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Giappone, il modello (New York Times 23 maggio 2013)

Japan the Model

By PAUL KRUGMAN

Published: May 23, 2013

A generation ago, Japan was widely admired — and feared — as an economic paragon. Business best sellers put samurai warriors on their covers, promising to teach you the secrets of Japanese management; thrillers by the likes of Michael Crichton portrayed Japanese corporations as unstoppable juggernauts rapidly consolidating their domination of world markets.

 

Then Japan fell into a seemingly endless slump, and most of the world lost interest. The main exceptions were a relative handful of economists, a group that happened to include Ben Bernanke, now the chairman of the Federal Reserve, and yours truly. These Japan-obsessed economists viewed the island nation’s economic troubles, not as a demonstration of Japanese incompetence, but as an omen for all of us. If one big, wealthy, politically stable country could stumble so badly, they wondered, couldn’t much the same thing happen to other such countries?

Sure enough, it both could and did. These days we are, in economic terms, all Japanese — which is why the ongoing economic experiment in the country that started it all is so important, not just for Japan, but for the world.

In a sense, the really remarkable thing about “Abenomics” — the sharp turn toward monetary and fiscal stimulus adopted by the government of Prime Minster Shinzo Abe — is that nobody else in the advanced world is trying anything similar. In fact, the Western world seems overtaken by economic defeatism.

In America, for example, there are still more than four times as many long-term unemployed workers as there were before the economic crisis, but Republicans only seem to want to talk about fake scandals. And, to be fair, it has also been a long time since President Obama said anything forceful publicly about job creation.

Still, at least we’re growing. Europe’s economy is back in recession, and it has actually grown a bit less over the past six years than it did between 1929 and 1935; meanwhile, it keeps hitting new highs for unemployment. Yet there is no hint of a major change in policy. At best, we may be looking at a slight relaxation of the savage austerity programs Brussels and Berlin are imposing on debtor nations.

It would be easy for Japanese officials to make the same excuses for inaction that we hear all around the North Atlantic: they are hamstrung by a rapidly aging population; the economy is weighed down by structural problems (and Japan’s structural problems, especially its discrimination against women, are legendary); debt is too high (far higher, as a share of the economy, than that of Greece). And in the past, Japanese officials have, indeed, been very fond of making such excuses.

 

The truth, however — a truth that the Abe government apparently gets — is that all of these problems are made worse by economic stagnation. A short-term boost to growth won’t cure all of Japan’s ills, but, if it can be achieved, it can be the first step toward a much brighter future.

So, how is Abenomics working? The safe answer is that it’s too soon to tell. But the early signs are good — and, no, Thursday’s sudden drop in Japanese stocks doesn’t change that story.

The good news starts with surprisingly rapid Japanese economic growth in the first quarter of this year — actually, substantially faster growth than that in the United States, while Europe’s economy continued to shrink. You never want to make too much of one quarter’s numbers, but that’s the kind of thing we want to see.

 

Meanwhile, Japanese stocks have soared, while the yen has fallen. And, in case you’re wondering, a weak yen is very good news for Japan because it makes the country’s export industries more competitive.

Some observers have raised the alarm over rising Japanese long-term interest rates, even though these rates are still less than 1 percent. But the combination of rising interest rates and rising stock prices suggests that both reflect an increase in optimism, not worries about Japanese solvency.

 

To be sure, Thursday’s sell-off in Japanese stocks put a small dent in that optimistic assessment. But stocks are still way up from last year, and I’m old enough to remember Black Monday in 1987, when U.S. stocks suddenly fell more than 20 percent for no obvious reason, and the ongoing economic recovery suffered not at all.

So the overall verdict on Japan’s effort to turn its economy around is so far, so good. And let’s hope that this verdict both stands and strengthens over time. For if Abenomics works, it will serve a dual purpose, giving Japan itself a much-needed boost and the rest of us an even more-needed antidote to policy lethargy.

As I said at the beginning, at this point the Western world has seemingly succumbed to a severe case of economic defeatism; we’re not even trying to solve our problems. That needs to change — and maybe, just maybe, Japan can be the instrument of that change.

Giappone, il modello. Di Paul Krugman

New York Times 23 maggio 2013

 

Una generazione fa, il Giappone era generalmente ammirato – e temuto – come un modello economico. I libri di economia più venduti mettevano i guerrieri samurai in copertina, promettendo di insegnare i segreti dell’imprenditoria giapponese; thriller del genere di quelli di Michael Crichton descrivevano le grandi imprese giapponesi come inarrestabili macchine da guerra che consolidavano rapidamente  il loro dominio sui mercati del mondo.

Poi il Giappone cadde in una crisi apparentemente senza fine, e gran parte del mondo perse interesse. La più importante eccezione fu appena una manciata di economisti, un gruppo al quale per combinazione apparteneva Ben Bernanke, nonché il sottoscritto. Questi economisti un po’ fissati consideravano i guai economici della nazione isolana non come una dimostrazione dell’incompetenza giapponese, ma come un presagio che ci riguardava tutti. Se un paese grande, ricco e politicamente stabile poteva inciampare così malamente, si chiedevano, non sarebbe potuta accadere la stessa cosa ad altri paesi simili?

