Oct. 28, 2013
BERKELEY – The first time I went to Washington, DC, as an adult was in 1993, when I arrived to work for President Bill Clinton in the Treasury Department. Back then, America urgently needed to rebalance the federal budget to rein in explosive growth in the debt/GDP ratio; to overhaul America’s extraordinarily expensive and inefficient health-care system; and to begin to deal with global warming via a slow ramp-up of a carbon tax.
Beyond these three immediate issues were long-run policy challenges: updating the country’s pension system to deal with an aging population and the decline of defined-benefit pensions; improving the education system so that more people would bear the risk of pursuing higher education; and reversing the erosion of America as a middle-class society.
None of these goals (perhaps with the exception of the last one) were partisan issues. The long-run deficit, health-care financing, and global warming, no less than securing retirement income and enabling educational opportunity, were issues on which bipartisan progress and agreement should have been easily attained. Yet we Clintonites received absolutely no cooperation from either Republican officeholders or Republican policy intellectuals.
Figures like Senators Pete Domenici and Alan Simpson, who talked a good game about the long-run deficit, never met a budget-busting Republican program that they would oppose or a deficit-reducing Democratic initiative that they could support. Economists who, under Presidents Ronald Reagan and George H. W. Bush, talked such a good game about excessive tax burdens and the importance of balanced budgets went very quiet after Clinton took office in January 1993, and stayed quiet after January 2001, when George W. Bush’s administration dismantled so much of what the Clinton administration had accomplished.
But back in 1993 there was one exception – one senior Republican officeholder and policy intellectual who did not forget his policy commitments of earlier years: US Federal Reserve Chairman Alan Greenspan. For Greenspan, putting the long-run financing of America’s federal government on a sound footing was an important and bipartisan goal, and in 1993-1994 he was willing to take monetary-policy risks to boost the chances of achieving it.
The Fed, in Greenspan’s view, had a responsibility not only to fight inflation but also to create a prosperous, entrepreneurial society, and he sought to achieve that dual mandate – with high employment as important as stable prices – during the high-tech boom of the late 1990’s. Unique among his Republican peers, after 2001 he spoke – quietly in public, but loudly in private – against the Bush administration’s feckless fiscal policies.
That is why, despite the damage that his reputation suffered in the wake of the 2008 financial crisis, Greenspan retains enormous credibility among all those who hope to see rational economic policy in America. If there are going to be sensible negotiating partners on the Republican side, he should be at their head.
That is why I find his new book, The Map and the Territory, so disappointing. Greenspan portrays the US Department of Housing and Urban Development and its affordable-housing goals as playing a big role in causing the 2008 crisis. Moreover, he claims that the Dodd-Frank financial-reform legislation is a large factor holding back the recovery. Likewise, he argues that the Earned Income Tax Credit – enacted in 1975 under Republican President Gerald Ford and expanded greatly under Reagan – is a threat to Americans’ moral fiber. Too much of the book reads, as the Washington Post’s Steven Pearlstein put it, like it was lifted from the Web site of Mitt Romney’s 2012 presidential campaign.
The six problems that confronted me and others when we arrived in Washington in 1993 have not been solved. The long-run fiscal situation remains discouraging, if not as dire as we feared it would become. Health-care financing remains a mess, even if we have considerable reason to hope that Obamacare has started to address the problem. And we have made no progress on global warming, preserving a middle-class society, or improving the education system to make equality of opportunity a reality. Nor have we dealt with the likely shortfall of pension income and assets in an aging America.
But that is not what Greenspan sees. For him, all of these problems boil down to a simple question: “What type of society do we wish to live in?” And the choice, in his view, is equally simple: either “a society of dependence” or one based on “self-reliance.”
That is not an analysis; it is a sound bite. At a time when America desperately needs insight and ideas, Greenspan gives us only partisan bludgeons. That is bad news for those of us who would like to see an effective, technocratic economic-policymaking process emerge in Washington. We must somehow come to grips with the fact that we no longer have negotiating partners on the Republican side.
Greenspan ha lasciato l’edificio [1]
Di J. Bradford DeLong
28 ottobre 2013
BERKELEY – La prima volta che andai da adulto a Washington fu nel 1993, quando ebbi un incarico al Dipartimento del Tesoro per conto del Presidente Bill Clinton. A quei tempi l’America aveva urgente bisogno di riequilibrare il bilancio federale per mettere sotto controllo una crescita esplosiva del rapporto deficit/PIL; di sottoporre a revisione in sistema nazionale di assistenza sanitaria straordinariamente costoso ed inefficiente; e di cominciare a fare i conti con il riscaldamento globale attraverso una tassa sul carbone a lenta progressione.
Oltre questi tre temi immediati c’erano le sfide politiche a lungo termine: aggiornare il sistema pensionistico del paese per misurarsi con un invecchiamento della popolazione e con il declino delle pensioni a sussidio fisso; migliorare il sistema della istruzione in modo che un numero maggiore di persone affrontasse il rischio di impegnarsi in percorsi scolastici più impegnativi; infine invertire l’erosione della società di classe media tipica dell’America.
Nessuno di questo obbiettivi (forse con l’eccezione dell’ultimo) erano temi di parte. Il deficit di lungo periodo, il finanziamento della assistenza sanitaria, il riscaldamento globale, non meno che assicurare un reddito da pensione e permettere le opportunità di studio, erano temi sui quali il progresso bipartisan e l’accordo si sarebbero dovuti conseguire facilmente. Tuttavia noi clintoniani non ricevemmo alcuna cooperazione sia dai rappresentanti che dagli intellettuali repubblicani.
