By Kenneth Rogoff
October 2, 2013 10:36 pm
I am puzzled by commentators who are certain that governments had it all wrong, at every step, in balancing stimulus and stability in the aftermath of the crisis. One often sees claims, for example, that the UK borrowed heavily in the distant past with little ill effect. So today’s leaders were foolish not to engage in even heavier borrowing and stimulus. These people seem to believe everything will be fine when it comes to public debt: like Voltaire’s character Dr Pangloss, they assume “all’s for the best in the best of all possible worlds”.
According to the debt panglossians, UK leaders watched as the economy stagnated, rationing stimulus out of a baseless concern over credit risks. Even though the UK ran one of the largest deficits of any advanced country, the panglossians say it should have borrowed more. Perhaps, but their logic is based on a shallow reading of the evidence – and on amnesia about recent risks to eurozone stability.
They do have some very solid points on their side, particularly when it comes to high-return infrastructure projects. Such projects, if done at a reasonable cost, pay for themselves. Governments should have done more, and not just to stimulate demand. There are good neoclassical arguments for higher government spending in a slack economy when resources are cheaper. But debt panglossians are far too confident that the UK’s credit status is bulletproof, and too dismissive of the risks.
Yes, from the 1800s until the first world war, the UK was a global superpower that commanded vast colonial resources and investments. Over long periods, these foreign assets yielded returns well in excess of interest on debt. But comparing government debt ratios back then, when the UK was a massive net creditor, to debt ratios today, when British foreign liabilities exceed foreign assets, is utterly misleading. Moreover, back in the 1820s, the UK was pioneering the industrial revolution; things are not quite the same today. Back then, the UK did not have to worry about pension liabilities or existential threats to the banking system that could require massive injections of cash to fix.
From the Depression to the mid-1970s, as the empire faded, the UK’s credit performance was less than stellar. During the 1930s, Britain defaulted on debt to the US accumulated during the first world war and its aftermath. Though all but forgotten today, the UK’s Depression default was arguably of comparable magnitude to some of the more spectacular emerging market defaults of the past three decades once eventual recovery rates are taken into account. This was arguably an “excusable default” but it is not a forgettable one.
It is often stated that after the second world war the UK debt reached almost 250 per cent of gross domestic product and was brought down merely through growth and inflation. This is a myth. As Carmen Reinhart has argued in her work on financial repression, had the UK not used a labyrinth of rules and regulations to hold nominal interest rates on debt below inflation, its debt-to-GDP ratio might have risen over the period 1945-55 instead of falling dramatically.
Then there is the high-inflation era of the 1970s – another de facto default. Last but not least, what about the UK’s serial dependence on International Monetary Fund bailouts from the mid-1950s until the mid-1970s? This is hardly a country with an indestructible credit status.
From early 2010 until quite recently, there was every reason to worry about a disorderly exit from the eurozone potentially blowing up the whole thing. This was the big call – the one that everyone was focusing on. To state that credit risk was gone by 2010 is ludicrous. None other than The New York Times columnist Paul Krugman prognosticated the euro’s early demise regularly from April 2010 to July 2012. His big call has turned out – so far – to be dead wrong. But his estimate underscores the uncertainty policy makers faced – and inconsistency in the debt panglossians’ advice.
On the one hand, they were berating the UK government for worrying about large deficits and soaring debt. On the other hand, they were saying that its greatest fear was likely to materialise. I suppose one could argue that a collapse of the eurozone would have caused a stampede into gilts. Maybe. But this was a country that was still running twin current account and fiscal deficits. More likely, a euro collapse would have triggered a stampede out once investors realised that the UK banks and trade would be savaged, a flexible currency notwithstanding. In that scenario, UK leaders would have been forced to close massive budget deficits almost overnight. That would have been truly catastrophic austerity.
We now know the euro did not collapse. With 20-20 hindsight, yes, the UK could have borrowed more. But we do not have hindsight at the moment decisions have to be taken. To pretend we always knew everything would be fine, and to assess performance accordingly, is just plain bunk.
I am certainly not arguing that the UK or other advanced countries handled the post-crisis period perfectly. There should have been more infrastructure spending, even more aggressive monetary policy and probably more ruthless bank restructuring. But there has to be a balance between stimulus and stability. To assume we always knew things would calm down, and to retrospectively calibrate policy advice accordingly, is absurd.
