden Adult Death Syndrome”, ovvero per una sindrome di morte improvvisa che colpisce adulti in buona salute senza che si possa comprenderne l’origine.

[55] Talora la destra definisce come lo “Zio Paul” Paul Krugman, ad esprimere un insulto verso Brad DeLong , che sarebbe una specie di “nipotino” decerebrato dell’amico economista più famoso.

[56] Professoressa di “economia e retorica delle scienze umane” alla Università dell’Illinois, Chicago.

[57] Devo provare ad indovinare. Cosma Shalizi parrebbe corrispondere ad un professore associato  di statistica alla Carnegie Mellon University, Pittsburgh, Pennsylvania. Una specializzazione che, se l’individuo è effettivamente quello in questione, che riguarderebbe l’economia in senso lato, spaziando dalla statistica alle neuroscienze … Tra le sue fissazioni sembrerebbe esserci anche la redazione di un blog con mezzi molto poveri, e questo forse spiegherebbe la stranezza per la quale brani del suo intervento non appaiono trascrivibili con i caratteri del NYT. Ma forse questa spiegazione, che fornisce Krugman, è semplicemente un’ironia, e quei brani sono un pochino troppo volgari. Nel complesso, lo scritto di costui sembra evidente un po’ liquidatorio nei confronti di DeLong, e questo parrebbe giustificare la conclusione malinconica di Krugman. Mancando un link nel testo, non riesco a capire dove Shalizi abbia scritto il suo irriverente commento, e quale sia il suo rapporto con la Heritage Foundation, notoriamente una organizzazione culturale della destra americana.

[58] Il blog è “Advice Unasked” (“Consigli non richiesti”), e il post in questione è apparso il 25 marzo del 2011.

[59] A proposito di queste due scuole economiche americane, vedi le Note sulla traduzione (“freshwater etc.”.

[60] E la connessione, naturalmente, è con lo scritto di Karl Marx “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”. Nella Francia post monarchica, il colpo di Stato del 18 brumaio, anno VIII della Rivoluzione (9 novembre 1799), compiuto da Napoleone Bonaparte, segnò la fine del Direttorio e della Rivoluzione stessa, dando inizio al Consolato guidato dalle personalità di Bonaparte, Sieyès e Ducos. Ma questo era il 18 Brumaio del Bonaparte Zio; mentre lo scritto di Marx si riferiva al Bonaparte Nipote, ovvero a Luigi. Per l’appunto, secondo Marx, se il primo  “18 Brumaio” era stato una tragedia, il secondo era stato una farsa.

Questa è la citazione effettiva, alla prima riga del libro di Marx: “Hegel dice da qualche parte che i grandi fatti ed i personaggi della storia ricorrono due volte. Egli dimenticò di dire: ‘Una volta come tragedia e poi ancora come farsa’. Caussidiere per Danton, Louis Blanc per Robespierre,  la ‘Montagna’ del 1848-51 per la ‘Montagna’ del 1793-1805, il Nipote per lo Zio …..”.

[61] Ovvero, che è fuorviante e dannoso utilizzare le politiche monetarie o della spesa pubblica per uscire dalle crisi, giacché le crisi stesse sono la strada salutare attraverso la quale il capitalismo supera le suo distorsioni e ritrova i propri equilibri di mercato. Ovvero, ciò che con le crisi viene distrutto doveva essere distrutto, perché era un impaccio al funzionamento migliore del sistema capitalistico. La quale tesi è una aggiornata versione delle opinioni degli “austriaci” in opposizione al keynesismo; (ad esempio, era stata con assoluta chiarezza già espressa da Schumpeter nella crisi degli anni ’30).

[62] Di solito il venerdì sera Krugman inserisce tra i suoi posts uno spettacolo musicale (che io non ho la tecnica  replicare su questi fogli di ‘window’ …).

[63] Per l’espressione “guardiani dei bonds” vedi le Note finali sulla traduzione.

[64] Il riferimento è al post del 9 novembre “La semplice analitica degli invisibili  guardiani dei bonds”.

[65] In economia gli aggregati monetari sono grandezze aggregate che esprimono la quantità complessiva, esistente in un determinato momento nel sistema economico, di moneta e di attività finanziarie che, per il loro grado di liquidità, possono svolgere le stesse funzioni della moneta (la cosiddetta quasi-moneta).

