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L’economia della paura (New York Times 27 dicembre 2013)

 

The Fear Economy

By PAUL KRUGMAN
Published: December 26, 2013

More than a million unemployed Americans are about to get the cruelest of Christmas “gifts.” They’re about to have their unemployment benefits cut off. You see, Republicans in Congress insist that if you haven’t found a job after months of searching, it must be because you aren’t trying hard enough. So you need an extra incentive in the form of sheer desperation.

As a result, the plight of the unemployed, already terrible, is about to get even worse. Obviously those who have jobs are much better off. Yet the continuing weakness of the labor market takes a toll on them, too. So let’s talk a bit about the plight of the employed.

Some people would have you believe that employment relations are just like any other market transaction; workers have something to sell, employers want to buy what they offer, and they simply make a deal. But anyone who has ever held a job in the real world — or, for that matter, seen a Dilbert cartoon — knows that it’s not like that.

The fact is that employment generally involves a power relationship: you have a boss, who tells you what to do, and if you refuse, you may be fired. This doesn’t have to be a bad thing. If employers value their workers, they won’t make unreasonable demands. But it’s not a simple transaction. There’s a country music classic titled “Take This Job and Shove It.” There isn’t and won’t be a song titled “Take This Consumer Durable and Shove It.”

So employment is a power relationship, and high unemployment has greatly weakened workers’ already weak position in that relationship.

We can actually quantify that weakness by looking at the quits rate — the percentage of workers voluntarily leaving their jobs (as opposed to being fired) each month. Obviously, there are many reasons a worker might want to leave his or her job. Quitting is, however, a risk; unless a worker already has a new job lined up, he or she doesn’t know how long it will take to find a new job, and how that job will compare with the old one.

 

And the risk of quitting is much greater when unemployment is high, and there are many more people seeking jobs than there are job openings. As a result, you would expect to see the quits rate rise during booms, fall during slumps — and, indeed, it does. Quits plunged during the 2007-9 recession, and they have only partially rebounded, reflecting the weakness and inadequacy of our economic recovery.

Now think about what this means for workers’ bargaining power. When the economy is strong, workers are empowered. They can leave if they’re unhappy with the way they’re being treated and know that they can quickly find a new job if they are let go. When the economy is weak, however, workers have a very weak hand, and employers are in a position to work them harder, pay them less, or both.

 

Is there any evidence that this is happening? And how. The economic recovery has, as I said, been weak and inadequate, but all the burden of that weakness is being borne by workers. Corporate profits plunged during the financial crisis, but quickly bounced back, and they continued to soar. Indeed, at this point, after-tax profits are more than 60 percent higher than they were in 2007, before the recession began. We don’t know how much of this profit surge can be explained by the fear factor — the ability to squeeze workers who know that they have no place to go. But it must be at least part of the explanation. In fact, it’s possible (although by no means certain) that corporate interests are actually doing better in a somewhat depressed economy than they would if we had full employment.

 

What’s more, I don’t think it’s too much of a stretch to suggest that this reality helps explain why our political system has turned its backs on the unemployed. No, I don’t believe that there’s a secret cabal of C.E.O.’s plotting to keep the economy weak. But I do think that a major reason why reducing unemployment isn’t a political priority is that the economy may be lousy for workers, but corporate America is doing just fine.

And once you understand this, you also understand why it’s so important to change those priorities.

There’s been a somewhat strange debate among progressives lately, with some arguing that populism and condemnations of inequality are a diversion, that full employment should instead be the top priority. As some leading progressive economists have pointed out, however, full employment is itself a populist issue: weak labor markets are a main reason workers are losing ground, and the excessive power of corporations and the wealthy is a main reason we aren’t doing anything about jobs.

Too many Americans currently live in a climate of economic fear. There are many steps that we can take to end that state of affairs, but the most important is to put jobs back on the agenda.

 

L’economia della paura, di Paul Krugman

New York Times 27 dicembre 2013

 

Più di un milione di disoccupati americani sta per ricevere il più crudele dei “regali” di Natale, si tratta dei tagli ai loro sussidi di disoccupazione. Sapete, i repubblicani insistono che se non avete trovato un lavoro dopo mesi di ricerche, deve dipendere dal fatto che non l’avete cercato con sufficiente impegno.  Avete dunque bisogno di un incentivo straordinario nella forma della disperazione pura e semplice.

Di conseguenza, il dilemma dei disoccupati, già terribile, sta per diventare anche peggiore. Naturalmente, quelli che hanno un posto di lavoro se la passano meglio. Tuttavia la perdurante debolezza del mercato del lavoro pesa anche su di loro. Parliamo dunque un po’ delle difficoltà degli occupati.

Alcuni individui vorrebbero farvi credere che le relazioni in materia di occupazione siano semplicemente simili ad ogni altra transazione di mercato: i lavoratori hanno qualcosa da vendere,   i datori di lavoro intendono acquistare quello che loro offrono, e semplicemente si fanno accordi. Ma tutti coloro che hanno avuto un posto di lavoro nella realtà – oppure che hanno anche soltanto visto un cartone di Dilbert [1] – sanno che non è così.

