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Le marce della follia (New York Times 17 marzo 2013)

 

Marches of Folly

By PAUL KRUGMAN

Published: March 17, 2013

Ten years ago, America invaded Iraq; somehow, our political class decided that we should respond to a terrorist attack by making war on a regime that, however vile, had nothing to do with that attack.

Some voices warned that we were making a terrible mistake — that the case for war was weak and possibly fraudulent, and that far from yielding the promised easy victory, the venture was all too likely to end in costly grief. And those warnings were, of course, right.

There were, it turned out, no weapons of mass destruction; it was obvious in retrospect that the Bush administration deliberately misled the nation into war. And the war — having cost thousands of American lives and scores of thousands of Iraqi lives, having imposed financial costs vastly higher than the war’s boosters predicted — left America weaker, not stronger, and ended up creating an Iraqi regime that is closer to Tehran than it is to Washington.

 

So did our political elite and our news media learn from this experience? It sure doesn’t look like it.

The really striking thing, during the run-up to the war, was the illusion of consensus. To this day, pundits who got it wrong excuse themselves on the grounds that “everyone” thought that there was a solid case for war. Of course, they acknowledge, there were war opponents — but they were out of the mainstream.

The trouble with this argument is that it was and is circular: support for the war became part of the definition of what it meant to hold a mainstream opinion. Anyone who dissented, no matter how qualified, was ipso facto labeled as unworthy of consideration. This was true in political circles; it was equally true of much of the press, which effectively took sides and joined the war party.

CNN’s Howard Kurtz, who was at The Washington Post at the time, recently wrote about how this process worked, how skeptical reporting, no matter how solid, was discouraged and rejected. “Pieces questioning the evidence or rationale for war,” he wrote, “were frequently buried, minimized or spiked.”

 

 

Closely associated with this taking of sides was an exaggerated and inappropriate reverence for authority. Only people in positions of power were considered worthy of respect. Mr. Kurtz tells us, for example, that The Post killed a piece on war doubts by its own senior defense reporter on the grounds that it relied on retired military officials and outside experts — “in other words, those with sufficient independence to question the rationale for war.”

 

All in all, it was an object lesson in the dangers of groupthink, a demonstration of how important it is to listen to skeptical voices and separate reporting from advocacy. But as I said, it’s a lesson that doesn’t seem to have been learned. Consider, as evidence, the deficit obsession that has dominated our political scene for the past three years.

Now, I don’t want to push the analogy too far. Bad economic policy isn’t the moral equivalent of a war fought on false pretenses, and while the predictions of deficit scolds have been wrong time and again, there hasn’t been any development either as decisive or as shocking as the complete failure to find weapons of mass destruction. Best of all, these days dissenters don’t operate in the atmosphere of menace, the sense that raising doubts could have devastating personal and career consequences, that was so pervasive in 2002 and 2003. (Remember the hate campaign against the Dixie Chicks?)

 

But now as then we have the illusion of consensus, an illusion based on a process in which anyone questioning the preferred narrative is immediately marginalized, no matter how strong his or her credentials. And now as then the press often seems to have taken sides. It has been especially striking how often questionable assertions are reported as fact. How many times, for example, have you seen news articles simply asserting that the United States has a “debt crisis,” even though many economists would argue that it faces no such thing?

 

In fact, in some ways the line between news and opinion has been even more blurred on fiscal issues than it was in the march to war. As The Post’s Ezra Klein noted last month, it seems that “the rules of reportorial neutrality don’t apply when it comes to the deficit.”

What we should have learned from the Iraq debacle was that you should always be skeptical and that you should never rely on supposed authority. If you hear that “everyone” supports a policy, whether it’s a war of choice or fiscal austerity, you should ask whether “everyone” has been defined to exclude anyone expressing a different opinion. And policy arguments should be evaluated on the merits, not by who expresses them; remember when Colin Powell assured us about those Iraqi W.M.D.’s?

Unfortunately, as I said, we don’t seem to have learned those lessons. Will we ever?

 

Le marce della follia, di Paul Krugman

New York Times 17 marzo 2013

 

Dieci anni fa l’America invase l’Iraq; in qualche modo la nostra classe politica decise che dovevamo rispondere ad un attacco terrorista portando la guerra ad un regime che, per quanto disprezzabile, non aveva niente a che fare con quell’attacco. Alcune voci ammonirono che stavamo facendo un terribile errore – che il motivo della guerra era debole e probabilmente disonesto, e che lungi dal restituire la facile vittoria promessa, l’avventura si sarebbe anche troppo probabilmente conclusa con perdite dolorose. E quegli ammonimenti erano, naturalmente, giusti.

Si scoprì che non c’erano alcune armi di distruzione di massa; guardando indietro, era evidente che l’Amministrazione Bush avesse deliberatamente portato il paese in guerra con l’inganno. E la guerra – con il costo di migliaia di vite di americani e di decine di migliaia di vite di iracheni, con l’imposizione di costi finanziari enormemente più elevati di quelli che i sostenitori della guerra avevano previsto – lasciò l’America più debole, non più forte, e finì col dar vita ad un regime iracheno che è più vicino a Teheran che a Washington.

Impararono dunque qualcosa i nostri gruppi dirigenti politici ed i media, da questa esperienza? Non sembra proprio.

La cosa realmente impressionante, nel periodo antecedente alla guerra, fu l’illusione dell’unanimità. Ancora oggi, esperti che fecero quello sbaglio si giustificano con l’argomento che “tutti” pensavano ci fosse una solida ragione di guerra. Naturalmente, lo riconoscono, c’era chi si opponeva alla guerra – ma erano fuori dall’opinione corrente.

