Blog di Krugman

La storia del Giappone (5 febbraio 2013)

 

February 5, 2013, 10:12 am

The Japan Story

 

Dean Baker is annoyed at Robert Samuelson, not for the first time, and with reason. The idea of invoking Japan, of all places, to justify fears that stimulus leads to inflation or asset bubbles is just bizarre. And while there is much shaking of heads about Japanese debt, the ill-effects if any of that debt are by no means obvious.

But what remains true is that Japan has run budget deficits for many years while delivering what appears on the surface to be very disappointing economic performance. What’s the story there?

My answer would run in two parts.

First, you should never make comments on Japanese growth or lack thereof without taking demography into account. Japan has low fertility and low immigration; this has translated into a dramatically aging population and a declining working-age population. So what does Japan’s performance look like if you calculate real GDP per working-age adult? (In the picture below I define working-age as 15-64; this is one case in which you DO NOT WANT to look at FRED, which defines working age as 16+ and therefore takes no account of aging).

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I’ve used a log scale, so you can view vertical distances as percentage changes. If we look at growth from the early 1990s to the business cycle peak in 2007, we have growth of about 1.2% per year. That’s actually not bad; you can argue that demographically adjusted, the whole tale of Japanese stagnation is a myth.

 

What is true is that there were two long periods of depressed output relative to trend, one in the mid-1990s and another, much worse, between 1997 and 2007. And one other thing: Japanese monetary policy was still up against the zero lower bound in 2007, leaving it no room to counter the Great Recession, and hence leaving Japan open to a deep slump when exports plunged.

 

So how do we think about this problem? Here’s my take. Japan has pretty much spent the past 20 years in a liquidity trap; as I’ve been explaining for years, one way to understand such traps is that they happen when, even at a zero real interest rate, the amount that people would want to save at full employment exceeds the amount they would be willing to invest, also at full employment:

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Why is Japan in this situation? A debt overhang from the 1980s bubble surely started the process; but surely it’s reasonable to suggest that the demography also contributes, since a declining working-age population depresses the demand for investment.

What you need in this situation is a negative real interest rate — which means that you need some expected inflation, because nominal rates face the zero lower bound.

But Japanese policy has never sought to achieve this. Deficit spending has put part, but only part, of the excess desired private saving to work; this has mitigated the slump, but not produced a booming economy, except perhaps briefly circa 2007. And the Bank of Japan has always pulled back on monetary policy when the economy looks better, instead of doing what it should, which is to keep the pedal to the metal until the inflation rate is solidly into positive territory.

The point is that as an analytical matter, Japan’s experience is perfectly consistent with an IS-LM type story, with nothing in there to suggest that fiscal stimulus has somehow backfired; stimulus has done exactly what you’d expect given its limited size and the refusal to take the opportunity to break out of the liquidity trap.

 

What Abenomics seems to be is an attempt, finally, to do what should have been done long ago: combine temporary fiscal stimulus with a real effort to move inflation up.

Oh, and what about the US relevance? We are, for the time being, in the same situation diagrammed above. What I think you can argue is that because we don’t share Japan’s demographic challenge, our liquidity trap is probably temporary, the product of an episode of deleveraging. So in our case fiscal stimulus is much more likely to serve as a bridge to a revived era of normal macroeconomics. That said, I welcome efforts by the Fed to modestly raise inflation expectations, and would like to see more.

 

So, is Japan a cautionary tale? Yes, but not the tale everyone tells. Its performance isn’t that bad given the shortage of Japanese; and it’s a tale of fiscal and monetary policy that have been too cautious, not of stimulus that failed.

 

La storia del Giappone

 

Dean Baker è nervoso, non per la prima volta  ed a ragione, con Robert Samuelson [1]. L’idea di riferirsi al Giappone, tra tutti i posti, per giustificare i timori secondo i quali le misure di spesa pubblica a sostegno dell’economia porterebbero all’inflazione o a bolle di beni di varia natura è proprio bizzarra. E se esistono molte ragioni di essere perplessi sul debito giapponese, gli eventuali effetti insani di quel debito non sono in alcun senso ovvi.

Ma quello che resta evidente è che il Giappone ha realizzato deficit di bilancio per molti anni, nel mentre otteneva quello che alla superficie sembra una prestazione economica assai negativa.  Cosa è accaduto in quel caso?

La mia risposta procede in due direzioni.

La prima, non si dovrebbe mai avanzare commenti sulla crescita del Giappone o sulla sua mancanza di crescita senza mettere nel conto la demografia. Il Giappone ha una bassa fertilità ed una bassa immigrazione; questo si è tradotto in uno spettacolare invecchiamento della popolazione e in un declino della popolazione in età lavorativa. Dunque, a cosa assomiglia la prestazione del Giappone se si calcola il PIL reale per ogni adulto in età lavorativa? (nel diagramma definisco l’età lavorativa come il periodo 15-64 anni; questo è un caso nel  quale non si deve ricorrere alla statistiche della FED, che definiscono l’età lavorativa con il complesso degli ultra sedicenni, e dunque non tengono in alcun conto dell’invecchiamento).

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Ho usato una scala logaritmica, in modo che si possano osservare le distanze verticali come mutamenti di percentuale. Se guardiamo alla crescita dai primi anni ’90 sino al picco del ciclo economico del 2007, abbiamo una crescita di circa l’1,2 % all’anno. Questo in effetti non è negativo: si può sostenere che, una volta corretto per la demografia, tutto il racconto sulla stagnazione giapponese sia un mito.

