September 16, 2013, 9:11 am
Via Mark Thoma, Daniel Little has a nice survey essay on Saskia Sassen’s concept of the global city (pdf). These are cities that concentrate high-level coordination functions for the global economy — finance, in particular — and exhibit extraordinary concentrations of wealth as a consequence. New York and London are the prime examples; Tokyo also shows up on Sassen’s list, although I’d say that it’s a lot less global than the others, thanks to the continuing insularity of Japanese culture. If I had to make a guess, I wouldn’t be surprised if Seoul, rather than Tokyo, ends up becoming the true global city of East Asia.
If you’re interested in this stuff, you should also read John Quiggin’s cynical but plausible take (pdf): Quiggin suggests that the reason finance and similar activities concentrate in a handful of global cities isn’t because that produces gains in economic efficiency, it’s because of the enhanced opportunities for cronyism; it’s a lot easier to make implicitly corrupt deals when you have lunch in the same restaurants and your kids go to the same expensive private school.
Just as an aside, I love New York, which has become a far friendlier place than legend has it, which has cultural resources like noplace else, and is actually a pretty easy place to live if you have enough money. In a perverse way, it’s even a place where — for someone like me, anyway — the psychological urge to participate in the money rat race is largely absent. No matter how much you make, there are people nearby who make so much more that your income looks ridiculous, so you don’t ever think of measuring yourself that way.
Oh, and the subway is a miraculous form of transportation. Of course, all these happy thoughts rely on the fact that I have enough money to afford a comfortable apartment, eat out whenever I feel like it, and so on. And that seemingly modest lifestyle requires an income that would be considered very high anywhere else.
But back to my main point, a further thought: as the Bloomberg era draws to a close in New York, there has been a fair amount of speculation on why Bloomberg was such a success but Bloombergism — his mix of social liberalism and pro-finance economic policy — has been such a bust on the national political scene. As Jonathan Chait reminds us, pundits wrote column after column boosting Bloomerg as a model for the rest of American politics, urging Bloomberg himself to run as a third-party candidate, whatever; Bloomberg, they claimed, represented the kind of centrist, nonpartisan position Americans yearned for. All of this went precisely nowhere.
And I think the concept of New York as a global city — a hub of worldwide finance, and worldwide cronyism — explains why. Bloombergism played well with the global elite, which really doesn’t care what other people do in their bedrooms but cares a lot about being left free to rake in the moolah, which judges a man not by the color of his skin but by the size of his portfolio. The elite wanted, and got, a well-run city, which included reasonable public services; the cruder forms of anti-government sentiment never had much home in New York. Even a bit of redistribution was OK, if it seemed to contribute to a nicer environment in which to enjoy the remaining 99.9 percent of one’s income. In the end, by the way, de Blasio will probably be accepted by the 1 percent, since his program will end up being seen as essentially one of slightly moderating inequality in everyone’s interest.
But the rest of America is nothing like that. And it’s a measure of the insularity of many pundits that they imagined that the politics of a city that is really like nothing else in America — and resembles only a couple of other places in the world — somehow represented the national center.
L’economia politica del “bloombergismo”
Per il tramite di Mark Thoma leggo un bel saggio di Daniel Little, una indagine sull’idea di Saskia Sassen [1]di “città globale” (disponibile in pdf). Queste sono città che concentrano funzioni di coordinamento di alto livello per l’economia globale – in particolare nella finanza – e di conseguenza mostrano straordinarie concentrazioni di ricchezza. New York e Londra sono gli esempi più importanti; compare anche Tokio nella lista della Sassen, sebbene direi che è un bel po’ meno globale delle altre, grazie al perdurante provincialismo della cultura giapponese. Se dovessi avanzare un’ipotesi, non sarei sorpreso se Seul, piuttosto che Tokio, finisse col divenire la vera città globale dell’Asia Orientale.
Se siete interessati a queste cose, dovreste anche leggere la posizione cinica ma plausibile di John Quiggin (disponibile in pdf): Quiggin suggerisce che la ragione per la quale la finanza ed attività simili si concentrano in un pugno di città globali non è perché esse producano vantaggi nell’efficienza economica, ma per una enfatizzazione delle occasioni di clientelismo; è infinitamente più facile fare affari corrotti quando si pranza nello stesso ristorante e si portano i figli alla stessa costosa scuola privata.
Proprio per inciso, io amo New York, che è diventata un luogo assai più amichevole di quanto non dica la sua leggenda, che ha risorse culturali come nessun altro posto, ed è in realtà un posto abbastanza facile da vivere se si ha abbastanza denaro. In un modo abbastanza singolare, è persino un luogo dove – almeno per quelli come me – il bisogno psicologico di partecipare alla competizione sfrenata per il denaro è abbastanza assente. Non conta quanti soldi mettete assieme, avete accanto persone che ne hanno talmente di più che il vostro reddito sembra ridicolo, cosicché non pensate mai di misurarvi con quel criterio.
Inoltre, la metropolitana è una forma miracolosa di trasporto. Naturalmente, tutti questi felici pensieri si basano sul fatto che io ho abbastanza soldi per permettermi un appartamento confortevole, di mangiare dovunque mi faccia piacere, e così via. E sul fatto che quell’apparentemente modesto stile di vita richiede un reddito che sarebbe considerato elevato in qualsiasi altro luogo.
