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Detroit, la nuova Grecia (New York Times 21 luglio 2013)

 

Detroit, the New Greece

By PAUL KRUGMAN

Published: July 21, 2013

When Detroit declared bankruptcy, or at least tried to — the legal situation has gotten complicated — I know that I wasn’t the only economist to have a sinking feeling about the likely impact on our policy discourse. Was it going to be Greece all over again?

Clearly, some people would like to see that happen. So let’s get this conversation headed in the right direction, before it’s too late.

 

O.K., what am I talking about? As you may recall, a few years ago Greece plunged into fiscal crisis. This was a bad thing but should have had limited effects on the rest of the world; the Greek economy is, after all, quite small (actually, about one and a half times as big as the economy of metropolitan Detroit). Unfortunately, many politicians and policy makers used the Greek crisis to hijack the debate, changing the subject from job creation to fiscal rectitude.

Now, the truth was that Greece was a very special case, holding few if any lessons for wider economic policy — and even in Greece, budget deficits were only one piece of the problem. Nonetheless, for a while policy discourse across the Western world was completely “Hellenized” — everyone was Greece, or was about to turn into Greece. And this intellectual wrong turn did huge damage to prospects for economic recovery.

 

So now the deficit scolds have a new case to misinterpret. Never mind the repeated failure of the predicted U.S. fiscal crisis to materialize, the sharp fall in predicted U.S. debt levels and the way much of the research the scolds used to justify their scolding has been discredited; let’s obsess about municipal budgets and public pension obligations!

Or, actually, let’s not.

Are Detroit’s woes the leading edge of a national public pensions crisis? No. State and local pensions are indeed underfunded, with experts at Boston College putting the total shortfall at $1 trillion. But many governments are taking steps to address the shortfall. These steps aren’t yet sufficient; the Boston College estimates suggest that overall pension contributions this year will be about $25 billion less than they should be. But in a $16 trillion economy, that’s just not a big deal — and even if you make more pessimistic assumptions, as some but not all accountants say you should, it still isn’t a big deal.

 

So was Detroit just uniquely irresponsible? Again, no. Detroit does seem to have had especially bad governance, but for the most part the city was just an innocent victim of market forces.

What? Market forces have victims? Of course they do. After all, free-market enthusiasts love to quote Joseph Schumpeter about the inevitability of “creative destruction” — but they and their audiences invariably picture themselves as being the creative destroyers, not the creatively destroyed. Well, guess what: Someone always ends up being the modern equivalent of a buggy-whip producer, and it might be you.

Sometimes the losers from economic change are individuals whose skills have become redundant; sometimes they’re companies, serving a market niche that no longer exists; and sometimes they’re whole cities that lose their place in the economic ecosystem. Decline happens.

True, in Detroit’s case matters seem to have been made worse by political and social dysfunction. One consequence of this dysfunction has been a severe case of “job sprawl” within the metropolitan area, with jobs fleeing the urban core even when employment in greater Detroit was still rising, and even as other cities were seeing something of a city-center revival. Fewer than a quarter of the jobs on offer in the Detroit metropolitan area lie within 10 miles of the traditional central business district; in greater Pittsburgh, another former industrial giant whose glory days have passed, the corresponding figure is more than 50 percent. And the relative vitality of Pittsburgh’s core may explain why the former steel capital is showing signs of a renaissance, while Detroit just keeps sinking.

 

 

So by all means let’s have a serious discussion about how cities can best manage the transition when their traditional sources of competitive advantage go away. And let’s also have a serious discussion about our obligations, as a nation, to those of our fellow citizens who have the bad luck of finding themselves living and working in the wrong place at the wrong time — because, as I said, decline happens, and some regional economies will end up shrinking, perhaps drastically, no matter what we do.

The important thing is not to let the discussion get hijacked, Greek-style. There are influential people out there who would like you to believe that Detroit’s demise is fundamentally a tale of fiscal irresponsibility and/or greedy public employees. It isn’t. For the most part, it’s just one of those things that happens now and then in an ever-changing economy.

 

Detroit, la nuova Grecia, di Paul Krugman

New York Times 21 luglio 2013

 

Quando Detroit ha dichiarato bancarotta, o almeno ha cercato di farlo – la situazione legale è diventata complicata – io sapevo di non essere l’unico tra gli economisti ad avere un sentimento di apprensione sul probabile impatto nel nostro dibattito politico. Era destinata a prendere il posto della Grecia, ancora e sotto ogni aspetto? Chiaramente, ad alcune persone piacerebbe che accadesse. Facciamo, dunque, in modo che questo dibattito vada nella direzione giusta, finché siamo in tempo.

D’accordo, di cosa sto parlando? Come ricorderete, pochi anni orsono la Grecia precipitò in una crisi della finanza pubblica. Fu una cosa negativa, ma doveva avere effetti limitati sul resto del mondo; l’economia greca è, dopo tutto, abbastanza piccola (in effetti, circa una volta e mezzo l’economia dell’area metropolitana di Detroit). Sfortunatamente, molti operatori e uomini politici hanno utilizzato la crisi greca per deviare il dibattito, cambiandone l’oggetto dal lavoro alla rettitudine dei conti pubblici.