Lo M1 (o liquidità primaria) comprende le banconote e le monete in circolazione (il circolante), nonché le altre attività finanziarie che possono fungere da mezzo di pagamento, quali i depositi in conto corrente, se trasferibili a vista mediante assegno, e i traveler’s cheque; non vengono fatte rientrare in questo aggregato le banconote e monete depositate, quindi non in circolazione, per evitare il doppio conteggio, una volta come banconote e monete, l’altra come depositi in conto corrente (Wikipedia).

[66] Vedi le Note finali sulla traduzione.

[67] In informatica il termine Server Farm (letteralmente Fattoria di Server) (anche chiamata webfarm) è utilizzato per indicare una serie di server collocati in un ambiente unico in modo da poterne centralizzare la gestione, la manutenzione e la sicurezza.

[68] Ovvero nella linea blu, definita come la “tecnologia originaria”.

[69] In economia, luogo dei punti corrispondenti alle varie combinazioni di due fattori produttivi che, date certe condizioni della tecnica, permettono al produttore di ottenere la stessa quantità di prodotto.

[70] Libertà è “freedom”; “Freedom works” è il nome di una associazione di destra ispirata al Tea Party.

[71] Richard Keith “Dick” Armey è stato deputato alla Camera dei Rappresentanti (1985-2003) e leader della maggioranza repubblicana alla Camera (dal 1995 al 2003). Fu uno degli artefici della “rivoluzione Repubblicana” degli anni ’90, con la quale i repubblicani ottennero, per la prima volta dopo quaranta anni, la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. E’ stato professore di economia ed autore di alcune pubblicazioni. Dopo l’esperienza congressuale ha lavorato come consulente e lobbysta.

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[72] Come è noto, nei giorni recenti, dopo la strage con 27 morti nel Connecticut, la destra estrema ha sostenuto che l’unico modo per impedire le stragi nelle scuole da parte di persone armate è quello di armare i dipendenti delle scuole.

[73] Economista americano, professore di Scienze Sociali alla Northwestern University.

[74] Un film di Spielberg di quest’anno.

[75] Skynet è un’immaginaria rete di supercomputer descritta nel ciclo cinematografico di Terminator.

[76] Ovvero, su una visione non solo pessimistica, ma orwelliana, totalitaria, con una società spaccata in due.

[77] Non sono sufficientemente esperto … Suppongo che “cap” stia per tetto, nel senso che la tassa sugli stipendi dovrebbe essere composta da una componente a carico degli imprenditori e da una componente nella forme di trattenute sui lavoratori. Ma non ne sono certo.

[78] “Distopia” è il contrario di utopia, ovvero una futuro indesiderabile, normalmente caratterizzato da una società totalitaria (diciamo, alla Orwell).

[79] Per i termini “precipizio fiscale” e “tetto del debito” (“Fiscal cliff” e “debt ceiling”) vedi le note finali sulla traduzione.

[80] E’ il titolo italiano del libro, che semplifica molto la traduzione …. “Unraveling” è il participio presente del verbo “to unravel” (o se si vuole il sostantivo corrispondente a quel verbo)  che significa “sbogliare, districare”.

[81] Grover Glenn Norquist, nato nel 1956, è un conservatore su posizioni estreme, fondatore e presidente della associazione   Americans for Tax Reform.

[82] Ovvero, con le prossime elezioni di medio termine.

[83] Riparare/correggere/riformare il debito ….

[84] E’ l’appellativo con il quale Greenspan veniva chiamato negli anni della sua Presidenza alla Fed.

[85] E un gioco di parole che non riesco a restituire più direttamente, tra “Comandante in capo” (il famoso attributo di “Commander in Chief” che la Costituzione americana prevede per il Presidente) e “Conceder in Chief” , che letteralmente sarebbe “Concessore in Capo”.

[86] Un “briefing” è una riunione, al livello di una azienda o di gerarchie militari, per impartire istruzioni operaive.

[1] Il Prodotto Nazionale Lordo indica la somma della produzione dei beni e dei servizi prodotti in un anno dai lavoratori e dai proprietari di un determinato paese, quindi si riferisce esclusivamente alla produzione di coloro che risiedono in quel paese. Il Prodotto Interno Lordo indica la somma dei beni e servizi prodotti entro i confini di un paese, dunque compresi anche quei beni e servizi prodotti da lavoratori e da imprese straniere.

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