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Abbassare la definizione di prosperità, (New York Times 7 luglio 2013)

 

Defining Prosperity Down

By PAUL KRUGMAN

Published: July 7,

Friday’s employment report wasn’t bad. But given how depressed our economy remains, we really should be adding more than 300,000 jobs a month, not fewer than 200,000. As the Economic Policy Institute points out, we would need more than five years of job growth at this rate to get back to the level of unemployment that prevailed before the Great Recession. Full recovery still looks a very long way off. And I’m beginning to worry that it may never happen.

Ask yourself the hard question: What, exactly, will bring us back to full employment?

We certainly can’t count on fiscal policy. The austerity gang may have experienced a stunning defeat in the intellectual debate, but stimulus is still a dirty word, and no deliberate job-creation program is likely soon, or ever.

Aggressive monetary action by the Federal Reserve, something like what the Bank of Japan is now trying, might do the trick. But far from becoming more aggressive, the Fed is talking about “tapering” its efforts. This talk has already done real damage; more on that in a minute.

Still, even if we don’t and won’t have a job-creation policy, can’t we count on the natural recuperative powers of the private sector? Maybe not.

It’s true that after a protracted slump, the private sector usually does find reasons to start spending again. Investment in equipment and software is already well above pre-recession levels, basically because technology marches on, and businesses must spend to keep up. After six years during which hardly any new homes were built in America, housing is trying to stage a comeback. So yes, the economy is showing some signs of healing itself.

 

But that healing process won’t go very far if policy makers stomp on it, in particular by raising interest rates. That’s not an idle worry. A Fed chairman famously declared that his job was to take away the punch bowl just as the party was really warming up; unfortunately, history offers many examples of central bankers pulling away the punch bowl before the party even starts.

 

And financial markets are, in effect, betting that the Fed is going to offer another such example. Long-term interest rates, which mainly reflect expectations about future short-term rates, shot up after Friday’s job report — a report that, to repeat, was at best just O.K. Housing may be trying to bounce back, but that bounce now has to contend with sharply rising financing costs: 30-year mortgage rates have risen by a third since the Fed started talking about relaxing its efforts about two months ago.

 

 

Why is this happening? Part of the reason is that the Fed is constantly under pressure from monetary hawks, who always want to see tighter money and higher interest rates. These hawks spent years warning that soaring inflation was just around the corner. They were wrong, of course, but rather than change their position they have simply invented new reasons — financial stability, whatever — to advocate higher rates. At this point it’s clear that monetary hawkery is mainly a form of Puritanism in H. L. Mencken’s sense — “the haunting fear that someone, somewhere may be happy.” But it remains dangerously influential.

 

Unfortunately, there’s also a technical issue that plays into the prejudices of the monetary hawks. The statistical techniques policy makers often use to estimate the economy’s “potential” — the maximum level of output and employment it can achieve without inflationary overheating — turn out to be badly flawed: they interpret any sustained economic slump as a decline in potential, so that the hawks can point to charts and spreadsheets supposedly showing that there’s not much room for growth.

 

In short, there’s a real risk that bad policy will choke off our already inadequate recovery.

But won’t voters eventually demand more? Well, that’s where I get especially pessimistic.

You might think that a persistently poor economy — an economy in which millions of people who could and should be productively employed are jobless, and in many cases have been without work for a very long time — would eventually spark public outrage. But the political science evidence on economics and elections is unambiguous: what matters is the rate of change, not the level.

 

Put it this way: If unemployment rises from 6 to 7 percent during an election year, the incumbent will probably lose. But if it stays flat at 8 percent through the incumbent’s whole term, he or she will probably be returned to power. And this means that there’s remarkably little political pressure to end our continuing, if low-grade, depression.

 

Someday, I suppose, something will turn up that finally gets us back to full employment. But I can’t help recalling that the last time we were in this kind of situation, the thing that eventually turned up was World War II.

 

Abbassare la definizione di prosperità, di Paul Krugman

New York Times 7 luglio 2013

 

Il rapporto sull’occupazione di venerdì non era negativo. Ma considerato quanto è depressa la nostra economia, ogni mese dovremmo aggiungerci più di 300.000 posti di lavoro, non meno di 200.000. Come osserva lo Economic Policy Institute, con questo passo avremmo bisogno di più di cinque anni di crescita del lavoro per tornare ai livelli di disoccupazione che prevalevano prima della Grande Recessione [1]. Una piena ripresa sembra ancora di là da venire. Ed io sto cominciando a preoccuparmi che possa non accadere. Fatevi la difficile domanda: che cosa, esattamente, ci riporterà alla piena occupazione?

Di sicuro non possiamo contare sulla politica della spesa pubblica. Può darsi che la banda dell’austerità abbia ricevuto una sbalorditiva sconfitta nel dibattito intellettuale, ma lo “stimulus” è ancora una parola oscena, e non è probabile che venga deliberato alcun programma di creazione di posti di lavoro in breve tempo, se non mai.

Una iniziativa monetaria da parte della Federal Reserve, qualcosa del genere di quello che il Giappone sta tentando, potrebbe servire allo scopo. Ma lungi dal diventare più aggressiva, la Fed sta parlando di “restringere” i suoi sforzi. Questa espressione ha già provocato un vero e proprio danno; ci vengo tra un attimo.

