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L’epilessia dell’economia, di Brad DeLong (da Project Syndicate, gennaio 2013)

 

J. Bradford DeLong

J. Bradford DeLong is Professor of Economics at the University of California at Berkeley and a research associate at the National Bureau for Economic Research.

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Grand Mal Economics

BERKELEY – Across the North Atlantic region, central bankers and governments seem, for the most part, helpless in restoring full employment to their economies. Europe has slipped back into recession without ever really recovering from the financial/sovereign-debt crisis that began in 2008. The United States’ economy is currently growing at 1.5% per year (about a full percentage point less than potential), and growth may slow, owing to a small fiscal contraction this year.

 

Industrial market economies have been suffering from periodic financial crises, followed by high unemployment, at least since the Panic of 1825 nearly caused the Bank of England to collapse. Such episodes are bad for everybody – workers who lose their jobs, entrepreneurs and equity holders who lose their profits, governments that lose their tax revenue, and bondholders who suffer the consequences of bankruptcy – and we have had nearly two centuries to figure out how to deal with them. So why have governments and central banks failed?

There are three reasons why the authorities might fail to restore full employment rapidly after a downturn. For starters, unanchored inflation expectations and structural difficulties might mean that efforts to boost demand show up almost entirely in faster price growth and only minimally in higher employment. That was the problem in the 1970’s, but it is not the problem now.

The second reason might be that even with anchored inflation expectations (and thus price stability), policymakers do not know how to keep them anchored while boosting the flow of spending in the economy.

And here I stop, flummoxed. At least as I read the history, by 1829, Western Europe’s technocratic economists had figured out why these periodic grand mal economic seizures occurred. That year, Jean-Baptiste Say published his Cours Complet d’Economie Politique Pratique, admitting that Thomas Malthus had been at least half right in arguing that an economy could suffer for years from a “general glut” of commodities, with nearly everybody trying to reduce spending below income – in today’s jargon, to deleverage. And, because one person’s spending is another’s income, universal deleveraging produces only depression and high unemployment.

Over the following century, economists like John Stuart Mill, Walter Bagehot, Irving Fisher, Knut Wicksell, and John Maynard Keynes devised a list of steps to take in order to avoid or cure a depression.

 

 

1. Don’t go there in the first place: avoid whatever it is – whether external pressure under the gold standard, asset-price bubbles, or leverage-and-panic cycles such as that of 2003-2009 – that creates the desire to deleverage.

2. If you do find yourself there, stop the desire to deleverage by having the central bank buy bonds for cash, thereby pushing down interest rates, so that holding debt becomes more attractive than holding cash.

3. If you still find yourself there, stop the desire to deleverage by having the Treasury guarantee risky assets, or issue safe ones, in order to raise the quality of debt in the market; this, too, will make holding debt more attractive.

4. If that fails, stop the desire to deleverage by promising to print more money in the future, which would raise the rate of inflation and make holding cash less attractive than spending it.

5. In the worst case, have the government step in, borrow money, and buy stuff, thereby rebalancing the economy as the private sector deleverages.

 

 

There are many subtleties in how governments and central banks should attempt to accomplish these steps. And, indeed, the North Atlantic region’s governments and central banks have tried to some degree. But it is clear that they have not tried enough: the “stop” signal of unanchored inflation expectations, accelerating price growth, and spiking long-term interest rates – all of which tell us that we have reached the structural and expectational limits of expansionary policy – has not yet been flashed.

So we remain far short of full employment for the third reason. The issue is not that governments and central banks cannot restore employment, or do not know how; it is that governments and central banks will not take expansionary policy steps on a large enough scale to restore full employment rapidly.

And here I reflect on the 1930’s, and on how historical events recur, appearing first as tragedy and then, pace Karl Marx, as yet another tragedy. Keynes begged the policymakers of his time to ignore the “austere and puritanical souls” who argue for “what they politely call a ‘prolonged liquidation’ to put us right,” and professed that he could “not understand how universal bankruptcy can do any good or bring us nearer to prosperity.”

Today’s policymakers, so eager to draw a bold line under expansionary measures, should pause and consider the same question.

 

 

J. Bradford DeLong

J. Bredford DeLong  è professore di economia all’Università della California a Berkeley e ricercatore associato del National Bureau of Economica Research.

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L’epilessia dell’economia

 

BERKELEY – Lungo la regione del Nord-Atlantico, i banchieri centrali ed i Governi sembrano, per la massima parte, incapaci di ripristinare piena occupazione nelle loro economie. L’Europa è ricaduta nella recessione senza essersi mai realmente ripresa dalla crisi dei debiti sovrani che cominciò nel 2008. L’economia degli Stati Uniti sta attualmente crescendo dell’1,5 % all’anno (circa un punto percentuale in meno delle sue potenzialità), e la crescita può rallentare, per effetto di una piccola contrazione della finanze pubblica quest’anno.

Le economie industriali di mercato stanno soffrendo di periodiche crisi finanziarie seguite da elevata disoccupazione, almeno della crisi del Panico del 1825, che quasi portò al collasso la Banca d’Inghilterra. Si tratta di episodi negativi per tutti – per i lavoratori che perdono il loro posto di lavoro, per gli imprenditori ed i possessori di azioni che perdono i loro profitti, per i Governi che perdono le loro entrate fiscali, per i possessori di obbligazioni che soffrono le conseguenze della bancarotta – ed abbiamo avuto quasi due secoli per farci un’idea di come misurarci con essi. I Governi e le Banche centrali hanno dunque fallito?

