Nel 1943 l’economista polacco di orientamento marxista Michal Kalecki scriveva un breve saggio (“Aspetti politici del pieno impiego”, Editori Riuniti, 1975) nel quale dava una sua versione dei motivi per i quali i gruppi imprenditoriali, e con essi i variegati interessi delle conservazione economica e politica, avevano “una avversione … al mantenimento del pieno impiego attraverso le spese statali”. Tale avversione, notava Kalecki, era stata generalizzata negli anni Trenta, forse con l’unica eccezione del capitalismo tedesco (dove l’eccezione aveva soprattutto riguardato una grande crescita delle spese militari). Perché, se in fondo quelle politiche di piena occupazione favorivano anche una piena ripresa dei profitti? Come ricorda Krugman, la risposta di Kalecki era semplice: perché i gruppi capitalistici hanno, nelle crisi, un sorta di potere di veto e sembra logico che la ripresa debba passare attraverso la loro ‘fiducia’. Se lo Stato trova una soluzione a prescindere dalla loro fiducia, quei gruppi diventano meno forti, sia nella affermazione dei loro interessi quotidiani (fiscali, ad esempio), che in generale in termini politici. Tutto qua.
Krugman nei mesi recenti è tornato frequentemente sulla questione, in particolare con l’articolo sul New York Times dell’8 agosto (“Il fattore della paura fasulla”).
Non avendo mai letto niente di Krugman che somigliasse ad una qualche approvazione di un punto di vista di un marxista, e ricordandomi di quel libro degli “Editori Riuniti” in qualche zona profonda della mia gioventù, ho avuto un soprassalto. Ma c’è una spiegazione duplice: la prima, come Krugman scrive nel suo articolo, è che Kalecki non gli era mai sembrato un marxista ortodosso. E, in effetti, andando a rileggerlo, mi sono finalmente accorto che era uno dei pochi casi di una lettura della crisi degli anni Trenta che, da quel versante, veniva condotta con simpatia e piena assonanza con gli argomenti keynesiani. La seconda, che Krugman dice con il suo divertente stile assertorio, è più semplice ancora: in sostanza, chi non avesse capito che dalla crisi di questi anni ne deriva una qualche rivalutazione di punti di vista più radicali, forse in questi anni dormiva!
Ma, a parte lo stile, vorrei sottolineare un aspetto più di fondo che attiene al modo nel quale procede la ricerca di Krugman, direi alla trasparenza del suo lavoro intellettuale. Il blog, come si è capito, è la sede principale di tale ricerca e della sua evoluzione politica; diciamo che è il luogo nel quale egli studia, riflette, e si assume giorno per giorno il rischio di prendere posizione. Nel frattempo, si giudichi questo aspetto come si vuole, è un fatto che egli abbia colto con una chiarezza quasi unica gli elementi di fondo della crisi che viviamo; ed anche che di conseguenza sia diventato (il giudizio e nientemeno del Wall Street Journal)l’economista-giornalista più influente negli Stati Uniti e nel mondo. Se posso esprimermi in questo modo: il tema delle sue opinioni politiche – dentro quella scelta di totale e quotidiana trasparenza – si è ingigantito. Mi pare che la sua risposta sia chiara, e consista nel non sottrarsi alle domande più grandi. Occorre anche ripensare alla grande questione degli interessi e delle classi, di come tutto ciò influisce e in parte determina la politica. Occorre fare i conti con Kalecki o, per altri aspetti, con Minsky (un economista americano del quale Krugman in questi anni ha sottolineato un grande debito mai ammesso in precedenza). Temi che un tempo appartenevano forse alla storia dei movimenti e dei Partiti, per la dilatazione enorme delle forme della comunicazione e per la crisi delle istituzioni della politica, diventano cruciali nella ricerca individuale di alcune persone.
By mm
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