April 4, 2013, 6:06 pm
A heads-up: I’m doing This Week this week. Also on the panel: David Stockman. This should be, um, interesting.
So, a few more thoughts on debt and what it does and doesn’t signify.
Start with the numbers that Stockman loves to cite, showing the ratio of total debt, public and private, to GDP:
Stockman, and to be fair quite a few people, would have us see this as evidence that we have been on a vast spending spree (Stockman is big on sprees), living far beyond our means and leaving us with no choice except a drastic reduction in spending. After all, debt is about 200 percent of GDP higher than it was before 1980. Isn’t this a giant burden on the nation?
OK, the sheer size of that number should tell you immediately that this can’t be right. Yes, we have run trade deficits and moved from being a net creditor to being a net debtor, but it’s not that big a deal (and we still earn more on our foreign assets than we pay on our foreign liabilities). So the surge in debt reflects a surge in money Americans owe to other Americans.
I wrote about this analytically a while back, laying out a stylized framework in which it is literally impossible for the nation to live beyond its means — because there is neither foreign trade nor investment — so that debt growth is always about one group within the country lending to another. This can present problems, partly because it concentrates risk on the leveraged parties, partly because of the possibility of forced deleveraging. But the issue in the latter case isn’t that we as a nation have overspent and need to spend less; it’s that some people are being forced to spend less, and we have a depression because other people won’t (NOT can’t) spend more.
This is how you want to think about debt: it’s not a burden on the nation’s resources, because it’s mainly money we owe to ourselves, and it’s a problem not because we have to tighten our belt but because debt is currently leading to spending that’s less than we need to maintain full employment.
I would add that one thing the model doesn’t cover is debt of financial intermediaries, which is a big part of the real story and if anything bears even less resemblance to the notion of debt as a consequence of national overspending; to a large extent it’s just an accounting issue, because old-fashioned deposits aren’t counted as debt even though they are.
Maybe a short way to put all this is to say that we have a real problem with excessive leverage; that’s not at all the same thing as the nation being deeply in hock to some external player or players. And failing to understand that difference is a way to get both the nature of our crisis and the shape of appropriate policies totally wrong.
Ragionare lucidamente sul debito
Un avviso: questa settimana sarò su This Week. All’incontro ci sarà anche David Stockman. Questo, speriamo, dovrebbe essere interessante.
Dunque, qualche ulteriore pensiero sul debito e su quello che esso significa e non significa.
Cominciamo dai dati che Stockman ama citare, mostrando la percentuale totale del debito, pubblico e privato, rispetto al PIL:
Stockman, e ad esser giusti non poche altre persone, vorrebbero che noi vedessimo in essi la prova che abbiamo convissuto con una grande frenesia di spesa (Stockman è grande con le frenesie!), vivendo molto oltre i nostri mezzi e lasciandoci nessuna altra possibilità se non una drastica riduzione della spesa. Dopo tutto il debito è circa il 200 per cento del PIL più alto di quanto non fosse prima del 1980. Non è questo un peso gigantesco per la nazione?
E’ vero, la mera dimensione di quel dato vi porterebbe subito a dire che esso non può essere sostenibile. Si, abbiamo realizzato deficit commerciali e ci siamo spostati dalla posizione di creditori netti e quella di debitori netti, ma non si tratta di un problema così grande (e noi ancora guadagniamo di più dai nostri assets all’estero [1]di quello che paghiamo per i nostri crediti verso l’estero). Dunque, la crescita del debito sono soldi che gli americani prestano ad altri americani.
Ho scritto su questo argomento in modo analitico un po’ di tempo fa [2], buttando giù uno schema stilizzato secondo il quale è letteralmente impossibile per la nazione vivere oltre i propri mezzi – giacché non ci sono né commercio estero né investimenti – cosicché la crescita del debito riguarda pur sempre un gruppo che presta ad un altro, all’interno del paese. Questo può presentare problemi, in parte perché esso concentra il rischio sulla componente indebitata, in parte a causa della possibilità di una riduzione obbligata dell’indebitamento. Ma nell’ultimo caso il tema non è l’aver speso troppo e l’aver bisogno di ridurre la spesa come nazione; è che alcune persone sono costrette a spendere di meno perché altre persone non vogliono (E NON non possono) spendere di più.
E’ questo quello che si deve pensare del debito: esso non grava sulle risorse della nazione, giacché è principalmente denaro che prestiamo a noi stessi, e non costituisce un problema perché dobbiamo stringere la cinghia, bensì perché il debito sta attualmente portando ad una spesa minore di quella di cui avremmo bisogno per mantenere la piena occupazione.
Vorrei aggiungere che un aspetto che il modello non comprende è il debito degli intermediari finanziari, che è una gran parte della storia reale, e semmai mostra una somiglianza anche minore con l’idea del debito come conseguenza di una eccessiva spesa nazionale; in larga misura esso è semplicemente un tema di contabilità, giacché i tradizionali depositi non sono considerati come debito anche se lo sono.
Forse un modo per dire in breve tutto questo è che noi abbiamo un problema reale con un eccessivo rapporto di indebitamento; che non è affatto la stessa cosa che dire che siamo impegnati verso uno o più protagonisti esterni. E non riuscire a capire quella differenza è un modo per sbagliare completamente nella comprensione sia della natura della crisi che della forma di politiche appropriate.
By mm
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