The Story of Our Time
By PAUL KRUGMAN
Published: April 28,
Those of us who have spent years arguing against premature fiscal austerity have just had a good two weeks. Academic studies that supposedly justified austerity have lost credibility; hard-liners in the European Commission and elsewhere have softened their rhetoric. The tone of the conversation has definitely changed.
My sense, however, is that many people still don’t understand what this is all about. So this seems like a good time to offer a sort of refresher on the nature of our economic woes, and why this remains a very bad time for spending cuts.
Let’s start with what may be the most crucial thing to understand: the economy is not like an individual family.
Families earn what they can, and spend as much as they think prudent; spending and earning opportunities are two different things. In the economy as a whole, however, income and spending are interdependent: my spending is your income, and your spending is my income. If both of us slash spending at the same time, both of our incomes will fall too.
And that’s what happened after the financial crisis of 2008. Many people suddenly cut spending, either because they chose to or because their creditors forced them to; meanwhile, not many people were able or willing to spend more. The result was a plunge in incomes that also caused a plunge in employment, creating the depression that persists to this day.
Why did spending plunge? Mainly because of a burst housing bubble and an overhang of private-sector debt — but if you ask me, people talk too much about what went wrong during the boom years and not enough about what we should be doing now. For no matter how lurid the excesses of the past, there’s no good reason that we should pay for them with year after year of mass unemployment.
So what could we do to reduce unemployment? The answer is, this is a time for above-normal government spending, to sustain the economy until the private sector is willing to spend again. The crucial point is that under current conditions, the government is not, repeat not, in competition with the private sector. Government spending doesn’t divert resources away from private uses; it puts unemployed resources to work. Government borrowing doesn’t crowd out private investment; it mobilizes funds that would otherwise go unused.
Now, just to be clear, this is not a case for more government spending and larger budget deficits under all circumstances — and the claim that people like me always want bigger deficits is just false. For the economy isn’t always like this — in fact, situations like the one we’re in are fairly rare. By all means let’s try to reduce deficits and bring down government indebtedness once normal conditions return and the economy is no longer depressed. But right now we’re still dealing with the aftermath of a once-in-three-generations financial crisis. This is no time for austerity.
O.K., I’ve just given you a story, but why should you believe it? There are, after all, people who insist that the real problem is on the economy’s supply side: that workers lack the skills they need, or that unemployment insurance has destroyed the incentive to work, or that the looming menace of universal health care is preventing hiring, or whatever. How do we know that they’re wrong?
Well, I could go on at length on this topic, but just look at the predictions the two sides in this debate have made. People like me predicted right from the start that large budget deficits would have little effect on interest rates, that large-scale “money printing” by the Fed (not a good description of actual Fed policy, but never mind) wouldn’t be inflationary, that austerity policies would lead to terrible economic downturns. The other side jeered, insisting that interest rates would skyrocket and that austerity would actually lead to economic expansion. Ask bond traders, or the suffering populations of Spain, Portugal and so on, how it actually turned out.
Is the story really that simple, and would it really be that easy to end the scourge of unemployment? Yes — but powerful people don’t want to believe it. Some of them have a visceral sense that suffering is good, that we must pay a price for past sins (even if the sinners then and the sufferers now are very different groups of people). Some of them see the crisis as an opportunity to dismantle the social safety net. And just about everyone in the policy elite takes cues from a wealthy minority that isn’t actually feeling much pain.
What has happened now, however, is that the drive for austerity has lost its intellectual fig leaf, and stands exposed as the expression of prejudice, opportunism and class interest it always was. And maybe, just maybe, that sudden exposure will give us a chance to start doing something about the depression we’re in.
La storia del nostro tempo, di Paul Krugman
New York Times 28 aprile 2013
Quelli tra noi che hanno speso anni nel polemizzare contro la avventata austerità della finanza pubblica hanno proprio avuto due buone settimane. Gli studi accademici che si pensava giustificassero l’austerità hanno perso di credibilità [1]; i patiti dell’austerità, nella Commissione Europea e altrove, hanno attenuato la loro retorica. Il tono del dibattito è chiaramente cambiato.
La mia sensazione, tuttavia, è che molte persone ancora non capiscano di cosa si stia ragionando. Sembra dunque una buona occasione per offrire una specie di rinfrescatina sulla natura dei guai delle nostre economie e delle ragioni per le quali è ancora un pessimo periodo per tagliare la spesa pubblica.
Cominciamo da quella che risulta essere la cosa fondamentale da comprendere: l’economia non è come una famiglia singola. Le famiglie guadagnano quello che possono e spendono quanto stimano sia prudente; le opportunità di spesa e di guadagno sono due cose diverse. Nell’economia nel suo complesso, tuttavia, reddito e spesa sono interdipendenti: la mia spesa è il tuo reddito e la tua spesa è il mio reddito. Se entrambi abbattiamo nello stesso momento la spesa, anche i nostri due redditi cadranno.
