Blog di Krugman

Nuovi pensieri e vecchi libri riletti (30 novembre 2013)

 

November 30, 2013, 1:03 pm

New Thinking and Old Books Revisited

I learn from Francesco Saraceno that some people are attacking me for, as they see it, defending an economic orthodoxy that has failed. It’s kind of an odd place to find myself, given how critical I’ve been of the way the economics profession has dealt with the crisis. But it’s not entirely unfair: I am quite skeptical of people whose response to the sorry state of affairs is to declare that what we need is a whole new field.

Why my skepticism? I’m all for new ideas that add to our understanding. But ideas like that aren’t easy to come by! Mark Thoma’s classic crack — “I’ve learned that new economic thinking means reading old books” — has a serious point to it. We’ve had a couple of centuries of economic thought at this point, and quite a few smart people doing the thinking. It’s possible to come up with truly new concepts and approaches, but it takes a lot more than good intentions and casual observation to get there.

So, for example, what do I say when I read something like this from someone who apparently considers himself a bold rebel against orthodoxy?

“Rational thinking is an important aspect of human nature, but we have imagination, we have ambition, we have irrational fear, we are swayed by other people, we get indoctrinated and we get influenced by advertising,” he says. “Even if we are actually rational, leaving it to the market may produce collectively irrational outcomes. So when a bubble develops it is rational for individuals to keep inflating the bubble, thinking that they can pull out at the last minute and make a lot of money. But collectively speaking . . . ”

My answer, to put it in technical terms, is “Well, duh.” Maybe grad students at some departments, who are several generations into the law of diminishing disciples, really don’t know that rational behavior is at best a useful fiction, that markets aren’t perfect, etc, etc. But does this come as news to Robert Shiller? To Ben Bernanke? To Janet Yellen? To Larry Summers? Would it have come as news to Irving Fisher or Walter Bagehot?

The question is what you do with this insight.

There is definitely a faction within economics that considers it taboo to introduce anything into its analysis that isn’t grounded in rational behavior and market equilibrium. But what I do, and what everyone I’ve just named plus many others does, is a more modest, more eclectic form of analysis. You use maximization and equilibrium where it seems reasonably consistent with reality, because of its clarifying power, but you introduce ad hoc deviations where experience seems to demand them — downward rigidity of wages, balance-sheet constraints, bubbles (which are hard to predict, but you can say a lot about their consequences).

You may say that what we need is reconstruction from the ground up — an economics with no vestige of equilibrium analysis. Well, show me some results. As it happens, the hybrid, eclectic approach I’ve just described has done pretty well in this crisis, so you had better show me some really superior results before it gets thrown out the window.

Oh, and if you think you’ve found a fundamental logical flaw in one of our workhorse economic models, the odds are very strong that you’ve just made a mistake.

Does this mean that nothing should change in the way we teach economics? By no means — it’s quite clear that the teaching of macroeconomics has gone seriously astray. As Saraceno says, the simple models that have proved so useful since 2008 are by and large taught only at the undergrad level — they’re treated as too simple, too ad hoc, whatever, to make it into the grad courses even at places that aren’t very ideological.

Furthermore, to temper your modeling with a sense of realism you need to know something about reality — and not just the statistical properties of U.S. time series since 1947. Economic history — global economic history — should be a core part of the curriculum. Nobody should be making pronouncements on macro without knowing a fair bit about the collapse of the gold standard in the 1930s, what actually happened in the stagflation of the 1970s, the Asian financial crisis of the 90s, and, looking forward, the euro crisis.

I’d put my oar in for history of thought, too. Watching highly trained economists reinvent old economic fallacies suggests to me that there would be real payoff to requiring that students have some idea how the current leading doctrines got to where they are.

But must we reconstruct all of economics? No. Most of what we need, at least for now, is in those old books.

 

Nuovi pensieri e  vecchi libri riletti

 

Apprendo da Francesco Saraceno che alcune persone mi stanno attaccando perché, per come la vedono, difenderei una ortodossia economica che ha fatto fallimento. E’ una posizione un po’ strana quella in cui mi ritrovo, considerato come ho criticato il modo in cui la professione economica si è misurata con la crisi. Ma non è interamente infondata: sono abbastanza scettico con le persone che si dispiacciono per lo stato dell’arte sino a dichiarare che abbiamo bisogno di un terreno interamente nuovo.

Perché sono scettico? Io sono favorevolissimo alle idee nuove che aumentano la nostra comprensione.  Ma idee del genere non vengono facilmente! Il classico detto di Mark Thoma – “Ho imparato che il nuovo pensiero economico consiste nel leggere vecchi libri” – ha molta ragione. A questo punto abbiamo avuto un paio di secoli  di pensiero economico, ed abbiamo un buon numero di persone intelligenti che si applicano a quel pensiero. E’ possibile uscirsene con idee veramente nuove e nuovi approcci, ma si richiede molto di più che buone intenzioni e casuali osservazioni per arrivare a quel punto.

Dunque, ad esempio, come reagisco quando leggo qualcosa come quello che segue da parte di qualcuno che in apparenza si considera un audace ribelle contro l’ortodossia [1]?

