July 1, 2013, 4:18 pm
OK, still grieving, but time to stick my toe back into the blogosphere.
The overwhelming fact about the U.S. economy right now is that there aren’t enough jobs; the standard unemployment rate actually understates the problem, because it looks as if a fair number of workers have given up actively looking, and are therefore not counted as unemployed. Better to look at things like the employment-population ratio; I often prefer to look only at prime-age workers, as a way to deal with the demographic effects of an aging population. And what you see is this:
Within this broader picture, however, there are some puzzles. An unusually high fraction of the unemployed have been unemployed for a long time; and there seems to have been an outward shift in the Beveridge curve, the historical relationship between vacancies and unemployment.
What’s happening here? A number of people have attributed both the rise in long-term unemployment and the outward shift of the Beveridge curve to extended unemployment benefits, which make people less desperate to take a job, any job, when their benefits run out.
Even if this were true, there is widespread misunderstanding of what it would mean. It would not, repeat not, mean that UI is causing higher unemployment. I tried to explain why in today’s column. The key point is that making the unemployed more desperate would do nothing to increase the number of available jobs. At most, it would precipitate a general fall in wages — and that would make our situation worse, not better, because it would increase the burden of household debt.
So why do you see economists claiming that UI raises unemployment? Sloppy wording, at best; sloppy thinking, otherwise. Arguably, UI raises the NAIRU — that is, it raises the level of unemployment below which we can’t go without raising inflation. But since inflation isn’t an issue (except that it’s too low), that’s not relevant now. And if we ever do get to that point, extended unemployment benefits will have gone away anyway.
Still, it is interesting to know whether the rise in long-term unemployment and the shift of the Beveridge curve are driven by UI. And the answer is — apparently not, or not mainly. A new Boston Fed paper finds that much of the rise in long-term unemployment is concentrated among new entrants to the work force or people reentering the work force after an absence — people, that is, who aren’t entitled to unemployment insurance in the first place.
This doesn’t refute the proposition that unemployment insurance is causing unemployment, because that proposition never made sense in the first place. But it suggests that the effects of UI are even smaller than previously believed.
Parassiti, imbroglioni e la curva di Beveridge
E’ così, sto ancora piangendo per la perdita [1], ma è tempo di rimettere piede nella blogosfera.
Il fatto preponderante della situazione dell’economia americana in questo momento è che non ci sono abbastanza posti di lavoro; il tasso di disoccupazione standard in effetti sottovaluta il problema, perché da esso sembra che un certo numero di lavoratori abbiano smesso di cercare lavoro, e di conseguenza non sono considerati come disoccupati. Meglio guardare alle cose dal punto di vista del rapporto occupazione/popolazione; io spesso preferisco guardare solo i dati dei lavoratori nella principale età lavorativa, che è un modo per tenere conto degli effetti demografici della popolazione che invecchia. E quello che si osserva è questo:
All’interno di questo più ampio quadro, tuttavia, ci sono alcuni misteri. Una frazione inusualmente alta di disoccupati è rimasta senza lavoro per un lungo tempo; e lì sembra esserci stato un apparente spostamento nella curva di Beveridge, ovvero nella storica relazione tra posti liberi e disoccupazione [2].
Che cosa sta accadendo? Un certo numero di persone ha attribuito sia la crescita della disoccupazione di lungo periodo sia l’apparente modifica della curva di Beveridge ai prorogati sussidi di disoccupazione, che hanno reso le persone meno disperate nell’accettare un lavoro, un qualsiasi lavoro, al momento che i loro sussidi si esauriscono.
Anche se questo fosse vero, c’è un complessivo equivoco su cosa questo significherebbe. Esso non significherebbe, non significherebbe affatto, che la assicurazione di disoccupazione stia provocando una disoccupazione più elevata, come ho cercato di spiegare nell’articolo di oggi [3]. Il punto cruciale è che rendere i disoccupati più disperati non aumenterebbe in nessun modo i posti di lavoro disponibili. Al massimo, provocherebbe una generale caduta dei salari – e questo peggiorerebbe la nostra situazione, perché aumenterebbe il peso del debito delle famiglie.
Perché dunque si assiste ad economisti che pretendono che la assicurazione di disoccupazione aumenti la disoccupazione medesima? Parole in libertà, nel migliore dei casi; o, se si vuole, pensieri in libertà. Probabilmente l’assicurazione di disoccupazione incrementa il NAIRU [4] – ovvero, alza il livello di disoccupazione al di sotto del quale non si procede senza una inflazione crescente. Ma dal momento che l’inflazione non è un problema (se non perché è troppo bassa), questo oggi non è rilevante. E se mai arrivassimo davvero a quel punto, i sussidi di disoccupazione prorogati sarebbero in ogni caso scomparsi.
Eppure, è interessante sapere se la crescita della disoccupazione di lungo periodo e il mutamento della curva di Beveridge siano provocati dalla assicurazione di disoccupazione. E la risposta è: in apparenza no, o non principalmente. Un nuovo studio della Fed di Boston scopre che la disoccupazione di lungo periodo è concentrata nei nuovi ingressi nella forza lavoro o nelle persone che rientrano al lavoro dopo una assenza – ovvero, individui che all’inizio non hanno diritto alla assicurazione di disoccupazione.
Questa non è una confutazione del concetto secondo il quale la assicurazione di disoccupazione sta provocando disoccupazione, anzitutto perché quel concetto non ha mai avuto senso. Ma indica che gli effetti della assicurazione di disoccupazione sono persino più piccoli di quanto non si credesse in precedenza.
[1] Del padre David, della cui scomparsa ha dato notizia ieri.
[2] William Beveridge fu economista e sociologo, nonché autore di una famosissimo rapporto che nel dopoguerra costituì la base per la costruzione della Stato Sociale britannico, da parte dei governi laburisti. La “curva di Beveridge” indica la relazione tra la disoccupazione ed i posti di lavoro disponibili. Come si vede dalla figura nel post (ampliandola) l’asse verticale è dato dalla disponibilità di posti di lavoro espressa come percentuale della forza lavoro complessiva, mentre l’asse orizzontale indica il tasso di disoccupazione. Sembra logico che più il tasso di disoccupazione cresce (si sposta verso destra), minore sia la quantità di posti di lavoro disponibili. Ma c’è attualmente il mistero di cui parla il post … Il mistero è leggibile nella figura, considerando che essa rappresenta il periodo complessivo degli ultimi 12 anni e che i punti rossi, nella loro sequenza, indicano l’evoluzione dei posti di lavoro disponibili dall’anno 2009 all’anno 2013. Sembrerebbe dunque che la disponibilità di posti di lavoro, pure a livelli comprensibilmente inferiori rispetto ai primi anni 2000, stia nel periodo più recente risalendo nonostante che il tasso di disoccupazione sia in questi anni aumentato.
[3] Vedi la traduzione del 30 giugno dell’articolo sul New York Times “Guerra sui disoccupati”.
[4] Per “tasso di disoccupazione che non accelera l’inflazione” (la sigla americana è NAIRU) si intende appunto quel particolare punto di equilibrio tra il mercato del lavoro e le condizioni dell’economia nel quale la disoccupazione esistente non provoca tendenze inflazionistiche. E’ quel livello che può in teoria essere leggermente ‘spostato’, qualora i lavoratori divengano maggiormente esigenti nella ricerca di un lavoro soddisfacente.
By mm
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