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La nemesi dei mercati emergenti, di Daniel Gros (da Project Syndicate, 6 settembre 2013)

Daniel Gros

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Emerging Markets’ Euro Nemesis

Sep. 6, 2013

BRUSSELS – Emerging markets’ currencies are crashing, and their central banks are busy tightening policy, trying to stabilize their countries’ financial markets. Who is to blame for this state of affairs?

A few years ago, when the US Federal Reserve embarked on yet another round of “quantitative easing,” some emerging-market leaders complained loudly. They viewed the Fed’s open-ended purchases of long-term securities as an attempt to engineer a competitive devaluation of the dollar and worried that ultra-easy monetary conditions in the United States would unleash a flood of “hot money” inflows, driving up their exchange rates. This, they feared, would not only diminish their export competitiveness and push their external accounts into deficit; it would also expose them to the harsh consequences of a sudden stop in capital inflows when US policymakers reversed course.

 

At first sight, these fears appear to have been well founded. As the title of a recent paper published by the International Monetary Fund succinctly puts it, “Capital Flows are Fickle: Anytime, Anywhere.” The mere announcement that the Fed might scale down its unconventional monetary-policy operations has led to today’s capital flight from emerging markets.

But this view misses the real reason why capital flowed into emerging markets over the last few years, and why the external accounts of so many of them have swung into deficit. The real culprit is the euro.

Quantitative easing in the US cannot have been behind these large swings in global current-account balances, because America’s external deficit has not changed significantly in recent years. This is also what one would expect from economic theory: in conditions approaching a liquidity trap, the impact of unconventional monetary policies on financial conditions and demand is likely to be modest.

Indeed, the available models tell us that, to the extent that an expansionary monetary policy actually does have an impact on the economy, its effect on the current account should not be large, because any positive effect on exports from a weaker exchange rate should be offset by larger imports due to the increase in domestic demand.

This is what has happened in the US, and its recent economic revival has been accompanied by an expansion of both exports and imports. The impact of the various rounds of quantitative easing on emerging markets (and on the rest of the world) has thus been approximately neutral.

 

But austerity in Europe has had a profound impact on the eurozone’s current account, which has swung from a deficit of almost $100 billion in 2008 to a surplus of almost $300 billion this year. This was a consequence of the sudden stop of capital flows to the eurozone’s southern members, which forced these countries to turn their current accounts from a combined deficit of $300 billion five years ago to a small surplus today. Because the external-surplus countries of the eurozone’s north, Germany and Netherlands, did not expand their demand, the eurozone overall is now running the world’s largest current-account surplus – exceeding even that of China, which has long been accused of engaging in competitive currency manipulation.

This extraordinary swing of almost $400 billion in the eurozone’s current-account balance did not result from a “competitive devaluation”; the euro has remained strong. So the real reason for the eurozone’s large external surplus today is that internal demand has been so weak that imports have been practically stagnant over the last five years (the average annual growth rate was a paltry 0.25%).

 

The cause of this state of affairs, in one word, is austerity. Weak demand in Europe is the real reason why emerging markets’ current accounts deteriorated (and, with the exception of China, swung into deficit).

Thus, if anything, emerging-market leaders should have complained about European austerity, not about US quantitative easing. Fed Chairman Ben Bernanke’s talk of “tapering” quantitative easing might have triggered the current bout of instability; but emerging markets’ underlying vulnerability was made in Europe.

The fickleness of capital markets poses once again the paradox of thrift. As capital withdraws from emerging markets, these countries soon will be forced to adopt their own austerity measures and run current-account surpluses, much like the eurozone periphery today. But who will then be able – and willing – to run deficits?

Two of the world’s three largest economies come to mind: China, given the strength of its balance sheet, and the eurozone, given the euro’s status as a reserve currency. But both appear committed to running large surpluses (indeed, the two largest in the world). This implies that, unless the US resumes its role as consumer of last resort, the latest bout of financial-market jitters will weaken the global economy again. And any global recovery promises to be unbalanced – that is, if it materializes at all.

 

Daniel Gros

 

La nemesi dei mercati emergenti

6 settembre 2013

BRUXELLES – Le valute dei mercati emergenti stanno crollando e le loro banche centrali sono impegnate in politiche di restrizione, alla ricerca di una stabilizzazione dei mercati finanziari dei loro paesi. Chi ha colpa di questa situazione?

Pochi anno orsono, quando la Fed si imbarcò in un ennesimo giro di “facilitazione quantitativa”, alcuni dirigenti dei paesi emergenti si lamentarono rumorosamente. Consideravano gli acquisti illimitati di titoli  a lungo termine come un tentativo di mettere in atto una svalutazione competitiva del dollaro ed erano preoccupati che le condizioni monetarie ultra agevolate degli Stati Uniti avrebbero messo in moto un’ondata di “capitali vaganti”, spingendo in alto i loro tassi di cambio. Questo, temevano, non solo avrebbe diminuito la loro competitività nelle esportazioni e spinto al deficit i loro conti con l’estero; li avrebbe anche esposti alle severe conseguenze di un improvviso blocco dei flussi dei capitali al momento in cui gli operatori politici degli Stati Uniti avessero invertito il loro indirizzo.