Ancora, anche se non abbiamo e non avremo una politica di creazione di posti di lavoro, possiamo contare sui naturali poteri di recupero del settore privato? Forse no.

E’ vero che dopo una prolungata recessione, il settore privato normalmente trova ragioni per ricominciare a spendere. L’investimento in attrezzature e software è già assai sopra i livelli precedenti la recessione, fondamentalmente perché la tecnologia avanza, e le imprese debbono spendere per tenersi al passo. Dopo sei anni durante i quali in America a fatica si costruivano nuove abitazioni, l’edilizia sta cercando di mettere in scena una riscossa. Dunque è vero, l’economia sta mostrando per suo conto segni di ripresa.

Ma quel processo di guarigione non farà molta strada se gli operatori politici lo calpesteranno, in particolare aumentando i tassi di interesse. Un Presidente della Fed disse con una espressione celebre che il suo lavoro consisteva nel ritirare la scodella del punch proprio quando la festa cominciava sul serio a scaldarsi; sfortunatamente, la storia offre molti esempi di banchieri centrali che scostano la scodella del punch prima ancora che la festa abbia inizio.

E i mercati finanziari, in effetti, stanno scommettendo che la Fed stia per offrire un altro esempio del genere. I tassi di interesse a lungo termine, che principalmente riflettono le aspettative sui futuri tassi a breve-termine, hanno fatto un balzo dopo il rapporto di venerdì sui posti di lavoro – un rapporto, lo ripeto, che al massimo era solo soddisfacente. Può darsi che il settore abitativo stia cercando di riprendersi, ma quel balzo ora deve misurarsi con costi di finanziamento bruscamente in crescita: i tassi sui mutui trentennali sono cresciuti di un terzo dal momento in cui la Fed ha cominciato a parlare di attenuare i suoi sforzi, circa due mesi orsono.

Perché sta accadendo questo? In parte la ragione è che la Fed è costantemente sotto la pressione dei ‘falchi’ monetari, che vogliono sempre veder ridurre la moneta ed alzare i tassi di interesse. Questi falchi hanno speso anni a mettere in guardia che dietro l’angolo c’era una inflazione pronta a schizzare alle stelle. Avevano torto, naturalmente, ma piuttosto che cambiare posizione si sono semplicemente inventati nuove ragioni – la stabilità finanziaria, qualunque cosa – per sostenere tassi più elevati. A questo punto è chiaro che quell’estremismo monetario è principalmente una forma di Puritanesimo, nel senso di H. L. Mencken [2] – “la ossessiva paura che qualcuno, da qualche parte possa essere felice”. Ma resta pericolosamente influente.

Sfortunatamente, c’è anche un aspetto tecnico che gioca all’interno dei pregiudizi dei falchi della moneta. Si scopre che le statistiche tecniche che gli operatori politici spesso adoperano per fare stime sul “potenziale” dell’economia – che corrisponde al massimo livello di produzione e di occupazione che si può ottenere senza sovrariscaldamento inflazionistico – sono gravemente difettose. Esse interpretano ogni prolungata recessione economica come un declino di quel “potenziale”, in modo tale che i falchi possono far ricorso a quei grafici ed a quei fogli elettronici, che in apparenza mostrano che non c’è grande spazio per la crescita.

In poche parole, c’è il rischio reale che una cattiva politica possa soffocare la nostra già inadeguata ripresa.

Ma, alla fine, gli elettori non chiederanno qualcosa di più? Ebbene, è proprio su quel punto dove sto diventando particolarmente pessimista.

Si potrebbe ritenere che una economia persistentemente povera – una economia nella quale milioni di persone che potrebbero e dovrebbero essere produttivamente occupate sono senza lavoro, ed in molti casi sono state senza lavoro per un tempo assai lungo – alla fine dovrebbe suscitare l’indignazione di tutti. Ma le testimonianze della scienza politica quanto ad economia ed a elezioni sono chiare, quello che conta è il tasso di cambiamento, non il livello.

Mettiamola in questo modo: se la disoccupazione cresce dal 6 al 7 per cento durante un anno di elezioni, chi è in carica probabilmente perderà. Ma se la disoccupazione resta piatta all’8 per cento per l’intero mandato, colui o colei che sono in carica probabilmente torneranno al potere. E questo significa che c’è un considerevolmente piccola pressione politica perché si interrompa la nostra depressione, purché resti modesta.

Un giorno, suppongo, accadrà qualcosa che ci riporterà alla piena occupazione. Ma non vi sarà di conforto se vi ricordo che l’ultima volta che fummo in una situazione del genere, la cosa che alla fine venne fuori fu la Seconda Guerra Mondiale.


 

 

 


[1] Krugman definisce Great Recession il periodo della crisi economica attualmente in corso ed iniziata nel 2008. Quella degli anni Trenta era la Great Depression.

[2] Henry Louis Mencken (Baltimora, 12 settembre 1880Baltimora, 29 gennaio 1956) è stato un giornalista e saggista statunitense, nonché curatore editoriale, conosciuto come il “Saggio di Baltimora”, ed è noto soprattutto per la pungente satira della società puritana del suo Paese e per i suoi studi di linguistica, attività che lo hanno reso uno dei più influenti scrittori americani della prima metà del XX secolo (wikipedia)

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