August 27, 2013, 11:39 am
I’m a bit behind the curve in commenting on the Rosenberg-Curtain piece on economics as a non-science. What do I think of their thesis?
Well, I’m sorry to say that they’ve gotten it almost all wrong. Only “almost”: they’re entirely right that economics isn’t behaving like a science, and economists – macroeconomists, anyway – definitely aren’t behaving like scientists. But they misunderstand the nature of the failure, and for that matter the nature of such successes as we’re having.
Let’s start with the giveaway passage:
An effective chair of the central bank will be one who understands that economics is not yet a science and may never be. At this point it is a craft, to be executed with wisdom, not algorithms, in the design and management of institutions. What made Ben S. Bernanke, the current chairman, successful was his willingness to use methods — like “quantitative easing,” buying bonds to lower long-term interest rates — that demanded a feeling for the economy, one that mere rational-expectations macroeconomics would have denied him.
Whoa! They apparently imagine that QE was an intuitive reaction by Bernanke, one that academic macroeconomics would never have suggested. Nothing could be further from the truth. By the time 2008 came along, the issue of how to conduct monetary policy at the zero lower bound had been extensively discussed, notably in Krugman 1998 (pdf), Eggertsson and Woodford (2003), and, yes, Bernanke-Reinhart-Sack 2004 (pdf). Indeed, the Fed’s QE policies initially followed the latter paper closely; its more recent shift to a greater emphasis on forward guidance is a move in the direction of the Krugman-Eggertsson-Woodford approach.
In other words, far from acting as a free-spirited improviser, Bernanke has been largely implementing recipes developed in the academic literature years before.
So Rosenberg and Curtain completely misunderstand what’s been going on at the Fed. They also misunderstand the nature of economists’ predictive failures. It’s true that few economists predicted the onset of crisis. Once crisis struck, however, basic macroeconomic models did a very good job in key respects — in particular, they did much better than people who relied on their intuitive feelings. The intuitionists — remember, Alan Greenspan was supposed to be famously able to sense the economy’s pulse — insisted that budget deficits would send interest rates soaring, that the expansion of the Fed’s balance sheet would be inflationary, that fiscal austerity would strengthen economies through “confidence”. Meanwhile, wonks who relied on suitably interpreted IS-LM confidently declared that all this intuition, based on experiences in a different environment, would prove wrong — and they were right. From my point of view, these past 5 years have been a triumph for and vindication of economic modeling.
Oh, and it would be a real tragedy if the takeaway from recent events becomes that you should listen to impressive-looking guys with good tailors who stroke their chins and sound wise, and ignore the nerds; the nerds have been mostly right, while the Very Serious People have been wrong every step of the way.
Yet obviously something is deeply wrong with economics. While economists using textbook macro models got things mostly and impressively right, many famous economists refused to use those models — in fact, they made it clear in discussion that they didn’t understand points that had been worked out generations ago. Moreover, it’s hard to find any economists who changed their minds when their predictions, say of sharply higher inflation, turned out wrong.
Nor is this a new thing. My take on the history of macro is that the notion of equilibrium business cycles had, by the standards of any normal science, definitively failed by any normal scientific standard by 1990 at the latest. The original idea that money had real effects because people were surprised by monetary shocks fell apart in the face of evidence of business cycle persistence; the real business cycle view that nominal shocks didn’t actually matter after all was refuted by decisive evidence (pdf) that, in fact, it did. Yet there was no backing off on this approach. On the contrary, it actually increased its hold on the profession.
So, let’s grant that economics as practiced doesn’t look like a science. But that’s not because the subject is inherently unsuited to the scientific method. Sure, it’s highly imperfect — it’s a complex area, and our understanding is in its early stages. And sure, the economy itself changes over time, so that what was true 75 years ago may not be true today — although what really impresses you if you study macro, in particular, is the continuity, so that Bagehot and Wicksell and Irving Fisher and, of course, Keynes remain quite relevant today.
No, the problem lies not in the inherent unsuitability of economics for scientific thinking as in the sociology of the economics profession — a profession that somehow, at least in macro, has ceased rewarding research that produces successful predictions and rewards research that fits preconceptions and uses hard math instead.
Why has the sociology of economics gone so wrong? I’m not completely sure — and I’ll reserve my random thoughts for another occasion.
Il vero guaio dell’economia
Non sono a mio agio nel commentare il pezzo di Rosenberg–Curtain sull’economia come non-scienza. Cosa pensare della loro tesi?