Il Regno Unito non dovrebbe considerare garantito il suo status di creditore
di Kenneth Rogoff
2 ottobre 2013
Sono sconcertato dai commentatori che sono certi che i governi sbagliano tutto, ad ogni passo, nel bilanciare misure di sostegno e stabilità all’indomani della crisi. Si sente spesso l’argomento, ad esempio, secondo il quale il Regno Unito [1] si sarebbe pesantemente indebitato nel lontano passato, con modesti effetti. Così i dirigenti odierni sarebbero stati sciocchi a non impegnarsi in misure di sostegno e in un indebitamento persino più pesante. Queste persone sembrano credere che tutto è buono quando viene dal debito pubblico: come il personaggio di Voltaire, il dottor Pangloss, essi considerano che “va tutto al meglio nel migliore dei mondi possibili”.
Secondo i panglossiani del debito, i leaders inglesi sono rimasti all’erta come se l’economia ristagnasse, razionando le misure di sostegno spinti da una preoccupazione immotivata sui rischi del credito. Anche se il Regno Unito realizza uno dei deficit più ampi di ogni paese avanzato, secondo i panglossiani esso avrebbe dovuto indebitarsi maggiormente. Può darsi, ma la loro lettura è basata su una lettura superficiale delle prove – e su una amnesia sui recenti rischi di stabilità dell’eurozona.
In effetti essi hanno alcuni argomenti molto solidi dalla loro parte, in particolare quando si tratta dei progetti di infrastrutture ad elevato rendimento. Tali progetti, se condotti con costi ragionevoli, si ripagano da soli. I Governi avrebbero dovuto fare di più, e non solo per stimolare la domanda. Ci sono buoni argomenti neoclassici per una più elevata spesa pubblica in un economia fiacca quando le risorse finanziarie sono più convenienti. Ma i panglossiani del debito sono troppo fiduciosi che la reputazione di creditore del Regno Unito sia a prova di bomba, e troppo superficiali sui rischi.
Sì, dal 1800 sino alla prima guerra mondiale, il Regno Unito fu una superpotenza mondiale che decideva di vaste risorse coloniali e di grandi investimenti. Nei lunghi periodi, questi assets stranieri produssero ritorni ben superiori agli interessi sul debito. Ma confrontare i tassi del debito pubblico di allora, quando il Regno Unito era un massiccio creditore netto, con i tassi del debito odierni, quando le passività estere britanniche eccedono gli assets esteri, è completamente fuorviante. Inoltre, nei lontani anni Venti dell’Ottocento il Regno Unito conosceva per primo la rivoluzione industriale; le cose non erano proprio le stesse di oggi. A quei tempi, il Regno Unito non doveva preoccuparsi delle passività del sistema previdenziale o delle minacce esistenziali al sistema bancario, che potrebbero richiedere massicce iniezioni di capitali liquidi per i rimedi necessari.
A partire dalla Depressione sino alla metà degli anni ’70, quando l’impero era svanito, le prestazioni creditizie del Regno Unito non furono brillanti. Durante gli anni Trenta, il paese andò in default verso gli Stati Uniti per il debito accumulato durante la prima guerra mondiale e negli anni successivi. Sebbene tutti se ne siano dimenticati, il default a seguito della depressione del Regno Unito fu probabilmente di ampiezza paragonabile ai più spettacolari defaults dei mercati emergenti, una volta che siano messi nel conto i tassi della ripresa finale. Questo fu probabilmente un “default perdonabile”, ma da non dimenticare.
Si è spesso affermato che dopo la seconda guerra mondiale il debito del Regno Unito raggiunse quasi il 250 per cento del PIL e fu abbassato solo mediante la crescita e l’inflazione. Questo è un mito. Come Carmen Reinhart ha sostenuto nel suo lavoro sulla “repressione finanziaria [2]”, se il Regno Unito non avesse usato un labirinto di norme e di regolamenti per tenere i tassi di interesse nominali sul debito al di sotto dell’inflazione, il rapporto debito/PIL negli anni 1954-1955 sarebbe cresciuto anziché diminuire in modo spettacolare.
C’è poi l’epoca dell’alta inflazione degli anni ’70 – di fatto un altro default. Da ultimo ma non per ultimo, che dire della dipendenza seriale dai salvataggi del Fondo Monetario Internazionale dalla metà degli anni ’50 sino alla metà degli anni ’70? A fatica questo può essere considerato un paese con una indistruttibile reputazione sul debito.
Dall’inizio del 2010 sino ad un periodo abbastanza recente, c’è stata ogni ragione per preoccuparsi di una uscita dall’eurozona con un disordine tale da far saltare ogni cosa. Questa fu la grande eventualità [3] – quella sulla quale tutti si concentrarono. Affermare che il rischio del credito se ne sia andato con il 2010 è risibile. Proprio l’editorialista [4] del New York Times Paul Krugman pronosticò regolarmente la prematura caduta dell’euro dall’aprile del 2010 al luglio del 2012. Il suo forte richiamo [5] – sinora – si è mostrato del tutto sbagliato. Ma la sua stima evidenzia l’incertezza con la quale gli operatori politici si sono misurati – e l’inconsistenza del consigli dei panglossiani del debito.