Il fatto è che di norma l’occupazione riguarda un rapporto di potere: c’è un capo che ti dice quello che devi fare, e se rifiuti puoi essere licenziato. Non è necessario che sia una cosa negativa. Se i datori di lavoro apprezzano i lavoratori, non faranno richieste irragionevoli. Ma non è una semplice transazione. C’è un pezzo classico di musica country dal titolo “Prendi questo impiego  e vai al diavolo!”. Non c’è e non ci sarà mai una canzone dal titolo “Prendi questo elettrodomestico e vai al diavolo”.

Dunque l’occupazione è un rapporto di potere, e la disoccupazione elevata ha grandemente indebolito la già debole posizione dei lavoratori in quel rapporto.

Si può quantificare quella debolezza osservando il tasso di dimissioni – la percentuale di lavoratori che lasciano volontariamente ogni mese i loro posti di lavoro (cosa diversa dall’essere licenziati). Ovviamente, ci sono molte ragioni per le quali un lavoratore o una lavoratrice possono lasciare il loro posto di lavoro. Dimettersi, tuttavia, è un rischio; a meno che non abbia già un posto di lavoro che l’aspetta, il lavoratore o la lavoratrice non sanno quanto tempo ci vorrà per trovare un nuovo lavoro, e come sarà quel lavoro al confronto col precedente.

E il rischio delle dimissioni è molto più grande quando la disoccupazione è elevata, e ci sono molte più persone che cercano lavoro di quanti posti di lavoro siano disponibili. Di conseguenza, vi aspettereste di veder salire il tasso degli abbandoni durante le espansioni economiche, e vederlo scendere durante le recessioni – e, in effetti, è così. Le dimissioni sono calate durante la recessione tra il 2007 ed il 2009, e sono risalite solo in parte, con ciò riflettendo la debolezza e l’inadeguatezza della nostra ripresa economica.

Ora si pensi a cosa questo significhi per il potere di contrattazione dei lavoratori. Quando l’economia è forte, i lavoratori hanno più forza. Possono andarsene se non sono contenti del modo in cui vengono trattati e sanno che troveranno rapidamente un nuovo lavoro se abbandonano. Tuttavia, quando l’economia è debole anche i lavoratori sono deboli, ed i datori di lavoro sono nelle condizioni di farli lavorare più duramente, di pagarli meno, o entrambe le cose.

C’è qualche prova che stia succedendo questo? E in che modo? Come ho detto, la ripresa economica è stata debole ed inadeguata, ma tutto il peso di quella debolezza viene sopportato dai lavoratori. I profitti aziendali sono crollati durante la crisi finanziaria, ma sono rapidamente tornati ai livelli precedenti, e continuano a crescere. Per la verità, a questo punto i profitti dopo le tasse sono oltre il 60 per cento più alti di quello che erano nel 2007, prima che cominciasse la recessione. Non sappiamo quanto questa crescita dei profitti possa essere spiegata con il fattore della paura – la possibilità di spremere i lavoratori che sanno di non avere alternative. Ma deve trattarsi almeno di una parte della spiegazione. In sostanza, è possibile (sebbene non è in alcun modo certo) che le imprese facciano meglio i loro interessi in un’economia in qualche modo depressa, di quanto non accadrebbe se ci fosse la piena occupazione.

C’è di più. Non penso di esagerare se suggerisco che questa realtà contribuisca a spiegare  perché il nostro sistema politico abbia voltato le spalle ai disoccupati. No, non credo che ci sia una setta segreta di amministratori delegati che complotta per mantenere l’economia debole. Ma penso che una importante ragione per la quale la riduzione della disoccupazione non è una priorità politica sia che l’economia può risultare miseranda per i lavoratori, mentre “l’impresa America” va a gonfie vele.

E una volta che si capisce questo, si capisce anche perché è importante cambiare quelle priorità.

Di recente c’è stato una specie di strano dibattito tra i progressisti, con alcuni che sostenevano che il populismo e le condanne per l’ineguaglianza sarebbero un diversivo, e che invece la piena occupazione dovrebbe essere in cima alle priorità.  Tuttavia, come hanno sottolineato alcuni principali economisti progressisti, la stessa piena occupazione è un tema populistico: i mercati del lavoro deboli sono la ragione principale per la quale i lavoratori stanno perdendo terreno, e l’eccessivo potere delle imprese e dei ricchi è la principale ragione per la quale non si sta facendo niente per il lavoro.

Troppi americani vivono oggi in una condizione di paura per l’economia. Ci sono molti passi che possiamo fare per porre fine a questa condizione collettiva, ma il più importante è rimettere i posti di lavoro nella agenda.


 

 

 

 


[1] Dilbert è una striscia a fumetti comica giornaliera creata da Scott Adams. Essa prende il nome dal suo protagonista, il quale è immerso nell’ambiente del lavoro impiegatizio, del quale mette in luce vizi e difetti.

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