Articoli sul NYT

La Cina è arrivata alla Muraglia (New York Times, 18 luglio 2013)

 

Hitting China’s Wall

By PAUL KRUGMAN

Published: July 18, 2013

All economic data are best viewed as a peculiarly boring genre of science fiction, but Chinese data are even more fictional than most. Add a secretive government, a controlled press, and the sheer size of the country, and it’s harder to figure out what’s really happening in China than it is in any other major economy.

Yet the signs are now unmistakable: China is in big trouble. We’re not talking about some minor setback along the way, but something more fundamental. The country’s whole way of doing business, the economic system that has driven three decades of incredible growth, has reached its limits. You could say that the Chinese model is about to hit its Great Wall, and the only question now is just how bad the crash will be.

Start with the data, unreliable as they may be. What immediately jumps out at you when you compare China with almost any other economy, aside from its rapid growth, is the lopsided balance between consumption and investment. All successful economies devote part of their current income to investment rather than consumption, so as to expand their future ability to consume. China, however, seems to invest only to expand its future ability to invest even more. America, admittedly on the high side, devotes 70 percent of its gross domestic product to consumption; for China, the number is only half that high, while almost half of G.D.P. is invested.

How is that even possible? What keeps consumption so low, and how have the Chinese been able to invest so much without (until now) running into sharply diminishing returns? The answers are the subject of intense controversy. The story that makes the most sense to me, however, rests on an old insight by the economist W. Arthur Lewis, who argued that countries in the early stages of economic development typically have a small modern sector alongside a large traditional sector containing huge amounts of “surplus labor” — underemployed peasants making at best a marginal contribution to overall economic output.

 

 

The existence of this surplus labor, in turn, has two effects. First, for a while such countries can invest heavily in new factories, construction, and so on without running into diminishing returns, because they can keep drawing in new labor from the countryside. Second, competition from this reserve army of surplus labor keeps wages low even as the economy grows richer. Indeed, the main thing holding down Chinese consumption seems to be that Chinese families never see much of the income being generated by the country’s economic growth. Some of that income flows to a politically connected elite; but much of it simply stays bottled up in businesses, many of them state-owned enterprises.

 

 

It’s all very peculiar by our standards, but it worked for several decades. Now, however, China has hit the “Lewis point” — to put it crudely, it’s running out of surplus peasants.

 

That should be a good thing. Wages are rising; finally, ordinary Chinese are starting to share in the fruits of growth. But it also means that the Chinese economy is suddenly faced with the need for drastic “rebalancing” — the jargon phrase of the moment. Investment is now running into sharply diminishing returns and is going to drop drastically no matter what the government does; consumer spending must rise dramatically to take its place. The question is whether this can happen fast enough to avoid a nasty slump.

And the answer, increasingly, seems to be no. The need for rebalancing has been obvious for years, but China just kept putting off the necessary changes, instead boosting the economy by keeping the currency undervalued and flooding it with cheap credit. (Since someone is going to raise this issue: no, this bears very little resemblance to the Federal Reserve’s policies here.) These measures postponed the day of reckoning, but also ensured that this day would be even harder when it finally came. And now it has arrived.

 

How big a deal is this for the rest of us? At market values — which is what matters for the global outlook — China’s economy is still only modestly bigger than Japan’s; it’s around half the size of either the U.S. or the European Union. So it’s big but not huge, and, in ordinary times, the world could probably take China’s troubles in stride.

 

Unfortunately, these aren’t ordinary times: China is hitting its Lewis point at the same time that Western economies are going through their “Minsky moment,” the point when overextended private borrowers all try to pull back at the same time, and in so doing provoke a general slump. China’s new woes are the last thing the rest of us needed.

 

No doubt many readers are feeling some intellectual whiplash. Just the other day we were afraid of the Chinese. Now we’re afraid for them. But our situation has not improved.

 

La Cina è arrivata alla Muraglia, di Paul Krugman

New York Times 18 luglio 2013

 

Tutti i dati economici andrebbero al massimo considerati come un particolare ramo noioso della fantascienza, ma i dati della Cina sono anche più romanzeschi degli altri. Si aggiunga la reticenza governativa, una stampa sotto controllo e la pura e semplice dimensione del paese, ed è più difficile indovinare quello che accade in Cina rispetto ad ogni altra importante economia.

Tuttavia i segni sono inconfondibili: la Cina è in un gran guaio. Non stiamo parlando di qualche intoppo minore sul percorso, ma di qualcosa di più fondamentale. Il modo complessivo di fare economia del paese, il sistema che ha guidato tre decenni di crescita incredibile, ha raggiunto i suoi limiti. Si potrebbe dire che il modello cinese è vicino a sbattere contro la sua Grande Muraglia, è l’unica domanda a questo punto è quanto sarà duro il cozzo.

Cominciamo con i dati, per quanto inaffidabili essi siano. Quello che immediatamente balza agli occhi quando si confronta la Cina con quasi tutte le altre economie, a parte la sua rapida crescita, è la asimmetria dell’equilibrio tra consumi ed investimenti. Tutte le economie di successo devolvono parte del loro attuale reddito all’investimento anziché al consumo, in modo da espandere la loro futura capacità di consumare. La Cina, tuttavia, sembra investire solo per espandere la sua futura capacità di investire sempre di più. L’America, a dire il vero con un eccesso opposto, dedica il 70 per cento del suo prodotto interno lordo al consumo; in Cina, il dato è solo la metà di quello, mentre quasi la metà del PIL è investita.

