September 30, 2013, 4:11 pm
I’ve spent most of today both under pressure to get an assignment out the door and under the weather; still sniffling, but the piece has been emailed off, so a bit of time for the blog. Except I feel like taking a vacation from both the shutdown and Obamacare. So let’s talk about trade — specifically, a recent post by Gavyn Davies, “Why world trade growth has lost its mojo,” which expresses deep concern over the fact that in recent years trade hasn’t grown much faster than global GDP. He suggests that hidden protectionism may be partly to blame, and that this may have large economic costs.
So, I’m going to disagree with both propositions.
First, on the general point of the welfare gains from trade: I’m basically with Dani Rodrik here. Standard economic models do not imply huge gains from trade liberalization. You can make arguments that suggest bigger gains, but they’re highly speculative, and the credulity with which people accept dubious nonstandard arguments for big trade gains contrasts oddly with the gimlet eye cast on arguments for, say, industrial policy. You should definitely not accept estimates that every dollar of additional trade raises world GDP by 46 cents — an extremely high number — as being definitive.
But my main thought, reading Davies’s piece, was that the belief that trade must always expand much faster than output, and that there’s something wrong if it doesn’t, doesn’t stand up to careful scrutiny.
In part, this notion comes from the fact that trade has grown faster than output since 1950. However, up through about 1970 that only represented a return to levels of trade relative to output that prevailed before World War I:
On the other hand, one does see that business cycle fluctuations produce large fluctuations in trade, much bigger in percentage terms than the moves in GDP, which you might take — which Davies does take — as an indication that the “income elasticity” of trade, the percentage rise for every percent rise in GDP, is much bigger than one.
This is, I’d say, a confusion between short-term and long-term issues. Consider, instead of trade, industrial production. We know that this fluctuates much more than GDP over the business cycle, because purchases of manufactured goods slump much more in recessions than purchases of services. Over the long run, however, industrial production and GDP grow at roughly equal rates. There’s no reason trade couldn’t be the same way. In fact, one reason trade fluctuates so much in the short run is precisely because it’s dominated by manufactured goods.
To explain a rising long-term ratio of trade to GDP, we have to turn instead to structural changes in the world economy, of which the most obvious involve declining costs of trade. My view is that rapid trade growth since World War II was driven by two great waves of trade liberalization and one major technological innovation. The first wave of trade liberalization involved industrial countries, and was largely over by 1980:
The second wave involved the great opening of developing countries:
World Bank
This is still going on, but the major opening of Latin America, China, and India is already well behind us.
Finally, there’s The Box — containerization, which made the vertical disintegration of production, with separate stages carried out in far-distant nations, possible. But this too has been going on for a while.
The point is that it’s entirely reasonable to believe that the big factors driving globalization were one-time changes that are receding in the rear-view mirror, so that we should expect the share of trade in GDP to plateau — and that this doesn’t represent any kind of problem. In fact, it’s conceivable that things like rising fuel costs and automation (which makes labor costs less central) will lead to some “reshoring” of manufacturing to advanced countries, and a corresponding decline in the trade share.
Ever-growing trade relative to GDP isn’t a natural law, it’s just something that happened to result from the policies and technologies of the past few generations. We should be neither amazed nor disturbed if it stops happening.
Dovrebbe preoccuparci un rallentamento della crescita commerciale?
Ho speso gran parte della giornata sia sotto l’ansia per un impegno esterno che sotto il maltempo; ancora raffreddato, ma il pezzo è stato spedito, ho dunque un po’ di tempo per il blog. Sennonché mi fa piacere prendermi una pausa sia dalla storia del ‘blocco’ del Governo che dalla riforma sanitaria di Obama. Vorrei dunque parlare di commercio – in particolare, un post recente di Gavyn Davies [1], “Perché la crescita del commercio mondiale ha perso la sua magia”, che esprime preoccupazione per il fatto che negli anni recenti il commercio non è cresciuto molto più velocemente del PIL globale. Egli suggerisce che si potrebbe in parte dar la colpa ad un protezionismo nascosto, e che questo potrebbe avere grandi costi economici.
Dunque, intendo esprimere il mio dissenso da entrambi quei concetti.