“Il pensiero razionale è un aspetto importante della natura umana, ma abbiamo l’immaginazione, l’ambizione, la paura irrazionale, subiamo l’ascendente di altre persone, veniamo indottrinati e siamo influenzati dalla pubblicità” egli dice. “Persino se fossimo effettivamente razionali,  lasciar fare al mercato può produrre risultati collettivamente irrazionali. Così quando una bolla cresce è razionale per gli individui continuare a gonfiarla, pensando di potersene venir fuori all’ultimo momento e fare un sacco di soldi. Ma collettivamente parlando …”

La mia risposta, per dirla in termini tecnici, è “Bene, che genio!”. Può darsi che studenti universitari in qualche dipartimento che da anni subisce la legge del progressivo scadimento degli allievi, davvero non sappia che il comportamento razionale è nel migliore dei casi una utile finzione, che i mercati non sono perfetti etc. etc. Ma questa è una novità per Robert Shiller [2]? Per Ben Bernanke? Per Janet Yellen? Per Larry Summers? Sarebbe stata una novità per Irving Fisher o Walter Bagehot?

La domanda è cosa si fa con una intuizione del genere.

C’è certamente un gruppo tra gli economisti che considera un tabù introdurre nelle proprie analisi qualcosa che non sia fondato sul comportamento razionale e sull’equilibrio di mercato. Ma quello che io faccio, e che fanno tutti quelli che ho appena nominato e molti altri, è una forma di analisi più modesta, più eclettica. Si utilizzano la massimizzazione e l’equilibrio quando sembrano ragionevolmente coerenti con la realtà, in virtù del loro effetto di chiarificazione, ma si introducono varianti ad hoc ogni qualvolta l’esperienza sembra richiederle – la rigidità dei salari verso il basso, i condizionamenti degli equilibri patrimoniali, le bolle (che sono difficili da prevedere, ma delle quali si può dir molto a proposito delle loro conseguenze).

Si può sostenere che quello di cui abbiamo bisogno è una ricostruzione dalle fondamenta – una economia con nessuna traccia della analisi dell’equilibrio. Ebbene, fatemi vedere i risultati. Si dà il caso che l’approccio ibrido, eclettico che ho appena descritto abbia funzionato abbastanza bene in questa crisi, dunque meglio sarebbe mostrarmi qualche risultato effettivamente superiore prima di buttarlo dalla finestra.

E poi, se pensate di aver scoperto  un fondamentale difetto logico in uno dei nostri modelli economici da battaglia [3], è molto probabile che stiate soltanto facendo uno sbaglio.

Significa questo che non si dovrebbe cambiare niente nel modo in cui si insegna economia? In nessun modo – è abbastanza chiaro che l’insegnamento della macroeconomia è finito seriamente fuori strada. Come dice Saraceno, i semplici modelli che si sono mostrati così utili dal 2008 sono in linea di massima stati insegnati soltanto ad un livello da corso di laurea triennale – sono stati considerati troppo semplici, troppo ad hoc, avevano difetti di ogni genere per essere inseriti nei corsi di laurea anche in ambienti che non erano particolarmente  ideologici.

Inoltre, per mitigare il vostro uso di modelli con una dose di realismo avete bisogno di conoscere qualcosa della realtà – e non solo le serie temporali delle caratteristiche statistiche degli Stati Uniti a partire dal 1947. La storia economica – la storia economica globale – dovrebbe essere una parte centrale del curriculum. Nessuno dovrebbe prendere posizione sulla macroeconomia senza conoscere almeno un po’ del collasso del gold standard degli anni ’30, di quello che è effettivamente accaduto con la stagflazione negli anni ’70, della crisi finanziaria asiatica degli anni ’90, e, guardando in avanti, della crisi dell’euro.

Vorrei anche spezzare una lancia a favore (dell’insegnamento) della storia del pensiero. Osservare  economisti altamente addestrati riesumare come nuovi vecchi errori economici mi suggerisce che ci dovrebbe essere un effettivo profitto nel chiedere che gli studenti abbiano qualche idea di come le attuali dottrine guida sono diventate quello che sono.

Ma si deve ricostruire l’economia dalle fondamenta? No. La maggior parte di quello che ci serve, almeno al momento, è in quei vecchi libri.



[1] Il riferimento è ad Ha-Joong-Chang, un economista coreano intervistato dal Financial Times.

[2] Robert James Shiller (Detroit, 29 marzo 1946) è un economista statunitense. Considerato uno dei padri della finanza comportamentale ha studiato la volatilità dei mercati finanziari, la dinamica dei prezzi e la formazione delle bolle speculative, è professore all’Università di Yale Il 14 Ottobre 2013, l’Accademia reale svedese delle scienze ha deciso di premiare Shiller, insieme a Eugene Fama e Lars Peter Hansen, con il Premio Nobel per l’Economia, «per le loro analisi empiriche sui prezzi delle attività finanziarie. (Wikipedia)

[3] “Workhorse” significa “cavallo da tiro” ….

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