Da una parte, essi rimproveravano il governo del Regno Unito per essersi preoccupato degli ampi deficit e del debito che cresceva considerevolmente. D’altra parte, venivano dicendo che era probabile che si materializzasse la paura più grande. Suppongo che si potrebbe sostenere che il collasso dell’eurozona avrebbe potuto provocare una fuga precipitosa verso i gilts [6]. Può darsi. Ma questo era un paese che ancora stava gestendo deficit gemelli, di conto corrente e di finanza pubblica. Più probabilmente, un collasso dell’euro avrebbe potuto innescare una fuga disordinata verso l’esterno, una volta che gli investitori avessero compreso che le banche del Regno Unito ed i commerci sarebbe stati presi d’assalto, a dispetto di una valuta flessibile. In quello scenario, i dirigenti del Regno Unito sarebbero stati costretti a tamponare massicci deficit di bilancio quasi all’improvviso. Quella sarebbe stata la autentica catastrofica austerità.
Sappiamo ora che l’euro non è collassato. Con un pieno senno di poi, sì, il Regno Unito avrebbe potuto investire maggiormente. Ma non siamo dotati del senno di poi, nel momento in cui le decisioni devono essere prese. Fingere di aver sempre saputo che ogni cosa sarebbe andata per il meglio, e valutare le prestazioni di conseguenza, è proprio una completa fesseria.
Non sto certamente sostenendo che il Regno Unito od altri paesi avanzati abbiano gestito il periodo successivo alla crisi in modo perfetto. Avrebbe dovuto esserci una spesa pubblica per infrastrutture maggiore, persino una politica monetaria più aggressiva e probabilmente più ristrutturazioni impietose di banche. Ma ci doveva essere un equilibrio tra misure di sostegno e stabilità. Assumere di aver sempre saputo che le cose avrebbero finito per calmarsi, e conseguentemente calibrare i consigli politici in modo retrospettivo, è una assurdità.
[1] Colgo questa occasione per chiarirmi definitivamente quello che avrei dovuto ben conoscere, ma sul quale commetto frequentemente errori. Se qualcun altro come me sia arrivato a questa non tenera età senza chiarirsi questa questione, approfitti del chiarimento!
L’Inghilterra – termine con il quale spesso noi italiani designamo quello che capita, ad esempio tutto l’arcipelago delle isole britanniche – è una delle quattro nazioni del Regno Unito: Inghilterra, Scozia, Galles ed Irlanda del Nord. Essa comprende quasi tutta l’area centro-meridionale della Gran Bretagna.
La Gran Bretagna, invece, comprende, oltre all’Inghilterra, la Scozia, il Galles ed anche le altre isole minori come Anglesey, Wight, Orcadi, Ebridi e Shetland. Ma la Gran Bretagna non comprende né l’Irlanda né l’isola di Man.
Il Regno Unito, più precisamente il “Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord”, infine, comprende l’Inghilterra, la Scozia, il Galles e tutte le isole suddette, Irlanda compresa, ma limitatamente all’Irlanda del Nord, giacché dal 1922 gran parte dell’Irlanda si separò andando a costituire lo Stato Libero di Irlanda.
Ne consegue, se non sbaglio, che tanto varrebbe, nella cose della politica e della attualità, smettere di usare il termine Gran Bretagna; politicamente la Gran Bretagna non esiste – giacché non include in particolare l’Irlanda del Nord – e non ha istituzioni sue proprie. Gran Bretagna è un termine che andrebbe usato solo nei casi nei quali si intenda riferirsi ad una entità geografica di un complesso di isole, Irlanda e Man escluse.
Per quanto riguarda l’uso del termine “Inghilterra”, si usa dire che si tratti di una “sineddoche”, cioè di un appellare il tutto con una sola parte. Ma si dovrebbe sapere che la vera Inghilterra è formalmente una singola nazione effettiva. Essa è governata dallo stesso Governo – ed è ‘rappresentata’ dalla stessa monarchia – del Regno Unito. Ma quando si trattano, nel Parlamento del Regno Unito, questioni che riguardano la sola nazione dell’Inghilterra, i componenti non inglesi si astengono. In un certo senso, dunque, l’Inghilterra ha una istituzione sua propria. Inoltre Scozia, Galles ed Irlanda del Nord hanno propri Parlamenti, anche se con competenze limitate. E’ più nota la storia travagliata dell’Irlanda del Nord, ma anche in Scozia, a seguito di un referendum del 1997, un provvedimento definito di “devoluzione amministrativa” stabilisce le competenze del parlamento nazionale.
