July 16, 2013, 9:33 am
Bruce Bartlett’s latest has some interesting history from the 1930s that just so happens to bear on my mild chiding of Noah Smith (Smith has an answer that, frankly, I don’t understand — but he’s been such a good guy over time that I’m just going to let this one drop). Anyway, Bartlett focuses largely on the malign influence of Henry Hazlitt, who was among other things writing many editorials for the New York Times, always insisting that the answer to the Great Depression was to encourage big cuts in wages.
Hazlitt remains, by the way, a popular figure on the right. Once I was walking down the street near Capitol Hill and a man in a suit yelled at me, “Read Henry Hazlitt and learn some economics!” And Hazlitt’s continuing popularity should serve as some kind of lesson to those of us, like me or Matt O’Brien, who marvel at the continuing influence of inflation fearmongers; they’ve been wrong about everything for 5 years, so why do they still get treated as authority figures? Well, Hazlitt has been wrong about everything for more than 80 years, and is still regarded as a guru. Bad ideas, it appears, are extremely robust in the face of contrary evidence.
The thing is, by the time Hazlitt was penning those editorials demanding wage cuts, Keynes and Fisher had already said everything that needed to be said. Keynes in 1930:
[I]f a particular producer or a particular country cuts wages, then, so long as others do not follow suit, that producer or that country is able to get more of what trade is going. But if wages are cut all round, the purchasing power of the community as a whole is reduced by the same amount as the reduction of costs; and, again, no one is further forward.
And Fisher pointed out in 1933 that a general fall in wages and prices actually makes things worse, by making debtors poorer in real terms; true, creditors are made richer, but because debtors are more likely to cut spending than creditors are to increase it, the overall effect is to deepen the depression.
One implication of all this is what Gauti Eggerstsson and I (pdf) call the paradox of flexibility: making it easier for wages to fall, as Hazlitt demanded then and his modern acolytes demand now, doesn’t just redistribute income away from workers to the wealthy (funny how that happens); it actually worsens the economy as a whole.
One thing Noah Smith did get right, by the way, is his suggestion that Japanese wages are less sticky than in other advanced countries. There’s a fair bit of evidence to that effect, above all the fact that Japan is pretty much unique in having gone into actual deflation. The point, however, is that this is not a good thing in a country that is in a liquidity trap and suffering from a debt overhang: when it comes to wage and price flexibility, the situation in the economy has developed not necessarily to Japan’s advantage.
One place Bartlett goes a bit wrong, I’d argue, is in continuing to preach the Friedman line that all this could have been avoided if only the Fed had done its job; that’s a view that, I’d argue,has taken a real beating from recent events.But that’s going to have to wait for a later post.
Il paradosso della flessibilità
L’ultimo scritto di Bruce Bartlett contiene alcune interessanti storie degli anni Trenta che finiscono proprio col riguardare il mio leggero rimbrotto a Noah Smith (Smith ha una risposta che, francamente non capisco – ma egli è stata una persona così brava, nel corso del tempo, che sto proprio pensando di lasciar correre). In ogni caso, Bartlett si concentra ampiamente sulla malefica influenza di Henry Hazlitt, che tra le altre cose scrisse molti editoriali sul New York Times, e che sosteneva di continuo che la risposta alla Grande Depressione fosse incoraggiare grandi tagli salariali.
Hazlitt, come è naturale, resta un figura popolare a destra. Una volta stavo camminando lungo una strada vicino a Capitol Hill ed un uomo in giacca e cravatta mi gridò: “Leggi Henry Hazlitt e impara un po’ d’economia!” E la permanente popolarità di Hazlitt dovrebbe in qualche modo servire di lezione a quelli tra noi, come Matt O’Brien e il sottoscritto, che si meravigliano della perdurante influenza dei seminatori di paure di inflazione; hanno avuto torto su ogni cosa per cinque anni, perché devono ancora essere trattati come persone autorevoli? Ebbene, Hazlitt ha avuto torto su tutto per più di 80 anni, ed è ancora considerato come un guru. Pare che le cattive idee siano estremamente resistenti, a fronte di prove contrarie.
Il punto è che, al tempo in cui Hazlitt stava scrivendo i suoi editoriali che chiedevano tagli salariali, Keynes e Fisher avevano già detto tutto quello che andava detto. Keynes nel 1930:
“(S)e un particolare produttore od un particolare paese tagliano i salari, allora, per tutto il tempo in cui gli altri non fanno la stessa cosa, quel produttore o quel paese sarà capace di ottenere di più di quanto gli verrebbe dal commercio. Ma se i salari sono tagliati dappertutto, il potere di acquisto della comunità nel suo complesso è ridotto della stessa quantità della quale sono ridotti i costi; e, di nuovo, niente si è spostato”.
E Fisher metteva in evidenza nel 1933 che una caduta generale dei salari e dei prezzi avrebbe effettivamente peggiorato le cose, rendendo i debitori più poveri in termini reali; è vero, i creditori diventano più ricchi, ma poiché è più probabile che i debitori taglino le spese piuttosto che i creditori le accrescano, l’effetto generale è che la depressione si approfondisce.
Una implicazione di tutto questo è quello che Gauti Eggertsson ed il sottoscritto (disponibile in pdf) chiamiamo il paradosso della flessibilità: fare in modo che i salari cadano più facilmente, come chiedeva Hazlitt allora e come chiedono i suoi accoliti oggi, non solo redistribuisce il reddito dai lavoratori ai ricchi (e questo non è strano [1]); effettivamente peggiora l’economia nel suo complesso.
Una cosa che Noah Smith ha detto giusta, per inciso, è la sua intuizione che i salari giapponesi siano più vischiosi di quelli degli altri paesi avanzati. Ci sono un bel po’ di prove a questo fine, soprattutto il fatto che il Giappone sia quasi l’unico ad essere finito nella deflazione. Il punto, tuttavia, è che questa non è una buon cosa in un paese che si trova in una trappola di liquidità e soffre di eccesso di debito: quando quel paese giunge alla flessibilità [2] dei salari e dei prezzi, la situazione dell’economia non si è necessariamente sviluppata a vantaggio del Giappone.
Direi che Bartlett finisce in un punto sbagliato, quando continua a sostenere la linea di Friedman secondo la quale tutto questo avrebbe potuto essere evitato se la Fed avesse svolto bene il suo compito; direi che si tratta di un punto di vista che ha preso un bel colpo dagli avvenimenti recenti. Ma per questo si deve attendere il prossimo post.
[1] Letteralmente: “strano come questo accada”.
[2] Mi pare che il senso di questa espressione sia: quando non si può più evitare che i salari (normalmente ‘vischiosi’) divengano più flessibili (e dunque calino, in presenza di una disoccupazione elevata), nel frattempo le condizioni dell’economia non sono migliorate, in casi come quello del Giappone (dove quella flessibilità è apparentemente più difficile).
By mm
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