Ebbene, mi dispiace dirlo ma sbagliano quasi su tutto. Dico “quasi”, perché hanno interamente ragione sul fatto che l’economia non si stia comportando come una scienza e che gli economisti – o in ogni caso i macroeconomisti – certamente non si stiano comportando come scienziati. Ma fraintendono la natura di quel fallimento, e per quel motivo la natura del genere di successi che stiamo ottenendo.
Cominciamo con il passaggio rivelatore:
“Un Presidente efficace della banca centrale sarà un individuo che capisce che l’economia non è ancora una scienza e non lo sarà mai. Al punto a cui siamo, essa è un mestiere, da eseguire con buon senso, non con algoritmi, nella progettazione e nella gestione delle istituzioni. Ciò che Ben Bernanke, il Presidente attuale, ha fatto con successo è dipeso dalla sua volontà di usare metodi – come la “Facilitazione Quantitativa” [1], ovvero l’acquisto di bonds a più bassi tassi di interesse a lungo termine – che chiedevano una sensibilità per l’economia, qualcosa che la macroeconomia delle aspettative razionali non gli avrebbe permesso.”
Perbacco! Pare che si immaginino che la Facilitazione Quantitativa fosse da parte di Bernanke una reazione istintiva, qualcosa che la macroeconomia accademica mai gli avrebbe suggerito. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Quando arrivò il 2008, il tema di come condurre la politica monetaria a fronte del limite inferiore di zero [2] era stato abbondantemente dibattuto, in particolare in Krugman 1998 (disponibile in pdf), in Eggertsson e Woodford (2003) ed in Bernanke-Reinhart-Sack (2004, disponibile in pdf). In effetti, le politiche della Facilitazione Quantitativa della Fed inizialmente seguirono l’ultimo studio in modo ravvicinato; gli spostamenti più recenti verso una maggiore enfasi su una guida ardita è una mossa nella direzione dell’approccio Krugman-Eggertsson-Woodford.
In altre parole, lungi dall’agire come un improvvisatore dallo spirito libero, Bernanke è venuto largamente applicando ricette sviluppate nella letteratura accademica di anni prima.
Così Rosenberg e Curtain fraintendono completamente cosa è accaduto alla Fed. Fraintendono anche la natura delle previsioni sbagliate degli economisti. E’ vero che pochi economisti avevano previsto l’avvio della crisi. Una volta che essa scoppiò, tuttavia, i modelli macroeconomici fondamentali fecero un ottimo lavoro sugli aspetti principali – in particolare, fecero molto meglio delle persone che si basavano sulle loro sensazioni istintive. Gli intuizionisti – si ricordi, Alan Greenspan passava per essere notoriamente capace di sentire il polso dell’economia – insistevano che i deficits di bilancio avrebbero spinto i tassi di interesse alle stelle, che l’espansione dei conti della Fed avrebbe avuto effetti inflazionistici, che l’austerità della finanza pubblica avrebbe rafforzato le economie attraverso la “fiducia”. Nel frattempo, studiosi che si basavano sul modello IS-LM appropriatamente interpretato, dichiaravano convintamente che tutte queste intuizioni, basate su esperienze in diversi contesti, si sarebbero mostrate sbagliate – ed avevano ragione. Dal mio punto di vista, questi cinque anni sono stati un trionfo e un risarcimento della modellistica economica.
Inoltre, sarebbe davvero una tragedia se il risultato degli eventi recenti diventasse che si debba dare ascolto a personaggi tutta apparenza, che si servono da sarti di fama e che si grattano il mento pensosi ed appaiono saggi, ed ignorare le persone che studiano; sono queste ultime che hanno in gran parte avuto ragione, mentre le Persone Molto Serie hanno avuto torto ad ogni passaggio.
Tuttavia, è evidente che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nell’economia. Mentre gli economisti che utilizzano i modelli macro dei libri di testo hanno di solito avuto ragione in modo impressionante, molti famosi economisti si sono rifiutati di utilizzare quei modelli – di fatto, nel corso del dibattito hanno voluto chiarire che non comprendono gli aspetti ai quali sono state trovate soluzioni generazioni orsono. Inoltre, è difficile trovare economisti che abbiano modificato il loro modo di ragionare allorché le loro previsioni, ad esempio di una inflazione bruscamente in crescita, si sono rivelate sbagliate.
