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Un’occhiata al Signor Dolcepena (New York Times 31 gennaio 2013)

 

Looking for Mister Goodpain

By PAUL KRUGMAN
Published: January 31, 2013

 

 

Three years ago, a terrible thing happened to economic policy, both here and in Europe. Although the worst of the financial crisis was over, economies on both sides of the Atlantic remained deeply depressed, with very high unemployment. Yet the Western world’s policy elite somehow decided en masse that unemployment was no longer a crucial concern, and that reducing budget deficits should be the overriding priority.

In recent columns, I’ve argued that worries about the deficit are, in fact, greatly exaggerated — and have documented the increasingly desperate efforts of the deficit scolds to keep fear alive. Today, however, I’d like to talk about a different but related kind of desperation: the frantic effort to find some example, somewhere, of austerity policies that succeeded. For the advocates of fiscal austerity — the austerians — made promises as well as threats: austerity, they claimed, would both avert crisis and lead to prosperity.

And let nobody accuse the austerians of lacking a sense of romance; in fact, they’ve spent years looking for Mr. Goodpain.

 

The search began with a passionate fling between the austerians and the Republic of Ireland, which turned to harsh spending cuts soon after its real estate bubble burst, and which for a while was held up as the ultimate exemplar of economic virtue. Ireland, said Jean-Claude Trichet of the European Central Bank, was the role model for all of Europe’s debtor nations. American conservatives went even further. For example, Alan Reynolds, a senior fellow at the Cato Institute, declared that Ireland’s policies showed the way forward for the United States, too.

Mr. Trichet’s encomium was delivered in March 2010; at the time Ireland’s unemployment rate was 13.3 percent. Since then, every uptick in the Irish economy has been hailed as proof that the nation is recovering — but as of last month the unemployment rate was 14.6 percent, only slightly down from the peak it reached early last year.

 

After Ireland came Britain, where the Tory-led government — to the sound of hosannas from many pundits — turned to austerity in mid-2010, influenced in part by its belief that Irish policies were a smashing success. Unlike Ireland, Britain had no particular need to adopt austerity: like every other advanced country that issues debt in its own currency, it was and still is able to borrow at historically low interest rates. Nonetheless, the government of Prime Minister David Cameron insisted both that a harsh fiscal squeeze was necessary to appease creditors and that it would actually boost the economy by inspiring confidence.

 

 

 

 

What actually happened was an economic stall. Before the turn to austerity, Britain was recovering more or less in tandem with the United States. Since then, the U.S. economy has continued to grow, although more slowly than we’d like — but Britain’s economy has been dead in the water.

 

At this point, you might have expected austerity advocates to consider the possibility that there was something wrong with their analysis and policy prescriptions. But no. They went looking for new heroes and found them in the small Baltic nations, Latvia in particular, a nation that looms amazingly large in the austerian imagination.

At one level this is kind of funny: austerity policies have been applied all across Europe, yet the best example of success the austerians can come up with is a nation with fewer inhabitants than, say, Brooklyn. Still, the International Monetary Fund recently issued two new reports on the Latvian economy, and they really help put this story into perspective.

 

To be fair to the Latvians, they do have something to be proud of. After experiencing a Great-Depression-level slump, their economy has experienced two years of solid growth and falling unemployment. Despite that growth, however, they have only regained part of the lost ground in terms of either output or employment — and the unemployment rate is still 14 percent. If this is the austerians’ idea of an economic miracle, they truly are the children of a lesser god.

 

Oh, and if we’re going to invoke the experience of small nations as evidence about what economic policies work, let’s not forget the true economic miracle that is Iceland — a nation that was at ground zero of the financial crisis, but which, thanks to its embrace of unorthodox policies, has almost fully recovered.

So what do we learn from the rather pathetic search for austerity success stories? We learn that the doctrine that has dominated elite economic discourse for the past three years is wrong on all fronts. Not only have we been ruled by fear of nonexistent threats, we’ve been promised rewards that haven’t arrived and never will. It’s time to put the deficit obsession aside and get back to dealing with the real problem — namely, unacceptably high unemployment.

 

Un’occhiata al Signor Dolcepena, di Paul Krugman

New York Times 31 gennaio 2013

 

Tre anni fa accadde una cose terribile alla politica economica, sia qua che in Europa. Sebbene il peggio della crisi finanziaria fosse passato, le economie sulle due sponde dell’Atlantico erano ancora profondamente depresse, con una disoccupazione molto alta. Tuttavia le classi dirigenti del mondo occidentale decisero all’unisono che quella disoccupazione non era una preoccupazione fondamentale, e che la riduzione dei deficit di bilancio sarebbe stata la priorità assoluta.

In articoli recenti ho sostenuto che quelle preoccupazioni sul deficit sono, di fatto, assai esagerate – ed ho documentato gli sforzi sempre più disperati degli allarmisti del deficit per tenerle in vita.  Oggi, tuttavia, vorrei parlare di un genere diverso, seppur collegato, di disperazione: lo sforzo febbrile per trovare da qualche parte un esempio di successo delle politiche di austerità. Perché i sostenitori della austerità nelle finanze pubbliche – i patiti dell’austerità – misero in giro sia minacce che promesse: l’austerità, sostenevano, avrebbe allontanato la crisi e portato la prosperità.

