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Il Giappone si tira fuori (13 gennaio 20134)

 

Japan Steps Out

By PAUL KRUGMAN
Published: January 13,

 

For three years economic policy throughout the advanced world has been paralyzed, despite high unemployment, by a dismal orthodoxy. Every suggestion of action to create jobs has been shot down with warnings of dire consequences. If we spend more, the Very Serious People say, the bond markets will punish us. If we print more money, inflation will soar. Nothing should be done because nothing can be done, except ever harsher austerity, which will someday, somehow, be rewarded.

But now it seems that one major nation is breaking ranks — and that nation is, of all places, Japan.

This isn’t the maverick we were looking for. In Japan governments come and governments go, but nothing ever seems to change — indeed, Shinzo Abe, the new prime minister, has had the job before, and his party’s victory was widely seen as the return of the “dinosaurs” who misruled the country for decades. Furthermore, Japan, with its huge government debt and aging population, was supposed to have even less room for maneuver than other advanced countries.

But Mr. Abe returned to office pledging to end Japan’s long economic stagnation, and he has already taken steps orthodoxy says we mustn’t take. And the early indications are that it’s going pretty well.

 

Some background: Long before the 2008 financial crisis plunged America and Europe into a deep and prolonged economic slump, Japan held a dress rehearsal in the economics of stagnation. When a burst stock and real estate bubble pushed Japan into recession, the policy response was too little, too late and too inconsistent.

To be sure, there was a lot of spending on public works, but the government, worried about debt, always pulled back before a solid recovery could get established, and by the late 1990s persistent deflation was already entrenched. In the early 2000s the Bank of Japan, the counterpart of the Federal Reserve, tried to fight deflation by printing a lot of money. But it, too, pulled back at the first hint of improvement, and the deflation never went away.

That said, Japan never had the kind of employment and human disaster we’ve experienced since 2008. Indeed, our policy response has been so inadequate that I’ve suggested that American economists who used to be very harsh in their condemnations of Japanese policy, a group that includes Ben Bernanke and, well, me, visit Tokyo to apologize to the emperor. We have, after all, done even worse.

 

And there’s another lesson in Japan’s experience: While getting out of a prolonged slump turns out to be very difficult, that’s mainly because it’s hard getting policy makers to accept the need for bold action. That is, the problem is mainly political and intellectual, rather than strictly economic. For the risks of action are much smaller than the Very Serious People want you to believe.

 

Consider, in particular, the alleged dangers of debt and deficits. Here in America, we are constantly warned that we must slash spending now now now or we’ll turn into Greece, Greece I tell you. But Greece, a country without a currency, doesn’t look much like the United States; surely Japan offers a more relevant model. And while doomsayers keep predicting a fiscal crisis in Japan, hyping each uptick in interest rates as a sign of the imminent apocalypse, it keeps not happening: Japan’s government can still borrow long term at a rate of less than 1 percent.

 

Enter Mr. Abe, who has been pressuring the Bank of Japan into seeking higher inflation — in effect, helping to inflate away part of the government’s debt — and has also just announced a large new program of fiscal stimulus. How have the market gods responded?

 

The answer is, it’s all good. Market measures of expected inflation, which were negative not long ago — the market was expecting deflation to continue — have now moved well into positive territory. But government borrowing costs have hardly changed at all; given the prospect of moderate inflation, this means that Japan’s fiscal outlook has actually improved sharply. True, the foreign-exchange value of the yen has fallen considerably — but that’s actually very good news, and Japanese exporters are cheering.

 

In short, Mr. Abe has thumbed his nose at orthodoxy, with excellent results.

Now, people who know something about Japanese politics warn me not to think of Mr. Abe as a good guy. His foreign policy, they tell me, is very bad, and his support for stimulus may have more to do with old-fashioned pork-barrel (tofu barrel?) politics than with a sophisticated rejection of conventional wisdom.

 

But none of that may matter. Whatever his motives, Mr. Abe is breaking with a bad orthodoxy. And if he succeeds, something remarkable may be about to happen: Japan, which pioneered the economics of stagnation, may also end up showing the rest of us the way out.

 

Il Giappone si tira fuori, di Paul Krugman

New York Times 13 gennaio 2013

 

Per tre anni dappertutto nel mondo la politica economica, nonostante l’elevata disoccupazione,  è stata dominata da una cupa ortodossia. Ogni idea di iniziative per creare posti di lavoro è stata bocciata con l’ammonimento di conseguenze terribili. Se si spende di più, hanno detto le Persone Molto Serie, i mercati dei bond ci puniranno. Se si stampa più moneta, l’inflazione salirà alle stelle. Non si doveva fare niente perché niente si può fare, se non una austerità più severa che mai, che in qualche modo, un giorno o l’altro, verrà premiata.

Ma ora sembra che una importante nazione stia rompendo le righe – e quella nazione è nientemeno che il Giappone.

Non stiamo rivolgendo la nostra attenzione ad un cane sciolto. In Giappone i Governi vanno e vengono, ma niente sembra mai cambiare – in effetti Shinzo Abe, il nuovo Primo Ministro, ha avuto quell’incarico in passato, e la vittoria del suo partito è stata generalmente considerata come il ritorno dei ‘dinosauri’ che hanno malgovernato il paese per decenni. Inoltre, il Giappone, con il suo debito elevato e la popolazione che invecchia, si pensava avesse margini di manovra persino minori rispetto agli altri paesi avanzati.