Personaggi come il Senatore Pete Domenici e come Alan Simpson, che dicevano tante belle parole sul deficit di lungo periodo, non affrontarono mai un programma sfascia-bilanci repubblicano al quale avrebbero dovuto opporsi o una iniziativa di riduzione del deficit democratica che avrebbero potuto sostenere. Economisti che sotto i Presidenti Ronald Reagan e George H. W. Bush avevano usato altrettanto belle parole sui carichi fiscali eccessivi e sull’importanza di bilanci equilibrati divennero molto calmi dopo che Clinton entrò in carica nel gennaio del 1993, e se ne rimasero calmi dopo che la Amministrazione di George W. Bush smantellò gran parte di quello che la Amministrazione Clinton aveva realizzato.
Ma nel passato 1993 ci fu una eccezione – un anziano rappresentante repubblicano ed un intellettuale attivo in politica che non aveva dimenticato gli impegni politici dei suoi primi anni: il Presidente della Federal Reserve Alan Greenspan. Per Greenspan, mettere sui giusti binari il finanziamento di lungo termine del Governo federale degli Stati Uniti era un obbiettivo importante comune ai due partiti, e negli anni 1993-1994 volle assumersi i rischi di politica monetaria che aiutasse le possibilità di un tale risultato.
La Fed, secondo il punto di vista di Greenspan, aveva la responsabilità non solo di combattere l’inflazione ma anche di creare una società prospera ed imprenditiva, ed egli cercò di realizzare quel duplice mandato – dove una elevata occupazione fosse altrettanto importante dei prezzi stabili – durante il boom dell’industria informatica degli ultimi anni ’90. Unico tra i suoi colleghi repubblicani, dopo il 2001 parlò – cautamente in pubblico ma rumorosamente in privato – contro l’inettitudine delle politiche fiscali della Amministrazione Bush.
Questa è la ragione per la quale, nonostante il danno che la sua reputazione ha patito all’indomani della crisi finanziaria del 2008, Greenspan mantiene una enorme credibilità tra coloro che sperano di vedere una politica economica razionale in America. Se si dovessero presentare ragionevoli partners ad un negoziato da parte repubblicana, Greenspan dovrebbe essere alla loro testa.
Questa è la ragione per la quale trovo il suo nuovo libro “La mappa e il territorio” così deludente. Greenspan descrive il Dipartimento della Casa e dello Sviluppo Urbano degli Stati Uniti ed i suoi obbiettivi per costi sostenibili per gli alloggi, come se avessero giocato un ruolo di primo piano nel provocare la crisi del 2008. Inoltre, egli sostiene che la legislazione di riforma del sistema finanziario Dodd-Frank sia un fattore rilevante nell’impedire la ripresa. Nello stesso modo, sostiene che il “credito di imposta sul reddito da lavoro [2]” sia una minaccia alla fibra morale degli americani. Una parte troppo grande del libro scorre, come sostiene Steven Pearlstein del Washington Post, come se fosse stata presa di peso dal sito web di Mitt Romney della campagna elettore per le presidenziali del 2012.
I sei problemi con i quali ci misurammo io e gli altri quando arrivammo a Washington nel 1993 non sono stati risolti. La situazione della finanza pubblica di lungo periodo resta scoraggiante, seppure non così tremenda come avevamo timore potesse accadere. Il finanziamento della assistenza sanitaria resta un disastro, anche se abbiamo considerevoli motivi per sperare che la riforma di Obama abbia iniziato ad affrontare il problema. E non abbiamo avuto alcun progresso sul riscaldamento globale, su difendere una società incardinata sulla classe media o sul migliorare il sistema educativo per rendere l’eguaglianza delle opportunità una realtà. Né ci siamo misurati con la probabile caduta del reddito da pensione e dei patrimoni in una America che invecchia.
Ma non è questo ciò che Greenspan vede. Per lui, tutti questi problemi si riducono ad una semplice domanda: “In che genere di società vogliamo vivere?” E la scelta, dal suo punto di vista, è egualmente semplice: o “una società di dipendenza”, o “una società del contare su se stessi”.
Questa non è una analisi: è una battuta ad effetto. In un momento nel quale l’America ha disperatamente bisogno di intuizioni e di idee, Greenspan ci offre soltanto mazzate di faziosità. E’ una cattiva notizia per coloro tra noi che vorrebbero veder emergere in Washington modi efficaci e tecnocratici di produrre politica economica. In qualche modo dobbiamo convincerci del fatto che non avremo più partners disponibili al confronto dalla parte dei repubblicani.
[1] L’espressione “Ha lasciato l’edificio”, apparentemente insignificante, ha in realtà una storia, perché venne coniata a proposito di Elvis Presley, per far star tranquilli, se ho ben capito, i suoi fans che insistevano nell’attendere che il loro idolo si ripresentasse sulla scena di un concerto.
[2] Si tratta della possibilità di avere risarcimenti fiscali a seguito soprattutto delle spese per la istruzione dei figli, con il meccanismo del credito di imposta sugli “earned incomes”, ovvero sui redditi che vengono da salari, stipendi, attività in proprio ed altre attività particolari.
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"