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Affamare il calamaro, di Brad DeLong (28 giugno 2013)

 

 

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J. Bradford DeLong

Jun. 28, 2013

Starving the Squid

BERKELEY – Is America’s financial sector slowly draining the lifeblood from its real economy? The journalist Matt Taibbi’s memorable description in 2009 of Goldman Sachs – “a great vampire squid wrapped around the face of humanity, relentlessly jamming its blood funnel into anything that smells like money” – still resonates, and for good reason.

Back in 2011, I noted that finance and insurance in the United States accounted for 2.8% of GDP in 1950 compared to 8.4% of GDP three years after the worst financial crisis in almost 80 years. “[I]f the US were getting good value from the extra…$750 billion diverted annually from paying people who make directly useful goods and provide directly useful services, it would be obvious in the statistics.”

 

Such a massive diversion of resources “away from goods and services directly useful this year,” I argued, “is a good bargain only if it boosts overall annual economic growth by 0.3% – or 6% per 25-year generation.” In other words, it is a good bargain only if it collectively has a substantial amount of what financiers call “alpha.”

That had not happened, so I asked why so much financial skill and enterprise had not yielded “obvious economic dividends.” The reason, I proposed, was that “[t]here are two sustainable ways to make money in finance: find people with risks that need to be carried and match them with people with unused risk-bearing capacity, or find people with such risks and match them with people who are clueless but who have money.”

Over the past year and a half, in the wake of Thomas Philippon and Ariell Reshef’s estimate that 2% of US GDP has been wasted in the pointless hypertrophy of the financial sector, evidence that America’s financial system is less a device for efficiently sharing risk and more a device for separating rich people from their money – a Las Vegas without the glitz – has mounted.

This is not a partisan view. Bruce Bartlett, a senior official in the Reagan and George H. W. Bush administrations, recently pointed to research showing the sharp rise in the financialization of the US economy. He then cited empirical work suggesting that financial deepening is useful only in the early stages of economic development, evidence of a negative correlation between financial deepening and real investment, and the withering conclusion of Adair Turner, Britain’s former top financial regulator: “There is no clear evidence that the growth in the scale and complexity of the financial system in the rich developed world over the last 20 to 30 years has driven increased growth or stability.”

 

Four years ago, during the 2008-9 crisis, I was largely ambivalent about financialization. It seemed to me that, yes, our modern sophisticated financial systems had created enormous macroeconomic risks. But it also seemed to me that a world short of risk-bearing capacity needed virtually anything that induced people to commit their money to long-term risky investments.

In other words, such a world needed either the reality or the illusion that finance could, as John Maynard Keynes put it, “defeat the dark forces of time and ignorance which envelop our future.” Most reforms that would guard against macroeconomic risk would also limit the ability of finance to persuade people to commit to long-term risky investments, and hence further lower the supply of finance willing to assume such undertakings.

 

But events and economic research since the crisis have demonstrated three things. First, modern finance is simply too politically powerful for legislatures or regulators to restrain its ability to create systemic macroeconomic risk. At the same time, it has not preserved its ability to entice customers with promises of safe, sophisticated money management.

Second, the correlations between economic growth and financial deepening on which I relied do indeed vanish when countries’ financial systems move beyond banks, electronic funds transfer, and bond markets to more sophisticated instruments.

Finally, the social returns from investment in finance as the industry of the future have largely disappeared over the past generation. A back-of-the-envelope calculation of mine in 2007 suggested that the world paid financial institutions roughly $800 billion every year for mergers and acquisitions that yielded about $170 billion of real economic value. That rather poor cost-benefit ratio does not appear to be improving.

 

Back in 2011, I should have read Keynes’s General Theory a little further, to where he suggests that “when the capital development of a country becomes a by-product of the activities of a casino, the job is likely to be ill-done.” At that point, it is time either for creative thinking about how funding can be channeled to the real economy in a way that bypasses modern finance, with its large negative alpha, or to risk being sucked dry.

 

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J. Bradford DeLong

28 giugno 2013

 

Affamare il calamaro

 

Berkeley – Il settore finanziario Americano sta lentamente drenando linfa vitale dalla sua economia reale? La memorabile descrizione nel 2009 del giornalista Matta Taibbi di Goldman Sachs – “un grande calamaro vampiro si è avvolto sulla faccia dell’umanità, facendo inesorabilmente aderire la sua ventosa per il sangue in tutto quello che ha il sentore di denaro” – ancora echeggia, a buona ragione.

Nel passato 2011, osservavo che la finanza e le assicurazioni negli Stati Uniti pesavano il 2,8 per cento del PIL nel 1950, a confronto dell’8,4 per cento del PIL, tra anni dopo la peggiore crisi finanziaria da circa 80 anni. “Se gli Stati Uniti avessero ottenuto un buon compenso per i 750 miliardi di dollari aggiuntivi che ogni anno distolgono dal pagare le persone che producono direttamente beni utili e forniscono direttamente servizi utili, questo si rifletterebbe  chiaramente nelle statistiche”.

