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Il fattore della paura fasulla (New York Times 8 agosto 2013)

 

Phony Fear Factor

By PAUL KRUGMAN

Published: August 8, 2013

We live in a golden age of economic debunkery; fallacious doctrines have been dropping like flies. No, monetary expansion needn’t cause hyperinflation. No, budget deficits in a depressed economy don’t cause soaring interest rates. No, slashing spending doesn’t create jobs. No, economic growth doesn’t collapse when debt exceeds 90 percent of G.D.P.

And now the latest myth bites the dust: No, “economic policy uncertainty” — created, it goes without saying, by That Man in the White House — isn’t holding back the recovery.

I’ll get to the doctrine and its refutation in a minute. First, however, I want to recommend a very old essay that explains a great deal about the times we live in.

The Polish economist Michal Kalecki published “Political Aspects of Full Employment” 70 years ago. Keynesian ideas were riding high; a “solid majority” of economists believed that full employment could be secured by government spending. Yet Kalecki predicted that such spending would, nonetheless, face fierce opposition from business and the wealthy, even in times of depression. Why?

 

The answer, he suggested, was the role of “confidence” as a tool of intimidation. If the government can’t boost employment directly, it must promote private spending instead — and anything that might hurt the privileged, such as higher tax rates or financial regulation, can be denounced as job-killing because it undermines confidence, and hence investment. But if the government can create jobs, confidence becomes less important — and vested interests lose their veto power.

Kalecki argued that “captains of industry” understand this point, and that they oppose job-creating policies precisely because such policies would undermine their political influence. “Hence budget deficits necessary to carry out government intervention must be regarded as perilous.”

When I first read this essay, I thought it was over the top. Kalecki was, after all, a declared Marxist (although I don’t see much of Marx in his writings). But, if you haven’t been radicalized by recent events, you haven’t been paying attention; and policy discourse since 2008 has run exactly along the lines Kalecki predicted.

First came the “pivot” — the sudden switch to the view that budget deficits, not mass unemployment, were the crucial policy issue. Then came the Great Whinethe declaration by one leading business figure after another that President Obama was undermining confidence by saying mean things about businesspeople and doing outrageous things like helping the uninsured. Finally, just as happened with the claims that slashing spending is actually expansionary and terrible things happen if government debt rises, the usual suspects found an academic research paper to adopt as mascot: in this case, a paper by economists at Stanford and Chicago purportedly showing that rising levels of “economic policy uncertainty” were holding the economy back.

 

 

But, as I said, we live in a golden age of economic debunkery. The doctrine of expansionary austerity collapsed as evidence on the actual effects of austerity came in, with officials at the International Monetary Fund even admitting that they had severely underestimated the harm austerity does. The debt-scare doctrine collapsed once independent economists reviewed the data. And now the policy-uncertainty claim has gone the same way.

Actually, this happened in two stages. Soon after it became famous, the proposed measure of uncertainty was shown to be almost comically flawed; for example, it relied in part on press mentions of “economic policy uncertainty,” which meant that the index automatically surged once that phrase became a Republican talking point. Then the index itself plunged, back to levels not seen since 2008, but the economy didn’t take off. It turns out that uncertainty wasn’t the problem.

 

The truth is that we understand perfectly well why recovery has been slow, and confidence has nothing to do with it. What we’re looking at, instead, is the normal aftermath of a debt-fueled asset bubble; the sluggish U.S. recovery since 2009 is more or less in line with many historical examples, running all the way back to the Panic of 1893. Furthermore, the recovery has been hobbled by spending cuts — cuts that were motivated by what we now know was completely wrongheaded deficit panic.

And the policy moral is clear: We need to stop talking about spending cuts and start talking about job-creating spending increases instead. Yes, I know that the politics of doing the right thing will be very hard. But, as far as the economics goes, the only thing we have to fear is fear-mongering itself.

Correction: In my column on Monday, I somehow misstated the Republican plan on food stamps, which was for a doubling of planned cuts — a significant cut but not, as I said, a halving of benefits.

 

Il fattore della paura fasulla, di Paul Krugman

New York Times 8 agosto 2013

 

Viviamo in un’età dell’oro dei miti sfatati dell’economia: dottrine fallaci vengono giù come mosche. No, l’espansione monetaria non c’è bisogno che provochi iperinflazione. No, i deficit di bilancio in una economia depressa non spingono alle stelle i tassi di interesse. No, abbattere la spesa pubblica non crea posti di lavoro. No, la crescita economica non collassa quando il debito supera il 90 per cento del PIL.

Ed ora l’ultimo dei miti morde la polvere: no, l’ “incertezza sulla politica economica” – creata, non è il caso di precisarlo, da Quell’Individuo [1] alla Casa Bianca – non sta trattenendo la ripresa.

Tornerò tra un attimo su quella dottrina e sulla sua confutazione. Prima, tuttavia, voglio raccomandare un vecchissimo saggio che spiega in buona parte i tempi nei quali viviamo.

L’economista polacco Michal Kalecki [2] pubblicò 70 anni orsono “Aspetti politici della piena occupazione“. Le idee keynesiane erano sulla cresta dell’onda; una “robusta maggioranza” di economisti credeva che la piena occupazione potesse essere assicurata dalla spesa pubblica. Tuttavia Kalecki prevedeva che tale spesa pubblica si sarebbe nondimeno confrontata con una feroce opposizione della imprenditoria e dei ricchi, persino in tempi di depressione. Perché?