Di fatto, poteva accadere ed accadde. In questi giorni siamo, in termini economici, tutti giapponesi, e questa è la ragione per la quale l’esperimento economico in corso che ha dato il via a tutto ciò è così importante, non solo per il Giappone, ma per il mondo.

In un certo senso, la cosa davvero considerevole della politica economica di Abe – il brusco passaggio alle misure di sostegno monetarie e della spesa pubblica deciso dal Governo del Primo Ministro Shinzo Abe – è che nessun altro nel mondo avanzato sta cercando di fare niente di simile. Di fatto, il mondo occidentale sembra sopraffatto dal disfattismo economico.

In America, ad esempio, ci sono ancora lavoratori disoccupati di lungo termine quattro volte superiori di quelli che c’erano prima della crisi economica, ma i Repubblicani sembrano voler solo discutere di falsi scandali. E, per essere onesti, è anche un bel po’ che il Presidente Obama non dice pubblicamente niente di vigoroso sulla creazione di posti di lavoro.

Eppure, noi almeno stiamo crescendo.  L’economia dell’Europa è tornata in recessione, e nei sei anni trascorsi è cresciuta un po’ meno di quanto fece dal 1929 al 1935; nel frattempo, continua a toccare nuove vette di disoccupazione. Tuttavia non c’è alcun segno di importanti cambiamenti nella politica. Nel migliore dei casi, assistiamo ad un leggero allentamento dei programmi selvaggi di austerità che Bruxelles e Berlino stanno imponendo alle nazioni debitrici.

Sarebbe semplice per i dirigenti giapponesi accampare le stesse scuse per l’inazione che sentiamo dappertutto nel Nord Atlantico: essi sono frustrati da una popolazione in rapido invecchiamento; l’economia è oppressa da problemi strutturali (ed i problemi strutturali del Giappone, specialmente la sua discriminazione contro le donne, sono leggendari); il suo debito è troppo alto (di gran lunga più alto, in rapporto all’economia, di quello della Grecia). E, in effetti,  i dirigenti giapponesi nel passato non hanno davvero lesinato scuse del genere.

La verità, tuttavia – una verità che il Governo Abe pare aver capito – è che tutti questi problemi sono resi peggiori dalla stagnazione economica. Una spinta per la crescita nel breve termine non curerà tutti i mali del Giappone, ma, se può essere realizzata, può essere il primo passo verso un futuro molto più luminoso.

Sta dunque funzionando, l’economia di Abe? Una risposta prudente è che è troppo presto per dirlo. Ma i primi segnali sono positivi – e no, l’improvvisa caduta del mercato azionario giapponesi di giovedì  non cambia quel racconto.

Le buone notizie cominciano con una crescita economica sorprendentemente rapida del Giappone nel primo trimestre di quest’anno – una crescita in effetti sostanzialmente più rapida di quella degli Stati Uniti., mentre l’economia europea ha continuato a indietreggiare. Non si deve mai fare troppo affidamento ai dati di un trimestre, ma questo è il genere di cose che vogliamo vedere.

Nel frattempo, i valori azionari giapponesi sono schizzati in alto, mentre lo yen è caduto. E, nel caso ve lo stiate chiedendo, uno yen debole è un’ottima notizia per il Giappone, perché rende le industrie di esportazione del paese più competitive.

Alcuni osservatori hanno sollevato l’allarme sui crescenti tassi di interesse a lungo termine del Giappone, anche se questi tassi sono ancora sotto l’1 per cento. Ma la combinazione di tassi crescenti e di prezzi crescenti delle azioni indicano che entrambe sono il riflesso di un maggiore ottimismo, anziché il segno di preoccupazioni sulla solvibilità giapponese.

E’ chiaro che la svendita di giovedì delle azioni giapponesi ha intaccato quel giudizio ottimistico. Ma le azioni restano molto in alto rispetto all’anno passato, e sono anziano abbastanza per ricordare il “lunedì nero” del 1987 [1], quando le azioni statunitensi caddero per più del 20 per cento senza alcuna ragione plausibile, e la perdurante ripresa economica non ne soffrì affatto.

Dunque, il verdetto complessivo sullo sforzo del Giappone di cambiar pagina è sinora assai positivo. E speriamo che questo giudizio si stabilizzi e si rafforzi col tempo. Perché se la politica economica di Abe funzionerà, servirà ad un doppio scopo, dando allo stesso Giappone una spinta tanto necessaria ed al resto del mondo un antidoto contro la letargia ancora più necessario.

Come ho detto all’inizio, a questo punto il mondo occidentale sembra essersi arreso ad una grave manifestazione di disfattismo economico; non stiamo neanche cercando di aggredire i nostri problemi. C’è bisogno di un cambiamento – e forse, dico solo forse, il Giappone può essere lo strumento di quel cambiamento.

 

[1]  Il 19 ottobre del 1987, data passata alla storia come il “lunedì nero”, I mercato finanziari in tutto il mondo ebbero un crollo, bruciando in breve tempo enormi valori. Il crollo ebbe inizio ad Hong Kong e si diffuse ad Occidente verso l’Europa, toccando gli Stati Uniti dopo che altri mercati avevano conosciuto significative perdite. Il Dow Jones perse punti per il 22,61 %.

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