Ci sono tre ragioni per le quali le autorità possono fallire nel ripristinare rapidamente la piena occupazione dopo una caduta. Per i principianti, aspettative di inflazione non stabilizzate e difficoltà strutturali possono comportare che gli sforzi per incoraggiare la domanda si manifestino quasi interamente con una più rapida crescita dei prezzi e solo in minima parte con una occupazione maggiore. Quello fu il problema degli anni ‘70, ma non è il problema di oggi.

La seconda ragione potrebbe essere che persino con aspettative di inflazione stabilizzate (e, di conseguenza, con la stabilità dei prezzi), le autorità non sappiano come  mantenerle stabili nel mentre incoraggiano un flusso di spesa pubblica nell’economia.

E qua mi fermo, perplesso. Almeno per come io leggo la storia, dal 1829, gli economisti tecnocratici dell’Europa Occidentale si erano fatti un’idea del perché capitavano questi periodici attacchi di epilessia. Quell’anno, Jean-Baptiste Say pubblicò il suo Corso Completo di Economia Politica Pratica, riconoscendo che Thomas Malthus aveva avuto almeno mezza ragione nel sostenere che un’economia potrebbe soffrire per anni di un “eccesso generale” di beni, quando quasi tutti cercano di  ridurre le spese al di sotto del reddito – nel linguaggio di oggi, di mettere in atto un deleveraging [1]. E, poiché le spese di una persona sono il reddito di un’altra, una riduzione universale dei rapporti di indebitamento produce soltanto depressione ed elevata disoccupazione.

Nel secolo successivo, economisti come John Stuart Mill, Walter Bagehot, Irving Fisher, Knut Wicksell e John Maynard Keynes riconobbero una lista di misure da prendere allo scopo di evitare o di curare la depressione.

1 – Anzitutto non cascarci: evitare tutto quello che può creare il desiderio di una riduzione dell’indebitamento – che siano le pressioni esterne in regime di gold standard, le bolle sui prezzi dei beni, oppure I cicli di indebitamento-e-panico come quello del 2003-2009.

2 – Se vi ci trovate, smettete di desiderare di ridurre il rapporto di indebitamento ottenendo che la Banca Centrale acquisti obbligazioni in cambio di contante, di conseguenza spingendo in basso i tassi di interesse, in modo tale che detenere (obbligazioni sul) debito sia più attraente che detenere contante.

3 – Se ancora vi ritrovate lì, smettete di desiderare di ridurre il rapporto di indebitamento ottenendo che il Tesoro garantisca assets rischiosi,  o che ne emetta di sicuri, allo scopo di elevare la qualità del debito sul mercato; anche questo rende più attraente il possedere obbligazioni sul debito.

4 – Se ciò non funziona, smettete di desiderare di ridurre il rapporto di indebitamento con la promessa di stampare più moneta in futuro, che aumenterebbe il tasso di inflazione e renderebbe il possedere contante più attraente che lo spenderlo.

5 – Nel caso peggiore, il Governo faccia un passo avanti, prenda denaro in prestito e compri oggetti, in tal modo riequilibrando l’economia mentre i settore privato riduce l’indebitamento.

Ci sono molte sottigliezze nei modi in cui i Governi e le Banche Centrali possono compiere tali passi. Ed in effetti i Governi e le Banche Centrali della regione del Nord-Atlantico hanno cercato di farlo in qualche misura. Ma è chiaro che non hanno cercato abbastanza: il segnale di “stop” delle aspettative di inflazione non stabilizzate, della crescita accelerata dei prezzi e dell’impennarsi dei tassi di interesse di lungo termine – tutto quello che ci dice che abbiamo raggiunto i limiti strutturali e di aspettativa di una politica espansiva – non è ancora scattato.

Così noi restiamo lontani dalla piena occupazione per la terza ragione. La questione non è che i Governi e le Banche Centrali non possano ripristinare l’occupazione, o non sappiano come farlo; è che i Governi e le Banche Centrali non faranno passi di politica espansiva di dimensione sufficientemente ampia da ripristinare rapidamente la piena occupazione.

Ed è qua che io rifletto sugli anni ’30, e su come gli eventi storici ricorrano, apparendo la prima volta come una tragedia e poi, con buona pace di Karl Marx, ancora come un’altra tragedia. Keynes scongiurava gli uomini politici del suo tempo ad ignorare “gli spiriti austeri e puritani” che dibattono di “quella che definiscono una ‘prolungata liquidazione’ per rimetterci a posto” , e confessava di non poter “capire come una bancarotta universale possa fare niente di buono o portarci più vicini alla prosperità”.

Gli uomini politici di oggi, così ansiosi di tracciare una linea coraggiosa al di sotto di misure espansive, dovrebbero fermarsi a riflettere sulla stessa domanda.

 



[1] Come è noto questa è ormai il termine che si utilizza anche in italiano. Dovremmo tradurlo con “riduzione del rapporto di indebitamento”. In pratica significa che negli investimenti e nella gestione delle imprese l’utilizzo delle risorse proprie diviene via via più grande rispetto all’utilizzo del denaro preso a prestito (la pratica opposta è invece quella del “leverage”).

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