In primo luogo, sul punto di vista generale secondo il quale il benessere guadagna dal commercio: su questo punto fondamentalmente concordo con Dani Rodrik. I modelli economici consueti non implicano grandi vantaggi dalla liberalizzazione del commercio. Potete avanzare argomenti che suggeriscono i guadagni maggiori, ma sono altamente teorici, e la credulità con la quale la gente accetta dubbi argomenti non conformi (con tali modelli) a favore dei grandi vantaggi del commercio contrasta singolarmente con l’atteggiamento di acuta perplessità, ad esempio, sugli argomenti a favore della politica industriale. Di sicuro, dovreste non accettare come definitive le stime secondo le quali ogni dollaro di commercio aggiuntivo accresce il PIL mondiale di 46 centesimi – un numero estremamente elevato.
Ma il mio pensiero principale, leggendo il pezzo di Davies, è stato che il convincimento che il commercio deve sempre espandersi molto più velocemente della produzione, e che ci sia qualcosa di sbagliato se non succede, non regge ad una disamina scrupolosa.
In parte questo concetto deriva dal fatto che il commercio è cresciuto più rapidamente della produzione a partire dal 1950. Tuttavia, sino a circa il 1970 quel fenomeno ha semplicemente rappresentato un ritorno ai livelli di commercio in rapporto alla produzione che prevalevano precedentemente la Prima Guerra Mondiale:
D’altra parte, si vede per davvero che le fluttuazioni nel ciclo economico producono ampie variazioni nel commercio, molto più ampie in termini percentuali degli spostamenti del PIL, la qualcosa potete considerarla – come Davies la considera – come la indicazione che la “elasticità di reddito” del commercio, la crescita percentuale per ogni unità percentuale di crescita del PIL, è molto superiore ad uno.
Questa è, direi, una confusione tra tematiche di breve termine e di lungo termine. Si consideri, invece del commercio, la produzione industriale. Noi sappiamo che questa fluttua molto più del PIL nel corso del ciclo economico, giacché durante le recessioni gli acquisti di beni manifatturieri cadono molto di più degli acquisti dei servizi. Nel lungo termine, tuttavia, la produzione industriale ed il PIL crescono grosso modo a tassi eguali. Non c’è ragione per la quale il commercio non possa procedere in modo identico. Di fatto, una ragione per la quale il commercio fluttua così tanto nel breve termine è esattamente perché è dominato dai beni manifatturieri.
Per spiegare una percentuale crescente nel lungo periodo tra commercio e PIL, dobbiamo invece volgerci ai cambiamenti strutturali nell’economia mondiale, il più evidente dei quali riguarda i costi calanti del commercio. La mia opinione è che la rapida crescita del commercio a partire dalla Seconda Guerra Mondiale è stata spinta da due grandi ondate di liberalizzazione commerciale e da una importante innovazione tecnologica. La prima ondata della liberalizzazione dei commerci riguardò i paesi industriali, ed era ampiamente terminata attorno al 1980 [2]:
La seconda ondata riguardò la grande apertura dei paesi in via di sviluppo:
Banca Mondiale
Questa sta ancora proseguendo, ma l’importante apertura dell’America Latina, della Cina e dell’India è già molto alle nostre spalle.
Infine, c’è “l’inscatolamento” – la containerizzazione che ha reso possibile la disintegrazione verticale della produzione, con stadi separati trasportati a lunga distanza tra le nazioni. Ma anche questo è un bel po’ che è in corso.
Il punto è che è del tutto ragionevole supporre che i grandi fattori che guidano la globalizzazione siano stati cambiamenti unici che stanno svanendo come in uno specchietto retrovisore, cosicché dovremmo aspettarci una stabilizzazione della quota dei commerci sul PIL – e che questo non rappresenta in alcun modo un problema. Di fatto, si può ammettere che cose come i costi crescenti dei carburanti e l’automazione (che rende meno centrali i costi del lavoro) porteranno a un qualche “riavvicinamento” del settore manifatturiero ai paesi avanzati, e ad un corrispondente declino della quota dei commerci.
Un commercio in perenne crescita in rapporto al PIL non è una legge naturale, è solo qualcosa che è accaduto a seguito di politiche e di tecnologie delle passate generazioni. Non dovremmo essere né stupiti né sconvolti se cessa di aver luogo.
[1] Un economista che scrive sul l Financial Times.
[2] La tabella riguarda l’andamento medio delle tariffe dei beni di importazione soggetti a dogana (“dutiable”) negli Stati Uniti, dal 1930 al 2008. Il primo periodo, dal 1030 al 1940, viene definito di “riapertura dei commerci” e mostra un inizio di una forte caduta nelle tariffe medie che prosegue nel dopoguerra. Ovviamente, la caduta delle tariffe doganali indica l’effetto di un processo di liberalizzazione degli scambi commerciali.
By mm
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