December 14, 2013, 10:38 am
Some further numerical thoughts on the right of inequality to be considered a “defining challenge.”
Many of the participants in our economic discourse start with the working presumption that inequality is a second-order issue, that the effects of rising inequality — to the extent that these effects are considered worth mentioning at all — are minor compared with the effects of economic growth or the lack thereof. This presumption is so ingrained in the discourse that hardly anyone looks at the numbers. But when you do look at those numbers, you get a shock.
In my previous post I looked at income changes since 2000, and argued that for the bottom 90 percent rising inequality has actually cost more than the economic slump. Obviously that calculation depends on the starting date — and you might also wonder whether the period since 2000 is exceptional.
But look, first, at the long-term trend in inequality. Piketty-Saez have the income share of the bottom 90 percent falling from two-thirds in 1979 to one-half now; that’s roughly 0.9 percent lopped off their income growth per year, for more than three decades. CBO’s numbers aren’t exactly comparable, but they show the income share of the bottom 80 percent declining from 57 to 47 percent over 1979-2007, which means income growth 0.7 percentage point per year slower than in the constant-inequality case.
Those are big numbers. They’re big enough that even if we restrict ourselves to the period 2007-13 — that is, to the Great Recession and the Not-So-Great Recovery — they suggest that the decline in middle-class incomes owes as much to rising inequality as it does to the depressed state of the economy. And this is true even though we’ve suffered the worst economic crisis since the 1930s!
You might be tempted to say that the depressed economy still deserves priority, because recovery is in everyone’s interests, so we should be able to achieve consensus on good short-run macro policies even as we debate inequality. That is, you might be tempted to say this if you’ve been living in a cave these past five years. In practice, debates over macroeconomic policy are just as polarized as debates over inequality — and along pretty much the same lines. That is, the same people who screech “Class warfare!” if you bring up the rising share of the 1 percent also shriek “Greece! Zimbabwe!” if you advocate expansionary fiscal and monetary policies.
So once again, the focus on inequality isn’t a diversion. It’s the right way to move this discussion.
Ineguaglianza e redditi, continuazione
Alcuni ulteriori pensieri statistici sulle ragioni per le quali considerare l’ineguaglianza una “sfida distintiva”.
Molti di coloro che partecipano a questo dibattito economico cominciano con l’ipotesi di lavoro che l’ineguaglianza sia una tema di second’ordine, che gli effetti della crescente ineguaglianza – nella misura in cui questi effetti sono considerati meritevoli di attenzione – siano minori a confronto degli effetti della crescita economica o della assenza di tale crescita. Questa ipotesi è così radicata nel dibattito che a fatica c’è chi guarda i dati. Ma quando si osservano tali dati, si resta sbalorditi.
Nel mio precedente post ho osservato i cambiamenti di reddito dal 2000 ed ho sostenuto che per il 90 per cento della fascia inferiore del reddito, l’ineguaglianza crescente ha effettivamente comportato un costo maggiore della crisi economica. Ovviamente questo calcolo dipende dalla data di partenza – e potreste anche chiedervi se il periodo a partire dall’anno 2000 sia stato eccezionale.
Ma si osservi, in primo luogo, la tendenza di lungo termine dell’ineguaglianza. Piketty-Saez sostengono che la quota del 90 per cento della popolazione con reddito inferiore è caduta dai due terzi del 1979 alla metà di oggi; vale a dire che grosso modo lo 0,9 per cento del loro reddito è stato tagliato anno dopo anno, per più di tre decenni. I dati del Congressional Budget Office non sono esattamente comparabili, ma mostrano che la quota dell’80 per cento della popolazione con reddito inferiore è diminuita dal 57 al 47 per cento nel periodo tra il 1979 ed il 2007, il che significa una crescita del reddito di 0,7 punti percentuali più lenta rispetto alla ipotesi di una ineguaglianza costante.
Sono numeri importanti. Sono talmente importanti che anche se ci restringiamo al periodo 2007-2013 – cioè, alla Grande Recessione ed alla ‘non-così-grande-ripresa’ – essi indicano che il declino dei redditi di classe-media è dipeso dalla crescente ineguaglianza nello stesso modo in cui è dipeso dalle condizioni di depressione dell’economia. E questo è vero pur avendo patito la peggiore crisi economica dagli anni ’30!
Potreste essere propensi a sostenere che l’economia depressa continua a meritare priorità, giacché la ripresa è negli interessi di tutti, dunque dovremmo essere capaci di ottenere consenso su buone politiche economiche a breve termine anche se stiamo discutendo di ineguaglianza. O meglio, potreste essere propensi a sostenere questo se foste vissuti in una grotta nei cinque anni passati. In pratica, i dibattiti sulla politica macroeconomica sono proprio polarizzati nello stesso modo dei dibattiti sull’ineguaglianza – e procedono in gran parte sulle stesse linee. Ovvero, le stesse persone che strillano alla “lotta di classe!” se sollevate il caso della crescita della quota di reddito dello 0,1 per cento della popolazione più ricca, strepitano alla Grecia ed allo Zimbabwe (!!) se sostenete politiche della finanza pubblica e monetarie espansive.
Dunque, ancora una volta concentrarsi sull’ineguaglianza non è un diversivo. E’ il modo giusto per spostare questo dibattito.
By mm
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