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Il Big Deal (New York Times 20 gennaio 2013)

 

The Big Deal

By PAUL KRUGMAN
Published: January 20, 2013

 

On the day President Obama signed the Affordable Care Act into law, an exuberant Vice President Biden famously pronounced the reform a “big something deal” — except that he didn’t use the word “something.” And he was right.

In fact, I’d suggest using this phrase to describe the Obama administration as a whole. F.D.R. had his New Deal; well, Mr. Obama has his Big Deal. He hasn’t delivered everything his supporters wanted, and at times the survival of his achievements seemed very much in doubt. But if progressives look at where we are as the second term begins, they’ll find grounds for a lot of (qualified) satisfaction.

Consider, in particular, three areas: health care, inequality and financial reform.

Health reform is, as Mr. Biden suggested, the centerpiece of the Big Deal. Progressives have been trying to get some form of universal health insurance since the days of Harry Truman; they’ve finally succeeded.

True, this wasn’t the health reform many were looking for. Rather than simply providing health insurance to everyone by extending Medicare to cover the whole population, we’ve constructed a Rube Goldberg device of regulations and subsidies that will cost more than single-payer and have many more cracks for people to fall through.

 

But this was what was possible given the political reality — the power of the insurance industry, the general reluctance of voters with good insurance to accept change. And experience with Romneycare in Massachusetts — hey, this is a great age for irony — shows that such a system is indeed workable, and it can provide Americans with a huge improvement in medical and financial security.

What about inequality? On that front, sad to say, the Big Deal falls very far short of the New Deal. Like F.D.R., Mr. Obama took office in a nation marked by huge disparities in income and wealth. But where the New Deal had a revolutionary impact, empowering workers and creating a middle-class society that lasted for 40 years, the Big Deal has been limited to equalizing policies at the margin.

 

That said, health reform will provide substantial aid to the bottom half of the income distribution, paid for largely through new taxes targeted on the top 1 percent, and the “fiscal cliff” deal further raises taxes on the affluent. Over all, 1-percenters will see their after-tax income fall around 6 percent; for the top tenth of a percent, the hit rises to around 9 percent. This will reverse only a fraction of the huge upward redistribution that has taken place since 1980, but it’s not trivial.

 

Finally, there’s financial reform. The Dodd-Frank reform bill is often disparaged as toothless, and it’s certainly not the kind of dramatic regime change one might have hoped for after runaway bankers brought the world economy to its knees.

Still, if plutocratic rage is any indication, the reform isn’t as toothless as all that. And Wall Street put its money where its mouth is. For example, hedge funds strongly favored Mr. Obama in 2008 — but in 2012 they gave three-quarters of their money to Republicans (and lost).

All in all, then, the Big Deal has been, well, a pretty big deal. But will its achievements last?

 

Mr. Obama overcame the biggest threat to his legacy simply by winning re-election. But George W. Bush also won re-election, a victory widely heralded as signaling the coming of a permanent conservative majority. So will Mr. Obama’s moment of glory prove equally fleeting? I don’t think so.

For one thing, the Big Deal’s main policy initiatives are already law. This is a contrast with Mr. Bush, who didn’t try to privatize Social Security until his second term — and it turned out that a “khaki” election won by posing as the nation’s defender against terrorists didn’t give him a mandate to dismantle a highly popular program.

And there’s another contrast: the Big Deal agenda is, in fact, fairly popular — and will become more popular once Obamacare goes into effect and people see both its real benefits and the fact that it won’t send Grandma to the death panels.

Finally, progressives have the demographic and cultural wind at their backs. Right-wingers flourished for decades by exploiting racial and social divisions — but that strategy has now turned against them as we become an increasingly diverse, socially liberal nation.

 

Now, none of what I’ve just said should be taken as grounds for progressive complacency. The plutocrats may have lost a round, but their wealth and the influence it gives them in a money-driven political system remain. Meanwhile, the deficit scolds (largely financed by those same plutocrats) are still trying to bully Mr. Obama into slashing social programs.

 

So the story is far from over. Still, maybe progressives — an ever-worried group — might want to take a brief break from anxiety and savor their real, if limited, victories.

