Jeffrey Frankel, a professor at Harvard University’s Kennedy School of Government, previously served as a member of President Bill Clinton’s Council of Economic Advisers.
NOV 21, 2013 1
CAMBRIDGE – Since 1976, the US dollar’s role as an international currency has been slowly waning. International use of the dollar to hold foreign-exchange reserves, denominate financial transactions, invoice trade, and as a vehicle in currency markets is below its level during the heyday of the Bretton Woods era, from 1945 to 1971. But most people would be surprised by what the most recent numbers show.
There is an abundance of explanations for the downward trend. Since the Vietnam War, US budget deficits, money creation, and current-account deficits have often been high. Presumably as a result, the dollar has lost value relative to other major currencies or in terms of purchasing power. Meanwhile, the US share of global output has declined. And, most recently, the disturbing willingness of some members of the US Congress to pursue a strategy that would cause the Treasury to default on legal obligations has undermined global confidence in the dollar’s privileged status.
Moreover, some emerging-market currencies are joining the club of international currencies for the first time. Indeed, some analysts have suggested that the Chinese renminbi may rival the dollar as the leading international currency by the end of the decade.
But the dollar’s status as an international currency has not fallen uniformly. Interestingly, the periods when the public is most concerned about the issue do not coincide with the periods when the dollar’s share in international transactions is in fact falling.
By the criteria of international use as a reserve currency among central banks and as a vehicle in foreign-exchange markets, the most rapid declines took place from 1978 to 1991 and from 2001 to 2010. Between these two intervals, from 1992 to 2000, there was a clear reversal of the trend, notwithstanding a popular orgy of dollar declinism around the middle of that decade. Central banks held only an estimated 46% of their foreign-exchange reserves in dollars in 1992, but that share rebounded to almost 70% by 2000.
Subsequently, the long-term downward trend resumed. According to one estimate, the dollar’s share in central-banks’ foreign reserves declined from about 70% in 2001 to barely 60% in 2010. During the same decade, its share in the foreign-exchange market also declined: the dollar constituted one side or the other in 90% of foreign-exchange trades in 2001, but only 85% in 2010.
The International Monetary Fund’s most recent statistics suggest, unexpectedly, another pause in the dollar’s long-term decline. According to the IMF, the dollar’s share in foreign-exchange reserves stopped falling in 2010 and has been flat since then. If anything, the share is up slightly thus far in 2013. Similarly, the Bank for International Settlements (BIS) reported in its recent triennial survey that the dollar’s share in the world’s foreign-exchange trades rose from 85% in 2010 to 87% in 2013.
Given dysfunctional US fiscal policy, the dollar’s resilience is surprising. Or maybe we should no longer be surprised. After all, when the global financial crisis erupted in 2008 from the bowels of the American subprime-mortgage market, global investors responded by fleeing to the US, not from it. They obviously still regard US Treasury bills as a safe haven and the dollar as the top international currency, especially given the absence of good alternatives.
In particular, the euro has its own all-too-obvious problems. Indeed, the euro’s share in reserve holdings and foreign-exchange transactions have both declined by several percentage points in the most recent statistics.
At the same time, the IMF’s data indicate that the vaunted renminbi is not yet among the top seven currencies in terms of central-bank reserve holdings. And, according to the BIS, while the renminbi has finally broken into the top ten currencies in foreign-exchange markets, it still accounts for only 2.2% of all transactions, just behind the Mexican peso’s 2.5% share. Despite recent moves by the Chinese government, the renminbi still has a long way to go.
To try to explain the recent stabilization of the dollar’s status, one might note something that the last three years have in common with the previous period of temporary reversal from 1992 to 2000: striking improvements in the US budget deficit. By the end of the 1990’s, the record deficits of the 1980’s had been transformed into record surpluses; today, the federal deficit is less than half its 2010 level.
Perhaps the fiscal observation is a coincidence. After all, it would be foolish to read too much into two historical data points. It would be even more foolish to believe that just because American politicians have failed to dislodge the US dollar from its paramount status over the last 40 years, they could not accomplish the job with another few decades of effort.
