Blog di Krugman

L’ineguaglianza come una sfida distintiva (14 dicembre 2013)

 

December 14, 2013, 8:36 am

Inequality As A Defining Challenge

It has taken an amazingly long time, but inequality is finally surfacing as a significant unifying issue for progressives — including the president. And there is, inevitably, a backlash, or actually a couple of backlashes.

One comes from groups like Third Way; Josh Marshall, I think, characterized that kind of position best:

That captures a lot of what the ‘Third Way’ is about: a sort of fossilized throwback to a period in the late 20th century when there was a market for groups trying to pull the Democrats ‘back to the center and away from the ideological extreme’ in an era when Democrats are the fairly non-ideological party and have a pretty decent record of winning elections in which most people vote.

But there’s also an intellectual backlash, with people like Ezra Klein arguing that inequality, while an issue, doesn’t rate being described as “the defining challenge of our time”. This in turn infuriates others, with Steve Randy Waldman going medieval on Klein.

Well, I’m not infuriated, but I would argue that Ezra has gotten this one wrong. And yes, I’ve expressed skepticism about the simple argument that inequality accounts for our slow recovery; the evidence surveyed in Jared Bernstein’s excellent new paper on the subject eases my skepticism somewhat, but it’s not entirely gone.

The key point, however, is that the case for regarding inequality as a major, indeed defining challenge — and as something that should be at the center of progressive concerns — rests on multiple pillars. Taken together, the reasons to focus on inequality are overwhelmingly convincing, even if you can be skeptical about particular arguments.

Let me make four points.

First, in sheer quantitative terms, rising inequality is what Joe Biden would call a Big Something Deal. Take the Piketty-Saez data on income shares; these show that the share of the bottom 90 percent in income excluding capital gains fell from 54.7 percent in 2000 to 50.4 percent in 2012. This means that the income of the bottom 90 is about 8 percent lower than it would have been if inequality had remained stable. Meanwhile, estimates of the output gap — the extent to which our economy is operating below capacity — are generally less than 6 percent. So in raw numerical terms, rising inequality has done more than the slump to depress middle-class incomes.

You can argue that the damage done by unemployment is greater than the mere income loss, and I’d agree. Still, it’s hard to look at this kind of calculation and dismiss inequality as a secondary issue.

Second, there is a reasonable case for assigning at least partial blame for the economic crisis to rising inequality. The best story involves something like this: high saving by the 1 percent, with demand sustained only by rapidly rising debt further down the scale — and with this borrowing itself partly driven by inequality, which leads to expenditure cascades and so on. Is this a slam-dunk case? No — but it’s serious, and reinforces the rest of the argument.

Third, there’s the political economy aspect, where you can argue that policy failures both before and, perhaps even more crucially, after the crisis were distorted by rising inequality, and the corresponding increase in the political power of the 1 percent. Before the crisis, there was an elite consensus in favor of deregulation and financialization that was never justified by the evidence, but aligned closely with the interests of a small but very wealthy minority. After the crisis, there was the sudden turn away from job creation to deficit obsession; polling suggests that this wasn’t at all what the average voter wanted, but that it did reflect the priorities of the wealthy. And the insistence on the importance of cutting entitlements is overwhelmingly a 1 percent thing.

Finally, very much tying in with this, is the question of what progressive think tanks should research. Klein suggests that “how to fight unemployment” should be a more central topic than “how to reduce inequality.” But here’s the thing: we know how to fight unemployment — not perfectly, but good old basic macroeconomics has worked very well since 2008. There’s no mystery about the economics of our slow recovery — that’s what happens when you tighten fiscal policy in the face of private deleveraging and monetary policy is constrained by the zero lower bound. The question is why our political system ignored everything macroeconomics has learned, and the answer to that question, as I’ve suggested, has a lot to do with inequality.

The causes of soaring inequality, on the other hand, are more mysterious; so are the channels through which we might reverse this trend. We know some things, but there is much more room for new knowledge here than in business cycle macro.

So inequality is definitely a defining challenge; whether it is “the” defining challenge can be argued, but it makes very good sense for progressives to focus much of their energy on the issue. And yes, it’s also true that inequality is easier to explain to the public than demand-side macroeconomics — but since these concerns are complements rather than substitutes, that’s not something that should induce any feelings of guilt.

In short: go populism go.

 

 

L’ineguaglianza come una sfida distintiva [1]

C’è voluto un tempo incredibilmente lungo, ma alla fine l’ineguaglianza sta emergendo come un tema significativamente unificante per i progressisti – incluso il Presidente. E c’è, inevitabilmente, un contraccolpo, o per la verità una coppia di contraccolpi.

Uno viene da gruppi come Terza Via; Josh Marshall, penso, abbia descritto quel genere di posizione nel migliore dei modi:

“Questo esprime gran parte di ciò di cui ‘Terza Via’ si occupa: una sorta di fossilizzato ritorno al passato ad un periodo dell’ultima parte del XX Secolo quando c’era spazio per gruppi che cercavano di spingere i democratici  ‘verso il centro e fuori dagli estremismi  ideologici’, in un’epoca nella quale   i democratici sono il partito ragionevolmente non-ideologico ed hanno una prestazione abbastanza dignitosa di vittorie in elezioni nelle quali votano la maggior  parte degli elettori.”

Ma c’è anche un contraccolpo intellettuale, con persone come Ezra Klein che sostengono che l’ineguaglianza, sebbene sia un tema, non merita di essere descritta come “la sfida distintiva del nostro tempo”. Questo a sua volta fa infuriare altri, con Steve Randy Waldman che dà del medioevale a Klein.

