Blog di Krugman

Fondamenti micro (per esperti) (26 ottobre 2013)

 

October 26, 2013, 9:43 am

Macrofoundations (Wonkish)

John Quiggin has a fun post debunking the notion, all too common among economists, that macroeconomics — the study of inflation, depressions, and all that — is somehow flaky and unworthy of the field’s grandeur, that only microeconomics, derived rigorously from rational behavior, is real science. Keynesian macro, in particular, is often regarded with intense distaste, and a lot of economists would like to ban it from the field.

Quiggin points out, rightly, that almost all microeconomics depends crucially on the assumption that the economy is at full employment; this assumption is false, but what makes it not too false in normal times is the existence of stabilization policies, monetary and fiscal, that usually produce fairly quick recoveries from slumps. Macro is what makes micro work, to the extent that it does.

I would add that macro is the only reason anyone listens to all those microeconomists who think they’re being rigorous. To see why, we need to think about the history of thought.

If you go back to the state of American economics in the 1930s and even into the 1940s, it was not at all the model-oriented, mathematical field it later became. Institutional economics was still a powerful force, and many senior economists disliked mathematical modeling. When Paul Samuelson published Foundations of Economic Analysis in 1947, the chairman of Harvard’s economics department tried to limit the print run to 500, grudgingly accepted a run of 750, and ordered the mathematical type broken up immediately.

So why did model-oriented, math-heavy economics triumph? It wasn’t because general-equilibrium models of perfect competition had overwhelming empirical success. What happened, I’d argue, was Keynesian macroeconomics.

Think about it: In the 1930s you had a catastrophe, and if you were a public official or even just a layman looking for guidance and understanding, what did you get from institutionalists? Caricaturing, but only slightly, you got long, elliptical explanations that it all had deep historical roots and clearly there was no quick fix. Meanwhile, along came the Keynesians, who were model-oriented, and who basically said “Push this button”– increase G, and all will be well. And the experience of the wartime boom seemed to demonstrate that demand-side expansion did indeed work the way the Keynesians said it did.

It’s not an accident that Samuelson, even as he was raising the math level of microeconomics, was a key figure in the triumph of Keynesian economics. Nor was it at all an accident that his intro textbook, in its 1948 edition and for a long time thereafter, started with macro, and only got to micro later. The perceived success of macroeconomics did double duty, establishing the bona fides of a model-oriented approach and also suggesting that full employment was not too bad an assumption — given the right monetary and fiscal policies.

Oh, and economists who are upset that the public seems to judge the profession by its success at macro diagnosis and prediction are missing the point: it has always been thus, and purists who disdain macro are making mock of the only reason anyone takes them at all seriously.

The academic enterprise of economics as we know it, in other words, rests on a macro foundation, and in fact a Keynesian foundation — and economists who denounce all of that as witchcraft are busily sawing off the branch they’re sitting on.

 

Fondamenti micro (per esperti)

 

John Quiggin pubblica un post divertente per sfatare il concetto, fin troppo comune tra gli economisti, secondo il quale la macroeconomia – lo studio dell’inflazione, delle depressioni e di tutto il resto – sia in qualche modo inaffidabile ed immeritevole del prestigio della disciplina, che solo la microeconomia, derivata rigorosamente dal comportamento razionale, sia un scienza vera. In particolare, la macroeconomia keynesiana è spesso considerata con intensa avversione, e a molti economisti non dispiacerebbe metterla al bando.

Quiggin sottolinea che quasi tutta la microeconomia dipende in modo cruciale dall’assunto che l’economia sia in condizioni di piena occupazione; questo assunto è falso, ma ciò che lo rende non troppo falso in tempi normali è l’esistenza di politiche di stabilizzazione, monetarie e della finanza pubblica, che di solito producono riprese abbastanza veloci dalle crisi. La macro è ciò che consente alla micro di lavorare, nella misura in cui lo fa.

Vorrei aggiungere che la macro è l’unica ragione per la quale ciascuno ascolta tutti quegli economisti che pensano di essere rigorosi. Per comprendere in che senso, abbiamo bisogno di riflettere sulla storia del pensiero.

Se tornate alla condizione della teoria economica americana negli anni Trenta e persino dentro gli anni Quaranta, essa non era interamente orientata sui modelli, il campo della matematica venne successivamente. La teoria economica istituzionale era ancora una forza potente e molti economisti anziani non gradivano i modelli matematici. Quando Paul Samuelson pubblicò Fondamenti di Analisi Economica, il Presidente del Dipartimento di Economia di Harvard  cercò di limitare la stampa a 500 copie, a denti stretti accettò una tiratura di 750 copie, e ordinò che i caratteri matematici venissero immediatamente distrutti.

Perché, dunque, trionfa l’economia orientata ai modelli e densa di matematica? Non è dipeso dal fatto che i modelli dell’equilibrio generale della competizione perfetta abbiano avuto un successo pratico empirico schiacciante. Direi che quello che è accaduto è stato l’ingresso della macroeconomia keynesiana.

Si pensi a questo: negli anni Trenta si ebbe una catastrofe e se si era un dirigente pubblico o anche soltanto un principiante in cerca di orientamento e di comprensione, cosa si poteva avere dagli ‘istituzionalisti’? In modo solo leggermente caricaturale, si potevano avere spiegazioni ellittiche secondo le quali tutto quanto accadeva aveva profonde radici storiche e chiaramente non c’era alcun rimedio rapido. Nel frattempo arrivarono i keynesiani, che erano orientati ai modelli, e che fondamentalmente dissero “Pigiate questo bottone” – aumentate la spesa pubblica [1] e tutto andrà a posto. E l’esperienza della espansione dei tempi di guerra dimostrò che l’espansione dal lato della domanda in effetti aveva funzionato nel modo in cui i keynesiani avevano previsto.

Non è un caso che Samuelson, anche mentre stava elevando il livello matematico della microeconomia, fu la figura chiave del trionfo dell’economia keynesiana. Né fu affatto un caso che la sua introduzione al libro di testo, nella sua edizione del 1948 e per molto tempo successivamente, partiva con la macro e solo dopo giungeva alla micro. La percezione di successo della macroeconomia fece un doppio servizio, stabilì la affidabilità di un approccio orientato ai modelli ed anche suggerì che la piena occupazione non era un assunto così negativo – date le politiche monetarie e di finanza pubblica corrette.

Infine, agli economisti che sono turbati dal fatto che l’opinione pubblica sembra giudicare la professione dal suo successo nella diagnosi e nella previsione macroeconomica sfugge un aspetto: è sempre stato così ed i puristi che disdegnano la macro si stanno prendendo gioco dell’unica ragione per la quale tutti li prendono sul serio.

In altre parole, l’attività accademica dell’economia per come la conosciamo si basa su fondamenti macro, in sostanza su fondamenti keynesiani – e gli economisti che denunciano tutto questo come una stregoneria stanno alacremente segando il ramo su cui sono seduti.



[1] “G” sta per “government spending”.

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