It is not an eternal law of nature that the dollar shall always be number one. The pound sterling had the top spot in the nineteenth century, only to be surpassed by the dollar in the first half of the twentieth century. The day may come when the dollar, too, succumbs to a rival. But today is not that day.
Il dollaro e i suoi rivali
di Jeffrey Frankel
21 novembre 2013
CAMBRIDGE – Dal 1976 il ruolo del dollaro come valuta internazionale è andato lentamente riducendosi. L’uso internazionale del dollaro per detenere riserve in valuta straniera, designare transazioni finanziarie, fatturare scambi e come veicolo nei mercati valutari è al di sotto del suo livello durante l’epoca del suo fulgore successiva a Bretton Woods, dal 1945 al 1971. Ma in molti sarebbero sorpresi da ciò che gran parte dei dati recenti mostrano..
Per una tale tendenza al ribasso c’è una abbondanza di spiegazioni. A partire dalla guerra del Vietnam, i deficit di bilancio degli Stati Uniti, la creazione di moneta, i deficit del conto corrente sono spesso stati elevati. Si può presumere che di conseguenza il dollaro abbia perso valore rispetto alle altre valute in termini di potere di acquisto. Nel frattempo la quota degli Stati Uniti della produzione globale è diminuita. E, assai più di recente, la fastidiosa determinazione di alcuni componenti del Congresso degli Stati Uniti di perseguire una strategia che poteva portare il Tesoro al default sulle obbligazioni legali ha messo a repentaglio la fiducia globale nello status privilegiato del dollaro.
Inoltre, alcune valute dei mercati emergenti stanno per la prima volta aggiungendosi al club delle valute internazionali. In effetti, alcuni analisti hanno indicato che il renminbi cinese può competere col dollaro come moneta guida internazionale per la fine del decennio.
Ma lo status del dollaro come valuta internazionale non è caduto in modo uniforme. E’ interessante notare che i periodi nei quali l’opinione pubblica è maggiormente preoccupata sul tema non coincidono con i periodi nei quali la quota del dollaro nelle transazione internazionali di fatto diminuisce.
Dal punto di vista dell’uso come valuta di riserva tra le banche centrali e come veicolo sui mercati dei cambi esteri, i declini più rapidi ebbero luogo tra il 1978 ed il 1991 e dal 2001 al 2010. In mezzo a questi due periodi, tra il 1992 ed il 2000, ci fu una chiara inversione di tendenza, nonostante un’orgia di dibattito popolare sul declino del dollaro attorno alla metà di quel decennio. Nel 1992 le banche centrali detenevano soltanto un presunto 46% delle loro riserve in valute straniere in dollari, ma quella quota rimbalzò a quasi il 70% nel 2000.
Successivamente, la tendenza alla diminuzione di lungo periodo riprese. Secondo una stima, la quota del dollaro sulle riserve delle banche centrali scese dal 70% nel 2001 ad appena il 60% nel 2010. Durante lo stesso decennio declinò anche la quota sul mercato dei cambi esteri: il dollaro costituiva complessivamente il 90% degli scambi sui mercati dei cambi nel 2001, ma soltanto l’85% nel 2010.
Le più recenti statistiche del Fondo Monetario Internazionale indicano, inaspettatamente, una nuova pausa nel declino di lungo termine del dollaro. Secondo il FMI, la quota del dollaro sulle riserve in valute estere ha smesso di cadere nel 2010 ed è rimasta costante da quel momento. Semmai, tale quota è sinora leggermente risalita nel corso del 2013. Similmente, la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) [1] ha riferito nel suo recente studio triennale che la quota del dollaro sugli scambi sui mercati dei cambi del mondo è cresciuta dall’85% del 2010 all’87% del 2013.
