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Profitti senza produzione (New York Times, 20 giugno 2013)

 

Profits Without Production

By PAUL KRUGMAN

Published: June 20, 2013

One lesson from recent economic troubles has been the usefulness of history. Just as the crisis was unfolding, the Harvard economists Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff — who unfortunately became famous for their worst work — published a brilliant book with the sarcastic title “This Time Is Different.” Their point, of course, was that there is a strong family resemblance among crises. Indeed, historical parallels — not just to the 1930s, but to Japan in the 1990s, Britain in the 1920s, and more — have been vital guides to the present.

Yet economies do change over time, and sometimes in fundamental ways. So what’s really different about America in the 21st century?

The most significant answer, I’d suggest, is the growing importance of monopoly rents: profits that don’t represent returns on investment, but instead reflect the value of market dominance. Sometimes that dominance seems deserved, sometimes not; but, either way, the growing importance of rents is producing a new disconnect between profits and production and may be a factor prolonging the slump.

To see what I’m talking about, consider the differences between the iconic companies of two different eras: General Motors in the 1950s and 1960s, and Apple today.

Obviously, G.M. in its heyday had a lot of market power. Nonetheless, the company’s value came largely from its productive capacity: it owned hundreds of factories and employed around 1 percent of the total nonfarm work force.

Apple, by contrast, seems barely tethered to the material world. Depending on the vagaries of its stock price, it’s either the highest-valued or the second-highest-valued company in America, but it employs less than 0.05 percent of our workers. To some extent, that’s because it has outsourced almost all its production overseas. But the truth is that the Chinese aren’t making that much money from Apple sales either. To a large extent, the price you pay for an iWhatever is disconnected from the cost of producing the gadget. Apple simply charges what the traffic will bear, and given the strength of its market position, the traffic will bear a lot.

 

 

Again, I’m not making a moral judgment here. You can argue that Apple earned its special position — although I’m not sure how many would make a similar claim for Microsoft, which made huge profits for many years, let alone for the financial industry, which is also marked by a lot of what look like monopoly rents, and these days accounts for roughly 30 percent of total corporate profits. Anyway, whether corporations deserve their privileged status or not, the economy is affected, and not in a good way, when profits increasingly reflect market power rather than production.

Here’s an example. As many economists have lately been pointing out, these days the old story about rising inequality, in which it was driven by a growing premium on skill, has lost whatever relevance it may have had. Since around 2000, the big story has, instead, been one of a sharp shift in the distribution of income away from wages in general, and toward profits. But here’s the puzzle: Since profits are high while borrowing costs are low, why aren’t we seeing a boom in business investment? And, no, investment isn’t depressed because President Obama has hurt the feelings of business leaders or because they’re terrified by the prospect of universal health insurance.

 

 

Well, there’s no puzzle here if rising profits reflect rents, not returns on investment. A monopolist can, after all, be highly profitable yet see no good reason to expand its productive capacity. And Apple again provides a case in point: It is hugely profitable, yet it’s sitting on a giant pile of cash, which it evidently sees no need to reinvest in its business.

 

Or to put it differently, rising monopoly rents can and arguably have had the effect of simultaneously depressing both wages and the perceived return on investment.

You might suspect that this can’t be good for the broader economy, and you’d be right. If household income and hence household spending is held down because labor gets an ever-smaller share of national income, while corporations, despite soaring profits, have little incentive to invest, you have a recipe for persistently depressed demand. I don’t think this is the only reason our recovery has been so weak — weak recoveries are normal after financial crises — but it’s probably a contributory factor.

 

 

 

Just to be clear, nothing I’ve said here makes the lessons of history irrelevant. In particular, the widening disconnect between profits and production does nothing to weaken the case for expansionary monetary and fiscal policy as long as the economy stays depressed. But the economy is changing, and in future columns I’ll try to say something about what that means for policy.

 

Profitti senza produzione, di Paul Krugman

 

L’utilità della storia è stata una lezione dei recenti guai dell’economia. Proprio mentre la crisi si stava dispiegando, gli economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kennet Rogoff – che sfortunatamente sono diventati famosi per il loro lavoro peggiore – pubblicarono un libro di successo dal titolo sarcastico “Questa volta è diverso”. La loro tesi, naturalmente, era che c’è una forte somiglianza di genere tra le crisi. Il effetti, i paralleli storici – non solo con gli anni ’30, ma con il Giappone negli anni ’90, con l’Inghilterra negli anni ’20, ed altri ancora – sono stati guide vitali al presente.

Tuttavia è un fatto che le economie cambiano col tempo, e talvolta in modi sostanziali. Cosa c’è dunque realmente di diverso nell’America del ventunesimo secolo?

