Blog di Krugman

L’America è piatta (15 luglio 2013)

 

July 15, 2013, 12:40 pm

America Is Flat

Sorry about radio silence this AM — busy with errands, but also feeling the need for at least a mental vacation from all the ugliness. And I’m going to continue that vacation by posting about something with little or no relevance to current policy debates, but which I’ve been curious about and doing a bit of casual research about on the side.

I’ve long had a small bee in my bonnet about the line — which you hear all the time — that portrays long-distance travel, trade, and so on as something new. You know: back in the day people lived in the same place all their lives, they only did business with their immediate neighbors, each village was self-sufficient, but now we’re in a world of global globalizing globaloney and all that.

Obviously if you go back far enough the caricature was true. But we’ve had a lot of international migration and trade ever since steam engines and telegraphs came in. There has been a recent huge increase in the value of manufacturing trade, tied to vertical disintegration of production; but aside from that, to what extent is the world really getting smaller or flatter or whatever?

Well, there’s one trend we know about that runs completely counter to the usual perception: within the United States, at least, people are moving less — a lot less. Greg Kaplan and Sam Schulhofer-Wohl (pdf) say that interstate mobility has been cut in half over the past 20 years. And interestingly, they suggest that this is in part because regions have become more similar: increasingly, different parts of the country are producing the same kinds of things and employing the same kind of people, so that there’s less reason to move.

This story actually matches up with what the new economic geography literature says, which is that regional specialization peaked around a century ago and has been declining since. Once upon a time steel came from Pittsburgh, butchered hogs from Chicago, pencils from Pennsylvania, coats from North Dakota, and all that; nowadays we’re all cubicle rats doing whatever it is we do:

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But here’s my question: if we’re all increasingly doing the same thing, shouldn’t we be doing less trade with each other? Now, we know that international trade has been rising fast. But is the same true of interregional trade within the United States?

Well, we don’t actually collect that kind of data (although the Canadians do; more on that in a minute). We do, however, have the Commodity Flow Survey, which measures total domestic shipments of stuff in general. What does this tell us? Well, it shows a slight decline over time in the ratio of shipments to GDP:

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Meanwhile, Canada has actual data on interprovincial trade flows. Looking only at goods, to be more comparable to the US numbers, I get this:

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It’s a smaller number, because a lot of those US shipments are short-distance and wouldn’t register as interprovincial trade. But again, a small decline rather than the big rise we see in international trade.

So what’s the moral of the story? Well, the world is flat, but America isn’t. Or actually, America is flat — more and more, it’s all the same, which gives us less reason to move and even less reason to ship stuff around.

And the growth of international trade in manufactured goods needs, perhaps, to be seen as something more special and less generic than often imagined. It’s not that there’s some inexorable force leading to stuff rattling around the globe; it’s that the combination of containerization and trade liberalization has made it possible to break up the value chain to take advantage of international wage differences.

As I said, no idea if there’s any policy relevance here; but I’m having a bit of fun.

 

L’America è piatta

 

 

Spiacente per il silenzio radio di questa mattina – occupato con varie commissioni, sento anche il bisogno di un’ultima vacanza mentale da tutte le brutture. E sono orientato a continuare questa vacanza pubblicando qualcosa con poca o piccola attinenza agli attuali dibattiti politici, ma di cui mi sono incuriosito, ed anche facendo un po’ di ricerca casuale su quel fronte.

Sono sempre stato un po’ fissato con la storiella – che si sente ripetere di continuo – che descrive il viaggio a lunga distanza, nel commercio ed in altro, come qualcosa di nuovo. Sapete: la gente un tempo viveva l’intera propria esistenza  nello stesso posto, faceva i propri affari nelle proprie immediate vicinanze, ogni villaggio era autosufficiente, ma ora siamo nel mondo della fregatura [1] globale globalizzante e via di seguito.

