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I “blues” dei soldi sporchi (New York Times 24 marzo 2013)

 

Hot Money Blues

By PAUL KRUGMAN

Published: March 24, 2013

 

Whatever the final outcome in the Cyprus crisis — we know it’s going to be ugly; we just don’t know exactly what form the ugliness will take — one thing seems certain: for the time being, and probably for years to come, the island nation will have to maintain fairly draconian controls on the movement of capital in and out of the country. In fact, controls may well be in place by the time you read this. And that’s not all: Depending on exactly how this plays out, Cypriot capital controls may well have the blessing of the International Monetary Fund, which has already supported such controls in Iceland.

That’s quite a remarkable development. It will mark the end of an era for Cyprus, which has in effect spent the past decade advertising itself as a place where wealthy individuals who want to avoid taxes and scrutiny can safely park their money, no questions asked. But it may also mark at least the beginning of the end for something much bigger: the era when unrestricted movement of capital was taken as a desirable norm around the world.

 

It wasn’t always thus. In the first couple of decades after World War II, limits on cross-border money flows were widely considered good policy; they were more or less universal in poorer nations, and present in a majority of richer countries too. Britain, for example, limited overseas investments by its residents until 1979; other advanced countries maintained restrictions into the 1980s. Even the United States briefly limited capital outflows during the 1960s.

 

Over time, however, these restrictions fell out of fashion. To some extent this reflected the fact that capital controls have potential costs: they impose extra burdens of paperwork, they make business operations more difficult, and conventional economic analysis says that they should have a negative impact on growth (although this effect is hard to find in the numbers). But it also reflected the rise of free-market ideology, the assumption that if financial markets want to move money across borders, there must be a good reason, and bureaucrats shouldn’t stand in their way.

 

As a result, countries that did step in to limit capital flows — like Malaysia, which imposed what amounted to a curfew on capital flight in 1998 — were treated almost as pariahs. Surely they would be punished for defying the gods of the market!

But the truth, hard as it may be for ideologues to accept, is that unrestricted movement of capital is looking more and more like a failed experiment.

It’s hard to imagine now, but for more than three decades after World War II financial crises of the kind we’ve lately become so familiar with hardly ever happened. Since 1980, however, the roster has been impressive: Mexico, Brazil, Argentina and Chile in 1982. Sweden and Finland in 1991. Mexico again in 1995. Thailand, Malaysia, Indonesia and Korea in 1998. Argentina again in 2002. And, of course, the more recent run of disasters: Iceland, Ireland, Greece, Portugal, Spain, Italy, Cyprus.

What’s the common theme in these episodes? Conventional wisdom blames fiscal profligacy — but in this whole list, that story fits only one country, Greece. Runaway bankers are a better story; they played a role in a number of these crises, from Chile to Sweden to Cyprus. But the best predictor of crisis is large inflows of foreign money: in all but a couple of the cases I just mentioned, the foundation for crisis was laid by a rush of foreign investors into a country, followed by a sudden rush out.

I am, of course, not the first person to notice the correlation between the freeing up of global capital and the proliferation of financial crises; Harvard’s Dani Rodrik began banging this drum back in the 1990s. Until recently, however, it was possible to argue that the crisis problem was restricted to poorer nations, that wealthy economies were somehow immune to being whipsawed by love-’em-and-leave-’em global investors. That was a comforting thought — but Europe’s travails demonstrate that it was wishful thinking.

 

And it’s not just Europe. In the last decade America, too, experienced a huge housing bubble fed by foreign money, followed by a nasty hangover after the bubble burst. The damage was mitigated by the fact that we borrowed in our own currency, but it’s still our worst crisis since the 1930s.

 

Now what? I don’t expect to see a wholesale, sudden rejection of the idea that money should be free to go wherever it wants, whenever it wants. There may well, however, be a process of erosion, as governments intervene to limit both the pace at which money comes in and the rate at which it goes out. Global capitalism is, arguably, on track to become substantially less global.

 

And that’s O.K. Right now, the bad old days when it wasn’t that easy to move lots of money across borders are looking pretty good.

 

I “blues” dei soldi sporchi, di Paul Krugman

New York Times 24 marzo 2013

 

Qualsiasi risultato finale abbia la crisi di Cipro, sappiamo che sarà sgradevole; non sappiamo con esattezza in che modo sarà sgradevole, ma una cosa pare certa: per il presente e probabilmente per gli anni avvenire, la nazione isolana dovrà sostenere controlli abbastanza draconiani sui movimenti dei capitali in entrata ed in uscita dal paese. Di fatto, i controlli già potrebbero essere in funzione nel momento in cui state leggendo questo articolo. E non è tutto: a seconda di come esattamente tutto questo verrà disposto, i controlli sui capitali ciprioti dovrebbero avere la benedizione del Fondo Monetario Internazionale, che ha già dato il proprio sostegno a controlli del genere in Islanda.

Si tratta di uno sviluppo piuttosto rilevante. Esso segnerà la fine di un’epoca per Cipro, che in effetti aveva trascorso l’ultimo decennio pubblicizzandosi come un luogo nel quale i singoli facoltosi che intendevano evitare le tasse ed i controlli potevano tranquillamente parcheggiare i propri capitali, senza che gli fosse chiesto alcunché. Ma potrebbe essere anche l’inizio della fine per qualcosa di assai più grande: l’epoca nella quale il movimento senza restrizioni dei capitali a giro per il mondo era considerato una regola desiderabile.