 

Il Big Deal [1], di Paul Krugman

New York Times 20 gennaio 2013

 

Il giorno che il Presidente Obama appose la firma sulla legge per la Assistenza Sostenibile, un esuberante Vice Presidente Biden definì la riforma una “specie di grande affare”, salvo che non disse “una specie”. Ed aveva ragione.

 

Suggerirei, in effetti, di utilizzare questa frase per descrivere nel suo complesso la Amministrazione Obama. Franklin Delano Roosevelt ebbe il suo New Deal: ebbene, Obama ha il suo Big Deal. Egli non ha messo in atto tutto quello che i suoi sostenitori desideravano, e talvolta il mantenimento dei suoi propositi è parso molto in dubbio. Ma se i progressisti guardano al punto a cui siamo all’inizio del secondo mandato, troveranno ragioni per un bel po’ di soddisfazione.

Si considerino, in particolare, questi tre settori: assistenza sanitaria, ineguaglianza e riforma della finanza.

La riforma sanitaria è, come suggerì Biden, collocata al centro del Big Deal. I progressisti hanno cercato di ottenere una qualche forma di assicurazione sanitaria universale sin dai giorni di Harry Truman; finalmente ci sono riusciti.

E’ vero, non è questa la riforma sanitaria che molti avevano in mente. Piuttosto che fornire la assicurazione sanitaria a tutti estendendo Medicare sino a coprire l’intera popolazione, abbiamo costruito un congegno di regole e di sussidi  alla Rube Goldberg [2] che costerà più della soluzione con un unico centro di pagamenti e scricchiolerà in più punti [3] quando la gente ci passerà in mezzo.

Ma questo è stato quello che  era possibile data la situazione politica – il potere del settore delle assicurazioni e la diffusa riluttanza degli elettori con una buona assicurazione ad accettare cambiamenti. E l’esperienza con la riforma della assistenza di Romney nel Massachusetts – ehi, è un gran momento per le battute [4]! – mostra che un sistema del genere è in effetti funzionante, e può fornire agli americani un ampio miglioramento di sicurezza sanitaria e finanziaria.

Che dire dell’ineguaglianza? Su quel fronte, dispiace dirlo, il Big Deal non è proprio all’altezza del New Deal. Obama entrò in carica in una nazione segnata da grandi disparità nei redditi e nella ricchezza. Ma dove il New Deal ebbe conseguenze rivoluzionarie, rafforzando i lavoratori e creando una classe media che è durata quarant’anni, il Big Deal si è limitato ad rendere più eque le politiche nei casi più estremi.

Ciò detto, la riforma sanitaria fornirà un aiuto sostanziale all’area medio bassa della distribuzione del reddito, in larga parte pagato da nuove tasse a carico dell’uno per cento dei più ricchi, e l’accordo sul “precipizio fiscale” ulteriormente aumenta le tasse sui benestanti. Nel complesso, l’uno per cento dei più ricchi vedrà il proprio reddito dopo le tasse abbassarsi di circa un 6 per cento, mentre per lo 0,1 per cento dei ricchissimi, l’effetto salirà a circa il 9 per cento. Questo invertirà solo in una minima parte l’ampia redistribuzione del reddito verso l’alto che prese piede sin dal 1980, ma non è banale.  

Infine, c’è la riforma del sistema finanziario. Il progetto di riforma Dodd-Frank è spesso denigrato come inefficace, e certamente non è quel genere di mutamento spettacolare che si poteva sperare dopo che banchieri fuori controllo misero l’economia mondiale in ginocchio.

Eppure, se la rabbia dei plutocrati ci dice qualcosa, la riforma non è così priva di mordente. E Wall Street mette i suoi soldi dove trae vantaggi. Ad esempio, gli hedge funds favorirono fortemente Obama nel 2008 – ma nel 2012 hanno dato (e perso) tre quarti del loro denaro ai Repubblicani.

Ebbene, tutto considerato, dunque, il Big Deal è stato abbastanza un ‘grande affare’. Ma i suoi risultati saranno duraturi?

Obama ha superato il più grande pericolo al suo mandato semplicemente venendo rieletto. Ma anche George W. Bush venne rieletto, con una vittoria che venne ampiamente presentata come il segno della affermazione di una permanente maggioranza conservatrice. Il momento di gloria di Obama sarà nello stesso modo passeggero? Io non lo credo.