La risposta più rilevante, direi, è l’importanza crescente delle rendite monopolistiche: profitti che non rappresentano ritorni degli investimenti, e riflettono invece il valore del dominio sui mercati. Qualche volta il dominio sembra meritato, qualche volta no; ma, in ogni caso, l’importanza crescente delle rendite sta producendo una nuova sconnessione tra profitti e produzione e può essere una causa del protrarsi della crisi.

Per capire di cosa sto parlando, si considerino le differenze tra le due imprese simbolo di due diverse epoche: la General Motors egli anni ’50 e ’60 e la Apple oggi.  

Ovviamente, la GM nel suo pieno fulgore aveva un bel po’ di potere sui mercati. Eppure, il valore della società derivava in larga parte dalla sua capacità produttiva: le centinaia di stabilimenti di sua proprietà e circa l’uno per cento degli occupati del totale delle forze di lavoro non agricole.

Per contrasto Apple  sembra appena legata al mondo materiale. Dipendente dalle stravaganze del prezzo delle sue azioni, talvolta è la società più quotata in America, talvolta la seconda più quotata, purtuttavia impiega meno dello 0,05 per cento dei nostri lavoratori. In qualche misura, questo dipende dal fatto che ha esternalizzato quasi tutta la sua produzione oltreoceano. Ma la verità è che neanche i cinesi stanno facendo un mucchio di soldi dalle vendite della Apple. In larga misura, il prezzo che si paga per un “iQualsiasicosa”  è indipendente dal costo di produzione di quell’aggeggio. La Apple semplicemente fa pagare quello che il commercio è nelle condizioni di reggere, e data la sua posizione di forza sul mercato, il commercio è nelle condizione di reggere molto.

Aggiungo che in questo caso non sto avanzando un giudizio morale. Si può sostenere che la Apple si sia guadagnata la sua speciale posizione – sebbene non so se molti avanzerebbero una tesi simile nel caso di Microsoft, che fece grandi profitti per vari anni, lasciando da parte il settore finanziario, il quale anche è caratterizzato da molte cose che assomigliano a rendite di monopolio, e in questi giorni mette assieme circa il 30 per cento dei profitti complessivi delle imprese. In ogni caso, che le società meritino o no il loro status privilegiato, l’economia è condizionata, e non positivamente, quando i profitti riflettono in modo crescente il potere sui mercati piuttosto che la produzione.

Ecco un esempio. Come molti economisti sono venuti sostenendo di recente, di questi tempi la vecchia storia della crescente ineguaglianza, secondo la quale essa era determinata da un riconoscimento sempre maggiore alle competenze, ha perso qualsiasi rilievo che poteva avere. A partire circa dall’anno 2000, la vera storia è stata, piuttosto, quella di un brusco spostamento nella distribuzione del reddito, dai salari in generale verso i profitti. Ma qua sta l’enigma: dal momento che i profitti sono elevati mentre i costi dell’indebitamento sono bassi, perché non stiamo assistendo ad un boom degli investimenti? E non mi dite che l’investimento è depresso perché il Presidente Obama ha ferito i sentimenti dei dirigenti delle imprese o perché essi sono terrorizzati dalla prospettiva della assicurazione sanitaria per tutti.

Ebbene, se i profitti crescenti riflettono le rendite piuttosto che i ritorni degli investimenti, in quel caso non c’è alcun enigma. Dopo tutto, un monopolista può godere di elevati profitti, senza vedere buone ragioni per espandere la sua capacità produttiva. Ed è ancora la Apple a fornire a tale proposito un esempio: essa è enormemente remunerativa, eppure se ne sta seduta su una pila gigantesca di contante, che non ha evidentemente bisogno di reinvestire nelle sue attività economiche.

Se vogliamo dirla diversamente, le crescenti rendite monopolistiche possono avere e probabilmente hanno avuto l’effetto di deprimere simultaneamente sia i salari che i ritorni attesi degli investimenti.

Potreste avere il sospetto che questo non sia positivo per l’economia più in generale, ed avreste ragione. Se il reddito delle famiglie e di conseguenza la spesa delle famiglie sono tenuti bassi perché il lavoro ottiene una parte sempre più piccola del reddito nazionale, mentre le imprese, nonostante che i profitti vadano alle stelle, hanno scarso incentivo ad investire, si ha una ricetta per una domanda persistentemente depressa. Non penso che questa sia l’unica ragione per la quale la nostra ripresa è stata così debole – le riprese deboli sono normali dopo le crisi finanziarie – ma probabilmente è un fattore che contribuisce.

Niente di quello che ho qua detto, per chiarezza, rende irrilevante le lezioni della storia. In particolare, lo scollamento sempre più ampio tra profitti e produzione in nessun modo indebolisce la tesi di una politica monetaria e della finanza pubblica espansive per tutto il tempo in cui l’economia è depressa. Ma l’economia sta cambiando, e nei prossimi articoli cercherò di dire qualcosa su quello che questo significa per la politica.

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