January 12, 2013, 9:01 am
Shinzo Abe has taken Japan off in a surprisingly Keynesian direction. Noah Smith points out, again, that he’s probably doing it for disreputable reasons, mainly old-fashioned LDP pork-barrel (katsu barrel? tofu barrel?) politics. But this may not matter.
Noah also raises a different point: does Japan really need a big boost? He points to the low measured unemployment rate; after a couple of decades of watching Japanese unemployment numbers, I don’t think that tells us much. But there is a case to be made that Japan’s economy is in better shape than most people believe. Overall GDP growth since the crisis has been roughly comparable to the euro area, but with far worse demography:
In fact, given that Japan’s working-age population is actually shrinking, there’s a reasonable argument to the effect that Japan is closer to potential output than the US.
But if Japan is doing relatively well in cyclical terms, it’s still far from clear that macroeconomic caution is appropriate. After all, Japan has a much longer-term monetary issue: persistent deflation, which among other things has meant that Japanese real interest rates have been well above those in the United States even though nominal rates are low. (I wrote about that here.)
What Japan needs, then, is to boot itself out of its deflationary trap; and a situation where there isn’t too much economic slack is actually a very good time to do that.
And here’s an important point that has gone remarkably unreported, except on a few financial blogs: something dramatic does seem to be happening on the expected inflation front. Here’s the 5-year breakeven, the spread between indexed and non-indexed bonds:
The big move actually came before Abe took office, maybe reflecting the sense that the political environment had changed and that the Bank of Japan’s freedom to impose monetary orthodoxy was about to end. Whatever caused it, this is a remarkable change — it’s the kind of upward move in inflation expectations advocates of radical monetary policy in the US can only dream of. And coupled with a fiscal boost, it could mean that Japan’s long deflationary era is finally coming to an end.
So while I very much dislike what Abe stands for on cultural issues, and take very seriously Noah Smith’s warning that he may be basically about patronage politics, none of that matters on the macro front; it sure looks as if Japan is, for whatever reason, doing the kinds of things an economy still stuck in the Lesser Depression should be doing.
Nel frattempo l’iniziativa giapponese
Shinzo Abe ha fatto decollare il Giappone nella direzione di un sorprendente keynesismo. Noah Smith sottolinea, ancora una volta, che probabilmente lo sta facendo per ragioni poco raccomandabili, probabilmente la tradizionale locale politica clientelare del partito liberaldemocratico (in America viene detta della “botte di lardo” e in Giappone … botte di katsu? Botte di tofu?) Ma questo può non contare.
Noah solleva un argomento diverso: il Giappone ha davvero bisogno di una grande spinta? Egli indica i dati dei bassi tassi di disoccupazione; dopo un paio di decenni di osservazione dei dati giapponesi sulla disoccupazione, non credo che essi ci dicano molto. Ma c’è un esempio che può essere avanzato secondo il quale il Giappone sarebbe in una forma migliore di quanto la gente crede. La crescita generale del PIL dalla crisi è stata grosso modo comparabile con quella dell’area euro, ma con una demografia assai peggiore:
Di fatto, considerato che la popolazione giapponese in età lavorativa si sta effettivamente riducendo, questo è un argomento ragionevole per sostenere che il Giappone sia più vicino alla sua produzione potenziale degli Stati Uniti.
Ma se il Giappone sta facendo relativamente bene in termini di ciclo, questo non significa che sia corretta la cautela in politica economica. Dopo tutto, il Giappone ha un bel po’ di problemi monetari di più lungo termine: una persistente deflazione, la quale tra le altre cose significa che il tassi di interesse reali del Giappone sono stati ben superiori a quelli negli Stati Uniti, anche se i tassi nominali sono bassi (scrissi su questo in questa connessione [1]).
Quello di cui il Giappone ha bisogno, dunque, è di spingersi fuori dalla sua trappola deflazionistica; ed una situazione nella quale non ci sono margini economici [2] ampi è in effetto un buon periodo per farlo.
E c’è un aspetto importante che è stato del tutto trascurato nell’informazione, ad eccezione di pochi blogs finanziari: sembra che stia proprio accadendo qualcosa di spettacolare sul fronte delle aspettative di inflazione. Ecco il breakeven sui quinquennali, ovvero lo spread tra bonds indicizzati e non indicizzati [3]:
La grande svolta in effetti interviene dopo che Abe è entrato in carica, e forse riflette la sensazione che il contesto politico sia cambiato e che la libertà della Banca del Giappone di imporre l’ortodossia monetaria stia per finire. Qualsiasi cosa l’abbia provocato, questo è un cambiamento rilevante – è il genere di andamento verso l’alto delle aspettative inflazionistiche che i sostenitori di politiche monetarie radicali negli Stati Uniti si possono solo sognare. Ed aggiunto ad una spinta da parte della finanza pubblica, significherebbe che la lunga epoca deflazionistica del Giappone sta finalmente giungendo al termine.
Dunque, se non mi piace affatto quello che Abe sostiene sul temi culturali, e se prendo assai sul serio l’ammonimento di Noah Smith secondo il quale potrebbe trattarsi fondamentalmente di clientelismo politico, sul fronte macroeconomico tutto questo non ha importanza; sembra certo che, per qualsivoglia ragione, il Giappone stia facendo quel genere di cose che si dovrebbero fare in un’economia ancora bloccata nella Depressione Minore.
[1] La connessione è con un post del dicembre 2011, che si occupava del tema della forza dello yen nel cambio con l’euro. La deflazione del Giappone – sosteneva Krugman in quel post – comporta che essa spinge in basso i tassi di interesse. Ma i tassi di interesse a breve termine non possono scendere sotto lo zero, ed anche i tassi a lungo termine, per effetto della “option value” (letteralmente “valore di scelta/valore soggettivo” – che significa un riconoscimento che anche un privato può offrire in un prezzo di qualcosa che preserva un bene di interesse generale, ancorché non ne farà un uso diretto, come ad esempio una risorsa naturale da preservare per il futuro) devono in qualche modo restare sopra lo zero. Dunque, concludeva Krugman, se il Giappone ha un tasso di inflazione che è di 2 punti inferiore agli altri paesi, e tassi di interesse a lungo termine solo di un punto più bassi, questo significa che i suoi tassi di interessi sono in realtà più alti che altrove. E, naturalmente, la sopravvalutazione dello yen sull’euro non era, dal punto di vista del Giappone, una cosa positiva.
[2] “slack” significa “lasco, gioco”.
[3] Il fatto che si confrontino quelli indicizzati con quelli non indicizzati, come si comprende, fa del breakeven la misura più significativa in materia di inflazione attesa. Si noti che la tabella, indicando la aspettativa di inflazione, è relativa agli andamenti previsti nell’anno 2013.
By mm
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