Come è stato persino possibile? Cosa tiene i consumi così bassi e come sono stati capaci i cinesi di investire così tanto (sino a questo punto) senza sbattere contro una brusca diminuzione dei rendimenti? Le risposte sono l’oggetto di una intensa controversia. Tuttavia, a mio parere il racconto più sensato si basa su una vecchia intuizione dell’economista W. Arthur Lewis, che sosteneva che i paesi alle prime fasi dello sviluppo economico in modo caratteristico hanno un piccolo settore moderno a fianco del quale un ampio settore tradizionale contiene grandi quantità di “lavoro eccedente” – contadini sottooccupati che al massimo danno un contributo marginale al prodotto economico complessivo.

L’esistenza di questo lavoro eccedente, a sua volta, ha due effetti. Il primo, per un certo periodo tali paesi possono investire pesantemente in nuovi stabilimenti, nell’edilizia, in questo modo senza incorrere in rendimenti decrescenti, giacché possono continuare ad attrarre nuovo lavoro dalle campagne. In secondo luogo, la competizione da parte di questo esercito di riserva di lavoro eccedente tiene i salari bassi anche se l’economia diventa più ricca. In effetti, la cosa principale che tiene basso il consumo cinese sembra essere che le famiglie di quel paese non vedono mai gran parte del reddito che viene generato dalla crescita economica del paese. Parte di quel reddito se ne va ad una classe dirigente associata al potere politico; ma una gran parte di esso se ne resta semplicemente rinchiuso nelle aziende, molte delle quali sono imprese di proprietà dello Stato.

Per i nostri standards sono tutte cose piuttosto singolari, ma hanno funzionato per alcuni decenni. Ora, tuttavia, la Cina ha toccato il suo “punto Lewis” – per dirla crudamente, sta esaurendo l’eccesso di contadini.

Dovrebbe trattarsi di una cosa buona. I salari crescono; alla fine i comuni cinesi stanno cominciando a condividere i frutti della crescita. Ma essa significa anche che l’economia cinese è improvvisamente messa di fronte alla necessità di un drastico “ribilanciamento” – secondo il gergo ora in uso. Ora l’investimento sta sbattendo contro brusche diminuzioni dei rendimenti ed è destinato a scendere drasticamente a prescindere da quello che fa il Governo; la spesa per consumi deve crescere in modo spettacolare per prendere il suo posto. La domanda è se questo può avvenire abbastanza alla svelta da evitare un brutta caduta.

E la risposta sembra essere sempre di più negativa. Il bisogno di un riequilibrio è stato evidente per anni, ma la Cina ha continuato semplicemente a rimandare i necessari cambiamenti ed ha invece incoraggiato l’economia tenendo sottovalutata la valuta e inondandola di credito a buon mercato (dal momento che qualcuno porrà sicuramente questo tema: no, questo non c’entra niente con la politiche della Federal Reserve in casa nostra). Queste misure hanno rinviato il giorno della resa dei conti, ma hanno anche garantito che quel giorno sarebbe stato più duro, quando alla fine fosse arrivato. Ed ora è arrivato.

Quanto è importante questa faccenda per tutti noi? In termini di valori di mercato – che è quello che conta per la prospettiva globale – l’economia cinese è ancora solo modestamente più grande di quella giapponese; essa è circa la metà delle dimensioni  degli Stati Uniti o dell’Unione Europea. E’ dunque grande ma non enorme, e in tempi ordinari, il mondo probabilmente potrebbe andare avanti senza problemi.

Sfortunatamente, questi non sono tempi ordinari: la Cina sta toccando il suo ‘punto Lewis’ nello stesso tempo in cui le economie occidentali stano passando per il loro ‘momento Minsky’ [1], il punto in cui debitori privati sovraccarichi stanno tutti cercando di ritrarsi contemporaneamente, con ciò provocando una recessione generale. Le notizie sui guai della Cina sono l’ultima cosa di cui gli altri avevano bisogno.

Molti lettori di sicuro stanno provando una specie di contraccolpo intellettuale. Sino a ieri avevamo paura dei cinesi. Ora abbiamo paura per i cinesi. Ma la nostra situazione non è migliorata.


 


[1] Hyman P. Minsky (1919 – 1996) è stato un importante economista americano di ispirazione keynesiana. In particolare ha pubblicato “John Maynard Keynes” (1975), tradotto in italiano nel 2009 (“Keynes e l’instabilità del capitalismo”). Il pensiero di Minsky, sostanzialmente, si concentra in una analisi dei processi finanziari e speculativi del capitalismo, considerati come la causa decisiva e ricorrente delle crisi. Fondamentalmente, Minsky sostiene che in periodi di espansione, quando il flusso di cassa delle imprese supera la quota necessaria per pagare i debiti, si sviluppa un’euforia speculativa.  Ne consegue un’espansione creditizia, che alimenta ulteriormente l’euforia. Nel momento in cui ci si rende conto che l’espansione dei prezzi è terminata, inizia la corsa alla vendita, che può portare al panico sui mercati, e ad effetti negativi anche sull’economia reale.[Comprensibilmente, negli anni recenti, il pensiero di Minsky è tornato al centro del dibattito economico mondiale. Con un certo schematismo, si potrebbe definire la collocazione politico-culturale di Minsky come una sorta di “sinistra” del variegato schieramento keynesiano.

w 3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

By


Commenti dei Lettori (0)


E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"