E questo è quello che è accaduto dopo la crisi finanziaria del 2008. Molte persone improvvisamente tagliarono le spese, vuoi perché scelsero di farlo vuoi perché i loro creditori li costrinsero; nel frattempo, non molte persone erano nelle condizioni o volevano spendere maggiormente. Il risultato fu una caduta nei redditi che provocò anche una caduta nell’occupazione, provocando la depressione che è proseguita sino ad oggi.
Perché crollò la spesa? Principalmente a causa dello scoppio della bolla immobiliare e di un eccesso di debito del settore privato – ma se volete la mia opinione, la gente parla troppo di cosa andò storto negli anni del boom e non parla abbastanza di quello che dovremmo fare oggi. Per quanto fossero clamorosi gli eccessi del passato, non c’è alcuna buona ragione per doverli scontare con una disoccupazione di massa anno dopo anno.
Cosa dovremmo fare, dunque, per ridurre la disoccupazione? La risposta è: questo è il momento di una spesa pubblica sopra la norma, per sostenere l’economia finché il settore privato non ritrovi la voglia di spendere. Il punto cruciale è che, nelle attuali condizioni, lo Stato non è, ripeto non è, in competizione con il settore privato. La spesa pubblica non distrae risorse dagli usi privati; mette all’opera risorse non impiegate. L’indebitamento dello Stato non spiazza l’investimento privato; mobilita fondi che altrimenti sarebbero inutilizzati.
Ora, per esser chiari, questo non è un argomento per una maggiore spesa e per più ampi deficit di bilancio in tutte le condizioni – e la tesi secondo la quale le persone come me vogliono sempre deficit più elevati è semplicemente falsa. Giacché l’economia non è sempre in questo stato – di fatto, situazioni quali quella in cui siamo sono abbastanza rare. Si deve certamente cercar di ridurre i deficit ed abbassare il debito dello Stato una volta che tornino le normali condizioni e che l’economia non sia più depressa. Ma in questo momento stiamo ancora facendo i conti con le conseguenze di una crisi finanziaria che capita una volta ogni tre generazioni. Non è il momento dell’austerità.
E’ vero, io vi ho soltanto offerto una ricostruzione, perché dovreste crederla? Dopo tutto, ci sono persone che insistono che il problema vero è sul versante economico dell’offerta: che il lavoratori mancano delle specializzazioni di cui hanno bisogno, o che la assicurazione di disoccupazione ha distrutto l’incentivo a lavorare, o che la minaccia incombente della assistenza sanitaria di tipo universalistico [2]sta impedendo le assunzioni, o qualsiasi cosa. Come sappiamo che sbagliano?
Ebbene, potrei andare nei dettagli di questa tematica, ma ci si limiti ad osservare le previsioni che sono state formulate dai due versanti di questo dibattito. Quelli come me avevano giustamente previsto dall’inizio che ampi deficit di bilancio avrebbero avuto effetti modesti sui tassi di interesse, che la “stampa di moneta” su vasta scala da parte della Fed (non è una descrizione appropriata della effettiva politica della Fed, ma non è importante) non sarebbe stata inflazionista, che le politiche di austerità avrebbero portato ad una tremenda regressione delle economie. L’altro versante aveva ironizzato, ribadendo che i tassi di interesse sarebbero saliti alle stelle e che l’austerità avrebbe effettivamente portato ad una espansione economica. Si chieda a coloro che investono in obbligazioni, o alle popolazioni sofferenti della Spagna, del Portogallo e così via, come sia in effetti andata a finire.
La storia è davvero così semplice, e davvero sarebbe così facile por fine al flagello della disoccupazione? Si, ma persone potenti non vogliono crederci. Alcuni di loro hanno una percezione viscerale che soffrire sia un bene, che si debba pagare un prezzo per i peccati passati (anche se i peccatori di allora sono diversissimi gruppi di persone, rispetto ai sofferenti di oggi). Alcuni di loro vedono la crisi come l’occasione per smantellare la rete della sicurezza sociale. E quasi tutti nelle classi dirigenti traggono la loro ispirazione da una minoranza di ricchi che non stanno davvero soffrendo alcunché.
Quello che ora è accaduto, tuttavia, è che la spinta per l’austerità ha perso le sue foglie di fico intellettuali, ed è rimasta scoperta alla stregua della espressione di un pregiudizio, dell’opportunismo e dell’interesse di classe che l’hanno sempre caratterizzata. E forse, dico solo forse, quell’improvvisa esposizione ci offrirà la possibilità di cominciare a fare qualcosa per la depressione che ci circonda.
[1] Si vedano i tre precedenti articoli di Krugman, a proposito delle varie smentite ed infortuni che in questo periodo sono occorsi agli studi di quegli economisti (Reinhart/Rogoff ed Alesina/Ardagna) che erano stati maggiormente utilizzati come ispiratori teorici delle politiche di austerità.
[2] Ovvero, l’entrata in vigore della riforma della assistenza sanitaria di Obama.
By mm
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