Quello che è vero è che ci furono due lunghi periodi di depressione produttiva in relazione alla linea di tendenza, uno sulla metà degli anni ’90 e l’altro, assai peggiore, tra il 1997 ed il 2007. E un’altra cosa: la politica monetaria del Giappone era ancora alle prese con il limite inferiore dello zero nel 2007, non lasciando alcuno spazio per contrastare la Grande Recessione, e di conseguenza lasciando il Giappone esposto ad una profonda crisi al momento in cui crollarono le esportazioni.

Come si deve dunque pensare a tale problema? Ecco la mia posizione. Il Giappone ha speso buona parte dei venti anni passati in una trappola di liquidità; come ho spiegato per anni, un modo per comprendere tali trappole  è che esse hanno luogo quando, persino con tassi di interesse reali a zero, la somma che le persone intendono risparmiare in condizioni di piena occupazione eccede la somma che esse intendono investire, sempre in tali condizioni [2]:

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Perché il Giappone è un questa condizione? Una sovraesposizione del debito a seguito della bolla degli anni ’80 sicuramente avviò il processo; ma certamente è ragionevole indicare che anche la demografia ha contribuito, dal momento che una popolazione in età lavorativa declinante deprime la domanda per investimenti.

Quello che in questa situazione serve è un tasso di interesse reale negativo – il che significa che c’è bisogno di qualche attesa inflazionistica, perché i tassi nominali si trovano di fronte al limite inferiore dello zero.

Ma la politica giapponese non ha mai cercato di ottenere questo. La spesa pubblica in deficit ha messo in funzione una parte, ma solo una parte, degli eccessi di risparmio attesi; questo ha mitigato l crisi, ma non ha prodotto un economia in forte crescita, eccetto forse un breve periodo nel 2007. E la Banca del Giappone ha sempre frenato la politica monetaria quando l’economia sembrava migliorare, piuttosto di fare quello che avrebbe dovuto, ovvero spingere a tavoletta finché l’inflazione non sia solidamente in territorio positivo.

Il punto è che da una punto di vista analitico l’esperienza del Giappone è perfettamente coerente con un racconto del genere del modello IS-LM, con niente che suggerisca che lo stimolo della finanza pubblica sia stato in qualche modo controproducente; tale stimolo ha sortito esattamente l’effetto che ci si aspetterebbe considerata la sua limitata dimensione ed il rifiuto di considerare la possibilità di forzare la trappola di liquidità.

Quello che la politica economica di Abe pare essere è un tentativo di fare, alla fine, quello che avrebbe dovuto esser fatto da lungo tempo: combinare uno stimolo temporaneo della finanza pubblica con uno sforzo reale di spingere l’inflazione in alto.

Che dire, infine, della pertinenza di tutto questo con la situazione degli Stati Uniti? Noi siamo, nel tempo presente, nella stessa situazione presentata sopra. Quello che penso possiate spiegare da soli è che poiché noi non condividiamo la sfida demografica del Giappone, la nostra trappola di liquidità è probabilmente temporanea, il prodotto di un episodio di riduzione del rapporto di indebitamento. Dunque, nel nostro caso è assai più probabile che lo stimolo della finanza pubblica serva come un ponte ad un’epoca ravvivata di normale macroeconomia. Ciò detto, io dò il benvenuto agli sforzi della Fed per accrescere modestamente le aspettative di inflazione, e mi piacerebbe vedere di più.

Dunque, la storia del Giappone è un racconto che ci mette in guardia? Si, ma non il genere di racconto che si dice in giro. Data la scarsità di giapponesi, le prestazioni di quel paese non sono così negative; ed esso è un racconto di come la politica monetaria e della spesa pubblica sia stata troppo cauta, non di come il sostegno pubblico abbia mancato il suo scopo.



[1] Dean Baker è codirettore del Center for Economic and policy Research e Robert Samuelson, invece, è un giornalista del Washington Post.

[2] La linea orizzontale che attraversa il diagramma corrisponde al valore zero dei tassi di interesse. Accade dunque, in quell’esempio, che l’offerta di risparmio e la domanda per investimenti si incontrino teoricamente (per effetto della loro inclinazione) al di sotto di tale valore zero. In realtà, questo comporta un eccesso di risparmio rispetto agli investimenti, e poiché non è ragionevole che si scenda sotto lo zero – ovvero che si accettino tassi di interesse negativi come remunerazione dei propri risparmi –   comporta che una parte del risparmio non si trasformi in investimenti e segua quella che Keynes chiamava “propensione alla liquidità”. Come si esprima al giorno d’oggi tale “propensione” è questione complessa, che Krugman ha trattato in altri posts anche recentemente. E’ anche lo stesso tema del quale parla Brad DeLong nell’articolo a pagina 23. Non dobbiamo immaginarci che l’unica soluzione sia “mettere i soldi sotto il guanciale” …. Ma la sostanza è che la mitica equivalenza di risparmio e di investimento che è supposta dalla economia neoclassica non sempre ha luogo. Talora si è in presenza di crisi di domanda, come era stato previsto da una componente delle teoria economica che, all’epoca, risultò soccombente (Keynes descrive quella storia, principalmente tra Malthus e Ricardo, nella sua Teoria Generale).

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