Ora, la verità era che la Grecia era un caso del tutto speciale, conteneva poche lezioni per la più generale politica economica, ammesso ve ne fosse alcuna – e persino in Grecia, i deficit di bilancio erano solo un pezzo del problema. Nondimeno, per un certo periodo di tempo il dibattito politico è stato completamente “ellenizzato” – tutto era Grecia, o aveva a che fare col finire come la Grecia. E questa infondata svolta intellettuale ha provocato un gran danno alle prospettive della ripresa economica.

Ora, dunque, gli allarmisti del deficit hanno un nuovo caso da travisare. Non contano i ripetuti insuccessi nel materializzarsi della prevista crisi della finanza pubblica degli Stati Uniti, la brusca caduta nei livelli previsti del debito americano e la molta ricerca che gli allarmisti hanno utilizzato per giustificare quanto il loro allarmismo fosse stato screditato; riparta l’ossessione sui bilanci dei municipi e sulle obbligazioni sulle pensioni pubbliche!

Ecco, per la verità, meglio di no.

I guai di Detroit sono la punta avanzata di una crisi nazionale delle pensioni pubbliche? No. In effetti le pensioni statali e locali [1] sono sottofinanziate, gli esperti del Boston College [2] fissano tale ammanco a mille miliardi di dollari. Molti Governi stanno assumendo iniziative per affrontare l’ammanco. Questi passi non sono ancora sufficienti; il Boston College stima che quest’anno i contributi pensionistici saranno inferiori per 25 miliardi di dollari rispetto a quanto dovrebbero essere. Ma in una economia di 16 mila miliardi di dollari, questo non è proprio un gran problema – e persino se fate le ipotesi più pessimistiche, come alcuni ma non tutti gli esperti di contabilità dicono che dovreste, questo non è ancora un gran problema.

Dunque, Detroit è stata singolarmente irresponsabile? Ancora no. Detroit sembra proprio avere avuto una gestione particolarmente negativa, ma essa è stata in gran parte solo una vittima innocente delle forze di mercato.

Cosa? Le forze di mercato fanno vittime? Certamente che ne fanno. Dopotutto, gli entusiasti del libero mercato amano citare Joseph Schumpeter a proposito della inevitabilità della “distruzione creativa” – ma essi e coloro che li ascoltano si dipingono invariabilmente come distruttori creativi, mai come i distrutti creativamente. Ebbene, sapete: c’è sempre qualcuno che finisce con l’essere l’equivalente moderno dei produttori delle fruste da cocchiere, e potrebbe toccare a voi [3].

Talvolta i perdenti di un mutamento economico sono persone con competenze lavorative che sono diventate superflue; talora sono imprese, che servono nicchie di mercato che non esistono più: e talora sono intere città, che perdono il loro posto nell’ecosistema economico. Il declino esiste.

E’ vero, nel caso di Detroit i problemi sembra siano stati resi peggiori a seguito di disfunzioni politiche e sociali. Una conseguenza di queste disfunzioni è stato una grave caso di “dispersione dei posti di lavoro” all’interno dell’area metropolitana, con posti di lavoro che hanno abbandonato il centro urbano anche quando l’area metropolitana di Detroit era ancora in crescita, ed anche quando altre città conoscevano il fenomeno di una qualche risveglio del centro cittadino. Meno di un quarto dei posti di lavoro in offerta nell’area metropolitana di Detroit si trovano entro dieci miglia dal tradizionale distretto economico centrale; in quella di Pittsburgh, un altro antico gigante dell’industria i cui giorni di gloria sono trascorsi, il dato corrispondente è più del 50 per cento. E la relativa vitalità del centro di Pittsburgh può spiegare perché la antica capitale dell’acciaio stia ora mostrando segni di rinascita, mentre Detroit continua soltanto ad affondare.

Dunque, certamente si deve avere una discussione seria su come le città possono gestire la transizione quando le loro fonti tradizionali di “vantaggio competitivo” se ne vanno. E si deve avere una dibattito serio sui nostri obblighi, come nazione, verso quei concittadini che hanno la cattiva sorte di trovarsi a vivere ed a lavorare nel posto sbagliato e nel momento sbagliato – perché, come ho detto, il declino esiste, e qualche economia regionale finirà con l’arretrare, forse drasticamente, a prescindere da quello che facciamo.

La cosa importante è non consentire che il dibattito venga posto sotto sequestro, sul modello greco. Ci sono in giro persone influenti alle quali piacerebbe farvi credere che la caduta di Detroit sia fondamentalmente un racconto di irresponsabilità nella finanza pubblica e/o di avidità degli impiegati pubblici. Non è così. Per la maggior parte, si tratta soltanto di una delle cose che ogni tanto succedono in una economia in continuo mutamento.


[1] I programmi pensionistici negli Stati Uniti possono essere: il US Social Security program – ovvero il programma al livello Federale; i programmi al livello dei singoli Stati ed anche di comunità locali. Esistono approssimativamente 220 programmi pensionistici al livello degli Stati e 3.200 programmi amministrati al livello municipale. Negli Stati Uniti nel 1960, per ogni pensionato, c’erano 5,1 lavoratori, che sono diventati 3,0 nel 2009 ed è previsto che raggiungano il 2,1 nel 2030.

[2] Il Boston College è una Università privata, che aderisce alla rete di Università  americane gestite dalla Compagnia di Gesù.

[3] Sulla fine del 19° Secolo le “fruste da cocchiere”, con l’avvento delle automobili, divennero obsolete. Il senso è dunque che ogni epoca ha lavori e tecnologie che vengono distrutte e sostituite come nel caso della produzione di fruste da cocchiere.

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