Ma, tornando al punto principale, un ulteriore pensiero: nel momento in cui a New York l’era di Bloomberg [2] giunge al termine ci sono state una discreta quantità di ipotesi sulla ragione per la quale Bloomberg sia stato un tale successo mentre il “bloombergismo” – la sua combinazione di liberalismo sociale e di politiche economica favorevole alla finanza – sia stata un tale disfatta sulla scena politica nazionale. Come ci ricorda Jonathan Chait, commentatori hanno scritto un articolo dietro l’altro per promuovere Bloomberg come un modello per il resto della politica americana, spingendo lo stesso Bloomberg ad entrare in lizza come candidato di un terzo partito, qualunque cosa esso sia; Bloomberg, sostenevano, rappresenta il genere di posizione centrista, nopartisan, che gli americani vorrebbero. Tutto questo è precisamente finito nel nulla.
Ed io penso che l’idea di New York come città globale – un fulcro della finanza universale e del clientelismo universale – spieghi perché Bloomberg abbia avuto successo con l’élite globale, che in realtà non si preoccupa di quello che fanno gli altri nelle loro stanze da letto ma si preoccupa molto di essere lasciata libera di rastrellare pecunia [3], che giudica gli altri non per il colore delle loro pelle ma per la dimensione del loro portafoglio. L’élite voleva, ed ha avuto, una città ben gestita, il che include ragionevoli servizi pubblici; le forme più rozze di un sentimento ostile al governo della cosa pubblica non sono mai state di casa a New York. Anche un po’ di redistribuzione poteva andar bene, se sembrava che contribuisse ad un ambiente più gradevole, nel quale il restante 99,9 per cento della gente fosse contenta del proprio reddito. Alla fine, si detto per inciso, probabilmente De Blasio [4] sarà accettato dall’1 per cento, dal momento che il suo programma finirà con l’essere considerato come una forma di leggera moderazione dell’ineguaglianza, nell’interesse di tutti.
Ma il resto dell’America non assomiglia per niente a tutto questo. Ed esso è la misura del provincialismo di molti commentatori che si erano immaginati che la politica di una città che non ha eguali in America – e che assomiglia soltanto ad un altro paio di posti al mondo – in qualche modo rappresentasse il centro della nazione.
[1] La principale teorica dell’urbanistica del mondo globale. Saskia Sassen (L’Aia, 5 gennaio 1947) è una sociologa ed economista statunitense nota per le sue analisi su globalizzazione e processi transnazionali. Il successo dei suoi libri l’ha resa rapidamente una degli autori più quotati tra gli studi sulla globalizzazione. Dopo aver insegnato sociologia all’Università di Chicago, attualmente insegna alla Columbia University e alla London School of Economics.
Secondo la Sassen, la globalizzazione dell’economia, accompagnata dall’emergere di modelli di potere transnazionali, ha profondamente alterato il tessuto sociale, economico e politico degli stati-nazione, di vaste aree sovranazionali e, non da ultimo, delle città (Wikipedia)
[2] Michael Rubens Bloomberg (Boston, 14 febbraio 1942) è un imprenditore e politico statunitense, attuale sindaco di New York. Eletto con il Partito Repubblicano, lo ha poi abbandonato rimanendo indipendente.
Bloomberg è nato a Boston da una famiglia di immigrati ebrei di nazionalità russa. Bloomberg ha frequentato la Johns Hopkins University di Baltimora, facendo inoltre parte del Phi Kappa Psi, laureandosi nel 1964 in ingegneria elettronica. Più tardi ha conseguito un Master in Business Administration presso la Harvard Business School (Cambridge). Dopo la laurea conseguita presso la Harvard University, ha fatto fortuna con la sua compagnia, la Bloomberg L.P., e con la sua radio network. È uno degli uomini più ricchi del mondo, secondo la rivista specializzata Forbes, nel 2009 lo pone in 17ª posizione. Nel 2010 la rivista lo ha classificato al 10º posto tra i 400 uomini più ricchi d’America con un patrimonio stimato di 18 miliardi di dollari.
Bloomberg non risiede nella tradizionale residenza del sindaco della città, ovvero a Gracie Mansion, bensì nel suo appartamento nell’Upper East Side, ed è noto per il fatto che raggiunge quotidianamente il Municipio in metropolitana. Bloomberg è un personaggio particolarmente atipico nel panorama politico americano, infatti pur essendo appartenente al Partito Repubblicano è considerato da molti un repubblicano liberale, a causa delle sue idee favorevoli all’aborto e alla legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, molto più vicine agli ideali democratici e infatti prima della sua elezione a sindaco apparteneva al Partito Democratico. È stato eletto sindaco nel 2001 come successore di Rudolph Giuliani, anche grazie ad una imponente campagna elettorale, sconfiggendo di misura l’avversario, Mark J. Green.
Bloomberg nel 2005 è stato rieletto con un margine del 20% sull’avversario democratico Fernando Ferrer. Il 19 giugno 2007 ha annunciato di aver lasciato il Partito Repubblicano ed essere così indipendente. Nell’autunno del 2008 ha chiesto e ottenuto un voto del consiglio comunale di New York che abolisse la limitazione di due mandati consecutivi per un sindaco. Si è quindi ripresentato alle elezioni del 3 novembre 2009, uscendone riconfermato sindaco con il 50,6% dei voti, battendo il candidato democratico Bill Thompson che ha ottenuto il 46%. Il 1º gennaio 2010 ha avuto quindi inizio il suo terzo mandato.
Il 1º novembre 2012 ha annunciato il suo appoggio alla rielezione di Barack Obama (Wikipedia).
[3] “Moolah”, secondo UrbanDictionary, oltre che una esclamazione riferibile a tutto, significa “tanti dollari”.
[4] Il candidato democratico di origini italoamericane alle prossime elezioni cittadine.
By mm
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