Ad una prima impressione, i loro timori sembra che siano stati ben fondati. Come si esprime il titolo di un recente saggio pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale, “I flussi dei capitali sono volubili: sempre e in ogni luogo”. Il semplice annuncio che la Fed avrebbe potuto ridurre le sue operazioni di politica monetaria non-convenzionale ha portato all’attuale fuga dei capitali dai mercati emergenti.

Ma questo punto di vista ignora la ragione per la quale i capitali si erano indirizzati verso i paesi emergenti negli anni passati ed il motivo per il quale i conti con l’estero di tanti di loro hanno conosciuto una oscillazione verso il deficit. Il vero colpevole è l’euro.

La “facilitazione quantitativa” negli Stati Uniti non può aver provocato questi spostamenti negli equilibri globali del conto corrente [1], perché il deficit verso l’estero dell’America non è cambiato negli anni recenti in modo significativo. Questo è anche quello che ci si aspetterebbe dal punto di vista della teoria economica: al momento in cui ci si avvicina ad una trappola di liquidità, l’impatto di politiche monetarie non-convenzionali sulle condizioni della finanza e sulla domanda è probabile che sia modesto.

In effetti, i modelli di cui disponiamo ci dicono che, nella misura in cui una politica monetaria espansiva abbia per davvero un impatto sull’economia, il suo effetto sul conto corrente non dovrebbe essere ampio, perché ogni effetto positivo sulle esportazioni derivante da un tasso di cambio più debole dovrebbe essere compensato da importazioni più grandi, dovute ad un incremento della domanda interna.

Questo è quanto accaduto negli Stati Uniti, dove la recente rivitalizzazione dell’economia è stata accompagnata da un’espansione sia delle esportazioni che delle importazioni. L’impatto delle varie versioni della “facilitazione quantitativa” sui mercati emergenti (e sul resto del mondo) è di conseguenza stato approssimativamente neutrale.

Ma l’austerità in Europa ha avuto un impatto profondo nel conto corrente dell’eurozona, che ha oscillato da un deficit di circa 100 miliardi di dollari ad un surplus di circa 300 miliardi di dollari nell’ultimo anno. E’ stata questa la conseguenza dell’improvviso blocco dei flussi di capitali verso i paesi membri dell’Europa meridionale, che ha costretto questi paesi a passare nei loro conti correnti da un deficit di circa 300 miliardi di dollari di cinque anni fa al piccolo surplus di oggi. Poiché i paesi del surplus verso l’estero dell’Europa del nord, Germania ed Olanda, non hanno incrementato la loro domanda, l’eurozona nel suo complesso realizza oggi il più ampio surplus di conto corrente al mondo – ad eccezione della Cina, che è stata a lungo accusata di essere impegnata in una manipolazione valutaria competitiva.

La straordinaria oscillazione di quasi 400 miliardi di dollari nell’equilibrio di conto corrente dell’eurozona non è stata conseguente ad una “svalutazione competitiva”; l’euro è rimasto forte. Dunque, la ragione reale dell’ampio surplus dell’eurozona verso l’estero è oggi la domanda interna; essa è stata talmente debole che le importazioni sono rimaste praticamente stagnanti nel corso dei cinque anni passati (il tasso di crescita medio annuale è stato un insignificante 0,25%).

La causa di questo stato di fatto, in una parola, è l’austerità. La debole domanda dell’Europa è la ragione vera per la quale il conto corrente dei paesi emergenti si è deteriorato (e, con l’eccezione della Cina, si è spostato al deficit).

Dunque, semmai, i leaders dei paesi emergenti dovrebbero essersi lamentati per l’austerità europea, non per la facilitazione quantitativa degli Stati Uniti. Il Presidente della Fed Ben Bernanke, parlando di “restrizione” della facilitazione quantitativa potrebbe avere innescato l’attuale periodo di instabilità; ma la sottostante vulnerabilità del paesi emergenti è stata costruita in Europa.

La volubilità dei mercati dei capitali propone ancora una volta il paradosso del risparmio. Appena i capitali torneranno dai mercati emergenti, questi paesi saranno costretti ad adottare proprie misure di austerità ed a gestire surplus di conto corrente, assai similmente alla periferia dell’eurozona di oggi. Ma a quel punto, chi sarà capace ed avrà la volontà di gestire deficit?

Vengono alla mente due delle tre più grandi economie del mondo: la Cina, in considerazione della forza dei suoi equilibri di bilancio, e l’eurozona, data la condizione di valuta di riserva dell’euro. Ma entrambe sembrano impegnate a gestire ampi surplus (in effetti, i due surplus più grandi al mondo). Questo implica che, a meno che gli Stati Uniti non riassumano il loro ruolo come consumatori di ultima istanza, l’ultimo periodo di agitazione dei mercati finanziari indebolirà ancora una volta l’economia mondiale. Ed ogni ripresa globale si annuncia squilibrata – vale a dire, ammesso che mai si materializzi.



[1] Per “current account” vedi le note sulla traduzione.

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