“L’impero irresistibile” (Einaudi 2006) di Victoria de Grazia (nata a Chicago, nonno paterno siciliano, studiosa del fascismo italiano e docente alla Columbia University) è una lettura importante, se si hanno in mente interrogativi del genere di quelli ai quali ho fatto cenno nell’appunto precedente a proposito delle riflessioni di Krugman sul capitalismo americano di questi anni. Il libro, in America nel 2005, è precedente al nuovo ‘scalino’ della informatica ‘wireless’ degli ultimi anni; più in generale si ferma alle soglie dell’avvento delle tecnologie della informazione e della comunicazione della metà degli anni ’90. Ma abbraccia l’intero secolo precedente: una miniera di informazioni e di storie sulla egemonia commerciale e sociale americana, dal fordismo ai grandi magazzini, alle strategie dei marchi, dall’industria cinematografica alle catene del commercio al dettaglio, dall’avvento dei supermercati, compresi quelli di iniziativa americana di Milano e di Firenze, alla storia della Fiera di Dresda, dal ‘fast food’ allo ‘slow food’ (indicato come un crepa non insignificante in quella egemonia).
Evitando sistematicamente di perdersi in una trattazione, diciamo così, teorica dell’americanismo – unica eccezione una pagina nella quale si coglie la singolarità, per acutezza e passione, degli appunti di Antonio Gramsci su “Americanismo e fordismo” – il libro fornisce tutto il resto, con un gusto piacevole e sempre acuto dell’aneddotica e delle storie locali.
Intanto, non solo di americanismo e fordismo si tratta, ma di americanismo/fordismo e “filenismo”, quest’ultimo da Edward Albert Filene, anche definito l’ “Apostolo della distribuzione”. La descrizione di questo curioso personaggio, di madre ebrea bavarese e di padre ebreo polacco, perenne pendolare tra Stati Uniti ed Europa ed ispiratore di studi, ricerche, intuizioni ed esperimenti sulle nuove frontiere del commercio, ci introduce ad un percorso nel quale profitto ed ideologia vanno di pari passo, o meglio si misurano l’uno con l’altra sul terreno delle reciproche concrete prestazioni. E il democratico Filene, probabilmente, esprime meglio ancora il verso di quella egemonia rispetto all’antisemita Henry Ford (non a caso Ford, nei primi anni Venti, venne sopravanzato da Alfred Sloan, a capo della General Motors, proprio sull’idea di produrre autovetture “per tutte le tasche e per tutti gli usi”; e l’idea era quella di Filene).
Quello che, in generale, si comprende meglio è la connessione di tante storie diverse all’interno di quell’ “impero irresistibile”. La De Grazia la esprime in vari modi: la “middleness”, ovvero l’invenzione materiale di una classe media, dei suoi consumi e delle sua cultura; oppure quella che chiama la “sociabilità” dei settori più innovativi del capitalismo americano, che è come dire la permeabilità dell’industria ad una idea di mercato focalizzata sui quella continua evoluzione dei bisogni della classe media. Il “welfare” che in Europa è nato sul fallimento dei nazionalismi e sul successivo ruolo degli Stati, in America appare in grande misura come un processo interno alle dinamiche dell’economia. Con la grande eccezione, però, del “rooseveltismo”, ovvero di una politica che prende il sopravvento nel momento in cui l’economia deraglia (nel mentre in Europa il rimedio keynesiano fu allora soprattutto affidato all’industria degli armamenti ed alla preparazione della Seconda Guerra Mondiale).