E non è una novità. La mia interpretazione sulla storia della macro è che il concetto di cicli economici in equilibrio è venuto meno, secondo i metodi di una qualsiasi normale scienza, al massimo a partire dagli anni ’90 a qualsiasi normale criterio scientifico. L’idea originaria secondo la quale la moneta aveva effetti reali perché le persone erano sorprese dagli shocks monetari andò in frantumi a fronte della prova della persistenza del ciclo economico; il punto di vista della teoria del ciclo economico secondo il quale gli shocks in termini monetari nominali non contano venne, dopo tutto, confutato dai fatti in modo decisivo [3]. Tuttavia non ci fu alcun arretramento da un simile approccio. Al contrario, esso aumentò la sua presa sulla disciplina.
Dunque, diamo per accertato che l’economia come viene praticata non assomiglia ad una scienza. Ma questo non perché il suo oggetto sia intrinsecamente inadatto al metodo scientifico. Certamente, esso è molto imperfetto – si tratta di una settore complesso e la nostra comprensione di esso è alle fasi iniziali. Ed è anche chiaro che l’economia stessa cambia col tempo, in modo tale che quello che era vero 75 anni fa può non esser vero oggi – sebbene quello che realmente vi impressiona se, in particolare, studiate la macroeconomia è la continuità, cosicché Bagehot Wicksell ed Irving Fisher e, naturalmente, Keynes restano ancora oggi del tutto significativi.
No, il problema non consiste in una economia intrinsecamente inadatta al pensiero scientifico e neppure in una sociologia della disciplina economica – una disciplina che in qualche modo, almeno nella macroeconomia, ha smesso di premiare ricerche che producono previsioni di successo e piuttosto premia ricerche che si adattano a pregiudizi e usano una difficile matematica.
Perché la sociologia dell’economia è stata così sbagliata? Non ne sono completamente sicuro – e riservo ad un’altra occasione i miei pensieri in libertà.
[1] Vedi note sulla traduzione.
[2] Vedi le note sulla traduzione.
[3] Nel link, disponibile in pdf, uno studio dei due economisti, i coniugi Romer, del 1998, nel quale appunto – tornando alle tesi di Friedman e Schwartz (“La storia monetaria degli Stati Uniti” – si confutava con i dati più recenti la pretesa dei teorici del ciclo economico reale della non influenza degli shocks monetari nominali.
La Teoria del ciclo economico reale (RBT Theory) allude alle posizioni della corrente di economisti denominata anche “dell’acqua dolce” (“freshwater economics”, vedi note sulla traduzione) o anche degli economisti di Chicago, secondo i quali le fluttuazioni dei cicli economici in larga misura dipendono da shocks reali e non da shocks monetari dei soli valori nominali. Si tratta di una prosecuzione nell’epoca del dopoguerra delle tesi degli economisti della scuola ‘austriaca’, per le quali le crisi recessive e depressive sarebbero niente altro che ‘aggiustamenti salutari’ da parte di mercati di fenomeni reali profondi dell’economia (ad esempio: fenomeni di modificazioni nelle tecnologie, uscita di scena di soggetti economici non più competitivi etc.). Le crisi non sarebbero dunque prova della non onnipotenza ed onniscienza dei mercati, e pensare di intervenire su di esse con gli strumenti monetari o della spesa pubblica – come aveva sostenuto alcuni decenni prima il keynesismo – sarebbe più che illusorio, negativo. Alcuni nomi di esponenti di tale Teoria ancora in vita sono: Richard Posner, Robert E. Lucas, Eugene Fama.
Se si volesse trasporre queste opinioni in una sorta di semplice geografia politica del pensiero economico statunitense, è evidente che le tesi della teoria del ciclo economico reale (o in equilibrio) rappresentano la destra, ed in effetti esse sono ancora oggi sostanzialmente omogenee con le posizioni politiche della destra repubblicana. Il keynesismo, ovviamente, indica soluzioni che invece appartengono alla tradizione democratica. Krugman ha sempre insistito – anche con alcuni interventi di questo ultimo mese – che le posizioni di Friedman non dovrebbero in nessun modo essere confuse con quelle della destra del pensiero economico, giacché appunto è opposta la considerazione sulla influenza dei processi derivanti da mutamenti monetari. Ancorché lo spazio politico per posizioni alla Friedman sembra ormai inesistente, nella destra americana odierna.
E questi sono i due coniugi Romer, che spesso sono oggetto di citazioni:
By mm
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