Non è sempre stato così. Nei primi due decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale, i limiti sui flussi oltrefrontiera erano generalmente considerati una buona politica; essi erano più o meno generalizzati nelle nazioni più povere, ed anche presenti nella maggioranza dei paesi più ricchi. L’Inghilterra, ad esempio, limitò gli investimenti esteri da parte dei suoi residenti sino al 1979; altre nazioni avanzate mantennero quelle restrizioni sino agli anni ’80. Per un breve periodo, persino gli Stati Uniti posero limiti all’uscita dei capitali durante gli anni ’60.

Col tempo, tuttavia, queste restrizioni passarono di moda. In qualche misura, questo rifletteva il fatto che i controlli sui capitali avevano costi potenziali: imponevano oneri burocratici aggiuntivi, rendevano le operazioni economiche più difficoltose, e l’analisi economica convenzionale affermava che quei controlli avrebbero comportato un impatto negativo sulla crescita (sebbene fosse difficile trovare dati a conferma di questo effetto). Ma in ciò c’era anche il riflesso dell’ascesa dell’ideologia del libero mercato, l’assunto secondo il quale se il mercati finanziari vogliono muovere capitali oltre i confini, una buona ragione deve pur esserci, ed i burocrati non dovrebbero mettersi in mezzo.

Come risultato, i paesi che intervennero per limitare i flussi dei capitali – come la Malesia, che nel 1998 impose una sorta di coprifuoco alle fughe dei capitali – vennero trattati quasi come dei paria. Sarebbero certamente stati puniti per aver sfidato le divinità del mercato!

Ma la verità, per quanto difficile da accettare dagli ideologi, è che il movimento senza restrizioni dei capitali, appare sempre di più come un esperimento fallito.

Oggi è difficile immaginarlo, ma per oltre tre decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale le crisi finanziarie del genere di quelle che di recente ci sono diventate così familiari, difficilmente potevano accadere. A partire dal 1980, tuttavia, la sequenza è stata impressionante: Messico, Brasile, Argentina e Cile nel 1982. Svezia e Finlandia nel 1991. Ancora Messico nel 1995. Tailandia, Malesia, Indonesia e Corea nel 1998. Ancora Argentina nel 2002. E, naturalmente, la più recente sequela di disastri: Islanda, Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna, Italia, Cipro.

Quale è il tema comune in questi episodi? Il pregiudizio convenzionale dà la colpa allo spreco della finanza pubblica – ma in tutta questa lista, quel racconto si adatta soltanto ad un paese, la Grecia. I banchieri senza controllo sono una spiegazione migliore: hanno avuto un ruolo in un certo numero di quelle crisi, dal Cile, alla Svezia a Cipro. Ma l’indizio di crisi migliore di tutti  è costituito dai vasti flussi di capitali stranieri: in tutti i casi che ho appena ricordato, ad eccezione di due, le fondamenta della crisi sono state gettate dall’afflusso di investitori stranieri in un paese, seguito da una fuga improvvisa.

Non sono, naturalmente, il primo a notare la correlazione tra la messa in libertà del capitalismo globale e la proliferazione delle crisi finanziarie: Dani Rodrik, dell’Università di Harvard, cominciò a battere su questo tema nei passati anni ’90. Tuttavia, sino ai tempi recenti era possibile sostenere che il problema della crisi era limitato alle nazioni più povere, le economie ricche erano in qualche modo immuni dall’essere messe a terra dalla filosofia dell’ “usa e getta” [1] degli investitori globali. Era un pensiero confortevole, ma il calvario dell’Europa dimostra che era un pio desiderio.

E non si tratta solo dell’Europa. Nell’ultimo decennio anche l’America ha conosciuto una vasta bolla immobiliare alimentata da capitali stranieri, seguita da postumi maligni dopo lo scoppio della bolla. Il danno è stato mitigato dal fatto che noi ci eravamo indebitati nella nostra valuta, ma si tratta pur sempre della peggiore crisi dagli anni Trenta.

E adesso? Non mi aspetto di assistere ad un rigetto immediato e completo dell’idea secondo la quale il denaro dovrebbe esser libero di andare dovunque voglia  quando lo voglia.  Ci può ben essere, tuttavia, un processo di erosione, nel momento in cui gli Stati intervengono per limitare sia la velocità con la quale i capitali entrano, che la quantità di quelli che escono. Il capitalismo globale è, probabilmente, sulla strada di diventare meno globale.

E va bene così. In questo momento, i brutti tempi andati, quando non era così facile muovere grandi capitali oltre i confini, non sembrano poi tanto brutti.  



 

[1] La espressione italiana è meno complicata di quella in lingua inglese. “Whipsaw” è l’atto di atterrare qualcuno investendolo da dietro all’altezza delle ginocchia, con l’effetto di una “frustata”. Invece “Love-‘em-and-leave-‘em” è l’avere una relazione fugace e al termine lasciare  il partner, meglio se avendolo illuso delle proprie intenzioni.

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