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La ripresa dell’uomo ricco (New York Times 12 settembre 2013)

 

Rich Man’s Recovery

By PAUL KRUGMAN
Published: September 12, 2013

A few days ago, The Times published a report on a society that is being undermined by extreme inequality. This society claims to reward the best and brightest regardless of family background. In practice, however, the children of the wealthy benefit from opportunities and connections unavailable to children of the middle and working classes. And it was clear from the article that the gap between the society’s meritocratic ideology and its increasingly oligarchic reality is having a deeply demoralizing effect.

The report illustrated in a nutshell why extreme inequality is destructive, why claims ring hollow that inequality of outcomes doesn’t matter as long as there is equality of opportunity. If the rich are so much richer than the rest that they live in a different social and material universe, that fact in itself makes nonsense of any notion of equal opportunity.

By the way, which society are we talking about? The answer is: the Harvard Business School — an elite institution, but one that is now characterized by a sharp internal division between ordinary students and a sub-elite of students from wealthy families.

The point, of course, is that as the business school goes, so goes America, only even more so — a point driven home by the latest data on taxpayer incomes.

The data in question have been compiled for the past decade by the economists Thomas Piketty and Emmanuel Saez, who use I.R.S. numbers to estimate the concentration of income in America’s upper strata. According to their estimates, top income shares took a hit during the Great Recession, as things like capital gains and Wall Street bonuses temporarily dried up. But the rich have come roaring back, to such an extent that 95 percent of the gains from economic recovery since 2009 have gone to the famous 1 percent. In fact, more than 60 percent of the gains went to the top 0.1 percent, people with annual incomes of more than $1.9 million.

Basically, while the great majority of Americans are still living in a depressed economy, the rich have recovered just about all their losses and are powering ahead.

An aside: These numbers should (but probably won’t) finally kill claims that rising inequality is all about the highly educated doing better than those with less training. Only a small fraction of college graduates make it into the charmed circle of the 1 percent. Meanwhile, many, even most, highly educated young people are having a very rough time. They have their degrees, often acquired at the cost of heavy debts, but many remain unemployed or underemployed, while many more find that they are employed in jobs that make no use of their expensive educations. The college graduate serving lattes at Starbucks is a cliché, but he reflects a very real situation.

 

What’s driving these huge income gains at the top? There’s intense debate on that point, with some economists still claiming that incredibly high incomes reflect comparably incredible contributions to the economy. I guess I’d note that a large proportion of those superhigh incomes come from the financial industry, which is, as you may remember, the industry that taxpayers had to bail out after its looming collapse threatened to take down the whole economy.

In any case, however, whatever is causing the growing concentration of income at the top, the effect of that concentration is to undermine all the values that define America. Year by year, we’re diverging from our ideals. Inherited privilege is crowding out equality of opportunity; the power of money is crowding out effective democracy.

So what can be done? For the moment, the kind of transformation that took place under the New Deal — a transformation that created a middle-class society, not just through government programs, but by greatly increasing workers’ bargaining power — seems politically out of reach. But that doesn’t mean we should give up on smaller steps, initiatives that do at least a bit to level the playing field.

Take, for example, the proposal by Bill de Blasio, who finished in first place in Tuesday’s Democratic primary and is the probable next mayor of New York, to provide universal prekindergarten education, paid for with a small tax surcharge on those with incomes over $500,000. The usual suspects are, of course, screaming and talking about their hurt feelings; they’ve been doing a lot of that these past few years, even while making out like bandits. But surely this is exactly the sort of thing we should be doing: Taxing the ever-richer rich, at least a bit, to expand opportunity for the children of the less fortunate.

 

 

Some pundits are already suggesting that Mr. de Blasio’s unexpected rise is the leading edge of a new economic populism that will shake up our whole political system. That seems premature, but I hope they’re right. For extreme inequality is still on the rise — and it’s poisoning our society.

 

La ripresa dell’uomo ricco, di Paul Krugman

New York Times 12 settembre 2013

 

Pochi giorni fa, The Times ha pubblicato un resoconto su una società che è messa in pericolo da una ineguaglianza estrema. Questa società sostiene di premiare i migliori e i più brillanti, senza riguardo al contesto familiare. In pratica, tuttavia, i figli dei ricchi beneficiano di opportunità e di conoscenze che i figli della classe media e dei lavoratori non hanno. Ed era chiaro dall’articolo che la distanza tra l’ideologia meritocratica della società e la sua realtà sempre più oligarchica sta provocando un effetto profondamente scoraggiante.

Il rapporto illustrava in sintesi perché la massima ineguaglianza è distruttiva, perché risuonano vuote le pretese secondo le quali l’ineguaglianza dei redditi non conta finché c’è l’eguaglianza delle opportunità. Se i ricchi sono molto più ricchi degli altri al punto di vivere in un mondo diverso, sociale e materiale, solo quel fatto toglie senso ad ogni concetto di eguali opportunità.

Per inciso, di quale società stiamo parlando? La risposta è: la Harvard Business School – un’istituzione di élite, ma in questi tempi caratterizzata da una dura divisione interna tra studenti ordinari e studenti che provengono dalle famiglie ricche, destinati al ricambio della classe dirigente.

Il punto, naturalmente, è che come vanno le cose per la scuola, così vanno per l’America, semmai ancor più chiaramente – un punto ben messo in evidenza dagli ultimi dati sui redditi dei contribuenti.