Un tale massiccia distrazione di risorse “da beni e servizi direttamente utili nell’anno in corso”, sostenevo, “è un buon affare soltanto se sostiene una crescita economica annuale complessiva dello 0,3 % – oppure dello 0,6 % per il venticinquennio di una generazione”. In altre parole, è un buon affare sole se collettivamente ha un ammontare pari a ciò che i finanzieri chiamano “alfa” [1].

Non è quanto è avvenuto, cosicché chiedevo perché tanta competenza finanziaria e intraprendenza non avesse fruttato “elementari dividendi economici”. Proponevo che il motivo fosse che “ci sono due modi accettabili di fare soldi nella finanza: trovare persone che assumono rischi per quel bisogno di essere guidate e abbinarle con persone che hanno una inconsueta capacità di sopportare i rischi, oppure trovare persone capaci di tali rischi ed abbinarle con persone del tutto inesperte, che però hanno soldi.”

Nell’anno e mezzo passato, sulla scia della stima di Thomas Philippon ed Ariell Reshef secondo la quale il 2% del PIL degli Stati Uniti è stato sprecato per l’ipertrofia senza scopo del sistema finanziario, sono cresciute le prove che il sistema finanziario americano non è tanto un congegno per una efficiente condivisione del rischio quanto un sistema per separare le persone ricche dai loro soldi – una Las Vegas  senza ostentazione.

Questo non è un punto di vista fazioso. Bruce Bartlett, un dirigente di lungo corso nella amministrazioni Reagan e George H. W. Bush, ha di recente fatto riferimento ad una ricerca che mostra la brusca crescita del sistema di finanziarizzazione dell’economia degli Stati Uniti. Ha poi preso in considerazione un lavoro su materiale statistico che indica come il potenziamento del sistema finanziario sia utile solo nei primi stadi dello sviluppo economico, le prove di una correlazione negativa tra il potenziamento del sistema finanziario e gli investimenti reali, e la raggelante conclusione di Adair Turner, precedente regolatore finanziario britannico di alto livello: “Non ci sono chiare prove che la crescita nella dimensione e nella complessità del sistema finanziario nel ricco mondo sviluppato tra gli ultimi 20 e 30 anni abbia portato ad un aumento della crescita e della stabilità”.

Quattro anni fa, durante la crisi 2008-2009, fui in gran parte ambiguo sulla finanziarizzazione. Mi sembrava, è vero, che i nostri moderni sofisticati sistemi finanziari avessero creato rischi macroeconomici. Ma mi sembrava anche che una qualche capacità di sopportare rischi su scala mondiale avesse praticamente bisogno di qualcosa che inducesse le persone a impegnare i loro soldi in rischiosi investimenti a lungo termine.

In altre parole, un mondo del genere ha bisogno sia della realtà che dell’illusione che la finanza possa, come si espresse John Maynard Keynes, “sconfiggere le forze buie del tempo e l’ignoranza che avvolge il nostro futuro”. Gran parte delle riforme che avessero protetto dal rischio macroeconomico, avrebbero anche limitato la possibilità per la finanza di persuadere le persone ad impegnarsi in investimenti rischiosi a lungo termine, e di conseguenza avrebbero ulteriormente abbassato l’offerta di finanza disposta ad impegnarsi in tali progetti.

Ma i fatti e la ricerca economica dalla crisi in poi hanno dimostrato tre cose. La prima, che la finanza moderna è troppo potente politicamente perché gli organi legislativi e regolamentari possano ridurre la sua disposizione a creare rischi macroeconomici. Allo stesso tempo, essa non ha conservato la sua capacità di persuadere i clienti con promesse di una gestione sicura e sofisticata del denaro.

In secondo luogo,  le correlazioni tra crescita economica e potenziamento del sistema finanziario sulle quali mi basavo sono proprio svanite al momento in cui i sistemi finanziari dei vari paesi hanno messo in movimento oltre le banche,  il trasferimento elettronico dei fondi ed i mercati dei bonds, verso strumenti più sofisticati.

Infine, i ritorni sociali dell’investimento nella finanza come l’industria del futuro è in gran parte scomparso nel corso della passata generazione. Un calcolo approssimativo da me fatto nel 2007 indicava che il mondo aveva pagato gli istituti finanziari grosso modo 800 miliardi di dollari all’anno per fusioni ed acquisizioni che avevano reso circa 170 miliardi di dollari di reale valore economico. Questo rapporto costi benefici piuttosto modesto non sembra stia migliorando.

Nel 2011, avrei dovuto leggere la Teoria Generale di Keynes in un passo successivo, nel quale egli suggerisce che “quando lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che il lavoro sia fatto malamente”. A quel punto, è tempo sia di pensieri creativi su come i finanziamenti possano essere incanalati verso l’economia reale in modi che vadano oltre la moderna finanza, con un “alfa” ampiamente negativo, sia di prosciugare i rischi.


[1] Nella teoria degli investimenti, alfa è il coefficiente che esprime la componente di rendimento ottenibile da un titolo, direttamente legata ad esso e indipendente dal mercato. Il coefficiente Alfa esprime il rendimento di un titolo nel caso specifico in cui il rendimento di mercato sia nullo.

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