Data la anormale [2] politica della finanza pubblica statunitense, la flessibilità del dollaro è sorprendente. Oppure, forse, non dovrebbe essere poi così sorprendente. Dopo tutto, quando nel 2008 la crisi nel mercato finanziario globale scoppiò dalle viscere del mercato americano dei mutui subprime, gli investitori risposero non fuggendo, bensì rifugiandosi negli Stati Uniti. Evidentemente consideravano ancora i buoni del Tesoro americani come un rifugio sicuro ed il dollaro come la più importante valuta internazionale, specialmente considerata la assenza di buone alternative.
In particolare, l’euro ha tutti i suoi sin troppo evidenti problemi. In effetti, la quota dell’euro nei possedimenti delle riserve e nelle transazioni in valuta estera è scesa in entrambi i casi di vari punti percentuali nelle statistiche più recenti.
Contemporaneamente, i dati del FMI indicano che il tanto vantato renminbi non è ancora tra le principali sette valute quanto a possedimenti nelle riserve delle banche centrali. E, secondo il BIR, mentre il renminbi ha finalmente conquistato l’accesso tra le prime dieci valute sui mercati dei cambi esteri, esso pesa ancora soltanto il 2,2% delle transazioni complessive, proprio alle spalle della quota del 2,5% del peso messicano. Nonostante le recenti mosse del Governo cinese, il renminbi ha ancora da fare molta strada.
Per cercar di spiegare la recente stabilizzazione dello status del dollaro, si dovrebbe notare un aspetto che nel corso degli ultimi tre anni si è avuto in comune con in precedente periodo di temporanea inversione di tendenza dal 1992 al 2000: gli impressionanti miglioramenti nei deficit del bilancio degli Stati Uniti. Con la fine degli anni ’90 il record di deficit degli anni ’80 era stato trasformato in un record di surplus; oggi il deficit federale è la metà del livello del 2010.
Forse l’osservazione sulla finanza pubblica è una coincidenza. Dopotutto, sarebbe sciocco voler leggere troppe cose in due momenti della storia statistica. Sarebbe anche più sciocco credere che solo perché gli uomini politici americani non sono riusciti a scacciare il dollaro dalla sua collocazione di eccellenza negli ultimi 40 anni, essi non possano portare a termine il lavoro con qualche altro decennio di sforzi.
Non è una eterna legge di natura che il dollaro sia sempre destinato ad essere il numero uno. La sterlina si collocò al primo posto nel diciannovesimo secolo, per essere superata dal dollaro solo nella prima metà del ventesimo secolo. Potrà venire quel giorno, quando anche il dollaro finirà per soccombere ad un rivale. Ma quel giorno non è ancora venuto.
[1] La Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) (in inglese: Bank for International Settlements, (BIS) è un’organizzazione internazionale avente sede sociale a Basilea, in Svizzera. Fondata nel 1930 in attuazione del Piano Young, essa è la più antica istituzione finanziaria internazionale.
Pur essendo un’organizzazione internazionale, la BRI è strutturata come una società anonima per azioni, avente un Consiglio di amministrazione e un Direttore generale; tuttavia, le sue azioni possono essere sottoscritte unicamente da banche centrali o da istituti finanziari designati. Attualmente possiedono quote azionarie, e sono pertanto rappresentate alle sedute dell’Assemblea generale, 55 banche centrali, nonché la Banca centrale europea.
Il principale scopo dell’organizzazione è promuovere la cooperazione tra la banche centrali. Al contempo, la BRI fornisce specifici servizi finanziari in qualità di “banca delle banche centrali” ed opera come agente o mandataria (trustee) nei pagamenti internazionali che le vengono affidati. Infine, la BRI rappresenta oggi un centro internazionale di ricerca in ambito finanziario, monetario ed economico. (Wikipedia)
[2] Mi pare che “dysfunctional” possa essere tradotto in relazione a “difetti di funzionalità” od anche a “deviazione dalla normali regole”, e dunque anormalità. In questo caso, mi pare chiaro che non si intenda riferirsi ad una strutturale politica finanziaria non ben controllata (debito pubblico, deficits etc.), quanto alle escursioni di quella politica conseguenti alla crisi finanziaria del 2008.
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"