I dati in questione sono stati compilati per il passato decennio dagli economisti Thomas Piketty ed Emmanuel Suez, che usano i numeri dell’ IRS [1] per stimare la concentrazione dei redditi dei gruppi sociali più ricchi d’America. Secondo le loro stime, la quota dei redditi più elevati aveva preso un colpo durante la Grande Recessione [2], nel mentre oggetti come i redditi da capitale e le gratifiche di Wall Street temporaneamente si inaridirono. Ma i ricchi sono tornati a ruggire, in misura tale che il 95 per cento dei guadagni dalla ripresa dell’economia del 2009 è andato al famoso 1 per cento. Di fatto, più del 60 per cento degli incrementi sono andati allo 0,1 per cento dei più ricchi, persone con redditi annui superiori a 1,9 milioni di dollari.

In sostanza, mentre la grande maggioranza degli americani sta ancora vivendo in una economia depressa, i ricchi hanno più o meno recuperato tutte le loro perdite e stanno rafforzandosi per il futuro.

Un inciso: questi numeri dovrebbero (ma probabilmente non sarà così) finalmente far piazza pulita delle pretese secondo le quali la crescente ineguaglianza riguarderebbe interamente coloro che hanno maggiore istruzione, che farebbero meglio dei meno istruiti. Solo una piccola frazione dei laureati nei college entrano a far parte del fortunato gruppo dell’1 per cento. Nel frattempo, molti, persino la maggior parte, dei giovani con elevata istruzione passano tempi grami. Hanno i loro riconoscimenti, spesso ottenuti al prezzo di debiti pesanti, ma molti restano disoccupati o sottoccupati, mentre un numero ancora maggiore scopre di essere occupato in mansioni che non fanno alcun uso della loro costosa istruzione. Il laureato che serve caffelatte a Starbucks è un cliché, ma riflette una situazione reale.

Cos’è che spinge questi grandi incrementi di reddito dei più ricchi? Su questo punto c’è un grande dibattito, con alcuni economisti che ancora sostengono che i redditi incredibilmente alti rifletterebbero analoghi incredibili contributi all’economia. Ritengo che sarebbe il caso di sottolineare che una larga quota di quei redditi elevatissimi proviene dal sistema finanziario, ovvero, come si ricorda, da quel settore che i contribuenti misero in salvo dopo che il suo incombente collasso aveva minacciato di travolgere l’intera economia.

In ogni caso, tuttavia, qualsiasi sia la causa della crescente concentrazione di reddito tra i più ricchi, l’effetto di essa è di mettere a repentaglio tutti i valori nei quali si identifica l’America. Anno dopo anno ci stiamo allontanando dai nostri ideali. Il privilegio ereditario sta spiazzando l’eguaglianza delle opportunità: il potere del denaro sta spiazzando la democrazia sostanziale.

Cosa fare, dunque? Per il momento, quel genere di trasformazione che ebbe luogo sotto il New Deal – una trasformazione che creò una società della classe media, non solo attraverso programmi pubblici, ma attraverso un potere di contrattazione in grande crescita – sembra politicamente fuori dalle nostre possibilità. Ma questo non significa che dobbiamo rinunciare a fare piccoli passi, iniziative che almeno rendano le condizioni del campo di gioco più simili per tutti.

Si prenda, ad esempio, la proposta di Bill De Blasio [3], che si è aggiudicato le primarie democratiche di giovedì e sarà probabilmente il prossimo sindaco di New York, di fornire una educazione uguale per tutti nel periodo precedente al primo anno delle elementari [4], pagata con una piccola aggiunta alle tasse su coloro che hanno redditi superiori ai 500 mila dollari all’anno. I soliti noti, naturalmente, strepitano e parlano dei loro sentimenti feriti; l’hanno fatto molte volte negli anni recenti, anche mentre uscivano dagli impicci alla stregua di veri e propri banditi [5]. Ma questa è sicuramente proprio il genere di cosa che dovrebbe essere fatta: tassare i ricchi sempre più ricchi, almeno un po’, per ampliare le opportunità dei figli dei meno fortunati.

Alcuni commentatori stanno già suggerendo che l’inaspettato successo del signor De Blasio  sia la punta più avanzata di un nuovo populismo economico che darà una scossa all’intero nostro sistema politico. Questo sembra prematuro, ma io spero che abbiano ragione. Perché l’estrema ineguaglianza è ancora in aumento – e sta avvelenando la nostra società.



[1] Internal Revenue Service, ovvero una specie di Agenzia della Entrate.

[2] Ovvero la recessione  del 2008, che fu letteralmente una recessione – ovvero si accompagnò ad un prolungata diminuzione del PIL –  sino al 2009, pur continuando ad essere crisi anche negli anni successivi.

[3] E’ l’italoamericano Bill De Blasio, 52 anni, il candidato democratico per la poltrona di sindaco di New York. A lui sono andate oltre il 40% delle preferenze nelle primarie democratiche, sfiderà il prossimo 5 novembre il repubblicano Jospeh Lhota. Cresciuto in Massachusetts, è il più liberal fra i candidati democratici, punta a conquistare l’elettorato afroamericano e i ceti meno abbienti penalizzati da anni di amministrazione Bloomberg.

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[4] La traduzione può sembrare stranamente meticolosa, ma il periodo del “Kindergarten” negli Stati Uniti può cominciare a 5/6 anni, e dura un anno; successivamente si entra nella scuola elementare vera e propria. Dunque il periodo “prekindergarten” è quello precedente. In sostanza si potrebbe tradurre con “il periodo dell’asilo nido e della scuola materna”.

[5] “Make out” può significare anche “cavarsela”; e il riferimento ai ‘banditi, briganti’ è così forte da non poter non essere inteso se non in riferimento ai guai finanziari e giudiziari di molti straricchi nel periodo recente. Almeno credo.

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