Matt O’Brien is probably right to suggest that Michael Kinsley’s problems — and those of quite a few other people, some of whom have real influence on policy — is that they’re still living in the 1970s. I do, however, resent that thing about 60-year-old men …
But it’s actually even worse than Matt says. For the 1970s such people remember as a cautionary tale bears little resemblance to the 1970s that actually happened.
In elite mythology, the origins of the crisis of the 70s, like the supposed origins of our current crisis, lay in excess: too much debt, too much coddling of those slovenly proles via a strong welfare state. The suffering of 1979-82 was necessary payback.
None of that is remotely true.
There was no deficit problem: government debt was low and stable or falling as a share of GDP during the 70s. Rising welfare rolls may have been a big political problem, but a runaway welfare state more broadly just wasn’t an issue — hey, these days right-wingers complaining about a nation of takers tend to use the low-dependency 70s as a baseline.
What we did have was a wage-price spiral: workers demanding large wage increases (those were the days when workers actually could make demands) because they expected lots of inflation, firms raising prices because of rising costs, all exacerbated by big oil shocks. It was mainly a case of self-fulfilling expectations, and the problem was to break the cycle.
So why did we need a terrible recession? Not to pay for our past sins, but simply as a way to cool the action. Someone — I’m pretty sure it was Martin Baily — described the inflation problem as being like what happens when everyone at a football game stands up to see the action better, and the result is that everyone is uncomfortable but nobody actually gets a better view. And the recession was, in effect, stopping the game until everyone was seated again.
The difference, of course, was that this timeout destroyed millions of jobs and wasted trillions of dollars.
Was there a better way? Ideally, we should have been able to get all the relevant parties in a room and say, look, this inflation has to stop; you workers, reduce your wage demands, you businesses, cancel your price increases, and for our part, we agree to stop printing money so the whole thing is over. That way, you’d get price stability without the recession. And in some small, cohesive countries that is more or less what happened. (Check out the Israeli stabilization of 1985).
But America wasn’t like that, and the decision was made to do it the hard, brutal way. This was not a policy triumph! It was, in a way, a confession of despair.
It worked on the inflation front, although some of the other myths about all that are just as false as the myths about the 1970s. No, America didn’t return to vigorous productivity growth — that didn’t happen until the mid-1990s. 60-year-old men should remember that a decade after the Volcker disinflation we were still very much in a national funk; remember the old joke that the Cold War was over, and Japan won?
So it would be bad enough if we were basing policy today on lessons from the 70s. It’s even worse that we’re basing policy today on a mythical 70s that never was.
I mitici anni ‘70
Matt O’Brien ha probabilmente ragione a suggerire che i problemi di Michael Kinsley – e quelli di poche altre persone, alcune delle quali hanno una influenza reale nella politica – è che essi sono ancora quelli che esistevano negli anni ’70. Tuttavia, io proprio non sopporto queste storie sui sessantenni ….
Ma, in effetti, è persino peggio di quello che dice Matt. Perché gli anni ’70 che queste persone ricordano come una storia ammonitrice hanno poca somiglianza con quello che accadde davvero negli anni ’70.
Nella mitologia delle classi dirigenti, le origini della crisi degli anni ’70, come le supposte origini della crisi attuale, stavano negli eccessi: troppo debito, troppo coccolamento dei quegli operai trasandati attraverso lo stato assistenziale. La sofferenza degli anni 1979-1982 fu una restituzione obbligata.
Niente di questo corrisponde lontanamente al vero.
Non c’era un problema di deficit: il debito dello Stato, durante gli anni ’70, era basso e stabile se non in calo come percentuale del PIL. I crescenti sussidi dello stato assistenziale possono essere stati un grande problema politico, ma uno stato assistenziale fuori controllo in senso lato non era proprio un tema all’ordine del giorno – badate, ai giorni nostri i conservatori che si lamentano sulla nazione di assistiti sono propensi ad utilizzare gli anni settanta come punto di riferimento indicativo di una bassa dipendenza.
Quello che avevamo era una spirale prezzi-salari: i lavoratori chiedevano aumenti salariali (quelli erano tempi nei quali i lavoratori potevano effettivamente fare richieste) perché si aspettavano molta inflazione, le imprese aumentavano i prezzi a causa degli incrementi nei costi, tutti erano esacerbati dai grandi shocks petroliferi. Era fondamentalmente un caso di aspettative che si autoalimentavano, ed il problema era interrompere il circolo.
Perché, dunque, avemmo bisogno di una terribile recessione? Non fu il prezzo di peccati passati, ma semplicemente un modo per raffreddare l’iniziativa. Qualcuno – sono quasi sicuro che fosse Martin Baily [1] – descrisse il problema dell’inflazione in modo simile a quello che avviene quando in una partita di pallone tutti si alzano per vedere meglio l’azione, ed il risultato è che tutti hanno un disagio mentre nessuno ottiene una visibilità migliore. E la recessione, in sostanza, fu come interrompere la partita finché tutti non si sedettero nuovamente.
La differenza, naturalmente, fu che questa sospensione distrusse milioni di posti di lavoro e sprecò migliaia di miliardi di dollari.
C’era un modo migliore? In teoria, avremmo dovuto essere capaci di mettere tutti i protagonisti importanti in una stanza e di dire: guardate, questa inflazione deve finire; voi lavoratori riducete le vostre richieste salariali, voi imprenditori cancellate i vostri aumenti dei prezzi, e da parte nostra ci mettiamo d’accordo nel fermare la creazione di nuova moneta finché tutta la faccenda non è passata. In quel modo, si sarebbe ottenuta la stabilità dei prezzi senza recessione. Ed è più o meno quello che accadde in qualche piccola e coesa nazione (si veda la stabilizzazione in Israele nel 1985).
Ma l’America non era fatta in quel modo e fu presa la decisione di ottenerlo in modo duro, brutale. Non fu un trionfo della politica! Fu, in un certo senso, una confessione di impotenza.
Funzionò sul fronte dell’inflazione, sebbene alcuni dei miti al proposito sono semplicemente falsi come i miti degli anni ’70. No, l’America non tornò ad una vigorosa crescita della produttività – quello non accadde fino alla metà degli anni ’90. Le persone che sono sulla sessantina dovrebbero ricordare che dopo la disinflazione di Volcker [2]eravamo ancora molto in depressione; vi ricordate la vecchia battuta secondo la quale la Guerra Fredda era finita, ed aveva vinto il Giappone?
Sarebbe dunque piuttosto negativo se basassimo la politica odierna sulle lezioni degli anni ’70. Ed ancora peggio se basassimo la politica di oggi su mitici anni ’70 che non sono mai esistiti.
[1] Probabilmente si tratta di Martin Neil Bailey, economista presso la Brookings Institution che fu anche Presidente dal 1999 al 2001 del Collegio dei Consulenti economici di Bill Clinton.
[2] Paul Adolph Volcker (5 settembre 1927) è un economista statunitense. Era il presidente della Federal Reserve sotto i presidenti Jimmy Carter e Ronald Reagan (dall’agosto 1979 all’agosto 1987). È stato Presidente del gruppo nordamericano della Commissione Trilaterale dal 1991 al 2001.
By mm
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