Ovviamente, se si va abbastanza indietro nel tempo, quella rappresentazione era vera. Ma abbiamo avuto un bel po’ di migrazioni internazionali e di commerci da quando entrarono in scena le macchine a vapore ed il telegrafo. C’è stato un recente vasto incremento nel valore del commercio manifatturiero, collegato ad una disintegrazione verticale della produzione, ma, a parte quello, in quale misura il mondo sta effettivamente diventando più piccolo, più piatto o qualcosa del genere?

Ebbene, c’è una tendenza della quale sappiamo che va completamente contro la percezione comune: almeno all’interno degli Stati Uniti la gente si muove di meno – molto di meno. Greg Kaplan a Sam Schulhofer-Wohl (disponibile in pdf) dicono che la mobilità interstatale si è ridotta della metà nel corso degli ultimi 20 anni. Ed essi suggeriscono, in modo interessante, che questo in parte derivi dal fatto che le varie aree sono diventate più simili: in modo crescente, diverse parti del paese stanno producendo lo stesso genere di cose ed occupando lo stesso genere di persone, dunque ci sono meno ragioni per muoversi.

Questa storia effettivamente fa il pari con quello che dice la letteratura della nuova geografia economica, secondo la quale la specializzazione regionale ha avuto il suo picco un secolo fa e da allora sta declinando. Una volta l’acciaio veniva da Pittsburgh, la carne di maiale da Chicago, le matite dalla Pennsylvania, i cappotti dal Nord Dakota, e così via; ora siamo tutti topi in uno stanzino che fanno quello che facciamo, qualsiasi cosa sia:

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Ma ecco la mia domanda: se stiamo sempre più facendo le stesse cose, non dovremmo avere meno commercio gli uni con gli altri? Ora, sappiamo che il commercio internazionale è cresciuto velocemente. Ma la stessa cosa è vera per il commercio interregionale all’interno degli Stati Uniti?

Ebbene, in effetti non sono dati che possiamo mettere assieme (sebbene il Canada lo faccia; ci vengo tra un attimo). Abbiamo, tuttavia, il Sondaggio sui flussi delle materia prime, che misura le spedizioni totali di ogni genere di oggetto all’interno del paese. Che cosa ci dice? Ebbene, esso mostra un leggero declino nel tempo della percentuale delle spedizioni sul PIL:

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Nel frattempo, il Canada ha i dati effettivi sui flussi commerciali interprovinciali. Guardando solo ai beni, in modo da renderli maggiormente confrontabili con i dati degli Stati Uniti, ottengo questo:

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Si tratta di un dato più piccolo, perché una buona quantità di quelle spedizioni degli Stati Uniti sono a corta distanza e non sarebbero registrate come commerci interprovinciali. Ma abbiamo ancora un piccolo declino, piuttosto che la grande crescita che osserviamo nel commercio internazionale.

Qual è dunque la morale della storia? Ebbene, il mondo è piatto, ma l’America non lo è. O meglio, in effetti l’America è piatta – sempre di più è interamente uguale a se stessa, che è il motivo per il quale abbiamo meno ragioni di muoverci e ragioni persino minori per spedire la roba in giro.

E la crescita del commercio internazionale nei beni manifatturieri ha bisogno, forse, di essere vista come qualcosa di più specialistico e di meno generico di quello che abbiamo spesso immaginato. Non c’è una qualche forza inesorabile che ci conduce a riempirci di oggetti sbattendoci in tutto il globo; si tratta della combinazione della containerizzazione e della liberalizzazione dei commerci che ha reso possibile interrompere la catena del valore in modo da avvantaggiarsi delle differenze salariali internazionali.

Come ho detto, non ho alcuna idea se in questo ci sia qualche rilevanza politica; però mi sto proprio divertendo.


[1] “Globaloney” è il titolo di un libro di successo di Michael Veseth. Secondo alcuni il senso sarebbe quello di “balla globale” etc.

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