Il guaio di questo argomento è che era ed è di natura circolare: il sostegno alla guerra divenne un aspetto del significato stesso della espressione “avere una opinione corrente”. Chiunque dissentisse, per quanto fosse qualificato, era su due piedi etichettato come non meritevole di considerazione. Così era nei circoli della politica; parimenti era così in gran parte della stampa, che in sostanza prese posizione ed aderì al partito della guerra.

Howard Kurtz della CNN, che a quei tempi era al Washington Post, ha scritto di recente su come questo meccanismo funzionava, su come fosse scoraggiato ed impedito ogni scetticismo nei resoconti, per quanto solidamente fondato. “Articoli che mettevano in discussione le prove e la razionalità della guerra”, ha scritto, “erano il più delle volte sepolti, minimizzati o ostacolati”.

Strettamente connessa con queste prese di posizione era una reverenza esagerata e inopportuna verso le autorità. Solo le persone in posizioni di potere venivano considerate meritevoli di rispetto. Il signor Kurtz ci racconta, ad esempio, che The Post liquidò un articolo sui dubbi per la guerra scritto dal proprio giornalista esperto in materia di sicurezza che si fondava su opinioni di ufficiali dell’esercito in pensione e di esperti esterni – “in altre parole, coloro che avevano sufficiente indipendenza per porre domande sul fondamento logico della guerra”.

In sostanza, si trattò di una lezione dal vivo sui pericoli del conformismo, una dimostrazione di quanto sia importante ascoltare le voci dubbiose e tenere distinto il giornalismo dalle difese d’ufficio. Ma, come ho detto, non sembra che quella lezione sia servita. Si consideri, a titolo di prova, l’ossessione del deficit che ha dominato la nostra scena politica nei tre anni passati.

Ora, non intendo spingere questa analogia troppo avanti. Una cattiva politica economica non è moralmente equivalente ad una guerra combattuta con falsi pretesti, e se le previsioni degli allarmisti del deficit si sono il più delle volte mostrate sbagliate, in quel caso non ci sono stati sviluppi né definitivi né altrettanto impressionanti come il completo insuccesso nella scoperta di armi di distruzione di massa. Ma soprattutto, coloro che di questi tempi dissentono non operano nell’atmosfera di minaccia, con la sensazione che avanzare dei dubbi potrebbe comportare conseguenze devastanti per le persone e le carriere, che furono così pervasive nel 2002 e 2003 (vi ricordate la campagna d’odio contro le Dixie Chiks [1] ?)

Ma ora come allora abbiamo l’illusione della unanimità, una illusione basata su un meccanismo per il quale chiunque, uomo o donna, avanzi domande sul racconto ufficiale è immediatamente messo ai margini, per quanto siano forti le sue credenziali. Ed ora come allora sembra il più delle volte che i giornali abbiano preso posizione. In particolare è stata impressionante la frequenza con la quale affermazioni discutibili siano state riportate come fatti. Quante volte, ad esempio, avete letto articoli che semplicemente asserivano che gli Stati Uniti hanno una “crisi da debito”, nonostante che molti economisti ritenessero che il paese non si trovasse affatto davanti a niente del genere?

Di fatto, in qualche modo la distinzione tra notizie ed opinioni è stata anche maggiormente appannata sui temi della finanza pubblica, di quanto non avvenne nella marcia verso la guerra. Come notò lo scorso mese Ezra Klein su The Post, sembra che “le regole della neutralità della resocontazione non si applichino quando si arriva al tema del deficit”.

Quello che dovremmo aver appreso dalla debacle dell’Iraq è che non ci si sarebbe mai dovuti affidare alla presunta autorità. Se sentite dire che “tutti” sostengono una politica, che si tratti di essere a favore di una guerra o dell’austerità delle finanze pubbliche, dovreste chiedere se quel “tutti” è stato concepito in modo da escludere chiunque esprima una opinione diversa. E gli argomenti politici dovrebbero essere valutati nel merito, non a seconda di chi li esprime; vi ricordate quando Colin Powell ci assicurò sulle armi di distruzione di massa irachene?

Sfortunatamente, come ho detto, non sembra che abbiamo imparato da queste lezioni. Impareremo mai?


 

 


[1] Le Dixie Chicks sono un gruppo country statunitense nato a Dallas in Texas nel 1989. Durante il concerto del 10 marzo 2003 tenutosi allo Sheperd’s Bush Empire di Londra, a pochi giorni dall’invasione dell’Iraq da parte di una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, la cantante del gruppo Natalie Maines (nata a Lubbock, Texas) ha dichiarato al pubblico: « Giusto perché lo sappiate, ci vergogniamo che il presidente degli Stati Uniti venga dal Texas ». La frase, riportata dal quotidiano inglese The Guardian e poi ripresa dai media statunitensi, causò una vasta sollevazione contro le Dixie Chicks negli Stati Uniti, che comportò il boicottaggio dei brani delle Dixie Chicks da parte di numerose radio specializzate in musica country e la rottura del contratto di sponsorizzazione con la Lipton. La perdita di numerosi appassionati di musica country (la maggior parte dei quali tradizionalmente di fede repubblicana) e il boicottaggio di grossi network radiofonici non indussero  il gruppo a rinunciare alle proprie opinioni contro la guerra, e nell’ottobre 2004 le Dixie Chicks parteciparono a una serie di concerti del “Vote for Change Tour” in supporto alla campagna elettorale di John Kerry. La controversia politica delle Dixie Chicks è stata raccontata dal documentario del 2006 Dixie Chicks: Shut Up and Sing diretto dalla regista Barbara Kopple (Wikipedia).

ed mar 6

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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