June 19, 2013, 4:28 am
Ah, Paris! You walk for miles and miles — it’s still, after all these years, a spectacularly beautiful city. Then you have as traditional a meal as possible at an old-fashioned bistro, washed down with lots of wine.
And you feel like hell the next morning. Blogging may be a bit limited.
But I’m still thinking about the conference I was just at, and my own reactions. It was a business-y affair, and like all the economics/business conferences I’ve attended, it was full of speakers declaring that everything is different, nothing you learned from the past is relevant, and so on. Hey, I understand — people attend such conferences in large part to get shaken out of their routines, and don’t want curmudgeons telling them that there’s nothing new under the sun.
So I’m kind of an outlier, since when it comes to macro issues I am pretty much a curmudgeon, someone who thinks that the similarities between our time and the 90s in Japan or the 30s everywhere are a lot more important than the differences. But obviously things do change over the decades. And this morning I find myself wondering, how are these times different?
Not, as I’ve argued, because of globalization. But there is at least one important respect in which the 21st-century economy is different in a way that ought to have a significant effect on macroeconomics: the much larger role of rents on intangible assets. This isn’t an original insight, but I haven’t been finding systematic analyses of the point.
What do I mean by the role of rents? Consider the changing identity of the most valuable company in America. For a long time, it was GM, then Exxon, then IBM. These were companies with huge visible production activities: GM had more than 400,000 employees, which was amazing when you consider that the overall national work force was much smaller than the one we have today, Exxon had oil refineries. IBM was an information technology company, but it still had many of the attributes of an old-style manufacturing giant, with many factories and a large, well-paid work force.
But now it’s Apple, which has hardly any employees and does hardly any manufacturing. The company tries, through fairly desperate PR efforts, to claim that it is indirectly responsible for lots of US jobs, but never mind. The reality is that the company is basically built around technology, design, and a brand identity.
There was an old Dilbert in which the pointy-haired boss explained that the company had discovered that despite its slogan, people weren’t its most important asset — money was, and people only came in at #8 or something. Actually, in Apple’s case market position is its most important asset.
There are a couple of obvious implications from this change in the nature of corporate success. One is that profits are no longer anything remotely resembling a “natural” aspect of the economy; they’re very much an artifact of antitrust policy or the lack thereof, intellectual property policy, etc. Another is that a lot of what we consider output is “produced” at low or zero marginal cost.
So in some respects these times are different. How does this change things for economic policy? I’m thinking, I’m thinking. First, more coffee.
In che senso questi sono tempi diversi?
Ah, Parigi! Cammini per miglia e miglia, ed è ancora, dopo tutti questi anni, una spettacolosa bella città. Poi vai a pranzo in un bistrò possibilmente all’antica e lo innacqui con vino abbondante.
E il giorno dopo ti senti d’inferno, e l’attività del blog ne può risentire.
Eppure sto ancora pensando alla conferenza alla quale ho appena partecipato, ed alle mie personali reazioni. Era del genere delle iniziative per il mondo delle imprese, e come tutte le conferenze economico affaristiche alle quali ho partecipato, era piena di oratori che dichiaravano che tutto è cambiato, che niente di quello che si è imparato nel passato è ancora valido, e così via. Insomma, io capisco – la gente aspetta tali conferenze in gran parte per scrollarsi dalla routine, e non vuole ascoltare gente barbosa che gli dice che non c’è niente di nuovo sotto il sole.
Dunque, io sono uno del genere di quelli fuori-posto, quando si arriva ai temi macroeconomici divento abbastanza bisbetico, uno che pensa che le somiglianze tra i tempi attuali e gli anni ’90 in Giappone o gli anni ’30 dappertutto sono molto più importanti delle differenze. Ma è pur evidente che le cose cambiano nel corso dei decenni. E questa mattina mi ritrovo a chiedermi, in che senso questi tempi sono diversi?
Non, come ho già sostenuto, per via della globalizzazione. Ma c’è almeno un aspetto importante rispetto al quale l’economia del 21° secolo è differente in un modo che potrebbe avere un effetto significativo sulla teoria economica: il ruolo più ampio delle rendite sugli assets immateriali. Non si tratta di una intuizione originale, ma non ho ancora trovato una analisi sistematica di questo punto.
Cosa intendo per il ruolo delle rendite? Si consideri quanto è cambiata l’identità della società di maggior valore in America. Per un lungo periodo fu la General Motors, poi la Exxon, poi la IBM. Erano imprese con attività produttive molto visibili: la GM aveva più di 400.000 occupati, i che era impressionane se si considera che la complessiva forza lavoro nazionale era molto più piccola di quella che abbiamo oggi, La Exxon aveva le raffinerie del petrolio. La IBM era un società della tecnologia dell’informazione, ma aveva ancora molte delle caratteristiche di un tradizionale gigante manifatturiero, con molti stabilimenti ed ampie maestranze ben pagate.
Ma ora abbiamo la Apple, che a fatica ha degli occupati ed a fatica fa qualcosa di manifatturiero. La società cerca, con sforzi disperati di pubbliche relazioni, di sostenere che essa ha la responsabilità indiretta di una quantità di posti di lavoro negli Stati Uniti, ma non è importante. La realtà è che la società è fondamentalmente costruita sulla tecnologia, sul design e sul marchio.
C’era un vecchio cartoon di Dilbert [1] nel quale il capo con la capigliatura spigolosa spiegava che l’impresa aveva scoperto che, malgrado il suo slogan, la gente non era il suo bene più importante – era il denaro, e la gente arrivava in ottava posizione [2], o qualcosa del genere. In effetti, nel caso di Apple la posizione sul mercato è il suo asset più importante.
Ci sono un paio di evidenti implicazioni in questo cambiamento della natura del successo di un’impresa. Il primo è che i profitti non sono più qualcosa di neanche lontanamente somigliante ad un aspetto “naturale” dell’economia; sono in gran parte il prodotto di una politica o della mancanza di una politica dell’antitrust, della politica sulla proprietà intellettuale, e così via. Un altro è che molto di quella che consideriamo la produzione è “prodotta” ad un costo marginale basso o nullo.
Dunque, sotto alcuni aspetti questi tempi sono diversi. Come questo cambia le cose dal punto di vista della politica economica? Ci sto pensando, ci sto pensando. Ma prima, un altro po’ di caffè.
[1] Dilbert è una striscia a fumetti comica giornaliera creata da Scott Adams. Essa prende il nome dal suo protagonista, il quale è immerso nell’ambiente del lavoro impiegatizio, del quale mette in luce vizi e difetti. Dilbert compare su 2500 quotidiani di tutto il mondo, in 65 nazioni e 19 lingue con oltre 150 milioni di fan (Wikipedia). E questo dovrebbe essere il boss.
[2] Negli Stati Uniti il simbolo cosiddetto “cancelletto” (#) viene utilizzato per indicare la collocazione numerica. Come l’italiano “N°”.
By mm
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