Ebbene, io non sono infuriato ma vorrei sostenere che questa volta Ezra sbaglia. Ed è vero, io ho espresso scetticismo sul solo argomento che l’ineguaglianza abbia un peso agli effetti della nostra lenta ripresa; in qualche modo i fatti esaminati da Jared Bernstein nel suo nuovo eccellente studio sul tema semplificano il mio scetticismo, ma esso non è del tutto risolto.

L’aspetto fondamentale, tuttavia è che la tesi di considerare l’ineguaglianza come una importante, davvero distintiva sfida – e come qualcosa che dovrebbe stare al centro delle preoccupazioni dei progressisti – si fonda su molteplici punti di forza. Considerate complessivamente, le ragioni per concentrarsi sull’ineguaglianza sono completamente convincenti, anche se si può essere scettici su alcuni particolari argomenti.

Fatemi avanzare quattro punti.

Il primo, in termini meramente quantitativi, la crescente ineguaglianza è quello che Joe Biden chiamerebbe una “faccenda davvero grossa”. Si prendano i dati di Piketty-Saez sulle quote di reddito: essi mostrano che la quota di reddito del 90 per cento della fascia inferiore, esclusi i profitti da capitale,  è caduta dal 54,7 per cento del 2000 al 50,4 per cento del 2012. Questo significa che il reddito del 90 per cento della fascia inferiore è di circa l’8 per cento più basso di quello che sarebbe stato se l’ineguaglianza fosse rimasta stabile. Nel frattempo, le stime sul differenziale di prodotto – la misura nella quale la nostra economia sta operando al di sotto delle sue possibilità – sono in generale inferiori del 6 per cento. Dunque, in termini numerici grossolani, la crescente ineguaglianza ha fatto di più della crisi nel deprimere i redditi della classe media.

Si può sostenere che il danno fatto dalla disoccupazione sia più grande della mera perdita di reddito, ed io sono d’accordo. Eppure, è difficile guardare a calcoli di questo genere e liquidare l’ineguaglianza come una questione secondaria.

Il secondo, c’è un motivo ragionevole per assegnare almeno una parziale responsabilità della crisi economica alla crescente ineguaglianza. L’argomento più forte riguarda questa circostanza: elevati risparmi da parte dell’1 per cento (della popolazione più ricca), con una domanda sostenuta soltanto da un debito rapidamente crescente più in basso nella scala – e con questo indebitamento che è esso stesso guidato dall’ineguaglianza, il che porta a spese a cascata e così via. E’ un argomento definitivo [2]? No – ma è serio e rafforza il resto del ragionamento.

Il terzo, c’è un aspetto di politica economica, per il quale si può sostenere che i fallimenti sia prima che, forse ancora più fondamentalmente, dopo la crisi siano stati stravolti dalla crescente ineguaglianza, e dalla crescita corrispondente del potere politico dell’1 per cento (della popolazione più ricca). Prima della crisi ci fu una unanimità delle classi dirigenti a favore della deregolamentazione e della finanziarizzazione che non furono mai giustificate dai fatti, ma si allinearono strettamente agli interessi di una piccola ma ricchissima minoranza. Dopo la crisi ci fu l’improvviso spostamento dal tema della creazione di posti di lavoro alla ossessione del deficit; i sondaggi mostrano che quello non era affatto quello che voleva la maggioranza degli elettori, ma rifletteva le priorità dei più ricchi. E l’insistenza sulla importanza dei tagli ai programmi sociali è qualcosa che riguarda completamente l’1 per cento (della popolazione più ricca).

Infine, strettamente collegata con tutto questo, c’è la questione di che cosa dovrebbe essere oggetto di analisi dei gruppi di ricerca progressisti. Klein suggerisce che “come combattere la disoccupazione” dovrebbe essere una tematica più centrale del “come ridurre l’ineguaglianza”. Ma il punto è proprio lì: noi sappiamo come combattere la disoccupazione – non perfettamente, ma una buona macroeconomia di base ha operato assai bene a partire dal 2008. Non c’è alcun mistero sull’economia della nostra lenta ripresa – è quello che accade quando si restringe la politica della finanza pubblica a fronte di una riduzione del rapporto di indebitamento privato, e la politica monetaria è limitata dal limite inferiore dello zero [3]. La domanda è perché il nostro sistema politico ha ignorato tutto ciò che era stato appreso dalla macroeconomia, e la risposta a tale domanda, come ho mostrato, ha molto a che fare con l’ineguaglianza.

Le cause delle crescente ineguaglianza, d’altro lato, non sono misteriose; così come non lo sono i canali attraverso i quali potremmo invertire questa tendenza. Alcune cose le conosciamo, ma c’è molto più spazio qua per una nuova conoscenza che nella macroeconomia del ciclo economico.

Dunque l’ineguaglianza è sicuramente una sfida distintiva; se essa sia “la” sfida distintiva può essere discusso, ma è assolutamente sensato per i progressisti concentrare molte delle loro energie su quel tema. E sì, è anche vero che l’ineguaglianza è più facile da spiegare alla opinione pubblica della macroeconomia – ma dal momento che queste preoccupazioni sono complementari e non sono in alternativa l’una con l’altra, non sono cose che dovrebbero indurre ad alcun senso di colpa.

In breve: avanti col populismo!

 



[1] Il termine “defining” – “caratterizzante”, “distintivo” (di un epoca …) – probabilmente era contenuto nel discorso sulla ineguaglianza recentemente pronunciato da Obama.

[2] Penso che “slam-dunk” sia nel senso del termine sportivo  “schiacciata” ….

[3] Dei tassi di interesse. Per “zero lower bound” vedi le note sulla traduzione.

 

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