E’ inevitabile che quella storia solleciti qualche ricordo su altre letture dell’ “americanismo” che abbiamo avuto a disposizione. Il primo si connette proprio alle pagine di Antonio Gramsci alle quali la De Grazia si riferisce ed al progetto di studio che egli sintetizzò in un concetto fondamentale: la differenza tra America ed Europa, soprattutto consistente nel fatto che nel primo paese “non esistono classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie”. Gramsci accennava agli esempi italiani di questo parassitismo, anzitutto “la media e piccola proprietà terriera (che) non è in mano a contadini coltivatori, ma a borghesi della cittaduzza o del borgo”, ed anche la “amministrazione dello Stato”, del cui bilancio viveva “un decimo della popolazione”. Scriveva Gramsci: “La non-esistenza di queste sedimentazioni vischiosamente parassitarie, lasciate dalla fasi storiche passate, ha permesso (negli Stati Uniti) una base sana all’industria e specialmente al commercio e permette sempre di più la riduzione della funzione economica rappresentata dai trasporti e dal commercio a un reale attività subalterna della produzione …” E’ evidente che egli non potesse immaginare sino a che punto tale “subalternità” non sarebbe stata una semplicistica riduzione della società alle tecniche della ‘catena di montaggio’, ed avrebbe in particolare aperto un campo enorme di nuova produzione di cultura e di bisogni. Ma non era un caso se indicava proprio nel commercio lo sviluppo potenzialmente più innovativo e se, in altre pagine, si occupava senza alcun pregiudizio di temi (come la libertà di pensare pur stando alla catena, il tempo libero e la sessualità) che in fondo sentiva più di tanta retorica attinenti ad un processo di creazione di un ‘ordine nuovo’. Il pieno operare del motore del profitto poteva produrre l’effetto di una egemonia vasta, capace di permeare la società intera; e Gramsci non aveva timore ad indicarlo come un elemento di progresso. Il tutto poi accadeva in un carcere, quasi prima che tutta quella storia cominciasse.
Altre pagine che mi sono venute alla mente sono quelle di Keynes sul ruolo della “speculazione” nell’economia e nella società americana. Egli non usava il termine speculazione nel senso più ordinario; ne parlava nell’ambito di un capitolo della Teoria Generale nel quale si occupava della difficile previsione degli effetti degli investimenti nel lungo termine. Distingueva, appunto, tra la speculazione, intesa come “l’attività di prevedere la psicologia del mercato”, e l’intraprendenza, intesa come “l’attività di prevedere il rendimento prospettico dei beni capitali per tutta la durata della loro vita”. Si tratta delle pagine che precedono il famoso esempio di quello che accade “quando lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di una casa da gioco”. In quel caso, quando la speculazione così intesa domina l’intraprendenza, concludeva “è probabile che vi sia qualcosa che non va bene”. A me ha sempre colpito, un passaggio di poche righe precedente, nel quale paragonava l’investimento ai vecchi concorsi di bellezza che avevano luogo sui giornali, nei quali il lettore sceglieva il ‘volto più grazioso’ non tanto per i suoi gusti, ma cercando di avvicinarsi “con la sua scelta, alla media fra tutte le risposte”, giacché quello avrebbe deciso sulla probabilità di scegliere la candidata vincente. E questa capacità di scommettere su quello che sarebbe stata l’opinione media la considerava una caratteristica fondamentale della società americana: “Anche fuori del campo finanziario, gli americani sono eccessivamente propensi ad interessarsi di scoprire come l’opinione media immagina che sarà l’opinione media stessa …”
Ebbene, il libro della De Grazia mi pare in fondo tutto attinente a questa definizione dell’ “americanismo”. Che certamente è una “croce”, dato che sistematicamente quel genere di speculazione porta alla crisi finanziarie ed ai collassi sistemici, nonché spesso ad una particolare rozzezza delle classi dominanti; ma è anche almeno in parte una “delizia”, quando la scommessa sulla psicologia indovina, nel bene e nel male, i probabili modi di essere della nostra vita futura.
Temi tanto più affascinanti, se si considera che l’ultimo ventennio di rivoluzione informatica, dinanzi al quale il racconto della De Grazia si arresta, è in fondo il capitolo più sensazionale di quella stessa storia.
By mm
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