La risposta, suggeriva, era il ruolo della “fiducia” come strumento di intimidazione. Se il governo non può direttamente incoraggiare l’occupazione, deve al suo posto promuovere la spesa privata – ed ogni cosa che potrebbe urtare i privilegiati, come le aliquote fiscali più alte o i regolamenti finanziari, possono essere denunciati come negativi per i posti di lavoro, perché minano la fiducia e di conseguenza gli investimenti. Ma se il Governo può creare posti di lavoro, la fiducia diventa meno importante – e gli interessi consolidati perdono il loro potere di veto.

Kalecki sosteneva che i “capitani di industria” capiscono questo punto e si oppongono a politiche di creazione di posti di lavoro perché tali politiche indebolirebbero la loro influenza politica. “Perciò i deficit di bilancio necessari per attuare gli interventi governativi devono essere considerati pericolosi.”

Quando, per la prima volta, lessi questo saggio, pensai che fosse esagerato. Dopo tutto Kalecki era un marxista dichiarato (per quanto io non veda molto Marx nei suoi scritti). Ma se gli eventi recenti non vi hanno reso più radicali, vuole dire che non siete stati attenti; e il discorso politico a cominciare dal 2008 si è sviluppato esattamente lungo la falsariga che Kalecki aveva previsto.

Prima di tutto venne il “pivot” [3] – l’improvvisa ‘torsione’ di punti di vista secondo la quale i deficit di bilancio e non la disoccupazione di massa erano il tema politico cruciale. Poi venne il Grande Lamento – la dichiarazione uno dietro l’altro di personaggi con ruoli guida nell’economia che il Presidente Obama stava minando la fiducia, affermando meschinità sugli uomini d’affari e facendo cose oltraggiose come aiutare chi era privo di assicurazione sanitaria. Infine, proprio come era accaduto con le pretese per le quali abbattere la spesa pubblica è effettivamente espansivo e succedono cose tremende se il debito pubblico sale, i soliti sospetti hanno scoperto un articolo da una ricerca accademica da adottare come mascotte: in questo caso uno studio di economisti di Stanford e Chicago che approssimativamente mostra come livelli crescenti di “incertezza sulla politica economica” stiano trattenendo l’economia.

Ma, come ho detto, viviamo nell’età dell’oro dei miti economici smascherati. La dottrina della austerità espansiva andò in frantumi al momento in cui apparvero le prove sugli effetti reali dell’austerità, con i dirigenti del Fondo Monetario Internazionale che financo ammettevano di avere essi stessi grandemente sottostimato i danni provocati dall’austerità. La dottrina sullo spavento da debito ha collassato una volta che economisti indipendenti hanno rivisto i dati. Ed ora la tesi dell’incertezza politica ha preso la stessa strada.

In effetti, questo è avvenuto in due stadi. Subito dopo esser diventate famose, si dimostrò che le misurazioni proposte per tale incertezza erano quasi comicamente viziate; ad esempio, si fondavano in parte su riferimenti di giornale alla “incertezza di politica economica”, il che significava che l’indice automaticamente saliva ogni qualvolta quella frase diventava oggetto di conversazione da parte dei Repubblicani. Dopodiché l’indice è ricaduto a livelli che non si vedevano dal 2008, ma l’economia non è decollata. Si scopre che l’incertezza non era il problema.

La verità è che si capisce perfettamente perché la ripresa è stata lenta e la fiducia non c’entra nulla. Quello a cui stiamo assistendo, piuttosto, sono le normali conseguenze di una bolla di beni alimentata con l’indebitamento; la ripresa fiacca a partire dal 2009 è più o meno in linea con molti esempi storici, sino dalla crisi del cosiddetto “Panico” del 1893. Inoltre, la ripresa è stata azzoppata dai tagli alla spesa pubblica – tagli che sono stati motivati da quello che oggi sappiamo essere stato un panico da deficit completamente infondato.

E la morale politica è chiara: abbiamo bisogno di smettere di parlare di tagli alla spesa e di cominciare invece a parlare di incrementi della spesa che creino posti di lavoro. Sì, so che la politica del fare la cosa giusta sarà molta ardua. Ma, finché l’economia procede, l’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è proprio il seminare paure.

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Correzione: nel mio articolo di lunedì, ho in qualche modo equivocato il programma dei Repubblicani sugli aiuti alimentari, che consisteva in un raddoppio dei tagli previsti – una riduzione significativa ma non, come ho detto io, un dimezzamento dei sussidi.


[1] Ovviamente, Barack Obama.

[2] Michał Kalecki (Łódź, 22 giugno 1899Varsavia, 18 aprile 1970) è stato un economista polacco. Le sue teorie sono considerate, da alcuni, come precorritrici delle idee esposte nella Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di John Maynard Keynes.[1]

Il suo lavoro ha riguardato principalmente la macroeconomia, in particolare il ciclo economico, la distribuzione del reddito e la matematica applicata alle analisi dinamiche dell’economia. Secondo John Kenneth Galbraith, va considerato, insieme a Oskar Lange uno dei due principali economisti socialisti del primo dopoguerra.[2] I punti di convergenza tra Kalecki e Keynes sono numerosi a partire dall’analisi delle classi sociali e dalla separazione delle decisioni di risparmio ed investimento, fino alla presa di coscienza di molte caratteristiche proprie di una economia monetaria, come quella per cui i lavoratori sono remunerati in termini monetari e non in termini reali (Wikipedia).

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[3] In pallacanestro il “pivot” è il centro (“perno”) della squadra. Ma credo che il riferimento sia soprattutto a quel gesto atletico consistente nell’elevarsi e nel cambiare contemporaneamente indirizzo al pallone, con un movimento di torsione. In questo caso il “pivot” ha spostato il riferimento dalla disoccupazione ai deficit di bilancio.

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