August 19, 2013, 1:03 pm
Antonio Fatas and Ilan Mihov have a new paper in which they propose rethinking the way we classify business cycles. I’m still trying to decide what I think of their methodology, and I’m troubled by their dates – for example, I don’t believe that the U.S. economy was operating at capacity in late 1992. But I’m very much in sympathy with their underlying view about the asymmetry between booms and busts; the question is why, exactly, it feels right.
Here’s how I’d put it: Fatas and Mihov have an Anna Karenina view of booms and busts, in which all happy economies are alike, but each unhappy economy is unhappy in – well, not exactly its own way, but certainly to its own extent. Business cycle peaks are always times when the economy is operating at capacity; troughs are times when the economy is operating below capacity, but how far below varies from cycle to cycle.
This is not at all what standard New Keynesian models say. In those models “potential output” is what the economy would produce if prices were perfectly flexible. (Leave on one side the question of whether flexible prices get you to full employment in a liquidity trap, especially with problems of debt overhang). In the short run, however, prices are sticky, so we’re often not at potential; but the economy can run above as well as below potential, and in fact there would be no necessary reason why underemployment should be more common than overemployment.
Largely thanks to this theoretical conclusion, it has become standard to describe the job of monetary policy as one of “stabilization”, rather than the achievement of full employment.
Like Fatas and Mihov, however, I don’t think this is right. Or more accurately, I don’t feel that it’s right. What lies behind that feeling?
Partly, I think, it’s the historical record: booms are more similar than busts. To take the extreme case, clearly we’ve never had a period when the economy was as far above capacity as it was below capacity in the Great Depression. And even in the postwar record, if we look at unemployment rates, troughs – local minima in the rate – are more closely clustered than peaks – local maxima:
This difference in spread would be even more pronounced, I believe, if we adjusted for changes in demography.
There’s also the now very clear evidence that the old notion that wages are sticky downward in a way they’re not sticky upward is entirely true – and downward nominal wage rigidity eliminates the symmetry between over- and under-employment. Here’s the SF Fed data:
San Francisco Fed Percentage of workers with zero wage change
Last but maybe not least, there’s the question of what’s supposed to be going on when the economy is operating above capacity. How do you force people to work more than they would want to in equilibrium? Now, NK models do have an answer of sorts: they’re always models characterized by imperfect competition, so prices are above marginal cost, and there’s a sense in which the economy is always operating with some excess capacity in the sense that people are willing to produce more at current prices. But my vague sense is that this only gives you a limited amount of wiggle room, and that really big upward deviations in output can’t happen, while really big downward deviations can.
So, why should you care? Well, Fatas and Mihov have it right: if the business cycle is a matter of the economy falling below capacity, rather than fluctuating around potential output, the costs of recessions are much bigger than often portrayed, and focusing on “stabilization” greatly understates the importance of good macro policy.
Anna Karenina e il ciclo economico
Antonio Fatas e Ilan Mihov presentano un nuovo saggio nel quale propongono un ripensamento dei modi nei quali classifichiamo i cicli economici. Sto ancora riflettendo su che cosa pensare della loro metodologia ed ho problemi con i loro dati – ad esempio, io non credo che l’economia americana stesse operando con efficienza sulla fine del 1992. Ma sono molto d’accordo con il loro punto di vista che si fonda su una asimmetria tra espansioni e crisi; la domanda, precisamente, è perché si percepiscono le cose in questo modo?
Ecco come lo spiegherei: Fatas e Mihov hanno un punto di vista sulle espansioni e sulle crisi alla Anna Karenina, secondo il quale tutte le economie che vanno bene si assomigliano, mentre ogni economia che è nei guai, magari non è nei guai esattamente a modo suo, ma certamente in una misura che è solo sua. I punti alti del ciclo economico sono sempre tempi nei quali l’economia sta operando con tutta la sua efficienza; i punti bassi sono tempi nei quali l’economia opera al di sotto della sua capacità, ma quanto al di sotto varia da ciclo a ciclo.