In conclusione: il Regno Unito è la vera espressione che correttamente indica l’entità politica composta dalle nazioni dell’Inghilterra, della Scozia, del Galles e dell’Irlanda del Nord. L’Inghilterra è propriamente una di quelle nazioni; il termine è utilizzato come sineddoche di Regno Unito, ma è sconsigliabile usare quella sineddoche in presenza di scozzesi, gallesi e irlandesi del Nord. Gran Bretagna, infine, è anch’essa usata come sineddoche, ma almeno in un certo senso ancora più impropriamente, perché è una entità geografica che allude ad un “tutto” incongruo, giacché l’Irlanda non fa parte della Gran Bretagna geografica, mentre un pezzo dell’Irlanda fa parte di quel “tutto” in termini politici.
Aggiungo che il bisogno di questo chiarimento non è un passatempo. Il fatto è che i testi angloamericani che qua si traducono sono assolutamente scrupolosi su questo complesso di questioni e definiscono normalmente i fatti politici che riguardano quelle nazioni come relativi allo “United Kingdom”; non si trovano mai i termini “Great Britain” o “England”. Sennonché il problema si ripropone quando si arriva agli aggettivi, giacché un aggettivo diretto per “Regno Unito” non esiste. In quel caso diremo, quando non si potrà fare diversamente, “britannico” (e non inglese. Se, infatti, si è avuta la pazienza di seguire la spiegazione sino a questo punto, si sarà compreso che con “britannico” si offendono solo gli irlandesi del nord, mentre con il termine “Inglese” si offenderebbero anche gli scozzesi ed i gallesi).
[2] Per “repressione finanziaria” si intendono le misure che un paese impiega per canalizzare finanziamenti che andrebbero altrove, verso se stesso. La “repressione finanziaria” può essere abbastanza efficace in particolare, appunto, nella liquidazione del debito. Come spiega Carmen Reinhart – vedi l’articolo del 26 marzo 2012 sul blog “Vox” – il termine fu coniato nel 1973 da Ronald McKinnon; tale attività include politiche dei Governi per ottenere finanziamenti da parte dei fondi pensione, tetti sui tassi di interesse, controllo dei capitali ed altro ancora.
[3] Traduco qua “call” come “eventualità”, nel senso diciamo di “attrazione fatale”.
[4] Con l’avvertenza che il termine editorialista è impreciso, perché Krugman scrive nella pagina degli “op-ed”, ovvero nella pagina opposta a quella degli editoriali. Ciononostante, egli non è un “commentatore” casuale, ma un collaboratore fisso con due articoli alla settimana.
[5] Traduco qua “call” come “richiamo” anche se non sono certo che Rogoff non intenda qualcosa di peggio (del tipo “invito” o “richiesta”).
Ma veramente sarebbe proprio una polemica pretestuosa ed anche un po’ velenosa sostenere che in quegli anni Krugman si fosse espresso “a favore” di un crollo dell’euro. Si veda il breve saggio di Paul Krugman “Può salvarsi l’Europa?” su TIMES MAGAZINE 12 gennaio 2011, nel quale sono evidentissime le sue critiche ma anche i suoi auspici. Se una differenza netta, piuttosto, si può individuare tra il ragionamento di quegli anni di Krugman e quello attuale di Rogoff, è proprio quella per la quale il primo non è mai stato indifferente alla dimensione storica, politica ed anche morale del tentativo – pur sconclusionato – dell’euro, mentre il secondo, sia pure ragionando solo di Regno Unito, pare che espunga ogni riferimento a tale contesto più generale. Rogoff ragiona di cosa accadrebbe al Regno Unito nel caso di un funerale dell’Europa; il decesso in sé lo lascia imperturbato.
[6] I Gilts sono titoli di stato emessi dalla Gran Bretagna, con scadenze da 1 a 50 anni e prevedono generalmente un tasso fisso, pagato con cedole semestrali. Vi sono anche Gilts irredimibili, che cioè non prevedono data di rimborso. Si possono distinguere due categorie di Gilts.
Gilts convenzionali: sono emissioni da 100 sterline con cedola semestrale fissa e rimborso del capitale a scadenza. Hanno durate di 5, 10 e 30 anni. Dal 2005 sono cominciate le emissioni di Gilts con scadenza 50 anni.
Gilts indicizzati: sono emissioni indicizzate all’inflazione e tengono conto dell’incremento dell’inflazione misurata dallo Uk Retail Price Index (RPI).
By mm
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