Ma Abe è tornato in carica promettendo di interrompere la lunga stagnazione economica ed ha già fatto passi che l’ortodossia dice che non dovremmo fare. E le prime indicazioni sono che sta andando abbastanza bene.

Qualche antefatto: assai prima che la crisi finanziaria sprofondasse l’America e l’Europa in una profonda e prolungata recessione,  il Giappone fece una prova generale dell’economia della stagnazione. Quando uno scoppio della bolla azionaria ed immobiliare spinse il Giappone nella recessione, la riposta politica fu troppo esigua, troppo tardiva e troppo inconsistente.

In verità ci fu molta spesa sulle opere pubbliche, ma il Governo, preoccupato del debito, si ritrasse prima che una solida ripresa prendesse piede, e sulla fine degli anni ’90 si era già consolidata una persistente deflazione. Agli inizi del 2000 la Banca del Giappone, l’omologo della Federal Reserve, cercò di combattere la deflazione stampando quantità di moneta. Ma anch’essa si ritirò al primo cenno di miglioramento, e la deflazione non se ne è più andata.

Ciò detto, il Giappone non ebbe mai il tipo di disoccupazione e di disastro umano che noi abbiamo conosciuto dal 2008. In effetti, la nostra risposta politica è stata così inadeguata che ho suggerito che un gruppo di economisti americani che erano soliti essere così aspri nelle condanne della politica giapponese, gruppo che include Ben Bernanke e, a dir la verità, anche il sottoscritto, visiti Tokio per portare i propri omaggi all’Imperatore. Dopo tutto, noi abbiamo fatto persino peggio.

E c’è un’altra lezione nell’esperienza del Giappone: se si scopre che tirarsi fuori da una prolungata recessione è molto difficile, è così perché è difficile indurre gli operatori politici a prendere atto della necessità di una azione coraggiosa. Vale a dire, il problema è principalmente politico ed intellettuale, piuttosto che strettamente economico. Perché i rischi dell’azione sono molto inferiori a quello che le Persone Molto Serie vi vogliono far credere.

Si considerino, in particolare, i supposti pericoli del debito e dei deficit. Qua in America siamo di continuo messi in guardia sul fatto che dobbiamo abbattere la spesa pubblica senza perdere un istante, altrimenti ci trasformeremo niente di meno che nella Grecia. Ma la Grecia, un paese senza una propria valuta, non assomiglia molto agli Stati Uniti; sicuramente il Giappone offre un modello più rilevante. E mentre i profeti di sciagure continuano a predicare una crisi fiscale nel Giappone, pubblicizzando ogni spostamento verso l’alto dei tassi di interesse come il segno di una imminente apocalisse, continua a non succedere niente del genere: il Governo del Giappone può ancora indebitarsi nel lungo periodo ad un tasso inferiore all’1 per cento.

A questo punto interviene il signor Abe, che ha fatto pressioni sulla Banca del Giappone perché trovasse il modo di innalzare l’inflazione – in effetti, di contribuire con l’inflazione a ridurre una parte del debito pubblico – e che ha annunciato un nuovo ampio programma di sostegno della finanza pubblica. E come hanno risposto le divinità del mercato?

La risposta è: anche troppo bene. I dati di mercato sulla inflazione attesa, che erano negativi sino a non molto tempo fa – il mercato si aspettava che la deflazione proseguisse – si sono ora spostati in territorio positivo. Ma i costi dell’indebitamento governativo non sono mutati minimamente; data la prospettiva di una moderata inflazione, questo significa che la prospettiva della finanza pubblica del Giappone è migliorata bruscamente. E’ vero, il valore di cambio dello yen con le valute straniere è caduto in modo rilevante –  ma quella è in realtà un’ottima notizia, e gli esportatori giapponesi stanno esultando.

In poche parole, il signor Abe se ne è infischiato dell’ortodossia, con risultati eccellenti.

Ora, le persone che conoscono un po’ la politica giapponese mi ammoniscono a non pensare che il signor Abe sia un galantuomo. La sua politica estera, mi dicono, è pessima, ed il suo sostegno allo stimolo può avere più a che fare con una tradizionale politica clientelare (noi la chiamiamo della ‘botte di lardo’ [1], e loro della ‘botte di tofu’?) che non con un sofisticato rigetto della saggezza convenzionale.

Ma tutto questo non ha rilievo. Qualunque siano i suoi motivi, i signor Abe sta rompendo con una ortodossia tradizionale. E se avrà successo, può darsi che accada qualcosa di rilevante: il Giappone, che è stato pioniere dell’economia della stagnazione, potrebbe anche finire col mostrarci il modo per venirne fuori.



[1] E’ il termine che sin dall’Ottocento viene usato per definire la pratica di favorire determinati territori e settori della cittadinanza in cambio di voti. Praticamente un ‘voto di scambio’, che si riferiva  alla precedente abitudine – già prima della guerra civile – di offrire quantità di “maiale sotto sale” in cambio di favori.

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