Da una parte, le iniziative politiche principali del Big Deal sono già legge. Questa è una condizione opposta a quella di Bush, che non cercò di privatizzare la Previdenza Sociale sino al suo secondo mandato – e si scoprì che elezioni “in grigioverde” [5], vinte atteggiandosi come difensore della nazione contro i terroristi, non gli davano la delega a smantellare un servizio molto popolare.

E c’è un’altra cosa all’opposto: la agenda del Big Deal è, nei fatti, discretamente popolare – e diventerà più popolare una volta che la riforma sanitaria di Obama entrerà in funzione e la gente vedrà i suoi vantaggi, nonché constaterà di non essere costretta a spedire la “Nonna” alle ‘giurie della morte’ [6].

Infine, i progressisti hanno nelle loro vele il vento della demografia e della cultura. La destra ha prosperato per decenni sfruttando le divisioni razziali e sociali – ma quella strategia le si è ora rivoltata contro, dal momento che diventiamo sempre di più una nazione, nelle sue caratteristiche sociali,  pluralista e liberale.

Ora, niente di quello che ho detto dovrebbe essere considerato come un terreno di autocompiacimento per i progressisti. I plutocrati possono aver perso una battaglia, ma resta intatta la loro ricchezza, nonché l’influenza che da essa deriva in un sistema politico guidato dal denaro. Nel frattempo, gli allarmisti del deficit (ampiamente finanziati da quegli stessi plutocrati) stanno ancora cercando di intimidire Obama e di costringerlo al taglio dei programmi sociali.

Dunque, la storia è lungi dall’essersi conclusa. Eppure i progressisti – individui sempre inquieti – possono decidere di prendersi una pausa nella loro ansia e gustarsi le loro, seppur limitate, vittorie.



[1] “Deal” è un termine con vari significati (affare, accordo, corso). Nel caso del “new deal” rooseveltiano il senso era quello di “nuovo corso”, ma nel caso del neologismo che viene proposto per Obama in questo articolo, mi pare che il senso sia più quello di un “grande affare”.

[2] Rube Goldberg fu un grande fumettista americano, che nel 1948 vinse un Premio Pulitzer per la satira. Era famoso per i buffi macchinari che inseriva nei suoi fumetti; oggetti complicatissimi per fare cose semplicissime, come illustrato nell’esempio qua sotto:

rube goldberg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[3] “Cracks” significa “crepa, schiocco, schianto etc.”. E “fall through the cracks” si traduce con “passare inosservati”, ovvero transitare senza scricchiolii.

[4] Come abbiamo ricordato più volte, la ‘tecnica’ della riforma di Obama paradossalmente assomiglia molto a quella precedentemente messa in atto da Romney, con una legge statale approvata mentre era Governatore del Massachusetts. In sostanza, in entrambi i casi il meccanismo è stato quello di rendere obbligatorio il ricorso alle assicurazioni – in quel modo evitando che i soggetti più giovani ed in buona salute, rinviando la assicurazione, mettessero in crisi gli equilibri finanziari delle assicurazioni – e di assistere con sussidi pubblici le persone più povere nel pagamento di tale obbligo. Il paradosso, appunto, è che Romney, per assecondare la base conservatrice del Partito Repubblicano, ha dovuto fare una campagna elettorale contro una riforma assai simile a quella che aveva sperimentato per primo.

[5] “Vestire in grigioverde” in italiano significa “servire l’Esercito”, e penso sia l’equivalente del “khaki” nel testo.

[6] Il più frequente ritornello della destra contro la riforma della assistenza di Obama è stato quello per il quale essa avrebbe costretto – per ottenere risparmi su Medicare –  a ‘staccare la spina alla Nonna’, ovvero a far decidere della vita e della morte delle persone anziane a ‘giurie’ di burocrati. In particolare questo fu un motivo della campagna contro la riforma del Tea Party. La polemica ebbe la sua efficacia, ancorché pretestuosa, giacché nessuno avrebbe deciso sulla continuazione di pratiche terapeutiche di mero mantenimento in vita, ma solo della loro completa gratuità. Ma i militanti del Tea Party, in quei giorni del 2011, invasero i municipi americani, nei quali si tennero assemblee sulla riforma, con cartelli ispirati a tale argomento.

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