Questo non è quello che dicono i modelli standard neokeynesiani. In quei modelli il “prodotto potenziale” è quello che l’economia produrrebbe se i prezzi fossero perfettamente flessibili (lasciamo da parte se i prezzi flessibili portino alla piena occupazione in una trappola di liquidità, specialmente in presenza di problemi di eccesso del debito). Nel breve termine, tuttavia, i prezzi sono vischiosi, cosicché non accade di frequente di essere al livello del nostro potenziale; ma l’economia può procedere sia sopra che sotto il potenziale, e di fatto non ci sarebbe alcuna ragione imprescindibile perché la sottoccupazione sia più comune della sovraoccupazione.
In gran parte grazie a queste conclusioni teoriche, è diventato comune descrivere il ruolo della politica monetaria nei termini della “stabilizzazione”, piuttosto che del raggiungimento della piena occupazione.
Al pari di Fatas e di Mihov, tuttavia, io non penso che questo sia giusto. O, più precisamente, non lo “sento” giusto. Cosa c’è dietro questa sensazione?
In parte, penso, si tratti degli andamenti storici: le espansioni sono più simili tra loro delle crisi. Per prendere il caso estremo, chiaramente non abbiamo mai avuto un periodo nel quale l’economia sia stata al di sopra delle sue potenzialità quanto fu al di sotto di essa nella Grande Depressione. E persino nelle prestazioni post belliche, se si guarda ai tassi di disoccupazione, i punti bassi – i minimi locali nei tassi – sono raggruppati in modo più ravvicinato tra loro dei punti alti – i massimi locali [1]:
La differenza nella distribuzione sarebbe anche più pronunciata, credo, se correggessimo i dati sulla base della demografia.
C’è anche la prova, adesso molto chiara, che la vecchia idea secondo la quale i salari sono rigidi verso il basso in un modo nel quale non lo sono verso l’alto, corrisponde interamente al vero – e la rigidità dei salari nominali verso il basso elimina la simmetria tra sovra e sotto/occupazione. Ecco i dati della Fed di San Francisco [2]:
Percentuale di lavoratori con modifiche salariali nulle. Fed San Francisco
Da ultimo ma non per ultimo, c’è la questione di quello che si pensava succedesse quando l’economia opera al di sopra della sua capacità produttiva. Come si costringono le persone a lavorare di più di quanto vorrebbero in condizioni di equilibrio? Ora, i modelli neokeynesiani hanno una risposta inadeguata: essi sono sempre modelli caratterizzati da competizione imperfetta dunque i costi sono sopra i prezzi marginali, e c’è una percezione per la quale l’economia sta sempre operando con qualche eccesso di capacità, nel senso che la gente ha voglia di produrre di più ai prezzi correnti. Ma ho la vaga impressione che questo vi dia soltanto un limitato margine di manovra, spostamenti rilevanti della produzione verso l’alto non possono proprio avvenire, mentre sono davvero possibili deviazioni verso il basso.
Perché, dunque, ci si dovrebbe preoccupare? Ebbene, Fatas e Mihov hanno ragione: se il ciclo economico è una faccenda dell’economia che cala al di sotto delle sue capacità, piuttosto che una fluttuazione attorno alla produzione potenziale, il costo delle recessioni è molto maggiore di quanto viene descritto, e focalizzarsi sulla “stabilizzazione” sottostina grandemente l’importanza di una buona politica macroeconomica.
[1] I sei punti minimi stanno in un intervallo temporale che è circa la metà dei cinque massimi. Il che, suppongo, significhi che i bassi tassi di disoccupazione tendono ad essere un fenomeno quasi unitario, mentre gli alti tassi – cioè la alta disoccupazione – tendono a ripetersi come fenomeni distinti più frequentemente.
[2] Come si legge, la tabella indica in due periodi attraversati da recessioni (le righe grigie) – il 1986/1994 ed il 1996/2012. Si badi che la tabella misura la percentuale di lavoratori che non hanno avuto alcuna variazione salariale, cosicché più la percentuale è alta e più i salari sono rigidi. Se ben capisco, la tabella mostra che i periodi recessivi sono accompagnati ed anche seguiti per un po’ da fenomeni di più elevata stabilità (vischiosità) dei salari; dunque le recessioni non sono accompagnate da riduzioni di salari perché la loro vischiosità o rigidità è forte proprio quando dovrebbero scendere verso il basso. Ovvero: c’è maggiore rigidità verso il basso che non verso l’alto.
By mm
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