E nessuno dica che ai patiti dell’austerità manchi il senso del romanzesco: di fatto hanno speso anni alla ricerca del Signor Dolcepena. 

La ricerca ebbe inizio con un flirt appassionato tra i patiti dell’austerità e la Repubblica di Irlanda, che si indirizzò a bruschi tagli della spesa pubblica subito dopo lo scoppio della sua bolla immobiliare, e che per una certo periodo fu presentata come il più recente esemplare della virtù economica. L’Irlanda, disse Jean-Claude Trichet della Banca Centrale Europea, era l’esempio guida per tutte le nazioni debitrici d’Europa. I conservatori americani andarono persino oltre. Alan Reynolds, un membro anziano del Cato Institute, per esempio, dichiarò che l’Irlanda mostrava il percorso giusto anche per gli Stati Uniti.

L’encomio del signor Trichet risale al marzo del 2010; a quel tempo il tasso di disoccupazione in Irlanda era al 13,3 per cento. Da allora, ogni lieve progresso dell’economia irlandese è stato esaltato come la prova che la nazione si stava riprendendo – ma il mese scorso il tasso di disoccupazione era al 14,6 per cento, appena un po’ più basso rispetto al picco che aveva raggiunto agli inizi dell’anno passato.

Dopo l’Irlanda è venuta l’Inghilterra, dove il Governo guidato dai Tory – col giubilo di molti esperti – si volse all’austerità a metà del 2010, in parte influenzato dal suo convincimento che le politiche irlandesi fossero un formidabile successo. Diversamente dall’Irlanda, l’Inghilterra non aveva alcuna particolare ragione di adottare l’austerità: come ogni altro paese avanzato, essa emette le obbligazioni sul debito nella propria valuta, era ed è ancora nelle condizioni di indebitarsi a tassi di interesse ai minimi storici. Ciononostante, il Governo del Primo Ministro David Cameron insistette che un rigido congelamento della finanza pubblica era necessario per tranquillizzare i creditori e che avrebbe effettivamente dato una spinta all’economia, con una iniezione di fiducia.

 

Quello che in effetti è accaduto è stato un blocco dell’economia. Prima della svolta verso l’austerità, l’Inghilterra si stava riprendendo più o meno in coppia con gli Stati Uniti. Da quel momento, l’economia statunitense ha continuato a crescere, sebbene più lentamente di quello che avremmo gradito – ma l’economia dell’Inghilterra si è arenata.

Vi sareste aspettati a questo punto che i sostenitori dell’austerità considerassero la possibilità che ci fosse qualcosa di sbagliato nella loro analisi e nelle loro ricette politiche. Invece no. Sono andati alla ricerca di nuovi eroi, e li hanno trovati tra le piccole nazioni baltiche, la Lettonia in particolare,  una nazione che incombe in modo sorprendente sull’immaginazione dei fanatici dell’austerità.

Da un certo punto di vista questo è proprio buffo: l’austerità è stata applicata dappertutto in Europa, tuttavia il maggiore esempio di successo che i fanatici riescono a mettere insieme è una nazione con meno abitanti, diciamo, di Brooklyn. Tuttavia, il Fondo Monetario Internazionale ha di recente pubblicato due nuovi resoconti sull’economia lettone, ed essi effettivamente aiutano a mettere in una qualche prospettiva questa storia.

Ad essere onesti con i lettoni, essi hanno per davvero qualcosa di cui andare orgogliosi. Dopo aver conosciuto una crisi al livello della Grande Depressione, la loro economia ha visto due anni di solida crescita e di diminuzione della disoccupazione. Nonostante quella crescita, tuttavia, essi hanno riguadagnato con quella crescita solo una parte del terreno perduto in termini sia di prodotto che di occupazione – ed il tasso di disoccupazione è ancora al 14 per cento. Se questa è l’idea che i fanatici dell’austerità hanno di un miracolo economico, devono proprio essere figli di un Dio minore.

Se poi intendessimo invocare l’esperienza delle piccole nazioni come prova di come funzionano le politiche economiche, cerchiamo di non dimenticare il vero e proprio miracolo economico che si chiama Islanda – una nazione che era al punto più basso della crisi finanziaria, ma che, grazie alle sua adesione a politiche non ortodosse [1], si è ripresa quasi per intero.

 

Dunque, cosa si apprende da questa quasi patetica ricerca delle storie di successo a favore dell’austerità? Impariamo che la dottrina che ha dominato il discorso delle classi dirigenti nei tre anni passati è sbagliata su tutti i fronti. Non solo siamo stati governati dalla paura di minacce inesistenti, ci sono stati promessi premi che non sono arrivati e non arriveranno mai. E’ tempo di mettere da parte l’ossessione del deficit e di tornare a misurarci con il problema vero – ovvero, una disoccupazione inaccettabilmente alta.

 



[1] L’aspetto principalmente non ortodosso della ricetta islandese, che Krugman ha altre volte sottolineato, consiste nel fatto che il Governo di quel paese rifiutò a suo tempo i salvataggi a ‘fondo perduto’ di alcune banche, che furono semplicemente nazionalizzate.

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